Codice Civile art. 1647 - Nozione.Nozione. [I]. Quando l'affitto ha per oggetto un fondo che l'affittuario coltiva col lavoro prevalentemente proprio o di persone della sua famiglia, si applicano le norme che seguono [sempre che il fondo non superi i limiti di estensione che, per singole zone e colture, possono essere determinati dalle norme corporative] (1) [1654, 2079]. (1) Le disposizioni richiamanti le norme corporative devono ritenersi abrogate in seguito alla soppressione dell'ordinamento corporativo. InquadramentoNell'affitto a coltivatore diretto il legislatore detta una particolare disciplina proprio in considerazione del fatto che si tratta di attività posta in essere prevalentemente da un soggetto o da questi e la propria famiglia. Natura delle somme pagate in misura superiore a quella stabilita dalla leggeLa Corte di Cassazione ha mutato la propria precedente giurisprudenza in tema di contratti di affitto a coltivatore diretto, e di crediti da questi nascenti, affermando che non si applica, in materia, l'art. 429 c.p.c., comma 3 (Cass. n. 13687/2001: «le somme dovute dal concedente in restituzione di quanto pagato dal coltivatore diretto per canoni di affitto di un fondo rustico in misura superiore a quella stabilita dalla legge, configurano un credito di valuta, con la conseguenza che, ai fini della loro rivalutazione, il creditore è tenuto a fornire la prova del maggior danno oltre gli interessi legali, a norma del comma 2 dell'art. 1224 c.c., non essendo applicabile la disposizione dettata dall'art. 429 comma 3 c.p.c.»; Cass. n. 15033/2001; Cass. n. 11259/2002; Cass. n. 23506/2004). Pertanto, è stato affermato, configurando le somme dovute dal concedente in restituzione di quanto pagato per canoni d'affitto di un fondo rustico in misura superiore a quella stabilita per legge un credito di valuta, ai fini della loro rivalutazione il creditore è tenuto, a norma dell'art. 1224 c.c., comma 2, a fornire la prova del maggior danno oltre gli interessi legali. In particolare è esatto che in diverse occasioni da parte della Corte di cassazione si è affermato che la regola posta dall'art. 429 c.p.c., comma 3, (secondo cui in particolare «il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto») trova applicazione anche nelle controversie in tema di rapporti agrari. Si è ritenuto, pertanto, che siano soggetti alla disciplina di cui al ricordato art. 429 c.p.c., comma 3: — la somma depositata dall'affittuario di fondo rustico a titolo cauzionale (con decorrenza, peraltro, esclusivamente dalla data in cui il credito dell'affittuario diviene esigibile e, pertanto, dall'epoca della cessazione del rapporto: Cass. n. 9014/1999); — il credito che, per effetto della conversione di un contratto associativo agrario in contratto di affitto, l'ex mezzadro vanti in relazione al valore dei conferimenti in natura corrisposti, per la quota eccedente la misura del canone di affitto dovuto, spettano interessi legali e rivalutazione monetaria ai sensi dell'art. 429 c.p.c., n. 3 (Cass. n. 10924/1998); — i crediti del colono per differenze di riparto, in relazione ad un contratto di colonia parziaria (Cass. n. 2743/1998; Cass. S.U., n. 1682/1994); — i crediti dell'affittuario coltivatore diretto per le somme corrisposte al concedente in misura superiore a quella del canone legalmente dovuto (Cass. n. 96/1995). Una tale conclusione, ad avviso di questa Corte, non può seguirsi, con riferimento ai contratti di affitto a coltivatore diretto, e ai crediti hinc inde nascenti da questi. Se, in particolare «tutte le controversie in materia di contratti agrari... sono di competenza delle sezioni specializzate agrarie... ed assoggettate al rito di cui all'art. 409 c.p.c. e ss.», (l. n. 29/1990, art. 9, comma 1), ciò non può che significare che solo le norme «processuali», contenute nell'art. 409 c.p.c. e ss., sono riferibili alle controversie in materia di contratti agrari, e non certamente quelle «sostanziali». Non dubitandosi, né in dottrina, né presso una più che consolidata giurisprudenza di legittimità, che il precetto di cui all'art. 429, comma 3, è una norma «sostanziale» è palese che deve escludersi — come pure in qualche occasione si è affermato (Cass. n. 10924/1998) — che l'applicabilità dell'art. 429 c.p.c., comma 3, alle controversie relative ai rapporti di affitto agrario derivi dalla generale soggezione delle controversie de quibus al rito di cui all'art. 409 c.p.c. e ss., e, pertanto, anche alle norme sostanziali per ipotesi contenute in questi. Anche a prescindere da quanto precede, non può tacersi che la disposizione di cui all'art. 429 c.p.c., comma 3, contiene una deroga ai principi generali in tema di danni nelle obbligazioni pecuniarie ex art. 1224 c.c.) e deve, di conseguenza, qualificarsi «eccezionale» ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 14 preleggi, con la ulteriore conseguenza, pertanto, che la stessa non può trovare applicare «oltre i