Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 160 - Presupposti per l'ammissione alla procedura 1 2
L'imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano che può prevedere: a) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito; b) l'attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore; possono costituirsi come assuntori anche i creditori o società da questi partecipate o da costituire nel corso della procedura, le azioni delle quali siano destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato; c) la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei; d) trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse. La proposta puo' prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purche' il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, inragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d). Il trattamento stabilito per ciascuna classe non puo' avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione3. Ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza4 In ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuita' aziendale di cui all'articolo 186-bis5
[1] Articolo sostituito dall'articolo 2, comma 1 del D.L. 14 marzo 2005, n. 35. [2] Rubrica modificata dall'articolo 12, comma 1, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007. [3] Comma aggiunto dall'articolo 12, comma 2, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007. [4] Comma aggiunto dall'articolo 36 del D.L. 30 dicembre 2005, n. 273. [5] Comma aggiunto dall'articolo 4, comma 1, lettera a), del D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2015, n. 132 ; per l'applicazione vedi l'articolo 23, comma 1, del medesimo decreto. InquadramentoLa norma in esame delinea i caratteri fondamentali del concordato preventivo, istituto certamente oggi centrale fra i diversi procedimenti di regolamentazione della crisi diversi dal fallimento. Tale istituto era ignoto al Codice di commercio del 1882 ed era utilizzata, in sostituzione, la c.d. moratoria, con uno scopo ben più limitato: con essa il debitore che avesse cessato i pagamenti — qualora avesse dimostrato che tale situazione era ascrivibile ad avvenimenti straordinari ed imprevedibili, e che inoltre l'attivo patrimoniale superava il passivo — poteva richiedere ed ottenere una dilazione temporale al fine di eseguire i pagamenti dovuti. Solo nel 1903 la moratoria venne sostituita dal concordato, modellato come una forma di sistemazione del dissesto concordata, appunto, fra il debitore ed i propri creditori che, in quanto accettata da questi ultimi, risultava idonea ad evitare la dichiarazione di fallimento. Da qui l'aggettivo «preventivo», volendosi appunto sottolineare che questa forma di concordato — a differenza di quello fallimentare — ha sostanzialmente lo scopo di evitare la dichiarazione di fallimento e si pone in via preventiva rispetto a tale eventuale pronuncia. Ulteriore non meno importante funzione perseguita è, inoltre, quella della esdebitazione: cioè la cancellazione dei debiti originari non soddisfatti attraverso l'adempimento delle obbligazioni assunte con il concordato, normalmente pari ad una percentuale di quelle complessive. È affermazione comune che gli obiettivi della riforma (che ha contraddistinto la legge fallimentare negli anni 2006-2007) si sarebbero sviluppati secondo una triplice direzione: l'accelerazione della procedura (rispetto al passato); la prevenzione (rispetto al fallimento, ma anche rispetto alla degenerazione della situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell'impresa); e la privatizzazione della soluzione o della regolazione della crisi (Bonfatti-Censoni, 516). Da sempre discussa è, poi, soprattutto dopo le riforme, la natura dell'istituto. Parte della dottrina, infatti, da un lato sottolinea la privatizzazione del concordato preventivo in ragione dell'atipicità della proposta e del piano sottostante, della falcidiabilità (cioè della possibilità di proporre un pagamento parziale) anche dei crediti privilegiati, nonché dell'incontro di volontà fra proponente e creditori per il tramite del voto. Mentre altra non meno importante parte degli studiosi, nonché la prevalente giurisprudenza, hanno piuttosto evidenziato come le «aperture» delle riforme non abbiano intaccato gli aspetti pubblicistici insiti nella verifica giudiziale di ammissibilità, nel controllo di regolarità della procedura e nel provvedimento di omologazione, che conferisce efficacia erga omnes all'accordo raggiunto con i creditori. Il nuovo Codice della crisi e dell'insolvenza (CCI), approvato con il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (pubblicato sulla G.U. n. 38 del 14 febbraio 2019), regola il concordato preventivo, fondamentalmente, agli artt. 84 —120, con disposizioni destinate ad entrare definitivamente in vigore dopo una vacatio legis di 18 mesi. Due delle norme certamente più discusse, collocate nella parte relativa al c.d. procedimento uniforme, sembrano andare nel senso di rafforzare la natura “pubblicistica” del concordato preventivo: sia l'art. 47, in sede di ammissione, che l'art. 48 in sede di omologazione, chiariscono infatti che il tribunale è chiamato a verificare l'ammissibilità giuridica della proposta, ma anche la fattibilità economica del piano. Secondo Cass. I, n. 18738/2018, il concordato preventivo deve essere risolto, a norma dell'art. 186 l. fall., qualora emerga che esso sia venuto