Codice Civile art. 1454 - Diffida ad adempiere.Diffida ad adempiere. [I]. Alla parte inadempiente l'altra può intimare per iscritto di adempiere in un congruo termine, con dichiarazione che, decorso inutilmente detto termine, il contratto s'intenderà senz'altro risoluto [1662 2, 1901 3]. [II]. Il termine non può essere inferiore a quindici giorni, salvo diversa pattuizione delle parti o salvo che, per la natura del contratto o secondo gli usi, risulti congruo un termine minore. [III]. Decorso il termine senza che il contratto sia stato adempiuto, questo è risoluto di diritto. InquadramentoLa diffida ad adempiere è una delle tre fattispecie di risoluzione di diritto o ope legis. Essa opera in via stragiudiziale, ma, ove vi sia contestazione sulla produzione dell'effetto risolutorio, la relativa verifica può essere rimessa all'autorità giudiziaria, che si limiterà ad emettere, qualora ne siano stati integrati i presupposti, una pronuncia dichiarativa di risoluzione (Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, 868). La possibilità di avvalersi della diffida costituisce un diritto potestativo della parte non inadempiente. La diffida, in particolare, è un negozio unilaterale e recettizio, in funzione di autotutela del creditore contro l'inadempimento (Natoli, 511; Bianca, 1994, 306; Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 522; Dalmartello, 141; Carresi, in Tr. C. M., 1987, 920; Auletta, 431; Mosco, 148). Minoritaria è l'opinione che ritiene si tratti di un atto giuridico in senso stretto (Luminoso, Carnevali, Costanza, 441). Pertanto, non può essere equiparata ad una semplice richiesta di adempimento, quale atto giuridico in senso stretto, poiché la diffida si configura come richiesta qualificata dalla manifestazione della volontà di risolvere il contratto nell'eventualità in cui l'adempimento non segua nel termine previsto (Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, 868). Essa introduce nel rapporto contrattuale un termine di adempimento che si caratterizza per la sua natura perentoria (Natoli, 509). L'atto di diffida raggiunge validamente il destinatario quando comunque pervenga nella sua sfera di conoscibilità ai sensi della presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c. (Aloisio, voce Diffida ad adempiere, in Enc. giur., 1988, 1). Anche secondo la giurisprudenza la diffida ad adempiere è un atto unilaterale recettizio che produce effetti indipendentemente dalla volontà dell'intimato di accettarla o meno; essa ha natura negoziale (Cass. S.U., n. 14292/2010; Cass. III, n. 953/1973). La diffida non può essere revocata unilateralmente, poiché oltre all'interesse del diffidante deve essere tutelato anche quello del debitore alla certezza della situazione che all'esito si cristallizza. Segnatamente il debitore, in conseguenza del ricevimento della diffida, può orientare la propria condotta, chiedendo di usufruire di una rimessione in termini (Sacco, De Nova, in Tr. Res.,1988, 521) ovvero di sopportare le conseguenze dell'inadempimento (Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 619; Carresi, in Tr. C. M., 1987, 920). In senso contrario, altro autore ritiene che la diffida sia revocabile in via unilaterale (Mosco, 158). In base ad una tesi intermedia, il diffidante può revocare la diffida prima della scadenza del termine (Bianca, 1994, 309). Secondo la giurisprudenza, l'esercizio della diffida costituisce una facoltà e non un obbligo, potendo la parte non inadempiente decidere in alternativa di agire in giudizio per ottenere una pronuncia costitutiva di risoluzione (Cass. II, n. 639/1996; Cass. II, n. 3446/1987). Invero, la mancata previsione di un termine entro il quale la prestazione debba essere consensualmente eseguita, non sempre impone alla parte adempiente l'obbligo di costituire in mora la controparte ex art. 1454 c.c. e, quindi, di far ricorso al giudice a norma e per gli effetti di cui all'art. 1183 c.c. In relazione agli usi, alla natura