casi... in ess(o) considerati». Premesso quanto sopra e richiamata la stessa formulazione dell'art. 429 c.p.c., per la parte che ora interessa, si osserva che questo prevede che il giudice deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal creditore per la diminuzione di valore del suo credito, non ogniqualvolta «pronuncia sentenza di pagamento al pagamento di somme di denaro» (nella quale ipotesi l'assunto che qui si critica avrebbe una certa consistenza) ma solo qualora tali somme di denaro siano attribuite «per crediti di lavoro». Non si dubita, pertanto, che non si applica il regime degli interessi e della rivalutazione monetaria, propri dei crediti di lavoro e previdenziali, sulle somme dovute, a qualsiasi titolo, dal «lavoratore» al datore di lavoro o all'ente di previdenza, ancorché corrisposte per mero errore e quindi recuperate (C. conti, reg. Campania, sez. giur. 25 settembre 1996, n. 102; T.A.R. Marche 27 giugno 1997, n. 509), né sulle somme dovute, in sede di rinvio, ad un ente previdenziale in restituzione di altre da questo corrisposte senza titolo (Cass. n. 11545/1997), né sul compenso dovuto a un professionista per l'assolvimento di un singolo incarico (Cass. n. 6033/1987, nonché Cass. n. 5326/1998), o sui crediti dei funzionar onorari, quali i vice pretori onorari, ancorché incaricati della reggenza di una pretura (Cass. n. 285/1996). Pacifico quanto sopra è. palese che nell'ambito dell'ampia categoria dei contratti agrari occorre nettamente distinguere i contratti di «affitto» di fondi rustici da quelli «associativi». Avverte, al riguardo, la Relazione al vigente codice civile (n. 867) «il codice del 1865, seguendo la codificazione napoleonica, configura il contratto di mezzadria come un sottotipo dei contratti di locazione dei fondi rustici. Questa concezione antitetica con l'essenza dell'istituto, è stata giustamente ripudiata dalla Carta della mezzadria in data 13 maggio 1933. Il contratto di mezzadria ha infatti una struttura associativa, volto com'è a realizzare una collaborazione tra le parti per lo sfruttamento di un podere con divisione degli utili e delle perdite». Analogamente nella colonia «l'obbligo principale del concedente è quello di consegnare il fondo in istato da servire alla produzione alla quale è destinato (art. 2166 c.c.)», mentre «l'obbligo principale del colono è quello di prestare il lavoro secondo le direttive del concedente e le necessità della coltivazione... art. 2167 c.c.)» (Relazione, cit., n. 884). Quanto, infine, alla soccida «il suo scopo precisa la più volte ricordata Relazione (n. 888) — è proprio quello di associare colui che dispone del bestiame per l'allevamento con chi ha i mezzi necessari per l'allevamento stesso, in una completa comunanza di interessi, di guadagni e di rischi, in vista del conseguimento di un unico fine che è il miglior rendimento del bestiame conferito». Pacifico quanto sopra è evidente che «non sembra revocabile in dubbio che nel contratto associativo agrario, allorché il coltivatore reclami nei confronti del concedente la propria quota parte di prodotti e di utili, egli faccia valere il corrispettivo spettantegli per la erogazione delle energie lavorative che a quella creazione di ricchezza hanno contribuito, vale a dire che imposti la sua pretesa sulla relazione sinallagmatica diretta tra prestazione di mano d'opera e controprestazione di attribuzione di frutti con l'apporto di quel fattore produttivo realizzati (Cass. S.U., n. 1682/1994) da cui la natura di «credito di lavoro» delle somme de quibus (da assoggettare, come osservato sopra, alla disciplina di cui all'art. 429 c.p.c., comma 3). Tale discorso, per contro, ad avviso di questo collegio, come anticipato, non può ripetersi con riguardo a eventuali crediti dell'affittuario di fondo rustico, specie, allorché, come nel caso ora in esame hanno ad oggetto la restituzione di somme versate al concedente in misura eccedente il canone legale. Si è osservato, al riguardo, nella precedente giurisprudenza di legittimità, a sostegno dell'assunto che qui si critica, in particolare, che «la norma contenuta nel comma 3 dell'art. 429 c.p.c., tutela con particolare riferimento all'attività lavorativa, di per sè stessa considerata, al fine di evitare che il lavoratore subisca una diminuzione del proprio credito di lavoro in conseguenza del fenomeno della svalutazione monetaria. Sicchè l'applicazione della suddetta norma prescinde dal presupposto di un rapporto di lavoro subordinato vero e proprio, riguardando i crediti nascenti da rapporti di cui siano titolari coloro che abbiano erogato la loro energia lavoratrice nell'ambito di rapporti agrari non necessariamente caratterizzati da un vincolo di subordinazione del lavoratore nei confronti del concedente, ma anche nell'ambito di rapporti agrari non soggetti a siffatto vincolo, come i rapporti agrari associativi e, soprattutto, come il rapporto d'affitto a coltivatore diretto». «Poichè