Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 141 - Nuova proposta di concordato 1 .Nuova proposta di concordato1. Art. 141 Reso esecutivo il nuovo stato passivo, il proponente è ammesso a presentare una nuova proposta di concordato. Questo non può tuttavia essere omologato se prima dell'udienza a ciò destinata non sono depositate, nei modi stabiliti del giudice delegato, le somme occorrenti per il suo integrale adempimento o non sono prestate garanzie equivalenti. [1] Articolo sostituito dall'articolo 127 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5. InquadramentoIl concordato fallimentare rappresenta tradizionalmente una forma concordata fra il debitore ed i suoi creditori di chiusura anticipata del fallimento. Questo è ancora evidente oggi nel testo dell'art. 118 l. fall. che, nell'enumerare i casi di chiusura della procedura fallimentare, nel proprio incipit afferma che «salvo quanto disposto nella sezione seguente per il caso di concordato, la procedura di fallimento si chiude...» volendo con ciò ribadire che il concordato fallimentare è prima di tutto una modalità di chiusura del fallimento. Nell'impianto originario della legge fallimentare del 1942 il concordato fallimentare poteva essere proposto soltanto dal debitore e soltanto dopo che lo stato passivo fosse stato dichiarato esecutivo. Inoltre, aveva un contenuto pressoché rigido, non potendosi procedere in alcun modo ad un pagamento parziale dei creditori privilegiati, e doveva contenere una garanzia del pagamento. L'unico modo per poter far entrare un terzo in questa forma di ristrutturazione del debito era costituito dalla figura dell'assuntore, cioè un soggetto che subentrava a titolo oneroso nella titolarità dell'attivo concordatario impegnandosi al pagamento dei creditori concorsuali. In sede di modifiche avvenute negli anni 2006-2007, resosi conto dello scarso utilizzo dell'istituto, il legislatore ha cercato di incentivarne l'applicabilità in concreto operando su quattro fronti principali: a) Conferendo la legittimazione attiva anche ai creditori o terzi, con l'idea che ciò avrebbe potuto stimolare un mercato dell'insolvenza e migliorare il soddisfacimento ottenibile dai creditori; b) Anticipando i tempi di proposizione della proposta di concordato (sia pure continuando a prevedere un termine minimo iniziale per il debitore, prima del cui decorso non è abilitato a formulare proposte di concordato fallimentare, come si vedrà); c) Consentendo forme atipiche di proposta concordataria e la possibilità di offrire un pagamento parziale anche ai creditori privilegiati, purché non inferiore a quanto ottenibile nell'alternativa liquidatoria, secondo una scelta parallelamente adottata, con alcune differenze, anche nel concordato preventivo; d) Diminuendo l'ampiezza del vaglio giudiziale sulla proposta e, al contempo, preso atto del diverso ruolo ed equilibrio fra gli organi del fallimento, spostando le valutazioni di convenienza e merito della proposta di concordato sul comitato dei creditori e poi sul voto dei creditori stessi, espresso secondo un meccanismo agevolato, per cui il silenzio va computato come tacito consenso. Questi interventi, che ancora oggi delineano il disegno fondamentale di questo istituto, nella prassi non hanno probabilmente sortito gli esiti sperati. L'utilizzo sporadico del concordato fallimentare è infatti proseguito, spesse volte perseguendo intenti pratici distonici da quelli prefigurati dal legislatore e vedendo premiato l'interesse dei creditori ad ottenere un miglior soddisfacimento ove, di fatto, finisse per coincidere con l'intervento di terzi speculatori interessati ad alcuni assets di pregio, quando non affidato ad un intervento dello stesso debitore (o di soggetti ad esso legati) con il comprensibile intento di chiudere il più rapidamente possibile la procedura fallimentare. Solo in rari casi è stata colta una indubbia potenzialità di strumento atto a consentire la cessione in blocco di compendi aziendali funzionanti, capace di innestarsi in modo rapido e snello su una procedura fallimentare che, grazie anche all'utilizzo dell'esercizio provvisorio o dell'affitto d'azienda «ponte», avrebbe così perso la sua finalità esclusivamente liquidatoria e disgregativa. Forse proprio questa consapevolezza ha fatto sì che nella legge di riforma c.d. Rordorf (dal nome del Presidente della commissione di studio che ne ha elaborato il testo fondamentale), l. n. 155/2017, si trovi solo un fugace accenno all'istituto del concordato fallimentare, definito come concordato liquidatorio, all'art. 7, ult. comma, lett. d) ove si indica quale direttiva per il legislatore delegato quella di «disciplinare e incentivare le proposte di concordato liquidatorio giudiziale da parte di creditori e di terzi, nonché dello stesso debitore, ove questi apporti risorse che incrementino in modo apprezzabile l'attivo». Nel Codice della crisi e dell'insolvenza (CCI) approvato in via definitiva dal CdM e pubblicato come d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, sulla G.U. n. 38 del 14 febbraio 2019, destinato a dare attuazione alla predetta legge delega, le norme di cui agli artt. 240-253 sono appunto dedicate a quello che viene definito «concordato nella liquidazione giudiziale» (si ricorda infatti che una delle modifiche qualificanti la riforma è la sostituzione del fallimento con la procedura di liquidazione giudiziale). Nella relazione illustrativa di accompagnamento, si giustificano le scelte adottate, sostanzialmente ricalcanti quelle della disciplina vigente, con l'importante novità contenuta nell'art. 240, il quale dopo aver ribadito che la proposta non può essere presentata dal debitore, da società dallo stesso partecipate o sottoposte a comune controllo, se non dopo il decorso di un anno dalla sentenza che apre la liquidazione giudiziale e purché non siano decorsi due anni dal decreto di esecutività dello stato passivo, prevede — soltanto per il debitore — che la proposta non sia ammissibile senza l'apporto di risorse che incrementino il valore dell'attivo di almeno il dieci per cento. Tale vincolo da un lato non sembra imposto per le società partecipate dal debitore o sottoposte a comune controllo (per le quali forse potevano valere le medesime precauzioni), ma dall'altro — a differenza di quanto invece previsto per il concordato preventivo — non vi è un obbligo di destinazione dell'apporto al soddisfacimento del ceto chirografario. Infatti, l'entità minima dell'incremento è parametrata sul valore complessivo dell'attivo, la cui destinazione avverrà — trattandosi di risorse esterne — senza il vincolo del rispetto delle cause legittime di prelazione (ed es. l'apporto potrebbe anche essere in parte destinato ad implementare il soddisfacimento di alcuni crediti privilegiati, posti agli ultimi gradi della elencazione contenuta nell'art. 2751-bis c.c., come ad es. taluni tributi ed oneri previdenziali, destinando poi risorse ulteriori ai chirografari che nell'alternativa liquidatoria sarebbero del tutto insoddisfatti). Secondo App. Palermo, 18 gennaio 2016, il concordato fallimentare ha natura pubblicistica, in quanto valorizza aspetti di interesse generale alla composizione del dissesto; inoltre, gli effetti del concordato non derivano dalla convenzione fra le parti a contenuto remissorio o liberatorio, ma dalla legge che attribuisce alla omologazione l'effetto di sovrapporsi agli accordi che ne costituiscono solo il presupposto e che in esso sono trasfusi e assorbiti. Per tali ragioni, la proposta di concordato fallimentare non è assimilabile alla proposta contrattuale, tanto è vero che va trasfusa in un atto giudiziale ed è sottoposta al vaglio degli organi fallimentari, con la conseguenza che ad essa non possono applicarsi le norme del codice civile (nel caso di specie si è reputata illegittima la cessione della proposta concordataria dopo il voto dei creditori, ritenendosi non applicabile l'art. 1406 c.c. bensì l'istituto della revoca della proposta di concordato da parte del ricorrente, sino a che l'eventuale decreto di omologazione non sia divenuto definitivo). Si tratta di provvedimento che costituisce l'espressione di un orientamento, recentemente sempre più maggioritario, che nell'alternativa “secca” fra natura contrattuale e pubblicistica del concordato fallimentare sposta soprattutto sul piano procedimentale e sull'insufficienza dell'accordo in sé il momento qualificante questa forma di ristrutturazione del debito. LegittimazioneLegittimato ad avanzare una proposta di concordato fallimentare è in primo luogo lo stesso debitore, secondo una soluzione storicamente sperimentata. Al debitore sono tuttavia equiparate le società dallo stesso partecipate e quelle che si trovino sotto un comune controllo. L'art. 124 l. fall. prevede poi che siano legittimati a proporre la soluzione concordataria nell'ambito del fallimento anche i creditori ed i terzi, con una innovazione di particolare importanza rispetto all'impianto fondamentale della legge fallimentare del 1942. Si esce in questo modo da una logica puramente proprietaria e tardo-ottocentesca dell'impresa come proiezione esclusiva del suo titolare, per assumere una funzione per così dire oggettiva, come valore della produzione (attuale o potenziale quando l'attività si sia già arrestata) e vantaggio per il sistema economico nel suo complesso, che i beni aziendali posseggono, nell'idea che la loro dispersione e liquidazione non sempre sono in grado di raggiungere un risultato ottimale. Certo, l'idea che uno o più creditori — senza una percentuale minima di rappresentatività rispetto allo stato passivo — possano farsi portatori di una proposta di soluzione concordataria è estremamente innovativa e può, anche, prestarsi a qualche abuso. Ma l'idea di fondo è che possa nascere una competizione fra diverse proposte di concordato fallimentare, potendo il debitore — pungolato dall'altrui iniziativa — farsi a sua volta promotore di una proposta migliorativa per i creditori. Del resto, la stessa proposta di un terzo, senza limitazioni, potrebbe certamente consentire — anche in questo caso nell'idea di fondo che l'appetibilità e la competizione possa portare ad un miglioramento complessivo per i creditori — anche l'ingresso di un concorrente nella titolarità dell'azienda decotta ma ancora in grado di presentare delle opportunità per il mercato. Non è un caso se si è dovuto attendere circa dieci anni, con la mini-riforma del 2015, operata con il d.l. n. 83/2015 convertito in l. n. 132/2015, per vedere l'introduzione delle proposte concorrenti in sede di concordato preventivo. Poiché in questo secondo caso, peraltro, ci si trova di fronte ad un fallimento che non è stato ancora dichiarato e che si mira a prevenire, si è ritenuto di non allargare ai terzi in genere la legittimazione, ma soltanto ai creditori, prevedendo altresì che gli stessi, da soli o «in cordata» debbano rappresentare almeno il 10% dei crediti complessivi; non si è inoltre previsto una loro legittimazione autonoma ma derivata rispetto a quella principale del debitore, pur ammettendo che la percentuale minima del 10% possa essere raggiunta anche attraverso acquisti successivi (cfr. art. 163, comma 4 l. fall.). Ancora, con una differenza che forse oggi non è più così chiaramente spiegabile, mentre nel concordato fallimentare il debitore può semplicemente proporre una diversa proposta mettendola in concorrenza con quella di concordato fallimentare proposta da un terzo, spettando al comitato dei creditori scegliere quella ritenuta meritevole di essere sottoposta al voto (salvo il potere suppletivo del G.d. di ordinare la comunicazione di una o più proposte ritenute altrettanto meritevoli di esame), nelle proposte concorrenti di concordato preventivo tutte sono poste al voto se ammissibili, ma il debitore ha il potere di bloccarne l'iter avanzando una proposta di concordato che sia accompagnata da una relazione del professionista che attesti che la stessa assicura il pagamento almeno del 40% dei chirografari (nel concordato liquidatorio) o di almeno il 30% (nelle proposte in continuità aziendale). Ritornando al testo dell'art. 124 in esame, si deve sottolineare come il decreto correttivo del 2007 abbia escluso la legittimazione del curatore a formulare proposte di concordato, secondo l'iniziale previsione contenuta con la prima riforma del d.lgs. n. 5/2006 e con una soluzione in qualche modo che poteva farsi derivare dall'art. 4-bis del d.l. n. 347/2003 per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Probabilmente le critiche sollevate da una parte della dottrina, nonché l'idea di lasciare il concordato fallimentare al fondamentale incontro di volontà fra gli attori principali della crisi, debitore e creditori, ha avuto la meglio su una soluzione sicuramente eccentrica rispetto alla tradizione, ma foriera di interessanti applicazioni, considerando il ruolo professionale in questo settore rivestito dal curatore. Non è mancata, nell'esclusione finale della legittimazione di quest'ultimo, l'idea che lo stesso curatore sarebbe stato stimolato in tal modo a svolgere un ruolo non del tutto imparziale fra debitore e creditori, ma — grazie anche al possesso privilegiato di informazioni riservate sulle cause della crisi e le connesse responsabilità — avrebbe potuto essere tentato di «lucrare» sulla proposta, offrendo ai creditori proposte in realtà deteriori rispetto a quanto ricavabile da una liquidazione più ampia a fondata sull'intero patrimonio di conoscenze ottenibili. Secondo il Trib. Ascoli Piceno, 16 aprile 2014, l'obbligo del commissario giudiziale, di cui al combinato disposto degli artt. 166 e 88, comma 2, l. fall., di provvedere alla notifica al conservatore dell'estratto autentico del decreto di ammissione al concordato preventivo ai fini della trascrizione sui beni immobili del debitore, deve ritenersi operante anche con riferimento agli immobili di terzi ceduti ai creditori del concordato. Si è altresì ritenuto che l'obbligo del commissario giudiziale, di cui al combinato disposto degli artt. 166 e 88, comma 2, l. fall., di provvedere alla notifica al conservatore dell'estratto autentico del decreto di ammissione al concordato preventivo ai fini della trascrizione sui beni immobili del debitore, deve ritenersi operante anche con riferimento agli immobili di terzi ceduti ai creditori del concordato (Trib. Santa Maria Capua Vetere, 26 aprile 2006). TempisticaL'art. 124 l. fall. supera la precedente impostazione, secondo