del rapporto negoziale ed all'interesse delle parti, infatti, può essere sufficiente che sia decorso un congruo spazio di tempo dalla conclusione del contratto, per cui possa ritenersi in concreto superato ogni limite di normale tolleranza, secondo la valutazione del giudice del merito (Cass. III, n. 14243/2020; Cass. VI-III, n. 19414/2010; Cass. III, n. 15796/2009). Tuttavia, in difetto di clausola risolutiva espressa, la risoluzione di diritto del contratto per inadempimento può essere ottenuta solo mediante intimazione ad adempiere ex art. 1454 c.c., essendo privo di effetto l'atto unilaterale con cui la parte (senza assegnare alcun termine) dichiari risolto il contratto, trattandosi di mera pretesa che non consente all'altra parte l'attuazione del rapporto (Cass. II, n. 15070/2016). Il termine introdotto dalla diffida deve qualificarsi essenziale per l'intimante (Cass. III, n. 23315/2007). Durante la pendenza di tale termine, il creditore non può chiedere né l'adempimento né la risoluzione, né può procedere ad esecuzione coattiva ex artt. 1515 e 1516 c.c. (Cass. II, n. 3867/1985; Cass. n. 1681/1952). Mentre nella proposizione di una domanda di risoluzione di diritto per l'inosservanza di una diffida ad adempiere può ritenersi implicita, in quanto di contenuto minore, anche la domanda di risoluzione giudiziale, non altrettanto può dirsi nell'ipotesi inversa, stante l'impedimento derivante dalla diversità delle due causae petendi, tra di loro non in rapporto di contenente a contenuto; ne consegue che la domanda di risoluzione di diritto può ritenersi proposta, in alternativa a quella di risoluzione giudiziale, solo se i relativi fatti che la sostanziano siano stati allegati in funzione di un proprio effetto risolutivo (Cass. VI-II, n. 23193/2020; Cass. I, n. 11493/2014; Cass. II, n. 17703/2011; Cass. III, n. 24389/2006) Il campo applicativoLa diffida è ammissibile rispetto ai contratti con prestazioni corrispettive, siano essi ad efficacia reale o ad efficacia obbligatoria, compresi i contratti traslativi di diritti reali immobiliari (Luminoso, Carnevali, Costanza, 439; Smiroldo, 103). Per converso, altro autore sostiene che in tali contratti la diffida ad adempiere non può essere esercitata qualora il creditore abbia già eseguito la propria prestazione (Bianca, in Tr. Vas., 1993, 945). La diffida non può operare anche quando l'adempimento dell'obbligazione in essa contemplata sia diventato definitivamente impossibile, poiché in tal caso, decorrendo inutilmente il termine in essa contenuto, viene meno la sua funzione (Luminoso, Carnevali, Costanza, 439). Ancora, non può avere ad oggetto la richiesta di adempimento di obbligazioni negative (Luminoso, Carnevali, Costanza, 440) I presupposti di esercizioCondizione indispensabile per l'esercizio della facoltà di diffida è che chi se ne avvale non sia inadempiente; diversamente, per il principio inadimplenti non est adimplendum di cui all'art. 1460 c.c., l'effetto risolutivo non si realizza (Cass. II, n. 4275/1994), tanto più ove sia accertato che l'inadempimento del diffidante abbia ostacolato l'adempimento del diffidato (Cass. II, n. 1953/1989). La risoluzione non ha luogo neanche quando l'inadempimento dedotto in diffida, avuto riguardo all'interesse del diffidante, sia di scarsa importanza (Mirabelli, 617). Si è, però, sostenuto che, quando il ritardo nell'adempimento riguardi un'obbligazione principale, la risoluzione si verifica, decorso il termine fissato nella diffida, anche se il ritardo non lede un interesse rilevante dell'altro contraente (Auletta, Importanza dell'inadempimento e diffida ad adempiere, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1955, 655). Il contraente che si avvale dello strumento della diffida deve essere già vittima dell'altrui inadempimento, sicché deve escludersi che detta diffida possa essere intimata prima della scadenza del termine di esecuzione del contratto (Cass. II, n. 15052/2018); a tal fine, deve però