Codice Civile art. 1515[I]. Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre456. [II]. Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre. 7 [III]. Se la filiazione nei confronti del genitore è stata accertata o riconosciuta successivamente all'attribuzione del cognome da parte dell'ufficiale dello stato civile, si applica il primo e il secondo comma del presente articolo; il figlio può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo al cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome dei genitori in caso di riconoscimento da parte di entrambi 8. [IV]. Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l'assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento [38, 51 att.] 910. [1] L’art. 7, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il Titolo, modificando la rubrica del Titolo (la precedente era «Della filiazione»), e sostituendo le parole «Capo II. "Della filiazione naturale e della legittimazione"»; «Sezione I. "Della filiazione naturale» e la rubrica del paragrafo 1 «Del riconoscimento dei figli naturali» con le parole: «Capo IV. "Del riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio"». [2] Articolo così sostituito dall'art. 111, l. 19 maggio 1975, n. 151. La Corte cost., con sentenza 23 luglio 1996, n. 297 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo «nella parte in cui non prevede che il figlio naturale, nell'assumere il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli con atto formalmente legittimo, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale». [3] L'art. 27, comma 1, lettera a) del d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha modificato la rubrica aggiungendo, dopo la parola: «figlio» le parole: «nato fuori del matrimonio». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [4] L'art. 27, comma 1, lettera b) del d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 ha soppresso, ovunque presente, la parola: «naturale». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [5] La Corte costituzionale, con sentenza 21 dicembre 2016, n. 286, ha dichiarato, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno. [6] La Corte costituzionale, con sentenza 31 maggio 2022, n. 131 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto; la medesima sentenza ha dichiarato, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 262, primo comma, e 299, terzo comma, cod. civ., 27, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede che il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell'ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l'accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto. [7] L'art. 27, comma 1, lettera c) d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il presente comma. Il testo precedente recitava: «Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [8] L'art. 27, comma 1, lettera d) d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha aggiunto il presente comma. Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [9] L'art. 27, comma 1, lettera e) d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito alle parole «l'assunzione del cognome del padre» le parole: «l'assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [10] La Corte costituzionale, con sentenza 21 dicembre 2016, n. 286, pubblicata in G.U. n. 52 del 28 dicembre 2016, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma desumibile dal presente articolo nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno. InquadramentoLa vendita in danno costituisce uno strumento di autotutela del venditore (Cass. II, n. 5222/1983) che gli consente di garantirsi il prezzo del bene in tempi rapidi, in modo, cioè, da non dover trattenere un bene a cui potrebbe non essere interessato ovvero da non rischiare di subire la perdita definitiva del prezzo (si pensi, ad esempio, al caso di beni a rapida obsolescenza). È controverso l'inquadramento di tale istituto. Secondo la giurisprudenza, si tratterebbe di una forma di esecuzione in forma specifica, con conseguente applicabilità della normativa relativa alla vendita forzata (Cass. II, n. 5697/1978, per la quale la vendita in danno presuppone l'esecuzione e non già la risoluzione per inadempimento della compravendita, sicché la relativa normativa non può trovare applicazione nel caso in cui la vendita sia stata risolta per inadempimento del venditore e si faccia questione in ordine ai danni patiti dal compratore). Secondo una parte della dottrina, invece, l'istituto in esame