cui il concordato fallimentare non poteva essere presentato prima che lo stato passivo fosse stato dichiarato esecutivo. Tale fondamentale innovazione si collega, ad avviso dello scrivente, alla riscrittura dell'art. 105 l. fall. che, come è stato notato in dottrina, costituisce una sorta di Grundnorm dell'attività di liquidazione in sede fallimentare, applicabile analogicamente — in quanto compatibile — anche alle altre procedure concorsuali. Tale disposizione, infatti, sancisce due principi estremamente rilevanti: a) da un lato che le cessioni devono salvaguardare per quanto possibile il valore dell'azienda nel suo complesso, evitando alienazioni «spezzatino» che potrebbero produrre una effimera immediata liquidità, ma togliere appetibilità all'azienda nel suo insieme o, non di rado, provocarne l'irrimediabile smembramento; b) dall'altro, che le cessioni in ambito fallimentare devono perseguire il maggiore soddisfacimento possibile dei creditori. La norma segna poi una gerarchia fra le forme di liquidazione, disponendo che non è possibile procedere all'alienazione atomistica dei singoli beni aziendali se non quando ciò corrisponda al secondo principio dianzi citato, cioè appaia funzionale alla migliore soddisfazione dei creditori. Proprio nella ricerca del best interest dei creditori, in sede di concordato fallimentare le riforme degli anni 2006-2007 hanno introdotto la legittimazione dei creditori o dei terzi di cui si è appena parlato, accanto a quella del debitore (nonché delle società cui lo stesso partecipi o sottoposte a comune controllo). Questa legittimazione differenziata sottende una corrispondente tempistica differenziata. Per il debitore (nonché per le società da egli partecipate e quelle sottoposte a comune controllo) è previsto che la proposta non può essere avanzata se non dopo il decorso di un anno dalla pronuncia di fallimento e fino a quando non siano decorsi due anni dal decreto di esecutorietà dello stato passivo. La norma disegna per il debitore una sorta di finestra nella quale inserire una proposta di concordato in grado di chiudere anticipatamente il fallimento: se si considera che in genere l'udienza di formazione dello stato passivo cui segue la relativa dichiarazione di esecutività si tiene a circa 4 mesi dall'apertura della procedura fallimentare (cfr. artt. 16 e 96 l. fall.), questo significa che il debitore — ed i soggetti allo stesso equiparati — hanno circa un anno e mezzo per poter proporre un concordato fallimentare. Questo termine finisce per svolgere una funzione acceleratoria, considerato che i terzi non hanno limiti temporali iniziali (quando la contabilità sia stata tenuta in modo sufficientemente attendibile) e che, pertanto, il debitore interessato a mantenere il controllo della propria azienda sarà perciò stimolato ad attivarsi tempestivamente e proponendo una ristrutturazione soddisfacente per i propri creditori. La previsione di termini iniziali e finali corrisponde, peraltro, a due considerazioni fatte proprie dal legislatore e ritenute ancora valide dalla relazione di accompagnamento del Codice della crisi e dell'insolvenza recentemente approvato, sia pure con una vacatio legis di 18 mesi per l'effettiva entrata in vigore. Il termine annuale iniziale vuole impedire al debitore — che soprattutto nella fase iniziale della procedura ha un patrimonio di conoscenze decisamente superiore a quello dei terzi e dei creditori — di approfittare di tale asimmetria informativa per proporre ai creditori delle soluzioni alternative alla liquidazione in realtà deteriori rispetto all'esito possibile di quest'ultima. Si aggiunga, inoltre, che proprio in questa fase iniziale il debitore potrebbe essere «tentato» dall'avanzare la propria proposta prima che emergano responsabilità, atti revocabili, ecc. che sarebbero destinati ad aumentare l'attivo fallimentare e quindi, corrispondentemente, anche l'esborso necessario ad avanzare una proposta di concordato vantaggiosa per i creditori. Il termine finale del biennio dalla dichiarazione di esecutorietà dello stato passivo, a sua volta, vuole imporre al debitore uno stimolo ad avanzare la propria proposta di concordato senza attendere l'andamento finale della liquidazione, perché anche sotto questo profilo, avvantaggiandosi dei ritardi o dei risultati inefficienti della stessa (si pensi al rapido deprezzamento dei valori di possibile aggiudicazione degli asset immobiliari ad ogni tentativo «deserto») potrebbe determinarsi il rischio di proposte di concordato deteriori o dilatorie per i creditori. Ad avviso di chi scrive la previsione di questi termini costituisce un limite eccezionale alla altrimenti libera possibilità di formulazione di proposte di concordato, pertanto la loro applicazione deve essere letteralmente intesa, sì che ad esempio, mentre si applica — come prevede la norma — alle società sottoposte a comune controllo, non dovrebbe operare rispetto ad una controllante della fallita. Ancora, mentre opera per una società partecipata dal debitore/fallito, non dovrebbe applicarsi ad una società semplicemente collegata in virtù di rapporti contrattuali diversi. I creditori ed i terzi possono a loro volta avanzare proposte di concordato fallimentare e la norma non formula al riguardo alcun termine iniziale o finale. Deve perciò ritenersi possibile depositare una proposta concordataria dal momento dell'apertura della procedura fallimentare sino alla compiuta ripartizione dell'attivo. Risulta di particolare interesse la possibilità, che vale solo per i legittimati diversi dal fallito e società assimilate, di avanzare una proposta «anticipata» rispetto alla dichiarazione di esecutorietà dello stato passivo, tale perciò da «bruciare» sul tempo lo stesso debitore ed impedirgli di formulare proposte alternative (se non tramite terzi a lui stesso legati, quindi a loro volta non vincolati dal termine iniziale). La norma richiede in questo caso due requisiti: a) che il fallito abbia tenuto la contabilità; b) che questa e le altre informazioni acquisite dal curatore siano sufficienti a consentire la predisposizione di un elenco provvisorio dei creditori da sottoporre all'approvazione del g.d. La norma non parla letteralmente di contabilità «regolarmente tenuta», ma poiché la stessa deve essere tale da poter consentire l'estrazione dell'elenco provvisorio dei creditori, si dovrà trattare di una contabilità che appaia comunque attendibile e sostanzialmente regolare. L'elenco provvisorio, a sua volta, pur se deve essere tale da apparire sostanzialmente completo ed idoneo all'approvazione da parte del g.d., non può essere ritenuto vincolante qualora il concordato fallimentare venga omologato dopo la — nel frattempo — intervenuta approvazione dello stato passivo. Infatti, è solo quest'ultimo ad introdurre un vero e proprio giudicato endo-fallimentare che, invece, l'elenco provvisorio non possiede. Si discute dei poteri valutativi del g.d. sul ricordato elenco provvisorio. Se la maggior parte della dottrina ritiene che non si tratti di un'approvazione complessiva, di semplice regolarità formale, ma si estenda alla valutazione di ciascuna posizione creditoria, allora chi scrive reputa dubbio che in questa fase il vaglio debba essere contenuto nei limiti dei poteri che spettano al g.d. in sede di verifica. In quella sede, infatti, egli è vincolato al principio della domanda ed alla presenza di eccezioni non rilevabili d'ufficio, mentre in questa non è prevista alcuna udienza o contraddittorio con i creditori ed il g.d. verifica semplicemente una proposta di elenco dei creditori predisposta dal curatore, potendo perciò — va ritenuto — apportarvi delle modifiche o segnalare al curatore eventuali errori di cui chiedere l'emenda per poter procedere all'approvazione (si pensi ad interessi calcolati erroneamente o ad errori nell'attribuzione di privilegi). Il decreto del g.d. va ritenuto reclamabile, ex art. 26 l. fall. Le diverse proposte di concordato fallimentare e l'assuntorePrima della riforma degli anni 2006-2007 il concordato fallimentare aveva una struttura molto semplice: poteva infatti essere presentato unicamente con garanzia del pagamento offerto o attraverso l'intervento di un terzo assuntore delle obbligazioni concordatarie. Inoltre, era esclusa la possibilità di soddisfare in modo parziale i creditori privilegiati e si doveva necessariamente offrire un pagamento anche per i creditori chirografari. L'attuale formulazione dell'art. 124, invece, in chiara assonanza con quanto previsto dall'art. 160 per il concordato preventivo, oggi afferma che la proposta può prevedere: a) La suddivisione dei creditori in classi, secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei; b) Trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse, indicando le ragioni dei trattamenti differenziati dei medesimi; c) La ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito. Prosegue la norma, affermando che è possibile il pagamento non integrale dei creditori privilegiati, purché in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione del proprio rispettivo titolo di preferenza, sul ricavato della liquidazione. Resta fermo che il trattamento differenziato per classi non può avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione. L'art. 124, ancora, esplicita la possibilità che la proposta riguardi la cessione non soltanto dei beni, ma anche delle azioni, purché già autorizzate dal g.d., mentre il proponente può altresì — secondo una clausola fortemente usata nella pratica — limitare i propri impegni verso i soli creditori ammessi allo stato passivo ed a quelli che hanno proposto opposizione o domanda tardiva al momento della proposta. Lasciando il tema delle classi e del pagamento parziale dei creditori privilegiati al paragrafo successivo, in questa sede va messo in luce come il legislatore abbia sicuramente ampliato i confini dell'autonomia privata, riconoscendo una completa atipicità della proposta concordataria e sottolineando come, pur nei limiti imposti dal suo collocarsi nell'ambito di una procedura fallimentare, la stessa abbia anche una matrice privatistico-contrattuale. Deve quindi ritenersi che le forme operative indicate dall'art. 124 l.fall. abbiano natura esemplificativa e non tassativa. Al tempo stesso va evidenziato lo stretto collegamento che la norma instaura fra la ristrutturazione del debito ed il soddisfacimento dei creditori, così da escludere proposte che non abbiano un contenuto sia pure parzialmente satisfattivo per i creditori concorsuali e collegando inscindibilmente a quest'ultimo l'effetto esdebitativo perseguito con il concordato fallimentare. Infatti, l'art. 135 (effetti del concordato) costituisce una evidente eccezione alla regola posta dall'art. 120, comma 3 l. fall., per cui i creditori — con la chiusura del fallimento — riacquistano il libero esercizio delle loro azioni verso il debitore, per la parte insoddisfatta dei propri crediti. Nel caso del concordato fallimentare, invece, pur operandosi una forma di chiusura del fallimento, il proponente è obbligato a dare esecuzione soltanto alla proposta (ed al sottostante piano) così come omologata, nonché a soddisfare i debiti oggetto di ristrutturazione, risultando all'esito liberato per la porzione dei debiti anteriori di cui e nella misura in cui non è previsto il soddisfacimento nell'ambito del concordato. Tanto premesso in termini generali, è possibile in primo luogo prevedere una proposta concordataria con cessione dei beni ai creditori, o concordato liquidatorio, rispetto al quale già la Relazione alla legge fallimentare del 1942 avvertiva che «la legge non ha voluto stabilire schemi rigidi di cessione, lasciando agli interessati di raggiungere l'accordo nel modo più conveniente sotto la guida prudente e vigilante del giudice». Saranno quindi possibili, a seconda dei casi concreti, forme di cessione traslativa immediata di tutti i beni costituenti l'attivo fallimentare (con effetto liberatorio immediato o meno), come pure gestioni liquidatorie giudiziali finalizzate a trasferire ai creditori quanto ottenuto dalla liquidazione dei beni stessi. Del pari, appare possibile una cessio bonorum con finalità gestoria nell'interesse dei creditori, ai quali vengono attribuite azioni o titoli partecipativi della new-co cessionaria, secondo lo schema utilizzato nel notissimo caso Parmalat. Va a questo riguardo sottolineato che il nuovo Codice della crisi di impresa non ripropone, a differenza che nell'ipotesi di concordato preventivo, un evidente disfavore per le forme liquidatorie di concordato. Proprio perché qui, in relatà, un fallimento già sussiste, non avrebbe infatti particolare senso (salvo casi del tutto particolari) privilegiare forme di concordato con continuità: nel caso del concordato fallimentare, quindi, liquidazione e continuità continueranno ad essere alternative fra loro concorrentemente e paritariamente praticabili. La differenza, invece, come già si è notato, sarà la previsione di un impegno “aggravato” del 10% quando la proposta provenga dallo stesso debitore. Ciò posto, altra forma di concordato fallimentare è quella per garanzia, nella quale le percentuali offerte ai diversi tipi di creditori non costituiscono un semplice raffronto indicativo utile per la valutazione di convenienza rispetto all'alternativa liquidatoria, ma l'oggetto di un espresso impegno di risultato, assicurato dalla presentazione di garanzie da parte del proponente o di terzi. Queste garanzie possono consistere, coerentemente con l'atipicità della proposta sancita dall'art. 124 l. fall., tanto in forme di fideiussione di carattere personale, tanto attraverso il rilascio di garanzie reali, quanto in forme indirette assicurate attraverso l'assunzione di vincoli personali, mandati irrevocabili a vendere condizionati, e secondo le più recenti ed interessanti applicazioni pratiche, in vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c., trust, ecc. Frequente nel caso del concordato fallimentare è l'utilizzo della tipologia mediante assuntore, cioè la figura di un soggetto terzo che assume su di sé gli impegni concordatari verso cessione di tutti i beni e diritti costituenti l'attivo fallimentare. L'impegno dell'assuntore può avere un effetto cumulativo, quando egli aggiunge solidalmente la propria responsabilità a quella del debitore (evidentemente comunque limitata all'oggetto del piano concordatario), oppure svolgere un effetto liberatorio, quando egli si obbliga in vece del