considerarsi inadempiente anche il contraente che, in pendenza del termine di esecuzione del contratto, abbia manifestato, in modo certo ed inequivoco, di non voler adempiere la sua obbligazione (Cass. III, n. 2210/1973). Affinché la diffida ad adempiere possa produrre effetti è, inoltre, necessario l'ulteriore requisito dell'imputabilità dell'inadempimento al debitore intimato (Carresi, in Tr. C. M., 1987, 921; Mosco, 165; Auletta, cit., 110). In senso difforme si afferma che l'imputabilità sarebbe irrilevante ai fini risolutori ed assumerebbe importanza solo in ordine al risarcimento del danno (Luminoso, Carnevali, Costanza, 437). Ai fini della validità della diffida non è necessaria la previa costituzione in mora, anche perché la diffida vale a costituire in mora il diffidato (Bianca, 1994, 311; Dalmartello, 142; Luminoso, Carnevali, Costanza, 440). In base agli orientamenti della S.C., l'intimazione da parte del creditore della diffida ad adempiere e l'inutile decorso del termine fissato per l'adempimento non eliminano la necessità dell'accertamento giudiziale dell'imputabilità e della gravità dell'inadempimento, in relazione alla situazione verificatasi alla scadenza del termine ed al permanere dell'interesse della parte all'esatto e tempestivo adempimento (Cass. I, n. 7463/2020; Cass. II, n. 18696/2014; Cass. III, n. 21237/2012; Cass. II, n. 9314/2007). La valutazione della gravità dell'inadempimento dedotto nella diffida ad adempiere deve avvenire alla scadenza del termine contenuto nella diffida (Cass. II, n. 4425/1986; Cass. III, n. 3980/1983), sicché non comporta l'inefficacia della diffida il decorso di un notevole lasso di tempo tra il termine fissato per l'adempimento e l'iniziativa giudiziale del diffidante (Cass. II, n. 7335/1983). Non determina la risoluzione del contratto la diffida con la quale un contraente intimi all'altro di adempiere la prestazione in misura superiore al dovuto (Cass. II, n. 25736/2017; Cass. II, n. 20742/2012). In ordine alla rinunciabilità degli effetti prodotti dalla diffida si contrappongono due orientamenti: quello prevalente ritiene che, una volta scaduto il termine, rimane nella facoltà del creditore scegliere se avvalersi dell'operatività della diffida, stabilire un nuovo termine per l'adempimento o rinunciare del tutto agli effetti della diffida stessa, chiedendo in giudizio l'adempimento, potendo la rinunzia essere esplicita ovvero anche implicita e risultante da atti univoci, dai quali sia possibile desumere che il contraente, che in un primo tempo si è avvalso della possibilità di risoluzione di diritto su indicata, abbia successivamente ritenuto più conforme ai propri interessi procedere all'esecuzione (Cass. II, n. 9317/2016; Cass. III, n. 23824/2010; Cass. III, n. 23315/2007; Cass. III, n. 6891/2005); in base ad un orientamento minoritario e più recente, in caso di intervenuta risoluzione del contratto, sia legale che giudiziale, la parte a favore della quale si sono prodotti gli effetti risolutivi non può rinunciarvi, restando altrimenti leso l'affidamento legittimo del debitore sulla dissoluzione del contratto (Cass. II, n. 7313/2017; Cass. VI-III, n. 20768/2015). Inoltre, secondo la tesi prevalente, la già avvenuta risoluzione del contratto di diritto non preclude alla parte adempiente, nel caso in cui sia stata contrattualmente prevista una caparra confirmatoria, l'esercizio della facoltà di recesso, ai sensi dell'art. 1385 c.c., per ottenere, invece del risarcimento del danno, la ritenzione della caparra o la restituzione del suo doppio, poiché dette domande hanno una minore ampiezza rispetto a quella di risoluzione (Cass. II, n. 26206/2017; Cass. II, n. 14014/2017; Cass. III, n. 2999/2012; Cass. II, n. 21838/2010) La formaAttraverso il riferimento alla forma della diffida ad adempiere si intendono richiamare due aspetti diversi dell'istituto: la forma della sua esternazione o forma in senso stretto; la forma minima del suo contenuto affinché