meno alla sua funzione di soddisfare i creditori nella misura promessa, a meno che l'inadempimento non abbia scarsa importanza, a prescindere da eventuali profili di colpa del debitore, non trattandosi di un contratto a prestazioni corrispettive ma di un istituto avente una natura negoziale contemperata da una disciplina che persegue interessi pubblicistici e conduce, all'esito dell'omologa, alla cristallizzazione di un accordo di natura complessa ove una delle parti (la massa dei creditori) ha consistenza composita e plurisoggettiva. Presupposto soggettivoL'unico presupposto soggettivo oggi richiesto per l'ammissione alla procedura di concordato preventivo è rappresentato dalla qualità di imprenditore commerciale. In questo modo l'area della fallibilità e quella dell'accesso al concordato preventivo finiscono per coincidere. Va sottolineato come, dopo le riforme degli anni 2006-2007, al fine di incentivare l'utilizzo di questo istituto alternativo al fallimento, il legislatore abbia escluso la meritevolezza fra le condizioni soggettive necessarie per l'accesso all'istituto (o meglio per la omologabilità del concordato). Non è quindi più richiesta l'iscrizione da almeno un biennio nel registro delle imprese, il non essere stati sottoposti a fallimento od a procedimento di concordato preventivo nell'ultimo quinquiennio, l'assenza di precedenti penali specifici. Da notare che ai sensi dell'art. 3 l. fall. anche le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa possono accedere al concordato. Per converso, se con il d.l. n. 98/2011 convertito in l. n. 111/2011, l'imprenditore agricolo è stato facoltizzato ad utilizzare l'accordo di ristrutturazione dei debiti, per negoziare con i propri creditori una via di uscita dalla crisi, resta immutata la tradizionale non fallibilità di questo specifico imprenditore (spesso giustificata per l'imponderabile soggezione al rischio meteorologico e biologico) e, quindi, anche la non utilizzabilità da parte sua del concordato preventivo. Fra gli imprenditori commerciali esclusi dal fallimento e dall'utilizzabilità del concordato preventivo, risultando invece ammessi alla procedura di accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, exart. 31 d.l. n. 179/2012 convertito in l. n. 221/2012, rientrano le c.d. start up innovative. L'art. 1 l. fall. precisa che non possono fallire, né richiedere un concordato preventivo, gli enti pubblici. Tale esclusione va intesa in senso stretto. Si deve infatti ricordare che l'art. 14 del d.lgs. n. 175/2016 (c.d. T.U. società a partecipazione pubblica) sottopone le società a partecipazione pubblica alle disposizioni in tema di fallimento e concordato preventivo, nonché in presenza dei relativi presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza. Ai sensi del Codice Civile, è imprenditore commerciale (art. 2195 c.c.) chi esercita: - attività industriali dirette alla produzione di beni e servizi; -attività intermediarie nella circolazione dei beni; - attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; - attività bancaria o assicurativa; - altre attività ausiliarie delle precedenti. La nozione di imprenditore commerciale che rileva in questa sede, peraltro, è ulteriormente circoscritta dai limiti dimensionali di cui all'art. 1, comma 2 l. fall., in forza del quale «Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila». Secondo Cass. I, n. 15285/2018, ai fini della dichiarazione di fallimento, l'esercizio in forma organizzata di una attività di intermediazione o di consulenza finanziaria determina la soggezione alla procedura concorsuale, poiché l'art. 1 l. fall. rimanda alla nozione di imprenditore commerciale di cui all'art. 2195 c.c., che vi annovera, tra gli altri, coloro che esercitano un'attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi, un'attività intermediaria nella circolazione di beni (comprese quindi le imprese finanziarie), un'attività bancaria o assicurativa e in genere le «altre attività ausiliarie delle precedenti». Del resto, quanto alla distinzione fra imprenditore agricolo e commerciale, la recente Cass. I, n. 23157/2018 ha evidenziato che ai fini dell'esenzione dal fallimento di un'impresa, costituita in forma societaria ed avente quale oggetto statutario l'esercizio di attività commerciale, non rileva l'attività agricola effettivamente esercitata, poiché tali società acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, in considerazione di quanto previsto nello statuto, diversamente dall'imprenditore commerciale individuale, che assume la qualifica solo in conseguenza dell'esercizio effettivo dell'attività. Si ritiene che lo scopo di lucro (c.d. lucro soggettivo) non sia elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, essendo individuabile l'attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità dell'attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi (cd. lucro oggettivo), requisito quest'ultimo che, non essendo inconciliabile con il fine mutualistico, ben può essere presente anche in una società cooperativa, pur quando essa operi solo nei confronti dei propri soci; tant'è che anche tale società ove svolga attività commerciale può, in caso di insolvenza, essere assoggettata a fallimento in applicazione dell'art. 2545-terdecies c.c. (cfr. Cass. I, n. 9567/2017). Invece, Cass. n. 30541/2018, in tema di requisiti soggettivi per la dichiarazione di fallimento previsti dall'art. 