debitore, che risulta immediatamente liberato all'omologazione. L'art. 124 compie un rinvio del tutto indiretto alla figura dell'assuntore, ove parla di cessione di beni e accollo; ben più esplicito è, invece, il riferimento contenuto nell'art. 135 l. fall., quando afferma che ai creditori anteriori non insinuati non si estendono le garanzie offerte in sede concordataria dai terzi, come pure nell'art. 137, comma 7 l. fall. ove sancisce che non si applica la disciplina sulla risoluzione del concordato quando i relativi obblighi sono stati assunti dal proponente o da uno o più creditori con liberazione immediata del debitore. Il piano posto a fondamento della proposta concordataria può fondarsi non soltanto sul pagamento di somme di denaro ma, come già si è accennato, sulla cessione di beni, sull'accollo liberatorio o meno, sulla dazione di diritti o altre utilità (datio in solutum), fra cui merita particolare menzione la trasformazione del debito in equity attraverso l'attribuzione ai creditori di azioni, obbligazioni o altri titoli partecipativi in misura proporzionale all'importo del credito di ciascuno (ed anche soltanto limitatamente ad una o più classi). In questi casi il piano può altresì contemplare operazioni straordinarie sul capitale, affitto e cessione d'azienda, fusioni o scissioni. Anche in questo caso vale il principio di autonomia privata, sia pure temperato dai limiti di ammissibilità delle operazioni proposte (oltre che, naturalmente, dal consenso dei creditori votanti). La ristrutturazione del debito, a sua volta, può consistere in una riscadenziazione dei termini di esigibilità delle obbligazioni del fallito (concordato dilatorio), oppure in una rideterminazione quantitativa con rinuncia a richiedere il pagamento dell'eccedenza su quanto offerto (concordato remissorio). Più spesso una combinazione di entrambe le forme. Frequenti nelle aule giudiziarie sono le questioni inerenti la figura dell'assuntore. Secondo Cass. I, n. 15793/2018, in tema di concordato fallimentare con assunzione, qualora la relativa proposta contempli la cessione delle azioni revocatorie, la perdita della legittimazione processuale del curatore si verifica soltanto con l'emissione del decreto previsto dall'art. 136 l. fall., non determinandosi peraltro l'interruzione del processo sino a quando tale evento non sia stato dichiarato o notificato ai sensi dell'art. 300 c.p.c. Ha precisato a sua volta Cass. I, n. 13762/2017, che il curatore fallimentare che agisca giudizialmente per ottenere il pagamento di una somma già dovuta al fallito esercita un'azione rinvenuta nel patrimonio di quest'ultimo, collocandosi nella medesima sua posizione, sostanziale e processuale, sicché il terzo convenuto in giudizio dal curatore può legittimamente opporgli tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre all'imprenditore fallito, comprese le prove documentali e senza i limiti di cui all'art. 2704 c.c.; ne deriva che, in caso di chiusura del fallimento per concordato fallimentare, l'assuntore che prosegua o intraprenda analoghe iniziative giudiziarie verso il terzo viene a trovarsi nella medesima posizione processuale che aveva o avrebbe avuto il curatore. Cass. I, n. 17339/2015, ha tuttavia rilevato che qualora il concordato fallimentare con assunzione preveda la cessione delle azioni revocatorie, la chiusura del fallimento conseguente alla definitività del provvedimento di omologazione determina una successione a titolo particolare dell'assuntore nel diritto controverso regolata dall'art. 111 c.p.c., sicché quest'ultimo, pur potendo intervenire nel giudizio pendente dinanzi alla Corte di cassazione, ma non come parte necessaria né in sostituzione del curatore fallimentare, non è tuttavia legittimato a rinunciare al ricorso già proposto dalla curatela. Classi e pagamento parziale dei creditori privilegiatiUna modifica sicuramente di rilievo, apportata al concordato fallimentare dalla riforma degli anni 2006-2007, è senza dubbio quella relativa alla possibilità di suddividere i creditori in classi, offrendo trattamenti differenziati fra gli appartenenti a classi diverse. Avverte, tuttavia, lo stesso art. 124 l. fall. che «il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione». Tale precisazione è sicuramente coessenziale alla natura di procedura concorsuale del concordato in esame, che seppur tale da dimostrare una matrice privatistica, resta tuttaiva inserito nell'alveo di un fallimento, con tutti gli interessi di carattere pubblicistico che ad esso sono sottesi. Non si è di fronte, infatti, ad una composizione puramente stragiudiziale del debito, nella quale possono inserirsi valutazioni del tutto privatistiche ed operarsi stralci del debito indipendentemente dalla sua natura privilegiata o chirografaria, affidate a valutazioni di convenienza ed al rapporto di forza economico fra le parti. La possibilità di offrire trattamenti differenziati ai creditori, infatti, deve pur sempre avvenire nel rispetto dell'ordine delle cause legittime di prelazione. La possibilità di prevedere delle classi per i creditori è tradizionalmente considerata, tuttavia, una mera facoltà per il debitore o il proponente, non il portato di un obbligo. Fino ad oggi, infatti, l'idea di fondo è che l'autonomia privata e l'atipicità che domina la formulazione della proposta di concordato (per quello preventivo in termini non dissimili l'art. 160 l. fall.) si rifletta altresì sul «classamento» dei creditori, da ritenere una mera opportunità e non un comportamento doveroso. Tale idea, fino a poco tempo fa incontrastata, è stata tuttavia oggetto di analisi innovativa alla luce delle modifiche che, con la mini-riforma del 2015 di cui al d.l. n. 83/2015 convertito in l. n. 132/2015, hanno soprattutto interessato il concordato preventivo. Le norme così ridisegnate, infatti, hanno in primo luogo visto l'introduzione di una classe per il caso di proposta concorrente: l'art. 163, comma 6 l. fall. dispone infatti che il creditore che presenta una proposta di concordato concorrente ha diritto al voto solo se collocato in un'autonoma classe. La ratio è evidente: il creditore che è contemporaneamente proponente, non è certamente indipendente e distaccato al momento del voto; naturalmente voterà contro la proposta del debitore e voterà a favore della propria. In questo caso il legislatore non ha inteso escludere il voto del creditore proponente (secondo una soluzione tecnicamente pure percorribile), circostanza che forse avrebbe depresso ulteriormente le possibilità di avanzare proposte concorrenti da parte di uno o più creditori. Ha invece preferito adottare una soluzione intermedia fra l'ammissione al voto e l'esclusione: la possibilità di votare soltanto se inserito in una autonoma classe. Questo consente, da un lato, al voto del proponente di non incidere in modo assoluto sull'esito del voto e, dall'altro, consente ai dissenzienti di una classe in maggioranza contraria alla proposta di avanzare una successiva opposizione alla omologazione anche per motivi di convenienza. L'eccezione è comunque circoscritta, in quanto il debitore proponente potrebbe tuttavia decidere di non votare e di preferire comunque un concordato senza classi e tale scelta — salva la perdita del diritto al voto — non incide di per sé sull'ammissibilità o meno della proposta. Diverso caso è quello previsto dall'art. 182-ter (su cui si ritornerà) in tema di trattamento dei crediti contributivi e tributari. La norma infatti dispone che ogni qual volta uno di tali crediti non è pagato al 100%, la quota degradata in chirografo deve essere inserita in un'apposita classe. Questa disposizione configura una vera e propria ipotesi di classe obbligatoria, prevista a pena di inammissibilità della proposta (tanto è vero che l'art. 182-ter si apre affermando che il procedimento previsto da tale disposizione deve essere adottato in via esclusiva laddove sia previsto il pagamento parziale o dilazionato di tributi, contributi e relativi accessori). Nel caso del concordato fallimentare però una tale disposizione è assente, ed appare perciò più difficile poter sostenere, anche dal punto di vista interpretativo, che vi siano casi di obbligatorietà nella formazione delle classi, sempre che non si introducano trattamenti differenziati fra creditori del medesimo rango (normalmente chirografario). Se la scelta di prevedere classi nel concordato fallimentare resta, ad oggi, una mera facoltà, l'adozione di tale opportunità non è tuttavia senza conseguenze: afferma infatti l'art. 124, comma 2, lett. a) che la suddivisione dei creditori deve avvenire secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei. La formazione di classi incide sul voto, posto che in tal caso il concordato deve ricevere una doppia maggioranza: dei crediti complessivamente considerati ed ammessi al voto, del numero delle classi votanti. Come tale, l'adozione di criteri arbitrari nella formazione delle classi potrebbe consentire al proponente di predeterminare i risultati del voto, convogliando sulla proposta la maggioranza dei creditori ovvero sterilizzando il voto contrario di un creditore «sgradito». Ciascuna classe deve, quindi, raggruppare creditori fra loro omogenei e non spuri od arbitrariamente raggruppati. L'omogeneità deve peraltro essere valutata sia sul piano giuridico che economico: la previsione di classi infatti rappresenta una deviazione, in qualche misura, dalla regola della par condicio, che non può basarsi su dati irrazionali o sulla semplice volontà del proponente. È anzi previsto che, proprio nel caso di adozione di classi, la correttezza dei criteri adottati al riguardo sia oggetto di un autonomo sindacato da parte del tribunale in composizione collegiale (v. art. 125, comma 3). In altri termini, non solo il legislatore vuole una sindacabilità dei criteri di formazione delle classi, ma proprio per la loro rilevanza sulle successive fasi del procedimento, ha richiesto che la valutazione sia espressa non dal solo g.d., ma dal tribunale in composizione collegiale. È questo uno dei rari casi in cui, a procedura fallimentare già aperta, un provvedimento giudiziale viene affidato alla competenza del tribunale collegiale e non del g.d. Naturalmente, nel caso in cui le classi riguardino anche creditori privilegiati sottoposti a falcidia (ad es. sulla parte incapiente di crediti ipotecari) la valutazione di regolarità si intreccia strettamente con quella relativa alla relazione del professionista nominato dal tribunale, ai sensi dell'art. 124 in esame. La possibilità di formare classi fondate su posizioni giuridiche diverse è intuitiva: si pensi alla classe riguardante, come nell'esempio appena compiuto, la parte incapiente dei debiti ipotecari; ovvero alla classe di quei creditori che fruiscono di garanzie sui beni dei soci (c.d. collateral). La possibilità, invece, di utilizzare criteri fondati su interessi economici omogenei riguarda, soprattutto, i creditori chirografari, rispetto ai quali è certamente ben comprensibile, ad es. distinguere coloro finanziato l'impresa dai fornitori della stessa, ovvero ancora ripartire in classi diverse i crediti di importo differenziato. Problema peculiare concerne, ancora, la possibilità di prevedere più classi destinatarie dello stesso trattamento. Ad avviso dello scrivente, a tale quesito può offrirsi una risposta favorevole, sempre che ovviamente le classi siano costruite sulla scorta di criteri corretti di formazione. Infatti, l'art. 124, comma 2 lett. B) letteralmente dispone che la proposta può prevedere trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse, suggerendo l'idea che la pluralità di classi sia obbligatoria quando si prevedono trattamenti differenziati fra creditori altrimenti concorrenti in modo paritario, ma non autorizzando quale unica conclusione il contrario, e cioè che alla pluralità di classi debba forzatamente conseguire un qualche trattamento differenziato. Del resto, la regola generale in questa materia è l'atipicità della proposta e nulla vieta che la stessa possa prevedere in una pluralità di classi due che ricevono il medesimo trattamento, purchè ne siano indicate le ragioni e la distinzione non sia artificiosa, ma corrisponda a posizioni giuridiche e interessi economici omogenei. Infatti, posta una regola di libertà, quale certamente l'art. 124 l. fall. fonda, i limiti all'esercizio della stessa non possono che essere fondati sulla stretta interpretazione letterale, ed in questo caso, come dianzi ricordato, manca un divieto espresso, essendo solo richiesta la ragionevolezza dei criteri di formazione delle classi e la motivazione di eventuali trattamenti differenziati. Ulteriore problematica in tema di classamento dei creditori concerne, ancora, l'ammissibilità della c.d. classe «zero», cioè una classe di creditori ai quali non viene riservato alcun pagamento. Ad avviso dello scrivente la legittimità di tale opzione, purchè motivata ragionevolmente e fondata sull'utilizzo di criteri di classamento non arbitrari appare ammissibile. La modifica dell'art. 161, comma 2, lett. E) sulla necessità di indicare una utilità, economicamente valutabile, che il proponente si obbliga ad assicurare ai creditori, sia pure in materia di concordato preventivo, appare applicabile anche nel caso del concordato fallimentare. Altro indice ermeneutico di tale possibilità, poi, è dato rinvenire nel testo deli Codice della crisi e dell'insolvenza, nel quale di evidenzia che detta utilità può anche consistere nei vantaggi fiscali o nella prosecuzione di rapporti contrattuali con il debitore (è il caso in particolare delle proposte in continuità). Altrettanto significativa è, inoltre, la possibilità per il proponente di offrire un pagamento parziale ai creditori privilegiati. Tale facoltà, anzi, rende particolarmente interessante il ricorso al concordato fallimentare, posto che diversamente dal concordato preventivo — ove si opera con una visione per così dire prognostica su quello che una eventuale liquidazione potrebbe portare ai creditori — in questa forma di concordato si opera con una visione anamnestico-retrospettiva, posto che la liquidazione è già aperta e l'attivo fallimentare già formato. La graduazione dei privilegi è poi destinata a fare il resto, tanto che in questo caso l'unico limite è che il soddisfacimento offerto ai creditori privilegiati non integralmente pagati non sia inferiore a quello ad essi spettante nell'alternativa liquidatoria. Questo rende utilizzabile l'istituto tutte