possa essere qualificata tale. Sotto il primo profilo la diffida ad adempiere deve essere redatta per iscritto, a pena di nullità (Natoli, 509; Bianca, 1994, 307; contra Luminoso, Carnevali, Costanza, 441; Aloisio, 3). Si tratta di un'ipotesi di forma ad substantiam per espressa previsione contenuta nella disciplina dell'istituto. È sufficiente che l'atto abbia i requisiti minimi della scrittura privata (Natoli, 510; contra Aloisio, cit., 3, secondo cui è valida la diffida inviata mediante fax o telegramma non sottoscritti nell'originale). Anche la procura ad intimare la diffida deve rivestire il medesimo requisito di forma (Bianca, 1994, 307; contra Luminoso, Carnevali, Costanza, 442; Aloisio, cit., 3). Sotto il secondo profilo, non è richiesto l'uso di forme (rectius espressioni) sacramentali, purché dall'atto emerga l'intento di ottenere l'adempimento, nel termine previsto, con l'effetto, in mancanza, della risoluzione, contemplata come conseguenza automatica sul piano stragiudiziale (Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, 869; Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 618). Queste indicazioni essenziali devono pur sempre esistere e devono risultare da un atto scritto (Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 522). Anche secondo la giurisprudenza, la diffida può essere fatta nella forma (scritta) più idonea al raggiungimento dello scopo, non essendo richieste modalità particolari di esternazione, ma essendo sufficiente per la sua operatività che essa pervenga nella sfera di conoscibilità del destinatario (Cass. II, n. 4310/2002; Cass. II, n. 3566/1995); non rileva che essa sia indirizzata anche, in via principale, ad altri soggetti, come, ad es., il legale del destinatario (Cass. I, n. 2895/1971). La natura negoziale della diffida nonché la prescrizione sulla forma scritta a pena di nullità importano che, qualora essa sia inviata da un procuratore, anche la procura debba essere redatta in forma scritta ai sensi dell'art. 1392 c.c., indipendentemente dalla forma prevista per il negozio che attraverso la diffida si intende risolvere (Cass., S.U., n. 14292/2010); non è, però, necessaria l'allegazione della procura alla diffida medesima, essendo sufficiente che tale procura sia portata a conoscenza del debitore con mezzi idonei, salvo il diritto dell'intimato a farsene rilasciare copia ai sensi dell'art. 1393 c.c. (Cass. II, n. 10860/2018); è comunque possibile la ratifica, ex art. 1399 c.c., da parte del rappresentato (Cass. II, n. 5641/1987; Cass. II, n. 1091/1981). Soddisfa il requisito di forma la procura alle liti a margine o in calce alla citazione, avente anche valore negoziale di diffida (Cass. III, n. 16221/2002). Non è, invece, considerata idonea la diffida che non indichi il preciso termine entro cui il contraente inadempiente deve adempiere sotto pena di risoluzione del contratto, non essendo sufficiente il generico avvertimento che, in caso di inadempimento, si agirà in via legale per la risoluzione (Cass. III, n. 590/1982; Cass. II, n. 276/1981; Cass. I, n. 3445/1971); né è sufficiente, per produrre l'effetto risolutivo, la manifestazione della generica intenzione “di agire in tutte le sedi più opportune», senza specificare se si intenda ottenere l'adempimento o la risoluzione del contratto (Cass. II, n. 4066/1990). La ratio della norma, infatti, è quella di fissare con chiarezza la posizione delle parti rispetto all'esecuzione del negozio, mediante un formale avvertimento alla parte diffidata che l'intimante non è disposto a tollerare un ulteriore ritardo nell'adempimento (Cass. II, n. 27530/2016; Cass. II, n. 3477/2012; Cass. II, n. 8844/2001). Tale manifestazione non può sopraggiungere in un momento successivo alla diffida (Cass. II, n. 3742/2006). Inoltre, la parte che prende l'iniziativa della diffida risolutoria deve offrire, sia pure per implicito, di adempiere contemporaneamente ed esattamente la propria obbligazione e deve assumersi l'onere