costituirebbe un'ipotesi di risarcimento del danno in forma specifica da risoluzione del contratto (Carpino, 297) oppure un atto di autotutela contrattuale, esercitabile a prescindere dall'intervento dell'autorità giudiziaria (Bianca, 1066), con conseguente inapplicabilità, secondo quest'ultima tesi, delle norme sulla vendita forzata (in particolare, l'art. 2922 c.c.). Tale particolare rimedio, comunque, ha carattere facoltativo, sicché si aggiunge e non si sostituisce alle ordinarie azioni contrattuali (Cass. I, n. 2140/1986), e non può essere esperito quando (come nel caso di compravendita non avente efficacia per il mancato verificarsi della condicio iuris cui era sottoposta) non sarebbe ammissibile l'ordinaria azione giudiziaria rivolta alla condanna del pagamento del prezzo (Cass. III, n. 2444/1968). Conseguentemente, il venditore, se non si avvale della vendita in danno, rimane abilitato ad esercitare ogni altro rimedio per l'inadempimento e non gli può essere imputato che l'aver omesso la vendita abbia aggravato la posizione del compratore (Mirabelli, 159; Bocchini, 191). Esauritosi, tuttavia, il procedimento di compravendita in danno, non saranno più esercitabili i diritti potestativi di annullamento e di rescissione del contratto originario, né di questo potrà essere chiesto l'adempimento o la risoluzione (Bocchini, 199). Anche in giurisprudenza si è, di recente, ribadito che l'autotutela prevista dalla norma in esame a favore del venditore che non ottiene il pagamento del prezzo è lasciata alla libera scelta della parte adempiente, per la quale costituisce, quindi, una facoltà e non un obbligo, con conseguente possibilità per la stessa di agire in via ordinaria per il risarcimento del danno, che va determinato nella sua entità dal giudice in base agli ordinari criteri posti dall'art. 1223 c.c., senza che possa trovare applicazione la regola stabilita dall'art. 1518 c.c. — per cui il risarcimento è dato dalla differenza tra il prezzo convenuto e quello corrente nel luogo e nel giorno pattuiti per la consegna, salva la prova di un maggiore danno — ove si tratti di cose non previste in tale norma di carattere eccezionale (Cass. II, n. 31308/2018). La norma in esame è stata modificata dall'art. 27, comma 2, d.lgs. n. 116/2017, recante la «Riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace», il quale ha attribuito al giudice di pace, in luogo del tribunale, la competenza in ordine a quanto previsto dal comma 3, disponendo contestualmente l'abrogazione dell'art. 73-bis disp. att. c.c. Tale modifica, tuttavia, entrerà in vigore il 31 ottobre 2025, ai sensi dell’art. 32, comma 3, d.lgs. n. 116/2017, come sostituito dall’art. 8-bis d.l. 162/2019, conv., con modif., in l. 8/2020. Presupposti e modalitàLa vendita in danno può essere eseguita se vi è inadempimento e a prescindere dalla sua imputabilità, in quanto l'indagine sulla causa del comportamento dell'altro contraente sarebbe incompatibile con l'onere del pronto rimpiazzo di cui agli artt. 1515 e 1516 c.c. (Carpino, 298; Bianca, 1078). È controverso se debba ritenersi necessaria una preventiva richiesta di adempimento e se operi il temperamento previsto dall'art. 1455 c.c. (in senso negativo, Carpino, 298; contra Bianca, 1078). Secondo la giurisprudenza, l'inadempimento della controparte che giustifica il ricorso alla vendita in danno deve risultare dalla costituzione in mora, salvo che quest'ultima non sia necessaria ai sensi dell'art. 1219 c.c. (Cass. n. 1958/1961). Il rimedio previsto dalla norma in esame deve avvenire, a pena d'inopponibilità, senza ritardo, cioè non appena si delinei l'inadempimento del compratore all'obbligazione di pagare il prezzo, comportando il ritardo una tacita rinunzia del venditore ad avvalersi di tale specie di rimedio (Cass. II, n. 5856/1985; Cass. III, n. 319/1965). Esso può riguardare qualsiasi bene mobile, anche infungibile; se le cose hanno un prezzo corrente, la vendita in danno può essere fatta anche senza incanto (Carpino, 298), tramite un commissionario (deve reputarsi un mero errore materiale l'utilizzo del sostantivo «commissario» presente nella norma in commento). Se la vendita avviene all'incanto, è necessario avvalersi di persona autorizzata al compimento di tali atti, e cioè, ai sensi dell'art. 83 disp. att. c.c.: agenti di cambio, per i valori pubblici e per i titoli di credito specificati nelle leggi sulle borse; mediatori in merci iscritti presso le camere di commercio, per le merci e derrate. In