le volte in cui, con l'apporto di finanza esterna, sia possibile pervenire ad un qualche pagamento in favore dei chirografari che, nell'ipotesi di prosecuzione della procedura fallimentare, sarebbero destinati a non ricevere alcunché. Questo consente, altresì, di superare tutti i problemi della transazione fiscale prima e dell'attuale testo dell'art. 182-ter l. fall. per i crediti fiscali e contributivi che in caso di fallimento sarebbero insoddisfatti. Altro argomento che può rendere preferibile l'utilizzo del concordato fallimentare è quello per cui quando, come normalmente avviene, abbia natura liquidatoria, lo stesso non è tenuto a rispettare la nuova soglia minima di soddisfacimento del 20% prevista dall'art. 160, ult. comma l. fall. per il concordato preventivo liquidatorio. Diversamente dal concordato preventivo, poi, in cui un professionista nominato dallo stesso debitore deve attestare che il soddisfacimento parziale offerto ai privilegiati non è inferiore a quello ad essi spettante nell'alternativa liquidatoria (cfr. art. 160, comma 2), nel caso del concordato fallimentare l'offerta di un pagamento non integrale ai privilegiati provoca la nomina di un professionista indipendente da parte del tribunale, chiamato a redigere una corrispondente relazione. Pertanto, la proposta contemplante un pagamento non integrale dei privilegiati dovrà già tenere conto dell'onorario spettante a tale professionista, la cui nomina da parte del tribunale appare doverosa ed il cui costo deve essere posto a carico del proponente. Si è tuttavia ritenuto che tale nomina non sia necessaria allorché l'attivo fallimentare sia già stato integralmente liquidato, posto che in tale caso non si tratta di compiere stime o valutazioni, bensì di comparare due diverse grandezze monetarie già liquide ed omogenee. Condivisibilmente, App. Genova, 28 giugno 2017, ha ritenuto che nell'ambito del concordato fallimentare non trova applicazione l'istituto della transazione fiscale, mentre l'unica norma che disciplina il trattamento da riservare ai creditori privilegiati è l'art. 124, comma 3 l. fall., sicché non vi sono preclusioni di sorta al pagamento parziale dell'Iva e dei crediti previdenziali. Sulla dilazione temporale dei creditori privilegiati la Cass. I, 31 ottobre 2016, ha affermato che la relazione giurata del professionista designato dal tribunale è funzionale alla verifica di un valore che consenta di determinare la misura di soddisfazione del credito presumibilmente realizzabile in caso di liquidazione dei beni e dei diritti, quale limite minimo suscettibile di essere previsto nella proposta di concordato. Essa non assume alcuna rilevanza quando il proponente abbia confezionato la proposta prevedendo il pagamento del credito in conformità del titolo ma con semplice dilazione; in tal caso, la misura del soddisfacimento non è legata al valore dei beni o dei diritti suscettibili di liquidazione, ma molto più semplicemente all'incidenza del decorso del tempo, per cui ogni valutazione al riguardo, in vista del successivo computo delle maggioranze, può essere effettuata dagli organi della procedura. Conclusivamente, il pagamento integrale ma rateizzato, anche se accompagnato dalla corresponsione degli interessi, comportando un sacrificio della posizione del creditore privilegiato, giustifica la necessità di garantire la sua partecipazione al voto; non giustifica invece, per difetto di ratio, la necessità di acquisire la relazione del professionista cui fa riferimento l'art. 124, comma 3, della l. fall. (la stessa decisione ha rilevato che una volta determinata in misura percentuale l'entità di tale perdita, la partecipazione al voto dei creditori privilegiati, ai sensi dell'art. 124, comma 4, l. fall., resta determinata entro la detta misura e non si estende all'intero credito munito di rango privilegiato). Il Trib. Padova 16 Aprile 2013, ha affermato che nell'ambito della disciplina del concordato fallimentare, non è previsto l'istituto della transazione fiscale di cui all'art. 182-ter l. fall., con la conseguenza che l'unica norma di riferimento in relazione al trattamento da riservare ai creditori privilegiati rimane quella dell'art. 124, comma 3 l. fall., il quale pone come limite esclusivo alla falcidia la soddisfazione in misura non inferiore, in ragione della collocazione preferenziale, a quella realizzabile in caso di liquidazione dei beni su cui sussiste la causa di prelazione. Con la precisazione che ove, nell'ambito del concordato fallimentare, l'attivo sia costituito esclusivamente da denaro, diviene irrilevante il mancato deposito della relazione di cui all'articolo 124, comma 3, l. fall. Con riguardo al tema della formazione delle classi si è affermato che il principio secondo il quale, nel concordato fallimentare, le classi possono comprendere soltanto i creditori chirografari ab origine o quelli privilegiati che, non trovando soddisfazione totale o parziale nella liquidazione dei beni sui quali il privilegio insiste, degradano in toto o in parte al chirografo, non attiene al profilo della correttezza dei criteri di aggregazione dei creditori nelle singole classi (omogeneità di posizione giuridica ed interesse economico) bensì ad aspetti tecnico-giuridici che vanno rispettati a pena di inammissibilità della proposta e che, come tali, possono essere rilevati dal giudice delegato (così Trib. Milano 5 marzo 2012). Il procedimento: i pareri necessariUna volta presentata la proposta di concordato questa, secondo il riformato art. 125 l. fall., deve essere sottoposta al parere del curatore e quindi alla valutazione del comitato dei creditori. Tale schema procedimentale costituisce con ogni probabilità il frutto del diverso equilibrio e riparto di competenze voluto dalle riforme degli anni 2006/2007 in tema di organi della procedura fallimentare. Così come, infatti, nell'ambito del fallimento il g.d. ha visto eroso spazi di valutazione sull'opportunità gestoria, perdendo altresì il ruolo di direzione della procedura, ma acquistando certamente un diverso ma non meno importante ruolo di vigilanza e controllo, così nell'ambito del concordato fallimentare, che nella prima procedura si radica al fine di favorirne la chiusura anticipata, deve ritenersi che la valutazione sulla convenienza della proposta sia stata affidata in prima battuta al parere obbligatorio del comitato dei creditori e, in seconda istanza, allo stesso voto dei creditori. Pur se su questo tema si ritornerà al paragrafo successivo, va quindi ritenuto che il g.d. possa in questa fase «bloccare» delle proposte di concordato soltanto ove del tutto inammissibili o improcedibili, secondo un principio di economicità delle attività processuali tale da rendere del tutto irrilevanti i pareri previsti dagli altri organi della procedura. La norma prevede che, in primis, sulla proposta di concordato fallimentare sia chiamato ad esprimersi il curatore. Va rilevato al riguardo che, mentre nella prima versione dell'art. 125 il parere doveva essere espresso con «specifico riferimento ai presumibili risultati della liquidazione», con il decreto correttivo del 2007 si è aggiunto quale ulteriore elemento di verifica «e alle garanzie offerte». Si ritiene al riguardo che il parere del curatore non debba limitarsi ad un mero raffronto numerico fra i risultati della liquidazione e quanto offerto dal proponente, ma si estenda altresì ad una valutazione della serietà dell'offerta stessa e della sua fattibilità. Il parere del curatore, in altri termini, proprio perché costituisce una condizione di procedibilità per l'ulteriore corso della procedura di concordato, deve mettere il comitato dei creditori in grado di valutare in modo consapevole ed informato la convenienza o meno della proposta rispetto all'alternativa basata sulla prosecuzione del fallimento. A tale riguardo, parlando la norma di «risultati della liquidazione», deve ritenersi che il curatore non possa non affrontare anche il tema delle tempistiche relative alla presumibile conclusione dell'attività liquidatoria, potendo anche questo essere un fattore non disprezzabile dai creditori nella valutazione di convenienza del concordato rispetto alla prosecuzione della procedura fallimentare. Nel caso di presentazione di più proposte di concordato, il curatore deve altresì esprimere il proprio parere su ciascuna di esse, in modo da — anche qui — consentire al c.d.c. una scelta pienamente informata. A questo punto, prima della comunicazione della proposta ai creditori, perché la procedura abbia ulteriore corso, deve essere acquisito il parere favorevole del comitato dei creditori. A questo organo è stato conferito, in questa sede, un rilevante potere, prefigurando un parere non solo obbligatorio, ma anche vincolante. Proprio per questo lo stesso dovrebbe essere sia pure succintamente motivato e risultare reclamabile ex art. 36 l. fall. Nel caso di più proposte di concordato spetta al c.d.c. scegliere quella più conveniente e meritevole di essere posta al voto dei creditori, pur con la clausola di salvaguardia del ruolo integrativo affidato al g.d. Infatti, con il decreto correttivo del 2007 era stata eliminata la prescrizione della votazione simultanea su tutte le proposte di concordato presentate, mentre a decorrere dal 2009 è stato introdotto un potere di scelta preventiva da parte del c.d.c. con la possibilità per il g.d. di ordinare la comunicazione ai creditori, ai fini del voto, anche una o più proposte non scelte, ma ritenute parimenti convenienti. Naturalmente, quanto rilevato in ordine all'equilibrio ed alla ripartizione di competenze fra i diversi organi della procedura fallimentare viene meno nel caso in cui non sia stato nominato un comitato dei creditori, ovvero lo stesso non possa funzionare o sussistano ragioni di somma urgenza, posto che in tal caso, in virtù della clausola generale prevista dall'art. 41, comma 4 l. fall., sarà il g.d. a doversi sostituire all'organo mancante o inerte, con la possibilità pertanto di esprimere eccezionalmente un parere che riguarda anche il merito e la convenienza economica della proposta. La surroga del g.d. al comitato dei creditori ripropone il generale problema del rimedio esperibile in tal caso. A fronte di una tesi sostanzialista, che poggiando sulla natura del potere di fatto espletato, ritiene esperibile il rimedio previsto dall'art. 36 l. fall. nei confronti dei provvedimenti del c.d.c., si pone un diverso indirizzo che valorizza la forma dell'atto ed il ruolo dell'organo che di fatto viene ad esprimere il parere, così da ritenere applicabile il reclamo ex art. 26 l. fall. Questo secondo indirizzo appare preferibile per almeno tre ordini di motivi: a) in primo luogo perché appare coerente con il più generale e maggioritario indirizzo che individua il rimedio impugnatorio in base all'apparenza esterna dell'atto da sottoporre a gravame, anche per ragioni di certezza giuridica; b) in secondo luogo perché solo il reclamo di cui all'art. 26 l. fall. consente di far valere ragioni di impugnazione basate sul merito e sull'opportunità a fronte di un provvedimento, quello reso dal g.d. in sostituzione del c.d.c., che prende in esame anche tali ragioni: il rimedio proposto, quindi, appare più completo e tutelante rispetto a quello dell'art. 36 l. fall.; c) infine, perché di fatto quasi sempre il parere reso in via vicaria dal g.d. non è di fatto separabile dall'ordine che lo stesso organo giudiziale emette circa la trasmissione (o meno) della proposta ai creditori, sì che anche in tale ipotesi il rimedio dell'art. 26 l. fall. finisce per essere maggiormente tutelante e non costringere ad una eventuale e defatigante doppia impugnazione. L'ordinanza della Cass., n. 30535/2018 afferma che l'assenza della motivazione succinta, invece prevista dall'art. 41, comma 1 l. fall., non determina l'inesistenza del parere reso dal comitato dei creditori, ma soltanto la sua nullità relativa, con conseguente possibilità di sanatoria, che nel caso di specie consegue all'approvazione da parte dei creditori della proposta di concordato. Un tale effetto sanante, attribuito alla manifestazione di voto favorevole da parte della massa dei creditori, è da riconnettersi alla ridefinizione, a seguito della riforma del 2006 e dei successivi interventi correttivi del legislatore delegato, del ruolo dei creditori stessi nel procedimento di concordato fallimentare: ad essi è oggi attribuita ogni valutazione circa il merito e la convenienza della proposta concordataria, mentre al Tribunale è rimessa la verifica della regolarità formale della procedura e del rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento. Il ruolo del comitato dei creditori risulta rafforzato; ad esso è innanzitutto attribuito (cfr. art. 125, comma 1 l. fall.) il potere di esprimere il parere «favorevole» alla proposta di concordato, parere che pertanto assume i connotati dell'obbligatorietà e vincolatività; infatti, da un lato, la mancata espressione del parere impedisce la prosecuzione del procedimento, tanto che lo stesso può essere qualificato quale condizione di procedibilità; dall'altro, in caso di proposte concorrenti, sempre l'art. 125, comma 1, l. fall. prevede che sia il comitato dei creditori a scegliere, tra esse, quella da trasmettere ai creditori, fermo restando che il giudice delegato, su richiesta del curatore, potrà sempre disporre la trasmissione anche di altra o altre proposte tra quelle non selezionate dal comitato dei creditori, ritenute parimenti convenienti (Trib. Roma 27 ottobre 2011). Quanto al parere del curatore, invece, la Cass. I, n. 24354/2013, ha ritenuto che nel procedimento di concordato fallimentare risultante dai d.lgs. n. 5/2006 e n. 169/2007, il parere reso dal curatore sui presumibili risultati della liquidazione e sulle garanzie offerte, ai sensi dell'art. 125 l. fall., svolge una funzione diversa — più ridotta e limitata — rispetto a quella perseguita dalla relazione del professionista ex art. 161 l. fall. nel concordato preventivo, atteso che, mentre quest'ultima costituisce lo strumento fondamentale perché i creditori possano venire a conoscenza delle vicende imprenditoriali, finanziarie ed economiche di un'impresa normalmente ancora in attività, il primo è reso con riferimento ad un'impresa fallita, della quale vengono accertati dagli organi fallimentari sia le attività, che le passività. Ne consegue che la maggiore conoscenza del ceto creditorio circa la situazione economico-finanziaria e patrimoniale