di predisporre quanto è necessario perché la parte diffidata possa adempiere (art. 1206 c.c.): ad es., è inidonea, a determinare la risoluzione di un contratto preliminare di compravendita, la diffida con la quale il promittente venditore intimi genericamente al promissario acquirente di adempiere, nei quindici giorni, alle sue obbligazioni — la prima delle quali consista nella stipulazione dell'atto notarile di trasferimento —, senza predisporre ed indicargli il luogo, il giorno e l'ora della stipulazione dell'atto innanzi al notaio (Cass. II, n. 466/1976), salvo che la scelta del notaio rogante spetti allo stesso promissario acquirente diffidato, essendo in tal caso sufficiente che la diffida contenga soltanto la necessaria fissazione del termine entro il quale l'altra parte dovrà adempiere alla propria prestazione (Cass. II, n. 1898/2011). L'assegnazione alla parte inadempiente di un termine perentorio è ravvisabile anche nella fissazione della data entro la quale la parte medesima deve indicare il notaio rogante ed il giorno della stipulazione del definitivo (Cass. II, n. 7335/1983; vedi anche Cass. II, n. 7127/1993) Il termineIl termine fissato nella diffida deve essere congruo. La congruità deve essere valutata facendo riferimento, da un lato, alle concrete possibilità del debitore e, dall'altro, alla posizione del creditore e al limite di tempo durante il quale per questi la prestazione soddisfa ancora un interesse (Luminoso, Carnevali, Costanza, 445). In mancanza, qualora il termine fissato dalla legge o dal diffidante siano non adeguati rispetto all'esigenza che il diffidato sia posto in condizione di adempiere, il giudice può rimettere in termini il debitore (Bianca, 1994, 307). Il giudizio di congruità non è escluso dalla circostanza che il diffidante abbia fissato un termine superiore a quindici giorni (Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 619). Il termine fissato per l'adempimento è immodificabile, poiché non si può far rivivere un rapporto che il debitore, rinunciando ad adempiere, considera estinto; ne consegue che, decorso il termine fissato nella diffida, non è ammissibile la rinuncia agli effetti che la diffida ha prodotto (Bianca, 1994, 309; Luminoso-Carnevali, Costanza, 447; Dalmartello, 142; contra Aloisio, cit., 2). Un autore afferma che il creditore può prorogare il termine anche dopo la scadenza (Bianca, 1994, 309). In senso contrario altri autori sostengono che non sarebbe ammissibile neanche l'allungamento del termine, una volta che quello originariamente fissato sia scaduto (Natoli, 510; Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 617; contra Mosco, 158). Ove la diffida non contenga la precisazione del termine entro cui adempiere, essa non produce gli effetti previsti dalla norma, ma vale come mero invito ad adempiere, la cui inosservanza, lungi dal produrre lo scioglimento automatico del contratto, rileverà ai fini della valutazione dell'importanza dell'inadempimento (Luminoso, Carnevali, Costanza, 446). Si è anche sostenuto che il rifiuto di adempiere manifestato dopo la ricezione della diffida non esclude la possibilità per il debitore di adempiere ugualmente nel termine indicato nella diffida (Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 620). Secondo la giurisprudenza, il giudizio sulla congruità del termine di quindici giorni previsto dall'art. 1454 c.c.non può essere unilaterale ed avere ad oggetto esclusivamente la situazione del debitore, ma deve prendere in considerazione anche l'interesse del creditore all'adempimento ed il sacrificio che egli sopporta per l'attesa della prestazione. Ne consegue che la valutazione di adeguatezza va commisurata — tutte le volte in cui l'obbligazione del debitore sia divenuta attuale già prima della diffida — non rispetto all'intera preparazione all'adempimento, ma soltanto rispetto al completamento di quella preparazione che si presume in gran parte compiuta, non potendo il debitore, rimasto