mancanza, la vendita deve essere eseguita a mezzo ufficiale giudiziario (Carpino, 298). Obbligata al compenso per l'opera prestata dai soggetti di cui sopra, autorizzati alle operazioni inerenti alla vendita in danno, è la parte che ha effettuato il rimpiazzo, salva la rivalsa nei confronti della parte inadempiente, a carico della quale, più in generale, devono porsi tutte le spese dell'operazione. Non è consentito derogare alle prescrizioni dettate dall'art. 1515 c.c., sicché non sussiste l'ipotesi richiamata se la vendita della merce ad un terzo non sia fatta a mezzo delle persone indicate nella norma anzidetta, a garanzia che il prezzo sia effettivamente quello ricavabile in base al normale mercato, onde evitare che sia indicato fittiziamente un prezzo inferiore, a tutela di una giusta liquidazione del danno (Cass. III, n. 437/1973). Nell'ipotesi in cui, pronunciata la risoluzione del contratto di compravendita, la cosa non possa essere restituita al venditore perché già venduta in danno del compratore, il debito avente ad oggetto la differenza fra il maggior prezzo stabilito nel contratto e quello ricavato dalla vendita forzata è un debito di valore, come tale soggetto a rivalutazione (Cass. II, n. 637/1996). L'obbligo di informare il compratoreIn entrambi i tipi di vendita, il venditore ha l'obbligo di dare avviso al compratore, ma, nella vendita all'incanto, è previsto un avviso precedente alla vendita; nella vendita senza incanto, invece, l'avviso è successivo, dà comunicazione dell'avvenuta vendita e deve essere «pronto»; in entrambi i casi si sostiene che l'omissione dell'avviso non rende inefficace la vendita nei confronti del compratore, ma pone a carico del venditore i danni che il compratore subisce per la mancata o tardiva conoscenza (Bianca, 1084; Mirabelli, 159; contra, a favore della tesi dell'inopponibilità, Carpino, 298). Anche la giurisprudenza ritiene che l'obbligo di informazione debba adempiersi sotto pena del risarcimento dei danni, e non di inefficacia della vendita, con la precisazione che tale obbligo può ritenersi adempiuto anche nel caso in cui il compratore inadempiente sia stato comunque informato aliunde della località in cui le operazioni indicate vengono effettuate (Cass. n. 2487/1950). Eseguita la vendita, se il ricavato supera l'ammontare sia del prezzo che delle spese, il supero è del compratore, atteso che la rivendita avviene «per conto» dello stesso (Mirabelli, 159; Greco-Cottino, 389; contra Bianca, ibidem, secondo cui l'eccedenza non spetterebbe alla parte inadempiente). Rivendita liberaAccanto all'istituto della rivendita per conto del compratore che abbia già acquistato la proprietà della cosa, di cui alla norma in esame, è riconosciuta la legittimità della cd. rivendita libera da parte del venditore, il quale, nel diverso caso in cui il compratore non sia divenuto ancora proprietario della cosa, non è obbligato a tenere questa presso di sé per tutta la durata della causa intentata contro il compratore inadempiente, ma, durante lo svolgimento di essa, può liberamente rivenderla ad altri per proprio conto, esercitando una facoltà che gli compete e che non può essere contestata dal compratore (Cass. II, n. 3405/1986). Nel caso di inadempimento del compratore, sul venditore che si sia avvalso della pattuita facoltà di rivendere «al meglio» la merce a trattativa privata, senza l'osservanza delle formalità previste dall'art. 1515 c.c., incombe, qualora si controverta sulla congruità del prezzo praticato, quanto meno l'onere di allegare i prezzi praticati nella zona riferiti al giorno della vendita (onde consentire alla controparte di dimostrare che il prezzo in concreto praticato non era «il migliore possibile»), dovendo in ogni caso provare che il prezzo in concreto praticato corrisponde a quello da lui indicato, in quanto l'entità del ricavo netto della vendita costituisce l'elemento fondamentale per la determinazione del danno, costituito dalla differenza tra il prezzo convenuto ed il ricavo netto della rivendita (Cass. II, n. 4169/1990). BibliografiaBianca, La vendita e la permuta, in Trattato Vassalli, 1993; Bocchini, La vendita di cose mobili, in Tr. Res., 2000; Bonfante, Il contratto di vendita, in Trattato Galgano, 1991; Carpino, La vendita, in Tr.Res., 1984; Greco, Cottino, Vendita, in Comm. S.B., 1981; Luminoso, I contratti tipici e atipici, Milano, 1995; Mirabelli, Della vendita, in Comm. UTET, 1991; Rubino, La compravendita, in Tr. Cicu-Messineo, 1971 |