dell'impresa fallita implica che il parere del curatore non debba incentrarsi in modo specifico sulla congruenza e non contraddittorietà della proposta concordataria, e che eventuali ulteriori carenze, omissioni o erronee indicazioni in esso contenute, ivi comprese le inesattezze in ordine all'indicazione delle percentuali di soddisfacimento dei creditori, non possono inficiare la regolarità del procedimento, ben potendo i creditori, del resto, valutare — in autonomia e alla luce della documentazione fornita dagli organi fallimentari — eventuali imprecisioni e contraddizioni o possibili divergenze interpretative della proposta. Segue: la valutazione giudizialeIn ossequio a quel disegno di riequilibrio del ruolo dei diversi organi della procedura fallimentare, deve ritenersi che gli spazi di valutazione da parte dell'organo giudiziale si siano certamente ristretti, non occupandosi in linea tendenziale della convenienza o meno della proposta, affidata invece prima al parere obbligatorio del c.d.c. e, in seguito, al gradimento o meno da parte dei creditori, espresso attraverso il meccanismo del voto mediante silenzio-assenso. La norma dell'art. 125 l. fall., inoltre, se letteralmente intesa, sembra prevedere che l'intervento del g.d. avvenga in terza battuta: cioè dopo il parere del curatore e quello del c.d.c., solo allora il g.d. sarebbe chiamato a valutare la ritualità della proposta, prima di ordinarne la comunicazione ai creditori per la votazione. Al riguardo si possono porre almeno due problemi, di rilevante rilievo pratico, ma anche sistematico. Il primo riguarda l'ordine cronologico dell'intervento del g.d., se cioè questi sia tenuto ad attendere che in prima battuta si esprimano il curatore ed il c.d.c. o possa, motu proprio, incidere sull'ulteriore iter della procedura, bloccandola. A parere dello scrivente deve essere riconosciuta al g.d. la possibilità di rilevare una evidente inammissibilità o improcedibilità della proposta di concordato anche prima che la stessa sia sottoposta ai pareri degli altri organi, secondo un principio di economicità dell'attività giurisdizionale che evidenzi la sostanziale inutilità dei suddetti pareri. Si pensi al caso in cui la proposta sia avanzata dal debitore prima dell'anno dall'apertura del fallimento o, ancora, alla proposta che sovverta in modo evidente il rispetto della par condicio creditorum. Il secondo problema, ma evidentemente in parte connesso al primo, concerne l'interpretazione dell'espressione «ritualità della proposta», dovendosi escludere, sia pure a fronte di variegate opzioni dottrinali, che da un lato il giudice si possa occupare del merito della proposta, ma che dall'altro egli possa valutare esclusivamente la ritualità formale della stessa, senza poter ad esempio evidenziare una esigenza di completezza del corredo documentale allegato, oppure una qualche inammissibilità di una o più delle operazioni del piano posto a fondamento della proposta medesima. Si è detto che questo secondo problema è solo in parte connesso al primo perché solo in rare ipotesi le carenze del piano sono immediatamente percepibili, mentre potrebbero risultare ben più evidenti proprio a fronte del primo parere reso dal curatore ed a quel punto intercettate dal g.d. prima di passare al voto. Si può forse ritenere che una qualche ulteriore divergenza fra gli spazi valutativi del giudice in sede di concordato fallimentare, rispetto al concordato preventivo, sia destinata a prodursi con la definitiva approvazione del Codice della crisi e dell'insolvenza. Proprio la diversa finalità dei due istituti, infatti, può spiegare perché nel concordato preventivo l'art. 47 preveda (con disposizione destinata ad divenire vigente fra 18 mesi) che il tribunale, oltre a valutare l'ammissibilità giuridica della proposta, verifica la “fattibilità economica del piano”. Si ritiene che il decreto del g.d. sia reclamabile ex art. 26 l.f. In questa fase iniziale, ancora, uno spazio di ulteriore valutazione giudiziale è poi previsto per il caso in cui la proposta contempli la ripartizione dei creditori in diverse classi. In questo caso è espressamente previsto che la valutazione sulla regolarità dei criteri impiegati per la formazione dei criteri ed il trattamento differenziato sia compiuto non dal g.d., bensì dal tribunale, che opera in composizione collegiale. Inoltre, è espressamente stabilito che il collegio valuti tale aspetto unitamente ai pareri già espressi dal curatore e dal comitato dei creditori, nonché alla luce della relazione resa dal professionista nominato dal tribunale, ai sensi dell'art. 124, comma 3. Al riguardo deve dirsi che mentre la circostanza che la valutazione del tribunale sia espressa dopo l'acquisizione della relazione del professionista dal medesimo nominato appare comprensibile, posto che detta relazione potrebbe ad esempio evidenziare che il trattamento è deteriore rispetto all'alternativa liquidatoria e ben difficilmente l'organo giudiziale potrebbe autonomamente compiere una tale valutazione, se non nei casi più plateali, non altrettanto ragionevole appare per il resto la suddetta previsione. Infatti, se si ritiene che il tribunale valuti esclusivamente la legittimità della proposta, sia pure sotto il profilo del corretto classamento e trattamento differenziato dei creditori, deve ritenersi che a ben poco gli giovi l'acquisizione dei pareri del curatore e del c.d.c. A meno di non ammettere che, come già si è sostenuto riguardo alle valutazioni del g.d., anche in questa fase il tribunale non si occupi della mera legittimità formale della proposta ma, anche qui per economicità dell'attività processuale, della sua legittimità sostanziale. Secondo questa linea di pensiero, quindi, il tribunale, chiamato ad occuparsi della regolarità dei criteri di formazione delle classi potrebbe comunque rilevare una evidente inammissibilità della proposta sotto altro profilo, o una carenza di fattibilità della stessa. Anche qui il provvedimento del tribunale deve ritenersi reclamabile, ex art. 26 l. fall. L'organo investito del gravame sarà, conseguentemente, la Corte d'Appello. Va infine ricordato che in caso di pluralità di proposte di concordato si ritiene che il g.d possa, sia pure in via sussidiaria rispetto al c.d.c., occuparsi anche della convenienza delle stesse. È infatti previsto che, su richiesta del curatore, egli possa ordinare la comunicazione ai creditori, ai fini del voto, anche di una o più proposte fra quelle non scelte dal c.d.c., qualora siano ritenute parimenti convenienti. L'art. 125, comma 2 l. fall. prevede che il giudice delegato, cui è sottoposta la proposta di concordato, una volta acquisito il parere del curatore e del comitato dei creditori (sul quale torneremo), si limita a valutare la «ritualità della proposta», vale a dire, secondo un'interpretazione del dato normativo che appare ragionevole, il mero rispetto delle coordinate dell'istituto quali previste dall'art. 124, l. fall., dopodiché la proposta stessa può essere rimessa ai creditori per il voto. Unico spazio di specifico e più approfondito scrutinio risulta nell'ipotesi in cui la proposta preveda la suddivisione dei creditori in classi, nel qual caso l'art. 125, comma 3 l. fall. prevede che il Tribunale sia chiamato a valutare il corretto utilizzo dei criteri per la formazione delle classi stesse; resta inteso che il superamento della fase di verifica della «ritualità della proposta» non esaurisce il potere del giudice delegato, il quale può sempre interrompere, anche successivamente, il procedimento di concordato fallimentare se risulti che la proposta sia illegittima (così Trib. Milano 5 marzo 2012). La stessa decisione ha altresì precisato che la valorizzazione monetaria dell'accorciamento dei tempi di soddisfazione dei creditori (dipendente dall'incertezza dei tempi per la liquidazione fallimentare) non è consentita allo scopo di accertare l'esistenza della condizione di ammissibilità della proposta di concordato fallimentare prevista dall'art. 124, comma 3 l. fall., della soddisfazione dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca in misura non inferiore a quella realizzabile dal fallimento; del vantaggio derivante dall'accorciamento dei tempi è, invece, possibile tener conto ai fini del giudizio di convenienza che, traducendosi in una prognosi riferita alla complessiva posizione della massa dei creditori, meglio si presta ad una valutazione ancorata anche a dati incerti. VotazioneL'art. 125 prevede che la proposta, unitamente ai pareri resi dagli organi della procedura fallimentare, sia comunicata a tutti i creditori. L'art. 127 l. fall., invece, circoscrive in moto tradizionale in ragione della natura chirografaria — per natura o falcidia, volontaria o meno — il voto dei creditori nel concordato fallimentare. La distinzione è facilmente spiegabile. Il legislatore ha infatti voluto che tutti i creditori siano formalmente avvertiti della presentazione della proposta di concordato e che possano riceverne una piena conoscenza, unitamente ai pareri formulati dal curatore e dal c.d.c., considerato che anche un creditore non ammesso al voto, perché ad esempio privilegiato oppure dotato di ragioni di prededucibilità verso la massa, potrebbe avere interesse ad opporsi alla omologazione, ex art. 129 l. fall. Questo perché la legittimazione all'opposizione è più ampia della legittimazione al voto. Venendo alla individuazione dei creditori votanti, come in sintesi anticipato, si tratta dei creditori chirografari, per natura o falcidia. Gli stessi vanno ricavati dall'elenco provvisorio approvato dal g.d., nel caso di proposta «anticipata» rispetto alla formazione dello stato passivo, oppure da quest'ultimo, ivi compresi i creditori ammessi provvisoriamente e con riserva. Per natura sono quei creditori che hanno ragioni di credito verso il fallimento senza essere assistiti da cause legittime di prelazione. Per falcidia, invece, sono quei creditori che pur avendo un credito in teoria privilegiato, in concreto — in tutto od in parte — è destinato a subire dalla proposta un trattamento falcidiato, ossia parziale. Tale conseguenza, a sua volta, può essere frutto in primo luogo di una scelta volontaria. Afferma l'art. 127, comma 2 che i creditori muniti di privilegio, ipoteca o pegno, anche se la garanzia sia contestata, dei quali la proposta prevede l'integrale pagamento, non hanno diritto al voto se non rinunciano al diritto di prelazione; la rinuncia può essere anche parziale, purchè non inferiore alla terza parte dell'intero credito, per capitale ed interesse. Aggiunge il comma successivo che per la parte non coperta dalla garanzia, anche per rinuncia, i creditori privilegiati sono equiparati ai chirografari, ma la rinuncia ha effetto soltanto ai fini del concordato. Non necessariamente la rinuncia sottende quello che in modo spregiativo viene considerato «mercato del voto»: può trattarsi di creditori che dal punto di vista economico sono «vicini» al debitore (pur senza integrare i casi di incompatibilità e di conseguente esclusione dal voto) o che, più semplicemente, ritengono che una porzione di soddisfacimento immediata e certa sia preferibile ad una intera, eventuale e dilatata nel tempo; oppure ancora potrebbe trattarsi di creditori che vantano garanzie collaterali su suggetti estranei al fallimento. Pertanto, tali creditori potrebbero, al fine di sostenere la buona riuscita del concordato, rinunciare a tal fine a tutto o ad una parte del privilegio, accontentandosi (per l'intero o la parte rinunciata) al medesimo trattamento offerto ai chirografari o, magari, ad una collocazione in classe autonoma e preferita rispetto a quelle deteriori di altri creditori chirografari. Sono al riguardo importanti due notazioni: a) la rinuncia parziale deve riguardare almeno un terzo delle ragioni di credito, comprensive di capitale ed interessi: si ritiene che la soglia minima sia rivolta, da un lato, ad evitare delle eccessive frammentazioni dei diritti e dei conseguenti interessi in sede di voto; dall'altro a mettere in grado il creditore di comprendere l'importanza della propria rinuncia, che potrebbe essere data «a cuor leggero» in caso avesse a riferimento una porzione del tutto esigua di credito; b) la rinuncia ha un effetto esclusivamente endo-concordatario: sotto ogni altro profilo, infatti, il credito continua ad essere privilegiato (si pensi al caso della mancata omologazione o alla risoluzione del concordato con riapertura del fallimento: in quella sede la rinuncia sarà priva di effetti) come pure ad essere integrale (si pensi all'esistenza di coobbligati o fideiussori, nei cui confronti il credito resta integralmente esercitabile per la parte non soddisfatta nel concordato). La rinuncia può talvolta assumere le forme della postergazione volontaria: si tratta del volontario accantonamento delle proprie ragioni di credito che potranno perciò essere soddisfatte, ad esempio, soltanto dopo una certa categoria di privilegiati, oppure — secondo altro patto parimenti utilizzato — al raggiungimento di una certa percentuale di soddisfacimento da parte dei chirografari. A differenza della postergazione legale, quella volontaria non pone particolari problemi: il rinunciante va certamente ammesso al voto per l'intero credito. La regola generale, infatti, è che sono chiamati a votare coloro che risentono effetti negativi dall'approvazione del concordato, ed è questa perciò la ragione, in ultima istanza, per cui i privilegiati integralmente pagati non sono ammessi al voto. Questo spiega altresì quell'orientamento più recente della Cassazione che, muovendo dalla regola generale per cui i privilegiati in assenza di un diverso patto concordatario dovrebbero essere pagati integralmente e subito dopo l'omologazione, ha ammesso la c.d. falcidia temporale, ossia il pregiudizio corrispondente alla dilatazione temporale del soddisfo, rispetto all'alternativa liquidatoria (questo incide ad es. anche sulla distinzione fra privilegi generali e privilegi speciali, questi ultimi legati alla capienza ed ai tempi di liquidazione per il realizzo). Sull'ammissione al voto dei postergati legali, invece, si rimanda per più ampie considerazioni a quanto osservato in relazione al voto nel concordato preventivo. In questa sede può essere utile ricordare che l'applicazione del ricordato principio generale — concernente l'ammissione al voto da parte di chi subisce un pregiudizio od effetti negativi dall'approvazione del concordato — dovrebbe portare