1, comma 2 l. fall., pure ribadendo la valenza fondamentale da riconoscere ai bilanci presentati dall'impresa, ai fini della prova del mancato superamento delle soglie previste dalla legge fallimentare, ha affermato che l'imprenditore è nella condizione di dimostrare anche con altra documentazione, di essere sottratto alle procedure concorsuali, non essendo in sostanza il deposito davanti al tribunale dei detti bilanci, requisito indefettibile per dimostrare la non fallibilità sotto il profilo soggettivo dell'impresa. Sempre con riguardo al tema delle soglie dimensionali, Cass. VI, n. 21647/2018 ha osservato che la consistenza dell'attivo patrimoniale, di cui all'art. 1, comma 2, lett. a), l. fall., nel testo modificato dal d.lgs. n. 169/2007, deve desumersi dall'art. 2424 c.c. e ricomprende le immobilizzazioni, l'attivo circolante, le attività finanziarie non costituenti immobilizzazioni, i ratei e i risconti, come documentati dai bilanci degli ultimi tre esercizi anteriori alla proposizione della domanda di fallimento, sicché è irrilevante il momento dell'acquisto del cespite da parte dell'imprenditore. Il requisito di fallibilità di cui all'art. 1, comma 2, lett. c) l.fall., costituito da un indebitamento complessivo almeno pari ad euro 500.000, deve invece essere valutato, stando al tenore letterale della norma, confrontato con quello delle lettere a) e b) dello stesso comma, solo con riferimento al momento della dichiarazione di fallimento, non anche con riferimento al periodo di tempo corrispondente ai tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento (così Cass. VI, n. 3158/2018). Più recentemente, Cass. I, n. 23484/2021 ha precisato che i "ricavi lordi" devono essere individuati facendo riferimento alle sole voci n. 1) e n. 5) dello schema di conto economico previsto dall'art. 2425, lett. A), c.c., poiché ciò che rileva ai fini dell'individuazione del parametro dimensionale è il valore dei ricavi che afferiscono alle attività commerciali specifiche dell'impresa o a quelle accessorie derivanti dalla gestione non caratteristica, idonei a misurare la sua effettiva consistenza economica e finanziaria, dovendo pertanto essere esclusi gli "altri proventi" da sopravvenienze attive, che derivano dalla riduzione "una tantum" di accantonamenti per rischi precedentemente iscritti e non sono correlati alla gestione ordinaria né costituiscono ricavi in senso tecnico. Si è invece ritenuto che alla società che ha cessato la propria attività e che si sia cancellata dal registro delle imprese è precluso l'accesso alla procedura di concordato preventivo per effetto del venir meno dell'impresa il cui risanamento costituisce lo scopo del concordato. Infatti, la scelta di cessare l'attività e di procedere alla cancellazione dal registro delle imprese ai sensi del primo comma dell'articolo 2495 c.c. comporta la consapevole rinuncia al diritto di richiedere l'ammissione al concordato preventivo, diritto che si estingue con l'estinzione dell'ente che ne è titolare e che non è trasferibile ai soci, i quali sono successori a titolo particolare della società unicamente nei rapporti obbligatori attivi e passivi che sopravvivono all'estinzione (così Cass. VI, n. 21286/2015). Sottolinea ulteriormente la fallibilità della società in house la recentissima decisione resa da Cass. I, n. 5346/2019, secondo cui la società di capitali con partecipazione pubblica (cd. “in house”) è assoggettabile a fallimento, atteso che, da un lato, l'art. 1 l.fall. esclude dall'area della concorsualità gli enti pubblici, non anche le società pubbliche, per le quali trovano applicazione le norme del codice civile nonché quelle sul fallimento, sul concordato preventivo e sull'amministrazione straordinaria, e che, dall'altro lato, la particolare relazione interorganica che lega l'ente societario all'amministrazione pubblica (c.d. controllo analogo) serve solo a consentire all'azionista pubblico di svolgere un'influenza dominante sulla società, se del caso attraverso strumenti derogatori rispetto agli ordinari meccanismi di funzionamento, senza tuttavia incidere sull'alterità soggettiva dell'ente societario rispetto all'ente pubblico controllante, restando il primo pur sempre un centro di imputazione di rapporti e posizioni soggettive autonomo rispetto al secondo. Presupposto oggettivoIl presupposto oggettivo per l'accesso al concordato preventivo è rappresentato dallo stato di crisi, ma con la precisazione — introdotta dalla riforma del 2006 al fine di fugare qualunque dubbio interpretativo — che in esso rientra anche la vera e propria insolvenza. Da notare che queste situazioni sono invece definite in modo distinto nella riforma delle procedure concorsuali di cui è stata emanata la legge delega n. 155/2017 (c.d. Rordorf dal nome del Presidente della relativa Commissione di studio) così come nel Codice della crisi e dell'insolvenza destinato a darne attuazione (come già si è detto appena approvato con il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), considerato che la crisi viene incentrata sulla probabilità della futura insolvenza e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate. Resta invece distintamente definita la nozione di insolvenza, che viene riconfermata in modo sostanzialmente analogo all'attuale art. 5 l. fall. come lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Si è ritenuto che i concetti di stato di crisi e di insolvenza