completamente inerte sino al momento della diffida, pretendere che il creditore gli lasci tutto il tempo necessario per iniziare e completare la prestazione (Cass. I, n. 11493/2014; Cass. II, n. 8250/2009). Il termine può essere anche inferiore a quindici giorni, non ponendo la norma in esame una regola assoluta, qualora ricorra una specifica pattuizione derogatoria ovvero purché tale minor termine risulti congruo per la natura del contratto o secondo gli usi (Cass. II, n. 19105/2012; Cass. II, n. 9085/1990; contra Cass. II, n. 542/1985; Cass. II, 2089/1982). In particolare, non attengono alla natura del contratto, e sono pertanto irrilevanti, il rifiuto della prestazione, reso anteriormente all'invio della diffida ad adempiere, il cui compimento è con questa richiesto, nonché la mancata indicazione da parte del debitore stesso di un termine per adempiere diverso, reputato congruo; né, infine, rileva il protrarsi dell'inadempienza del debitore oltre il termine assegnato, la quale è di per sé inidonea a determinare la risoluzione del contratto (Cass. I, n. 8943/2020). L'onere della prova della non congruità del termine è comunque a carico del diffidato (Cass. II, n. 5842/1980). Costituisce un accertamento di fatto la valutazione di congruità del termine assegnato al debitore ai sensi dell'art. 1454, co. 2, c.c., anche se inferiore a quello legale (Cass. VI-II, n. 22002/2019; Cass. II, n. 19105/2012). L'invio di una successiva diffida, dopo che la prima sia inutilmente scaduta (o la reiterazione di diffide), esclude l'operatività di quest'ultima e comporta la rimessione in termini del diffidato, decorrendo il termine dal ricevimento dell'ultima diffida (Cass. II, n. 4205/2016; Cass. VI-II, n. 14877/2011; Cass. II, n. 7079/1983). Il termine decorre dal momento in cui la diffida è ricevuta, salvo che il creditore non abbia indicato la decorrenza a partire da un momento ulteriore, sicchè non risulta decisiva la data di invio della comunicazione scritta contenente la diffida, bensì quella in cui l'atto è pervenuto al recapito cui era indirizzato (Cass. I, n. 8943/2020; Cass. n. 3583/1955). Secondo la S.C., il rifiuto di adempiere espresso dopo il ricevimento della diffida e prima della scadenza del termine legittima il creditore a ritenere già avvenuta la risoluzione, a fronte di un possibile ripensamento entro la scadenza del termine (Cass. n. 1638/1952). Occorre poi distinguere tra la controdiffida, che è l'atto attraverso cui il debitore propone di fissare, di comune accordo, un nuovo termine per l'adempimento, e l'opposizione alla diffida, la quale consiste in una domanda di accertamento negativo della ricorrenza dei presupposti della risoluzione, la cui mancanza impedisce l'operatività della diffida; non è, però, l'opposizione in sé ad impedire tale operatività, bensì l'inadeguatezza della diffida o l'insussistenza dell'inadempimento (Cass. I, n. 974/1971).. BibliografiaAuletta, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942; Belfiore, voce Risoluzione del contratto per inadempimento, in Enc. dir., Milano, 1988; Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994; Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1997; Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, Diritto civile, 1.2, Fatti e atti giuridici, Torino, 1990; Boselli, voce Eccessiva onerosità, in Nss. D.I., Torino, 1960; Busnelli, voce Clausola risolutiva espressa, in Enc. dir., Milano, 1960; Dalmartello, voce Risoluzione del contratto, in Nss. D.I., Torino, 1969; Grasso, Eccezione di inadempimento e risoluzione del contratto, Napoli, 1973; Luminoso, Carnevali, Costanza, in Comm. S.B., 1990; Mosco, La risoluzione del contratto per inadempimento, Napoli, 1950; Natoli, voce Diffida ad adempiere, in Enc. dir., Milano, 1964; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, rist. 1989; Smiroldo, Profili della risoluzione per inadempimento, Milano, 1982; Tartaglia, voce Onerosità eccessiva, in Enc. dir., Milano, 1980 |