ad escludere dal voto i postergati irrilevanti ed ammettere invece quelli cui la proposta riservi qualche forma di soddisfacimento, vuoi per l'ampiezza dell'attivo, vuoi attraverso un autonomo classamento e l'apporto di finanza esterna. Ulteriore questione, infine, sempre relativa alla falcidia volontaria, attiene alla possibilità di consentire una rinuncia implicita. Prima della riforma del 2006-2007 era previsto che «il voto per adesione deve essere esplicito ed importa rinuncia al diritto di prelazione per l'intero credito, se è dato senza dichiarazione di limitata rinuncia». Tale precisazione non è oggi presente e ci si chiede se, in particolare, l'esercizio del voto da parte di un creditore privilegiato possa comportare una implicita rinuncia alla prelazione. La questione è oggetto di divergenti opinioni. Probabilmente la stessa deve essere risolta in concreto verificando non solo se il voto è stato espresso, ma anche se e con quali modalità di precisazione del credito è accompagnato, nella consapevolezza che l'espressione di voto da parte di un privilegiato, di per sé considerata, potrebbe avere un elemento di dubbiezza e non implicare una rinuncia certa alla prelazione sottostante. In quel caso, più ragionevolmente, sarà il voto a non dover essere computato. Ancora, la falcidia può essere indipendente dalla volontà del creditore, bensì dipendere dalla composizione dell'attivo. È il caso dei privilegi speciali, in caso di mancanza o di incapienza del bene su cui la prelazione è destinata ad esercitarsi (ed anche in tal caso è la parte degradata in chirografo a segnare l'ammissione al voto). Ma è il caso, altresì, dei privilegi generali nell'ipotesi di insufficienza complessiva dell'attivo. In questo caso, evidentemente, il concordato si reggerà anche sull'apporto a titolo di finanza esterna di un terzo, semplice “sostenitore” della proposta, o vero e proprio assuntore del concordato. L'art. 127 comprende una serie di soggetti esclusi dal voto. Si tratta in primo luogo di soggetti aventi un particolare grado di collegamento parentale o di affinità con il fallito, che evidentemente vengono in rilievo soltanto quando questi sia una persona fisica. Si tratta del coniuge del debitore, dei suoi parenti ed affini fino al quarto grado, al fine di evitare che il loro interesse al voto possa minare la genuinità dei risultati dello stesso. Proprio per questo motivo, al fine di evitare altrimenti facili aggiramenti del divieto, sono equiparati ai primi ed esclusi dal voto anche i cessionari e gli aggiudicatari dei crediti di tali soggetti da meno di un anno prima della dichiarazione di fallimento. Ben più rilevante, invece, appare l'estensione di tale divieto ai crediti delle società controllanti o controllate o sottoposte a comune controllo: si tratta di una regola assoluta che non è influenzata dal fatto che il legislatore abbia consentito una estensione della legittimazione ad avanzare proposta di concordato fallimentare anche a tali soggetti. L'esclusione dal voto non è superabile per la presunzione assoluta di comunanza degli interessi con la società fallita e, quindi, ancora una volta volendo garantire la genuinità dell'esito del voto, potenzialmente attinto dalla partecipazione al voto di soggetti portatori di conflitto d'interessi. Su tale ultimo aspetto, anzi, sono recentemente intervenute le S.U. della Cassazione nel 2018 (v. infra).Anche i trasferimenti dei crediti avvenuti dopo la dichiarazione di fallimento non attribuiscono diritto di voto. Si è qui voluto evitare qualsiasi operazione di rastrellamento dei crediti preordinato ad incidere sulla votazione di una proposta di concordato magari già in corso di preparazione. Proprio a tal fine si spiega anche l'eccezione disciplinata dalla norma in esame: i trasferimenti di crediti a favore di banche e intermediari finanziari non sono penalizzati dalla perdita del diritto di voto, per la natura istituzionale o di finanziatore del soggetto cessionario. L'esito della votazione è segnato dal decorso del termine fissato dal g.d., minimo di 20 giorni e massimo di 30, entro i quali i creditori dovranno far pervenire presso la cancelleria del tribunale eventuali dichiarazioni di dissenso. In mancanza, infatti, il silenzio sarà considerato tacito consenso e computato ai fini del raggiungimento delle maggioranze. A quel punto il concordato è approvato se raggiunge la maggioranza favorevole dei crediti ammessi al voto (computando sia quelli espressi che taciti). Ove siano state previste delle classi di creditori, il concordato deve inoltre raggiungere la maggioranza nel maggior numero di classi votanti. Nel caso di voto su di una pluralità di proposte di concordato si considera approvata quella che abbia raggiunto il maggior numero di consensi e, in caso di parità, prevale secondo un ordine puramente cronologico quella che sia stata presentata per prima. Secondo l'importante decisione resa da Cass. S.U., n. 17186/2018, nel concordato fallimentare manca una previsione di carattere generale sul conflitto di interessi, come succede invece nell'ambito delle società (art. 2373 c.c. per la società per azioni e art. 2479-ter per quella a responsabilità limitata), essendo indicate, all'art. 127, commi 5 e 6, l. fall., soltanto alcune ipotesi di esclusione dal voto, dettate dall'esigenza di neutralizzare un conflitto in atto tra l'interesse comune della massa e quello del singolo, sicché il divieto di voto va esteso anche agli altri casi, pure non espressamente disciplinati, in cui sussiste il detto contrasto, come accade tra chi abbia formulato la proposta di concordato e i restanti creditori del fallito. Sulle modalità di espressione del voto, si è affermato che non è validamente espressa la comunicazione di dissenso sulla proposta di concordato fallimentare comunicata non alla cancelleria del tribunale, come prevede l'art. 125, comma 2, l. fall., bensì al curatore a mezzo PEC (cfr. Cass., n. 25416/2016). Con decisione incidente anche sul tema del voto del cessionario, si è affermato che in sede di accertamento del passivo fallimentare del debitore ceduto, il cessionario di un credito concorsuale è tenuto a dare la prova che la cessione è stata stipulata anteriormente al fallimento soltanto ai fini di una eventuale compensazione (art. 56, comma 2 l. fall.) ovvero ai fini del voto in un eventuale concordato fallimentare (art. 127, ultimo comma l. fall.), restando, altrimenti, opponibile al curatore anche se ha luogo nel corso della procedura; qualora, peraltro, il credito ceduto sia stato già ammesso al passivo, il cessionario dovrà limitarsi a seguire la procedura prevista dall'art. 115 l. fall., mentre, ove il credito non sia stato ancora ammesso al passivo, dovrà dare anche la prova del credito e della sua anteriorità al fallimento se venga in discussione la sua opponibilità (cfr. Cass. I, n. 10454/2014). OmologazioneUna volta terminate le votazioni il curatore redige una relazione sul loro esito e la presenta al giudice delegato. Prima della riforma era invece previsto che il g.d. accertasse l'esito delle votazioni e, nel caso di raggiungimento della maggioranza, dichiarasse aperto il giudizio di omologazione, mentre in caso contrario dichiarava respinta la proposta. La modifica, a parere dello scrivente, riflette da un lato la maggiore complessità del sistema di voto (soprattutto in caso di classi e/o di plurime proposte sottoposte al gradimento dei creditori), dall'altro implica che ogni eventuale questione sull'effettivo raggiungimento delle maggioranze, su errori di computo, sull'inclusione o meno di soggetti in conflitto di interessi, è destinata a spostarsi in sede di procedimento di omologazione. Quest'ultimo, a sua volta, a seguito della riforma si apre soltanto a seguito di impulso necessario e tempestivo del proponente. Il g.d., infatti, attualmente dispone che il curatore avvisi il proponente, affinchè possa richiedere l'omologazione del concordato, nonché i creditori dissenzienti e il fallito (quest'ultimo a mezzo raccomandata ove non sia possibile una comunicazione telematica). Emette altresì un decreto, sottoposto a pubblicazione nelle forme dell'art. 17 l. fall., al fine di garantire una minima forma di pubblicità notizia per gli eventuali soggetti, diversi dai creditori dissenzienti, che potrebbero avere interesse a presentare opposizione, con il quale fissa un termine non inferiore a 15 giorni e non superiore a 30 giorni per la proposizione di eventuali opposizioni e per il deposito definitivo di un parere da parte del comitato dei creditori che, in caso di inerzia, viene in questo caso surrogato da un parere del curatore. La richiesta di omologazione da parte del proponente è necessaria e deve essere avanzata tempestivamente. Per le forme il richiamo è all'art. 26 l. fall. che costituisce, quindi, l'archetipo di un procedimento camerale sottoposto al principio della domanda. Il ricorso va avanzato dal proponente mediante l'ausilio di un difensore. Si ritiene che il curatore sia una controparte necessaria dal punto di vista processuale, ma non una parte autonoma in senso sostanziale, così che egli è privo del diritto di proporre opposizione, pur potendo naturalmente interloquire. Nel caso in cui non siano presentate opposizioni, il procedimento appare deformalizzato e semplificato: il tribunale verificherà la regolarità della procedura e l'effettivo raggiungimento delle maggioranze di legge, procedendo poi alla omologazione senza poter affrontare il merito o la convenienza della proposta. Chi scrive ritiene preferibile anche in tal caso la fissazione di una udienza, potendo sorgere l'esigenza di chiedere delucidazioni o rilevare eventuali cause di inammissibilità o questioni che richiedono un contraddittorio con il proponente. Diffusa è tuttavia anche la prassi, nell'ipotesi di assenza di questioni rilevabili d'ufficio o contrarie all'omologazione, di provvedimento de plano in camera di consiglio, naturalmente all'esito della richiesta di omologazione da parte del proponente e del deposito del parere definitivo da parte del c.d.c. o, in via surrogatoria, del curatore. Nel caso in cui siano presentate una o più opposizioni alla omologazione, la decisione a seguito di udienza appare necessitata. Anche per l'opposizione sono richiamate le forme dell'art. 26 l. fall. e si ritiene, pertanto, che debba essere proposta attraverso l'ausilio di un difensore tecnico. Legittimato all'opposizione è, come afferma l'art. 129 l. fall., qualunque interessato. Si tratta di una legittimazione più ampia, quindi, rispetto a quella dei creditori dissenzienti e degli stessi creditori ammessi al voto. Si pensi a chi avesse proposto un diverso concordato non messo al voto perché inoptato dal c.d.c., oppure al convenuto con azione revocatoria che, in caso di cessione della relativa azione all'assuntore, possa risentirne un qualche pregiudizio; oppure, ancora, può trattarsi di un creditore privilegiato che si dolga del trattamento parziale ad egli riservato, ecc... Parallelamente molto ampia è l'area dei motivi di opposizione: può trattarsi di motivi di legittimità o attinenti la regolarità della procedura, come pure di motivi legati alla fattibilità del concordato od alla sua convenienza. Naturalmente una contestazione di convenienza appare preclusa per il creditore che abbia votato favorevolmente sulla proposta di concordato. Le parti del procedimento di omologazione in tal caso sono il proponente e l'opponente, mentre devono partecipare al procedimento anche il curatore ed il fallito. Non è invece parte del procedimento di omologazione il pubblico ministero, a seguito dell'abrogazione dell'art. 132 l. fall. Il procedimento segue le forme dell'art. 26, quindi si ritiene che il proponente debba richiedere l'omologazione entro il termine di 10 giorni dal ricevimento della comunicazione dell'approvazione della proposta di concordato. Si ritiene altresì che il tribunale possa assumere sommarie informazioni e compiere atti istruttori, anche d'ufficio. All'esito, il tribunale può omologare con decreto il concordato, dettando disposizioni sulle modalità di sorveglianza del suo adempimento; in caso contrario, sempre con un provvedimento avente la forma del decreto, provvederà al rigetto della omologazione. In entrambi i casi il provvedimento deve essere motivato. Il decreto emesso in presenza di opposizioni è reclamabile alla Corte d'appello secondo principio di soccombenza: si tratterà del proponente in caso di accoglimento dell'opposizione o dell'opponente in caso di rigetto della stessa e pronuncia di omologa. Il curatore non è legittimato al reclamo, mentre il fallito appare legittimato in relazione al ruolo che abbia assunto nel procedimento di omologazione ed alla sussistenza di un interesse concreto ed attuale, ad es. collegato alla sua esdebitazione. Il reclamo va proposto nel termine di 30 giorni dalla notificazione del decreto. La decisione del reclamo è a sua volta ricorribile per Cassazione (v. art. 129 l. fall.). Si ritiene invece che, ricorrendone i presupposti, il decreto emesso in assenza di opposizioni sia esclusivamente ricorribile per cassazione, ex art. 111 cost. Secondo Cass. I, n. 22045/2016, nel concordato fallimentare, la valutazione dell'interesse di cui all'art. 129 l. fall., necessario ai fini della legittimazione all'opposizione, implica un accertamento in concreto e suppone che sia dedotta l'incidenza negativa del concordato, rispetto al fallimento, sulla situazione giuridica di cui l'opponente è titolare; l'opponente, come del resto il creditore dissenziente, deve, infatti, avere una ragione oggettiva per opporsi al concordato, dovendo egli quantomeno allegare uno svantaggio per la posizione sostanziale, derivante dalla soluzione concordataria e non, invece, dal fallimento (nel caso di specie, è stata cassata la decisione della corte di merito nella parte in cui ha ritenuto l'azionista di per sé legittimato a opporsi all'omologazione del concordato fallimentare). Sempre in tema di legittimazione, Cass. n. 11887/2014, ha ritenuto che il creditore che abbia proposto domanda di ammissione tardiva al passivo fallimentare ai sensi dell'art. 101 l. fall. (nella formulazione vigente anteriormente al d.lgs. n. 5/2006) non ha, in pendenza del relativo giudizio, la legittimazione ad impugnare il decreto di omologazione del concordato fallimentare con il ricorso straordinario ex art. 111 Cost., facendo valere non già vizi propri dell'atto impugnato, ma questioni attinenti