si pongono fra loro in un rapporto da genere a specie (Ambrosini, 22), rientrando nel primo sia l'insolvenza vera e propria (cioè l'incapacità non transitoria di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni) che situazioni prodromiche o vicine a tale stadio, destinate a differenziarsi — soprattutto dal punto di vista teorico — dalla reversibilità o superabilità attraverso provvedimenti straordinari di ristrutturazione del debito e riorganizzazione aziendale. In sede applicativa si ritiene che l'insolvenza sia soprattutto un fenomeno finanziario e dinamico, caratterizzantesi per l'impossibilità di procedere regolarmente al soddisfacimento delle obbligazioni contratte. Sul punto Cass. n. 2810/2018 ha osservato che, lo stato di insolvenza richiesto ai fini della pronunzia dichiarativa del fallimento dell'imprenditore, non è escluso dalla circostanza che l'attivo superi il passivo e che non esistano conclamati inadempimenti esteriormente apprezzabili. Infatti, il significato oggettivo dell'insolvenza, che è quello rilevante agli effetti della art. 5 l. fall., deriva da una valutazione circa le condizioni economiche necessarie (secondo un criterio di normalità) all'esercizio di attività economiche e si identifica come uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all'impresa e si esprime, secondo una tipicità desumibile dai dati dell'esperienza economica, nell'incapacità di produrre beni con margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze di impresa (prima fra tutte l'estinzione dei debiti), nonché nell'impossibilità di ricorrere al credito a condizioni normali, senza rovinose decurtazioni del patrimonio. Ancora, lo stato di insolvenza dell'imprenditore commerciale, consistendo nell'impossibilità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, non suppone necessariamente l'esistenza di inadempimenti, né è da essi direttamente deducibile, essendo gli stessi, se effettivamente riscontrati, equiparabili agli altri fatti esteriori idonei a manifestare quello stato, con valore, quindi, meramente indiziario, da apprezzarsi caso per caso, e con possibilità di escludersene la rilevanza ove si tratti di inadempimento irrisorio (così Cass. VI, n. 30209/2017 ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto la sussistenza dello stato di insolvenza della società debitrice in base al riscontro di rilevanti passività, di numerose procedure esecutive e dell'omesso deposito dei bilanci relativi ai due esercizi sociali precedenti il fallimento). È invece irrilevante la imputabilità o meno delle condizioni che hanno determinato l'insolvenza (così Cass. VI, n. 441/2017). Peraltro, quando la società è in liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell'applicazione dell'art. 5 l.fall., assume un carattere statico e di accertamento dello squilibrio patrimoniale: il vaglio deve essere diretto unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto — non proponendosi l'impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori previa realizzazione delle attività, ed alla distribuzione dell'eventuale residuo tra i soci — non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte (cfr. Cass. I, n. 2516/2016). I diversi modelli di concordato: liquidatorio, in continuità, con garanzia, con assuntoreIl concordato preventivo è un istituto disciplinato agli artt. 160 e ss. l. fall. che è stato profondamente inciso dalle modifiche normative susseguitesi negli ultimi anni. In linea generale può affermarsi che lo scopo del concordato preventivo è, appunto, quello di prevenire la dichiarazione di fallimento attraverso il raggiungimento di un accordo con i creditori, rivolto alla ristrutturazione del debito. A differenza dell'accordo di ristrutturazione — in cui l'intervento giudiziale è solo successivo e si svolge soltanto in sede di omologazione — nel concordato si è di fronte ad una procedura in cui la verifica giudiziale si svolge anche in fase di ammissione e prevede la nomina di un organo della procedura, come il Commissario giudiziale ed uno spossessamento «minore» del debitore, tenuto a richiedere l'autorizzazione giudiziaria per il compimento di atti di straordinaria amministrazione. Esistono diversi tipi di concordato: con continuità (cfr. art. 186-bis l. fall.), a sua volta distinta in diretta o soggettiva (quando cioè l'attività caratteristica viene proseguita dallo stesso imprenditore/debitore) ed indiretta od oggettiva (quando invece l'attività prosegue, ma attraverso un soggetto terzo, affittuario o cessionario dell'azienda). Tale figura ha avuto un crescente successo negli ultimi anni, affiancandosi alle forme tradizionali di concordato: quello per garanzia (nel quale la percentuale offerta ai creditori è oggetto di una specifica obbligazione, rafforzata dal rilascio di garanzie da parte dell'imprenditore o più frequentemente di soggetti terzi) e quello con cessione dei beni o liquidatorio, in cui il debitore tradizionalmente mette a disposizione dei propri creditori tutto il proprio patrimonio, che sarà oggetto di attività di liquidazione — ossia trasformazione in equivalente monetario — e successiva distribuzione del ricavato. Figura peculiare è poi rappresentata dal concordato con assuntore, nel quale un soggetto terzo si rende cessionario dell'attivo concorsuale e concorre normalmente con un proprio apporto ulteriore al soddisfacimento dei creditori. La cessione dei beni e dell'attivo (comprese le azioni) al terzo può essere immediata o differita, può inoltre avere effetto liberatorio per il debitore, oppure cumulativo (cioè, nelle due forme, realizza lo scopo di sostituire all'imprenditore un nuovo debitore oppure aggiungere l'assuntore quale soggetto solidalmente obbligato con il debitore verso i creditori concorsuali). Il legislatore degli ultimi anni ha mostrato un crescente disfavore per la forma di concordato con cessione dei beni, giungendo con la riforma del 2015 — operata con d.l. n. 83/2015 convertito con modificazioni dalla l. n. 132/2015 — a richiedere soltanto per questa forma di concordato che la proposta debba assicurare ai creditori chirografari un soddisfacimento di almeno il 20%; inoltre la citata novella ha introdotto le c.d. proposte concorrenti di concordato, prevedendo che il debitore possa paralizzarle offrendo il 30% ai creditori chirografari in caso di proposta con continuità aziendale, ovvero una soglia più elevata del 40% in caso di proposta puramente liquidatoria. La recente legge delega per la riforma della disciplina della crisi e dell'insolvenza, approvata con l. n. 155/2017, conferma tale disfavore nel momento in cui richiede ulteriormente, per i futuri concordati liquidatori, che oltre all'assicurazione della predetta percentuale minima di soddisfacimento, vi sia anche un apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile tale soddisfacimento. Inoltre, uno dei punti qualificanti la prospettiva evolutiva in questo settore è rappresentato dalla direttiva — contenuta nella stessa legge delega — secondo cui fra le diverse soluzioni della crisi hanno priorità di trattazione quelle avente carattere volto alla prosecuzione della continuità aziendale, per i connessi valori di difesa dell'occupazione, continuità nei rapporti contrattuali, mantenimento dei c.d. intangibles, come l'avviamento, il know how, ecc... Tale indirizzo è pienamente attuato dall'art. 84 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, pur se in sede di definitiva approvazione si è introdotta una presunzione di continuità collegata al mantenimento di una percentuale significativa di lavoratori, con una scelta che va evidentemente nel senso di ricollegare la disciplina di favore prevista per il concordato in continuità alla difesa del dato occupazionale. Questo spiega perché la qualificazione del concordato e, più in particolare, la distinzione fra concordato puramente liquidatorio e concordato in continuità non abbia un valore puramente teorico o tassonomico: si pensi infatti che soltanto al secondo non si ritiene applicabile il limite minimo di soddisfacimento previsto per i chirografari in misura pari ad almeno il 20%. Il citato problema qualificatorio è particolarmente importante nel caso di concordato misto (in cui sono presenti sia la continuazione aziendale che la cessione di beni non strategici), oltre che nel caso di affitto d'azienda o altre forme di continuità indiretta. In dottrina e nella prassi, infatti, si discute se occorra dare la prevalenza alla presenza della continuità in sé (tesi qualitativa), ovvero soltanto ove la stessa sia destinata a produrre flussi finanziari con i quali soddisfare in misura prevalente i creditori (testi quantitativa o della prevalenza). Al tempo stesso, a fronte di un dato testuale come quello dell'art. 186-bis l. fall. — che sembra dare spazio alla continuità intesa in senso oggettivo — non è mancato chi ha tuttavia ritenuto che l'affitto d'azienda sia incompatibile con le disposizioni in tema di concordato in continuità, in particolare quando lo stesso sia stato stipulato prima dell'ingresso nella procedura concordataria. Va segnalata la prima decisione della Cassazione che ha affrontato questo problema sotto il profilo, particolarmente sentito dai pratici, della compatibilità fra contratto di affitto d'azienda e concordato in continuità: «Il concordato con continuità aziendale disciplinato dall'art. 186-bis l. fall. è configurabile anche quando l'azienda sia già stata affittata o sia destinata ad esserlo, rivelandosi affatto indifferente la circostanza che, al momento dell'ammissione alla suddetta procedura concorsuale o del deposito della relativa domanda, l'azienda sia esercitata dal debitore o, come nell'ipotesi dell'affitto della stessa, da un terzo, in quanto il contratto d'affitto — recante, o meno, l'obbligo dell'affittuario di procedere, poi, all'acquisto dell'azienda (rispettivamente, affitto cd. ponte oppure cd. puro) — può costituire uno strumento per giungere alla cessione o al conferimento dell'azienda senza il rischio della perdita dei suoi valori intrinseci, primo tra tutti l'avviamento, che un suo arresto, anche momentaneo, rischierebbe di produrre in modo irreversibile» (Cass. I, n. 29742/2018). La più recente giurisprudenza di legittimità ha inferto un ulteriore «colpo» al concordato liquidatorio, affrontando il problema della necessarietà o meno che tale proposta ricomprenda la liquidazione di tutti, oppure di alcuni soltanto, i beni e diritti facenti parte del patrimonio attivo del debitore. Se, infatti, una tesi maggioritaria già riteneva tale soluzione come portato della generale responsabilità patrimoniale gravante sul debitore in forza dell'art. 2740 c.c., sottolineando che soltanto nel concordato in continuità è prevista la possibilità di non procedere all'alienazione di beni indispensabili per la prosecuzione dell'attività