all'opportunità e/o alla convenienza dello stesso; tali ultime questioni, infatti, possono essere proposte dal creditore non ancora ammesso al passivo, quale soggetto interessato, solo con l'opposizione prevista dall'art. 129 l. fall. Con riferimento allo spettro valutativo del tribunale, Cass. I, n. 24359/2013, ha sostenuto che a seguito della riforma di cui al d.lgs. n. 5/2006 e al d.lgs. n. 169/2007, nel giudizio di omologazione del concordato fallimentare il controllo del tribunale è limitato alla verifica della regolarità formale della procedura e dell'esito della votazione — salvo che non sia prevista la suddivisione dei creditori in classi ed alcune di esse risultino dissenzienti — restando escluso ogni controllo sul merito, ad eccezione dell'indagine sull'eventuale abuso dell'istituto; la valutazione sul contenuto della proposta concordataria, riguardando il profilo della convenienza, è, invece, devoluta ai creditori, sulla base del parere inerente ai presumibili risultati della liquidazione formulato dal curatore e dal comitato dei creditori, mentre al giudice delegato spetta soltanto un controllo sulla ritualità della proposta medesima. Su tale scia, ha affermato il Trib. Udine, 18 Maggio 2012, che in assenza di opposizioni all'omologazione del concordato fallimentare, al tribunale è sottratto qualsiasi potere di indagare sulla convenienza della proposta, essendo rimessa ogni valutazione di merito all'esclusivo giudizio dei creditori concorrenti e ciò anche nel caso in cui, in relazione all'incapienza dell'attivo, sia stata prevista soltanto una soddisfazione parziale dei creditori privilegiati ammessi al passivo, configurandosi invero la proposta concordataria totalmente remissoria per il creditori chirografari; l'unico limite infatti che incontra oggi la proposta di concordato fallimentare è quello della meritevolezza della tutela del modello negoziale proposto, in base al principio generale fissato dall'art 1322 c.c.; meritevolezza che può considerarsi certamente rispettata quando i creditori accettino il pagamento parziale del loro credito privilegiato, rinunziando alla parte retrocessa a chirografo, essendo nel nostro ordinamento ammessa la rinuncia al credito, ai sensi dell'art. 1236 c.c. Secondo Cass. I, n. 16738/2011, in tema di concordato fallimentare, la valutazione dei cespiti costituenti l'attivo fallimentare, demandata al giudice in sede di omologazione, non ha ad oggetto l'accertamento della convenienza della proposta, ma il controllo in ordine alla legittimità della procedura, sotto il profilo dell'osservanza degli adempimenti prescritti e della correttezza dell'informazione fornita ai creditori attraverso la relazione giurata ed i pareri richiesti dall'art. 125 l. fall., nonché la verifica delle condizioni approvate, nei limiti imposti dalla finalità di assicurare un ragionevole equilibrio tra la soddisfazione delle pretese dei creditori e la salvaguardia dei diritti del debitore. Tale equilibrio non può ritenersi compromesso dalla mera inferiorità della stima compiuta dall'esperto rispetto a quella effettuata dal c.t.u., quando il giudice tenga conto delle effettive possibilità di realizzo del valore del compendio immobiliare in caso di vendita forzata, in ossequio al disposto dell'art. 124, comma 3, l. fall., secondo il quale il valore di mercato dei cespiti o dei crediti acquisiti all'attivo costituisce null'altro che un riferimento ai fini della determinazione di quanto sarebbe possibile ricavare dalla vendita, utile a consentire ai creditori, in sede di approvazione del concordato, e al giudice, in sede di omologazione, una valutazione in ordine alle possibilità di soddisfazione dei crediti. Sul procedimento di omologazione, Cass. I, n. 22271/2017, ha affermato che poichè l'opposizione all'omologazione del concordato fallimentare si propone mediante ricorso a norma dell'art. 26 l. fall., richiamato dall'art. 129, comma 3, l. fall., trova applicazione l'art. 36-bis l.fall. a mente del quale tutti i termini processuali previsti negli artt. 26 e 36 l. fall. non sono soggetti alla sospensione feriale. In tema di impugnazione del decreto di omologazione, cfr. la recente Cass. I, n. 19461/2021, secondo cui avverso il decreto di omologazione pronunciato in assenza di opposizioni, ai sensi dell'articolo 129, comma 4, della legge Fallimentare, non è legittimato alla presentazione del ricorso immediato per cassazione ex articolo 111 della Costituzione il creditore che abbia ricevuto la comunicazione individuale del deposito del decreto ex articolo 129, comma 2, della legge Fallimentare e che sia stato conseguentemente posto nelle condizioni di poter proporre opposizione (facoltà non esercitata) nel termine ex articolo 129, comma 3, della legge Fallimentare; tale legittimazione spetta, pertanto, solo a quei soggetti potenzialmente interessati al decreto di omologa del concordato fallimentare che, pur pienamente identificabili dall'esame degli atti della procedura fallimentare, non abbiano ricevuto la comunicazione del decreto del Gd riportante la proposta di concordato. Sempre in tema di controllo giudiziale, Cass. I, n. 15168/2021 ha pure precisato che l'assuntore del concordato fallimentare è legittimato a ricorrere per cassazione avverso il decreto di liquidazione del compenso del curatore fallimentare, trattandosi di questione destinata ad incidere sulla commisurazione dell'impegno da lui assunto. Segue: profili fiscaliDiversi sono gli «incentivi» fiscali connessi alla ristrutturazione del debito mediante concordato fallimentare. In primo luogo, è da dirsi che, secondo l'opinione preferibile, nell'ambito del concordato fallimentare non trova applicazione l'istituto della transazione fiscale, mentre l'unica norma che disciplina il trattamento da riservare ai creditori privilegiati è l'art. 124, comma 3 l. fall., sicchè non vi sono preclusioni di sorta al pagamento parziale dell'Iva e dei crediti previdenziali (App. Genova, 28 giugno 2017). In contrario, la più recente decisione di Trib. Teramo, 19 aprile 2021, ha ritenuto che il tribunale abbia il potere-dovere di omologare in via sostitutiva la transazione fiscale e contributiva non solo nelle ipotesi di “mancanza di voto” (nel concordato preventivo) o “di mancanza di adesione” (nell'accordo di ristrutturazione dei debiti) dell'amministrazione finanziaria e degli enti previdenziali, ma anche in caso di voto negativo o di rigetto dell'adesione da parte dell'erario (aderendo alla tesi estensiva) anche in sede di concordato fallimentare. La recente Cass. V, n. 11925/2021, ha però ritenuto che in tema d'imposta di registro, al decreto di omologa del concordato fallimentare, con intervento di terzo assuntore, deve essere applicato il criterio di tassazione correlato all'art.8, lett. a),della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, con commisurazione dell'imposta in misura proporzionale al valore dei beni e dei diritti fallimentari trasferiti e con esclusione, dalla base imponibile, del contestuale accollo dei debiti collegato a detta cessione dei beni fallimentari. In secondo luogo, va ricordato che nella Risoluzione 27/2012 l'Agenzia delle Entrate, modificando la precedente impostazione esposta nella Risoluzione 28/2008, che aveva sollevato profili critici di costituzionalità, si afferma che «il concordato con cessione dei beni non comporta il trasferimento dei beni, giustificativo dell'imposizione proporzionale» e quindi stabilisce che: - «i decreti di omologazione dei concordati con garanzia, così come quelli aventi ad oggetto i concordati con cessione dei beni, devono essere assoggettati ad imposta di registro in misura fissa, in quanto annoverabili tra gli atti di cui alla lettera g) dell'art. 8 della Tariffa, parte prima, allegata al TUR, relativa agli «atti di omologazione». - «la tassazione in misura fissa non trova, invece, applicazione nel caso di concordato con trasferimento dei beni al terzo assuntore. In tale ipotesi, infatti, il decreto di omologa del concordato che dispone la cessione dei beni al terzo assuntore assume natura traslativa». Ancora, l'art. 88 TUIR, anche nel testo modificato nel 2015, riconferma che (cfr. comma 4-ter) che «non si considerano ... sopravvenienze attive le riduzioni dei debiti dell'impresa in sede di concordato fallimentare o preventivo liquidatorio o di procedure estere equivalenti». Viene inoltre in rilievo la deducibilità delle perdite, che può rappresentare una utilità non indifferente a fronte della (parziale o totale) rinuncia al proprio diritto. L'art. 101 TUIR comma 5 e 5- bis stabilisce al riguardo che «Le perdite di beni di cui al comma 1, commisurate al costo non ammortizzato di essi, e le perdite su crediti, diverse da quelle deducibili ai sensi del comma 3 dell'articolo 106, sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e in ogni caso, per le perdite su crediti, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali o ha concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell'art. 182-bis del r.d. n. 267/1942 o un piano attestato ai sensi dell'art. 67, comma 3, lettera d), del r.d. n. 267/1942 o è assoggettato a procedure estere equivalenti, previste in Stati o territori con i quali esiste un adeguato scambio di informazioni. Ai fini del presente comma, il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o del decreto di omologazione dell'accordo di ristrutturazione o del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi o, per le procedure estere equivalenti, dalla data di ammissione ovvero, per i predetti piani attestati, dalla data di iscrizione nel registro delle imprese. Gli elementi certi e precisi sussistono in ogni caso quando il credito sia di modesta entità e sia decorso un periodo di sei mesi dalla scadenza di pagamento del credito stesso. Il credito si considera di modesta entità quando ammonta ad un importo non superiore a 5.000 euro per le imprese di più rilevante dimensione di cui all'art. 27, comma 10, del d.l. n. 185/2008, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 2/2009, e non superiore a 2.500 € per le altre imprese. Gli elementi certi e precisi sussistono inoltre quando il diritto alla riscossione del credito è prescritto. Gli elementi certi e precisi sussistono inoltre in caso di cancellazione dei crediti dal bilancio operata in applicazione dei principi contabili. Per i crediti di modesta entità e per quelli vantati nei confronti di debitori che siano assoggettati a procedure concorsuali o a procedure estere equivalenti ovvero abbiano concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti o un piano attestato di risanamento, la deduzione della perdita su crediti è ammessa, ai sensi del comma 5, nel periodo di imputazione in bilancio, anche quando detta imputazione avvenga in un periodo di imposta successivo a quello in cui, ai sensi del predetto comma, sussistono gli elementi certi e precisi ovvero il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale, semprechè l'imputazione non avvenga in un periodo di imposta successivo a quello in cui, secondo la corretta applicazione dei principi contabili, si sarebbe dovuto procedere alla cancellazione del credito dal bilancio. Va inoltre ricordata la recente riposta a quesito n. 55 del 30 ottobre 2018, con cui l'Ag. Entrate ha affrontato il tema del costo fiscalmente riconosciuto delle attività fallimentari in capo all'assuntore di concordati fallimentari — art. 110, comma 1, TUIR. In sintesi, secondo tale documento il costo fiscale va rapportato all'esborso finanziario effettivamente sostenuto dall'assuntore e ripartito fra i vari asset in modo da riflettere il reale valore dei beni o diritti acquisiti dal terzo. Avverte l'ente fiscale che “a tal fine, il parere reso dal curatore ai sensi dell'articolo 125 della l.fall. può rappresentare un utile riferimento se e nella misura in cui rifletta il valore reale delle attività” fallimentari acquisite. Esecuzione, risoluzione, annullamento del concordato fallimentareL'efficacia del concordato fallimentare è condizionata dall'art. 130 a due presupposti fra loro alternativi: a) il decorso dei termini per proporre opposizione ex art. 129 l. fall.; b) l'esaurimento delle impugnazioni con conseguente definitività del decreto di omologazione. Tale alternativa è la conseguenza del doppio binario del giudizio di omologazione di cui si è detto: in assenza di opposizioni, infatti, non solo lo stesso risulta semplificato, ma il concordato acquista un'efficacia anticipata rispetto allo stesso decreto, ciò che può rilevare, ad es. per l'esigibilità di taluni pagamenti o adempimenti da parte del terzo, garante o assuntore che sia. Va ricordato che, ai sensi dell'art. 135 l. fall. l'efficacia obbligatoria del concordato si estende a tutti i creditori anteriori, anche a coloro che non avessero fatto insinuazione allo stato passivo; tuttavia questi ultimi non potranno avvalersi delle eventuali garanzie date da terzi nel concordato medesimo. Per il fallito l'omologazione del concordato determina: a) l'obbligo di costituire le garanzie promesse, se già non rilasciate in precedenza; b) l'obbligo di pagare alle scadenze previste la percentuale promessa ai creditori, secondo il loro diverso rango; c) il riacquisto dei propri diritti, patrimoniali e (nel caso di fallimento individuale) anche personali. L'esecuzione del concordato determina a sua volta l'esdebitazione, pur se i creditori mantengono integre le loro ragioni contro i coobbligati, i fideiussori del fallito e gli obbligati in via di regresso. Il concordato può prevedere l'immediata liberazione del debitore quando sia previsto l'accollo liberatorio delle obbligazioni da parte di un assuntore: in tal caso è altresì inapplicabile la risoluzione del concordato per inadempimento. L'efficacia non può mai essere immediatamente liberatoria se il terzo proponente ha limitato la propria responsabilità nei confronti dei creditori non ammessi allo stato passivo. La chiusura del fallimento non è, invece, immediata e in ogni caso deve essere preceduta dal rendimento del conto da parte del curatore, adempimento generale e da effettuare in qualunque ipotesi di chiusura della procedura fallimentare e prima di poter procedere con la liquidazione del compenso al predetto organo. Destinatari del rendiconto sono sia il fallito, che i creditori concorsuali, ma anche il terzo che abbia assunto obblighi in ragione del concordato fallimentare. Il decreto di approvazione del conto è reclamabile e, incidendo su diritti