aziendale, non era mancato chi, evidenziando invece lo spirito innovativo delle riforme, l'atipicità della proposta ed il suo contenuto negoziale, aveva sostenuto che tale aspetto rientrasse in un più generico profilo di convenienza che era compito esclusivo dei creditori valutare. Questo secondo indirizzo viene oggi testualmente respinto dal S.C. che, anche qui per la prima volta, ha affermato espressamente: «ll concordato con cessione solo parziale dei beni configura una violazione della norma sulla responsabilità patrimoniale del debitore, prevista dall'articolo 2740 c.c., posto che l'effetto esdebitatorio presuppone la messa a diposizione dei creditori di tutte le attività del debitore. In questa prospettiva al concordato liquidatorio non può applicarsi l'articolo 1977 c.c., che permette al debitore di cedere «tutte o alcune delle sue attività». Conseguentemente, laddove la proposta concordataria si qualifichi come liquidatoria, per conseguire l'effetto esdebitatorio tipico di tale procedura, la cessione dei beni deve essere totale, integrando, in caso contrario, una lesione del principio della responsabilità patrimoniale del debitore (Cass. I, n. 26005/2018). Va altresì ricordata la recentissima decisone del S.C. che, con riferimento ad un concordato al quale non si applicava il limite del 20% di cui al citato art. 1760 ult. co. l.fall., ha affermato che “la causa concreta della procedura di concordato preventivo, da intendersi come obiettivo specifico perseguito dal procedimento, non ha perciò un contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento finalizzato al superamento della situazione di crisi dell'imprenditore e, nel contempo, all'assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori. In questa prospettiva interpretativa non è possibile individuare una percentuale fissa minima al di sotto della quale la proposta concordataria possa ritenersi — secondo la disciplina applicabile ratione temporis —, di per sè, inadatta a perseguire la causa concreta a cui la procedura è volta. Il Tribunale, dunque, deve avere riguardo a rilevare dati da cui emerga, in maniera eclatante, la manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, ivi compresa la soddisfazione in una qualche misura dei crediti rappresentati. Una volta esclusa questa evenienza va lasciata al giudizio dei creditori, quali diretti interessati all'esito della procedura, la valutazione — sotto i diversi aspetti della plausibilità dell'esito e della convenienza della proposta — delle modalità di soddisfacimento dei crediti offerte dal debitore, ivi comprese la consistenza delle percentuali di pagamento previste” (Cass. I, n. 3863/2019). In tema di concordato in continuità va segnalata l'importante decisione resa da Cass. I, n. 734/2020, secondo cui il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso, dalla disciplina speciale prevista dalla l. fall., art. 186-bis, che al comma 1 espressamente contempla anche una simile ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito; tale norma non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnato una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori. Sulla interpretazione dell'art. 160 ult. co. invece, il S.C. ha recentemente stabilito che tale disposizione, nel prevedere che, fatta eccezione per il concordato con continuità aziendale, la proposta deve assicurare in ogni caso il pagamento della soglia minima di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari, definisce l'ambito del controllo della fattibilità giuridica demandato al tribunale, imponendogli di verificare la funzionalità del piano rispetto al raggiungimento di un risultato che preveda necessariamente il soddisfacimento dei creditori chirografari nell'indicata percentuale (Cass. I, n. 13224/2021). Le classiAfferma l'art. 160, comma 1, lett. c) che la proposta può prevedere...”la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei». Nell'ipotesi in cui la proposta concordataria introduca tali forme di suddivisione dei creditori (le c.d. «classi») allora la maggioranza necessaria per l'approvazione del concordato diviene doppia: occorre infatti sia il voto favorevole che rappresenti la maggioranza dell'ammontare complessivo dei crediti ammessi al voto (crediti chirografari per natura, ovvero per falcidia o rinuncia), sia il voto della maggioranza delle classi previste (questo spiega perché le proposte prevedano un numero dispari di classi, generalmente tre o cinque). La divisione in classi non può però avere l'effetto di modificare o violare l'ordine delle cause legittime di prelazione: anche il rispetto di tale regola spiega perché il concordato non possa essere integralmente parificato ad un contratto né ad un accordo di ristrutturazione dei debiti. Tradizionalmente si ritiene che la previsione di classi rappresenti una facoltà e non il contenuto di un obbligo per il proponente. Tuttavia, si tratta di un principio che è attualmente oggetto di revisione scientifica. Infatti, la disciplina delle proposte concorrenti di concordato già prevede un caso di classe obbligatoria, prevedendo che il voto del creditore proponente — per poter essere computato ai fini del raggiungimento della maggioranza — si basi sul «classamento» dello stesso; altro caso di classamento obbligatorio è poi previsto dall'art. 182-ter l. fall., in tema di transazione fiscale. La riforma fallimentare in itinere è poi destinata ad ampliare i casi di classi obbligatorie, con particolare riguardo a quei creditori che fruiscano di garanzie nei confronti di soggetti terzi rispetto al proponente/debitore (c.d. collaterals). Va al riguardo notato che in sede di definitiva formulazione, si è previsto che la formazione delle classi è obbligatoria per i creditori titolari di crediti previdenziali o fiscali dei quali non sia previsto l'integrale pagamento, per i creditori titolari di garanzie prestate da terzi, per i creditori che vengono soddisfatti anche in parte con utilità diverse dal denaro e per i creditori proponenti il concordato e per le parti ad essi correlate (così l'art. 85 comma 5 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza). La proposta di concordato preventivo, al pari di quella di concordato fallimentare, a seguito della riforma degli anni 2006-2007, ha contenuto atipico, può infatti prevedere la suddivisione dei creditori in classi, purchè ciò avvenga per posizione giuridica ed interessi economici di carattere omogeneo, prevedendo per le stesse dei trattamenti differenziati, nonché disponendo che la soddisfazione die creditori avvenga attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione di beni, accollo od operazioni straordinarie, attribuzione ai creditori di azioni od obbligazioni, strumenti finanziari e titoli di debito. Sui criteri di formazione delle classi — in attesa dell'entrata in vigore della richiamata riforma — va ricordata la recente Cass. I, n. 5689/2017, per la quale la sussistenza di crediti oggetto di contestazione giudiziale non preclude il loro doveroso inserimento in una delle classi omogenee previste dalla proposta, ovvero in apposita classe ad essi riservata, assolvendo tale adempimento, ricadente sul debitore ed oggetto di controllo critico sulla regolarità della procedura che il tribunale deve assolvere direttamente, ad una fondamentale esigenza di informazione dell'intero ceto creditorio. Sempre in tema di classi va ricordata la recente decisione di Cass. I, n. 16348/2018, secondo cui «nel concordato preventivo, la proposta del debitore può prevedere la suddivisione dei creditori in classi con il riconoscimento del diritto di voto ai creditori postergati che siano stati inseriti in apposita classe, purché il trattamento previsto per questi ultimi sia tale da non derogare alla regola del loro soddisfacimento sempre posposto a quello integrale degli altri creditori chirografari» (nel caso specifico, la Corte, pur riconoscendo che risultava ammissibile che un concordato con cessione dei beni potesse contemplare la costituzione, oltre che di due classi di chirografari, ciascuna composta ex art. 160, primo comma, lettera c, l. fall. da creditori portatori di interessi economici tra loro omogenei, anche la costituzione di un'apposita classe composta da «chirografari soci», aventi parimente diritto di voto, il cui credito risultasse postergato ai sensi dell'art. 2467, comma 2, c.c., ha ritenuto comunque inammissibile, per violazione di tale regola, quella proposta per avere prospettato per tutti un pagamento nella misura del 100%, senza però prevedere per i componenti di quest'ultima classe alcuna posticipazione temporale). I criteri di formazione delle classi da parte del debitore possono essere oggetto di valutazione giudiziale, essendo evidente che l'adozione di criteri artificiosi può consentire al proponente il concordato, in larga misura, di predeterminare l'esito del voto. Proprio per questo si è ritenuto che l'adozione di criteri artefatti e non corrispondenti ad omogeneità giuridico-economica possa dare luogo a condotte abusive: in tema di concordato preventivo, ove intenda prevedere la suddivisione in classi, la proposta deve necessariamente conformarsi ai due criteri fissati dal legislatore nell'art. 160, comma 1, lett. c), l. fall., costituiti dall'omogeneità delle posizioni giuridiche (che riguardano la natura del credito, le sue qualità intrinseche, il carattere chirografario o privilegiato, l'eventuale esistenza di contestazioni, ovvero la presenza o meno di garanzie prestate da terzi o di un titolo esecutivo) e degli interessi economici (riferiti alla fonte e alla tipologia socio-economica del credito, ovvero al peculiare tornaconto vantato dal suo titolare); rientra tra i compiti del tribunale — con un accertamento in fatto che non è sindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivato — valutare congiuntamente i detti criteri al fine di verificare l'omogeneità dei crediti raggruppati, che non può essere affermata in termini di assoluta identità, essendo sufficiente la presenza di tratti principali comuni di importanza preponderante, che rendano di secondario rilievo quelli differenzianti, in modo da far apparire ragionevole una comune sorte satisfattiva per le singole posizioni costituite in classe (cfr. Cass. I, n. 9378/2018). La falcidia dei creditori privilegiatiLa proposta di concordato può prevedere che i creditori privilegiati non siano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in termini non deteriori rispetto all'alternativa liquidatoria. A differenza che nel concordato fallimentare, quest'ultima evenienza deve essere attestata da un professionista nominato dallo stesso debitore e non dal tribunale, ex art. 160, comma 2 l. fall. Diversamente, nel caso di utilizzo della c.d. nuova finanza o finanza «esterna», i relativi apporti possono essere destinati ai