soggettivi, la decisione sul reclamo è successivamente ricorribile in cassazione. Peraltro, l'omologazione del concordato fa rimanere in carica il curatore, ai soli fini della sorveglianza sull'adempimento della proposta. La ratio di tale previsione consiste nell'idea di evitare che l'esecuzione del concordato fallimentare, che si ricorda si innesta su un fallimento già aperto, sia integralmente lasciato ai rapporti privatistici diretti fra debitore (o assuntore) e creditori, permanendo un interesse pubblicistico alla realizzazione del concordato stesso. Sicuramente resta in carica anche l'organo giudiziale, pur se si discute dell'ambito dei relativi poteri (residui), i quali vanno ricondotti all'esercizio di una giurisdizione puramente esecutiva, concernente altresì eventuali accantonamenti come pure la verifica della completa esecuzione del concordato, cui è collegato — ex art. 136, comma 3 l. fall. — l'ordine relativo allo svincolo delle cauzioni e la cancellazione di eventuali ipoteche. Afferma l'art. 137 l. fall., ancora, che se le garanzie promesse non vengono costituite o se il proponente non adempie regolarmente gli obblighi derivanti dal concordato, allora ciascuno dei creditori può domandarne la risoluzione. Sulla risoluzione del concordato fallimentare valgono in linea generale le stesse considerazioni svolte con riguardo alla risoluzione del concordato preventivo (art. 186 l.fall.), al cui commento quindi si rinvia per ogni ulteriore considerazione. In questa sede si deve ricordare che la legittimazione spetta a ciascun creditore, purchè deve ritenersi egli risenta un pregiudizio dall'inadempimento denunciato. Da notare che non sono legittimati i creditori verso i quali il terzo non abbia assunto alcuna responsabilità concordataria, il che è evidentemente giustificato dal fatto che per questi ultimi l'esecuzione del concordato o il suo inadempimento non produce un pregiudizio, ma rappresenta una sorta di res inter alios acta. Al riguardo, può notarsi che la norma non richiama il concetto di gravità, che è invece espressamente richiesto dall'art. 186 l. fall. per la risoluzione del concordato preventivo. Ciò da un lato appare collegato alla privatizzazione più evidente impressa dalle riforme al concordato preventivo, nonché alla specifica funzione di quest'ultima procedura che è quella di evitare un fallimento, mentre nel caso di specie si arriva al concordato partendo da un fallimento già aperto, risultando perciò più ragionevole che l'inadempimento si rifletta, venendo meno il beneficio premiale ad esso collegato, in termini più netti sulla persistenza dell'opzione concordataria. D'altro lato, nel caso del concordato fallimentare la sua risoluzione determina con sentenza la riapertura — anche in assenza di apposita domanda — della procedura fallimentare originaria. Questo non toglie che resti affidata alla verifica in concreto se qualche scostamento o inadempimento minimale appaia talmente irrisorio, rispetto all'interesse generale dei creditori, da condurre comunque al rigetto dell'istanza di risoluzione. Invece la mancata prestazione di garanzie promesse è giudicata ex ante sempre idonea a determinare la risoluzione del concordato fallimentare, per l'evidente rilievo che simile promessa ed utilità ha nella determinazione al consenso da parte dei creditori. L'istanza di risoluzione deve essere proposta nel termine di un anno dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto nel concordato. Ove un tale adempimento non sia stato fissato in termini specifici e netti dalla proposta, deve ritenersi che l'anno decorra dall'ultimo atto esecutivo del concordato fallimentare. Al procedimento di risoluzione deve partecipare anche il terzo garante. Il provvedimento è reso dal tribunale e si tratterà di un decreto reclamabile nel caso di rigetto, ovvero di una sentenza che, riaprendo automaticamente il fallimento, risulta sottoposta al relativo gravame. La disciplina dell'annullamento del concordato fallimentare è prevista nell'art. 138 l. fall. ed è sostanzialmente comune a quella del concordato preventivo, posto il rinvio dell'art. 186 alla precedente disposizione. In questo caso il rimedio è dato quando si scopre che è stato dolosamente esagerato il passivo, ovvero sottratta o dissimulata una parte rilevante dell'attivo. Ragioni di certezza giuridica importano che, in questo caso, il termine per la relativa richiesta giudiziale sia di sei mesi dalla scoperta del dolo e, in ogni caso, non oltre due anni dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento concordatario. Anche in questo caso, come nel concordato preventivo, si può assistere ad una tendenza espansiva dell'ambito di applicabilità della norma, collegandolo al più generale concetto di atto di frode, ex art. 173 l. fall., ed alla correlativa esigenza di tutela della genuinità del consenso espresso dai creditori in ordine alla completezza ed attendibilità delle informazioni offerte dal proponente. In termini generali, la Cass. I, n. 11027/2013, ha ritenuto che in tema di procedure concorsuali, il divieto di azioni esecutive per i creditori anteriori al fallimento sancito dall'art. 51 l. fall. permane, anche per quelli rimasti ad esso estranei, fino all'esecuzione (o risoluzione o annullamento) del concordato fallimentare il cui provvedimento di omologazione sia stato regolarmente trascritto. Ai sensi dell'art. 136 l. fall., una volta omologato il concordato fallimentare, al curatore spetta esclusivamente — di concerto con gli altri organi della procedura — di sorvegliarne l'adempimento, essendo peraltro prevista espressamente oggi, con la novella introdotta dal d.lgs. n. 5 del 2006, anche la necessità, dopo l'approvazione del rendiconto finale del curatore, di un formale provvedimento di chiusura del fallimento (art. 130, comma 2, l.fall.), con conseguente «decadenza» degli organi del fallimento (art. 120, comma 1, l.fall.) (così Cass. I, n. 22284/2016). La stessa decisione ha inoltre precisato che in ipotesi di fallimento riaperto in seguito alla risoluzione di un concordato fallimentare per inadempimento agli obblighi assunti con la proposta di concordato, la legittimazione ad agire in giudizio, per far valere la garanzia prestata da un terzo per l'esecuzione del concordato poi risolto, non spetta al curatore del fallimento, bensì ai singoli creditori ammessi al passivo prima del concordato, atteso che sono questi ultimi a conservare, nel caso di riapertura del fallimento, ai sensi dell'art. 140, comma 3, l. fall., il diritto di garanzia verso il terzo, nonostante la risoluzione del concordato; pertanto, in mancanza di una espressa previsione normativa, non ricorre un'ipotesi di sostituzione processuale ai sensi dell'art. 81 c.p.c. Sugli adempimenti successivi alla chiusura del fallimento per intervenuto concordato fallimentare omologato, Trib. Napoli, 22 settembre 2015 ha ritenuto che per il caso specifico della cancellazione di una società fallita dal registro delle imprese, la formalità è prevista esclusivamente dall'art. 118, comma 2 l. fall. per le sole ipotesi di fallimento di una società chiuso ai sensi dell'art. 118, comma 1, nn. 3 e 4 l. fall.; la scelta di legislatore (della riforma fallimentare del 2006), di prevedere la cancellazione dell'ente da parte del curatore e l'iscrizione camerale dell'evento solo in queste due ipotesi, si giustifica per il fatto che in entrambi i casi presi in considerazione dall'art. 118, alla chiusura del fallimento — comunque non completamente satisfattoria per i creditori — non residui alcun bene del patrimonio della fallita. È evidente che in tal modo la società si trovi nell'impossibilità di conseguire l'oggetto sociale e, quindi, in una situazione liquidatoria; di più, con una liquidazione (concorsuale) già definita e conclusa. Il legislatore non ha previsto l'iscrizione della cancellazione della società in ipotesi di chiusura del fallimento a seguito esecuzione di un concordato fallimentare. Ciò anche perché il piano concordatario può anche prescindere dalla cessione dei beni sociali ai creditori e, quindi, dall'azzeramento del patrimonio della società; l'ordinamento non prevede un effetto legale di cancellazione a carico della società già fallita, derivante dalla definizione concordataria né, di conseguenza, il dovere di pubblicizzare l'evento. L'ostensibilità ai terzi delle vicende della fallita, viene assicurata dalla prescrizione contenuta dall'art. 130 cit., a proposito dell'annotazione camerale del decreto di chiusura del fallimento per avvenuta esecuzione di un concordato. Si è ritenuto — con pronuncia estensibile al concordato fallimentare — che il decreto con cui il tribunale autorizza la chiusura della procedura di concordato preventivo, avendo natura di atto esecutivo di funzioni di mera sorveglianza e controllo, non incide sui diritti soggettivi delle parti e non ha efficacia preclusiva rispetto all'azionabilità in sede di ordinario giudizio di cognizione delle questioni aventi ad oggetto i diritti dei creditori; pertanto è privo dei connotati della decisorietà e della definitività e non può essere oggetto di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (così Cass. I, n. 23272/2006). Con affermazioni applicabili, mutatis mutandis, anche al concordato fallimentare, Trib. Ravenna, 27 luglio 2018, ha affermato che la domanda di risoluzione per inadempimento del concordato preventivo può essere proposta dal creditore che, indipendentemente dalla rilevanza del credito vantato, affermi l'esistenza di un proprio pregiudizio e non si limiti a prospettare un depauperamento in capo ad altri creditori. La rilevanza dell'inadempimento del concordato preventivo consiste in un pregiudico rilevante in capo ai creditori che si rifletta in modo esiziale sull'equilibrio e sul fondamento dell'impianto obbligatorio come ridisegnato dalla accettazione dei creditori e dal provvedimento di omologazione. Se è vero che per i concordati soggetti alla nuova disciplina di cui alla l. n. 132/2015 la soglia minima del 20% di pagamento dell'ammontare dei crediti chirografari costituisce il termine di raffronto per giudicare la gravità dell'inadempimento, per i concordati anteriori la natura liquidatoria del piano non impedisce l'applicazione delle norme sulla risoluzione quando, anche in mancanza di un termine certo per l'esecuzione dei pagamenti, le prospettive di liquidazione appaiano del tutto compromesse. Il termine annuale ex art. 137 l. fall. (principio, questo, perfettamente adattabile all'identica disposizione contenuta nell'art. 186 l. fall.) deve intendersi come un termine decadenziale e perentorio, che decorre dall'esaurimento delle operazioni di liquidazione solo nel caso in cui non sia stata fissata nel concordato la data di scadenza dell'ultimo pagamento, costituente, appunto, il dies a quo della decorrenza del termine annuale (cfr. App. Genova, 20 febbraio 2013). Detto termine annuale di cui all'art. 186, comma 3, l. fall. ai fini della richiesta di risoluzione del concordato preventivo ha natura decadenziale, conseguendone che il suo mancato rispetto, ove non eccepito dal debitore costituito, non può essere rilevato d'ufficio dal tribunale fallimentare, trattandosi di statuizione alla quale è applicabile il principio generale della non rilevabilità d'ufficio delle questioni di decadenza (cfr. art. 2969 c.c.), posto che la semplice richiesta di risoluzione del concordato non appartiene alla materia dei diritti indisponibili. Da ricordare che la risoluzione del concordato fallimentare produce automaticamente la riapertura della procedura fallimentare. La diversa soluzione adottata per il concordato preventivo, nella cui sede occorre una richiesta di fallimento, è stata giudicata costituzionalmente legittima e non irragionevole dalla recente Corte cost., n. 222/2017. Sugli effetti della riapertura della procedura fallimentare, si è osservato che tale riapertura (nella specie a seguito di inadempimento del concordato fallimentare) integra una semplice prosecuzione (una «riviviscenza») della procedura originaria, con la conseguenza che il debito assunto dal fallito in costanza della fase iniziale del suo fallimento rimane inefficace rispetto ai creditori anche nella fase successiva (così Cass. I, n. 2184/2017). Tuttavia, Cass. I, n. 19604/2017, ha precisato che in tema di concordato fallimentare, la sua risoluzione determina ex art. 140, comma 3, l.fall. l'acquisizione della cauzione versata all'atto della domanda, quale conseguenza del trasferimento a carico del proponente del rischio della mancata attuazione della proposta; ciò sia nel caso di proposta formulata dal debitore che da un terzo assuntore, non estraneo all'iniziativa e dunque alla funzione della cauzione di evitare iniziative fraudolente o dilatorie a supporto della serietà della proposta concordataria. Ha ritenuto Cass. I, n. 11395/2016, che presupposto dell'annullamento, ai sensi dell'art. 138 l. fall. (richiamato dall'art. 186, ult. comma, l. fall.) è unicamente l'accertata sottrazione o dissimulazione di una parte rilevante dell'attivo che ha indotto i creditori a votare nell'erroneo convincimento della sua insussistenza, mentre a nulla rileva che l'attività sottratta o dissimulata possa eventualmente essere recuperata al di fuori della procedura. BibliografiaAA.VV., Codice della crisi di impresa, diretto da Di Marzio, Milano, 2017; AA.VV., Commentario breve alla Legge Fallimentare, a cura di Maffei Alberti, Padova, 2013; Aa.Vv., La legge fallimentare, a cura di Ferro, Padova, 2014; Ambrosini, La proposta di concordato fallimentare, In AA.VV., Il concordato fallimentare, Bologna, 2008; Bonfatti, Censoni, Manuale di diritto fallimentare», Padova, 2011; De Marchi, Concordato fallimentare, Bologna, 2008; De Matteis, Graziano, Manuale del concordato preventivo, Rimini, 2013; Di Cataldo, Il concordato fallimentare con assuntore, Milano, 1976; Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2010; Jeantet, Vallino, Classi e categorie di creditori, in ilfallimentarista.it, 24 aprile 2018; Jorio, Fallimento e concordato fallimentare, Torino, 2016; Lamanna, Il Codice concorsuale in dirittura d'arrivo con le ultime modifiche ministeriali al testo della Commissione Rordorf, (Parte I e II), in ilfallimentarista.it, 17 ottobre 2018; Nigro, Pacchi, Il concordato fallimentare, Milano, 2008; Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese: le procedure concorsuali, Bologna, 2009; Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010. |