creditori senza dover necessariamente rispettare l'ordine delle cause legittime di prelazione. Naturalmente occorre verificare che si tratti di finanza “esterna” in senso proprio, ossia con un impatto neutro sull'attivo e passivo concordatario. Secondo Cass. I, n. 17461/2015, la regola generale è quella del pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati, sicché l'adempimento con una tempistica superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura (e della liquidazione, in caso di concordato cosiddetto «liquidativo») equivale a soddisfazione non integrale degli stessi in ragione della perdita economica conseguente al ritardo, rispetto ai tempi «normali», con il quale i creditori conseguono la disponibilità delle somme ad essi spettanti; la determinazione in concreto di tale perdita, rilevante ai fini del computo del voto ex art. 177, comma 3, l. fall., costituisce un accertamento in fatto che il giudice di merito deve compiere alla luce della relazione giurata ex art. 160, comma 2 l. fall., tenendo conto degli eventuali interessi offerti ai creditori e dei tempi tecnici di realizzo dei beni gravati in ipotesi di soluzione alternativa al concordato, oltre che del contenuto concreto della proposta nonché della disciplina degli interessi di cui agli artt. 54 e 55 l. fall. (richiamata dall'art. 169 l. fall.). La falcidia dei crediti fiscali può avvenire, nel concordato preventivo, unicamente attraverso il ricorso alla transazione fiscale, di cui all'art. 182-ter l. fall. novellato. Secondo Trib. Milano 8 novembre 2016, la regola generale dell'art. 160, comma 2, l. fall., del rispetto dell'ordine delle prelazioni, che è indefettibile nel concordato liquidatorio, salvo l'apporto di nuova finanza che può essere utilizzata anche in apparente violazione di tale ordine, proprio perché non promana dal patrimonio del debitore e non è vincolata a garantirne le obbligazioni, deve essere intesa anche nel concordato in continuità come operativamente limitata, nel tempo, alla data della presentazione della domanda di concordato e nella «dimensione applicativa» al patrimonio della concordataria esistente a quella data. Il parametro che costituisce il limite di riferibilità per appurare se vi sia violazione o meno dell'ordine della prelazione è il momento della presentazione della domanda perché ciò che è valutabile ai fini della capienza in sede di redazione del piano è solo il patrimonio attuale della società e solo esso sarebbe passibile di azioni esecutive o di collocazione sul mercato al cui risultato si dovrebbe comparare l'offerta formulata dalla società per appurare se essa lede il privilegio o meno. Il concetto di nuova finanza, come già si è avvertito, deve essere rettamente interpretato. Su tale nozione cfr. Cass. n. 9373/2012, secondo cui si è in presenza di «finanza esterna» solo quando l'apporto del terzo risulti neutrale rispetto allo stato patrimoniale della società debitrice, non comportando né un incremento dell'attivo, sul quale i crediti privilegiati dovrebbero in ogni caso essere collocati secondo il loro grado, né un aggravio del passivo, con il riconoscimento di ragioni di credito a favore del terzo. Ha precisato App. Bologna 22 ottobre 2015, che ai fini della qualificazione dell'apporto del terzo come finanza esterna ciò che assume particolare rilievo è se la somma entri o meno a far parte del patrimonio sociale ed in tale prospettiva assume rilievo il momento in cui la somma viene erogata, se prima o dopo la proposta concordataria, e le condizioni su cui si fonda, dovendosi qualificare finanza esterna che si sottrae al divieto di cui all'art. 160 secondo comma l. fall. solo quella che venga apportata dopo la presentazione della proposta di concordato o dopo l'omologazione, poiché in tali ipotesi l'apporto non incide sull'attivo e sul passivo della società, né il terzo vanta alcun diritto di rimborso verso la società. La stessa decisione ha correttamente affermato che l'interpretazione letterale e sistematica dell'art. 160, comma 2 l. fall. consente di affermare la possibilità di decurtare non solo il privilegio speciale ma anche il privilegio generale, nella parte in cui il relativo credito risulti incapiente rispetto all'attivo. Più recentemente, Corte app. Milano, 14 gennaio 2021, ha ritenuto che l'utile derivante dalla continuità aziendale (c.d. surplus concordatario) non può essere considerato alla stregua della liquidità estranea al patrimonio del debitore, con la conseguenza che lo stesso deve essere distribuito secondo l'ordine delle cause legittime di prelazione. Simile impostazione si ritrova anche in Corte app. Venezia, 5 luglio 2021, la quale, sulla premessa che il realizzo di componenti attive generate dalla gestione quali sono i flussi provenienti dalla prosecuzione dell'impresa fanno parte del patrimonio del debitore, ha ritenuto che la destinazione di canoni di affitto dell'azienda, dividendi delle società partecipate e del maggior valore di realizzo dell'immobile al di fuori del rispetto delle cause legittime di prelazione, priva il piano concordatario del necessario presupposto della fattibilità giuridica. BibliografiaAA.VV., Codice della crisi di impresa, diretto da F. Di Marzio, Milano, 2017; AA.VV., Commentario breve alla Legge Fallimentare, a cura di A. Maffei Alberti, Padova, 2013; AA.VV., La legge fallimentare, a cura di M. 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