per credito di lavoro — ai sensi del combinato disposto dell'art. 409 c.p.c., e art. 429 c.p.c., comma 3, — deve intendersi qualsiasi credito del lavoratore, nascente da uno dei suddetti rapporti specificamente tutelati, non v'è ragione alcuna giuridica o logica — per escludere il credito dell'affittuario — determinato con sentenza di condanna — nei confronti del concedente, qualora tale credito sia costituito da quelle somme corrisposte a questo ultimo dal primo in misura superiore a quella del canone legalmente dovuto, poiché tali somme fanno, sostanzialmente, parte del reddito che l'affittuario coltivatore diretto ha ricavato dalla propria attività lavorativa svolta nell'ambito di un rapporto agrario e, quindi, costituiscono parte del suo reddito di lavoro, non dovuta al concedente e ripetibile, nei confronti dello stesso — appunto come credito di lavoro — in virtù di una sentenza di condanna» (Cass. n. 96/1995). Come anticipato l'assunto non può seguirsi. In primis si osserva che la causa del contratto di affitto agrario lungi dal porsi, come per i contratti associativi (agrari) in termini di collaborazione del fattore «capitale» con il fattore «lavoro» al fine di raggiungere un certo risultato, ancorché abbia ad oggetto una cosa produttiva (cfr. art. 1615 c.c.) è quella tipica dei contratti di locazione. È tale il contratto, in altri termini, con il quale una parte — il proprietario o, comunque, colui che ne ha la disponibilità di fatto — si obbliga a far godere all'altra parte una cosa per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo (art. 1571 c.c.). Certo quanto sopra è palese che la circostanza che in caso di affitto di fondo rustico il conduttore, avuta la disponibilità della cosa, eserciti sulla stessa la propria attività lavorativa è «assolutamente» irrilevante per l'altra parte del rapporto, cioè del concedente. Da quanto precede non può non evidenziarsi — al fine di escludere il credito di cui si discute da quelli «di lavoro» previsti dal più volte art. 429 c.p.c., comma 3, — che non vi è alcuna «relazione», tra l'attività lavorativa, svolta dal conduttore sul fondo, e il credito per cui è controversia (restituzione di canoni versati in eccesso), atteso che questo ultimo trova la propria causa, più che nel rapporto di affitto, nell'art. 2033 c.c. Come, in particolare, in presenza di lavoratori subordinati sono «redditi di lavoro», soggetti alla disciplina di cui all'art. 429 c.p.c., comma 3, esclusivamente le somme loro dovute dal datore di lavoro «a causa» del rapporto di lavoro, così non può dubitarsi, da un lato, che in caso di contratti associativi agrari sono «redditi di lavoro» solo quelli maturati, dal «prestatore di lavoro» in senso lato nei confronti dell'altra parte del rapporto, in conseguenza della prestazioni lavorative rese nell'interesse comune, dall'altro, che per l'affittuario coltivatore diretto hanno natura di «reddito di lavoro» solo le somme percepite a causa dell'attività lavorativa da lui esplicata, e, quindi, esclusivamente gli utili che egli ricava, detratte le spese, per la commercializzazione dei prodotti del proprio fondo. Conferma quanto precede il rilievo che ancorché la l. n. 392/1978, art. 79, comma 2, preveda — con riguardo alle locazioni di immobili urbani destinati ad abitazione — il diritto del conduttore «a ripetere le somme sotto qualsiasi forma corrisposte in violazione dei divieti e dei limiti previsti dalla presente legge», e nonostante tale azione di restituzione — non diversamente del resto, che per le controversie tra affittuario e concedente di fondo rustico — sia soggetta al rito delle controversie di lavoro, cioè alle disposizioni processuali di cui all'art. 409 e segg., ivi compreso l'art. 429 c.p.c., (Cass. n. 4236/1996; Cass. n. 71/1989) non si è mai dubitato (anche prima dell'art. 447-bis c.p.c., che ha risolto normativamente ogni questione al riguardo) che il credito per restituzioni dell'affittuario, ancorché per ipotesi «lavoratore dipendente», fosse soggetto alla disciplina di cui all'art. 1224 c.c. e non a quella di cui all'art. 429 c.p.c., comma 3. Pertanto, come già affermato dalla S.C. con una risalente pronunzia, le somme dovute dal concedente in restituzione di quanto pagato per canoni d'affitto di un fondo rustico in misura superiore a quella stabilita per legge, configurano un credito di valuta con la conseguenza che ai fini della loro rivalutazione, il creditore è tenuto a fornire la prova del maggior danno oltre gli interessi legali, a norma dell'art. 1224, comma 2, c.c. (Cass. n. 4621/1986). Pertanto, in tema di contratti di affitto a coltivatore diretto, le somme dovute dal concedente in restituzione di quanto pagato per canoni d'affitto di un fondo rustico in misura superiore a quella stabilita per legge (nella specie, per non essere stata censurata nel corso dell'udienza di discussione in grado di appello la sentenza del primo giudice che, in contrasto con la sentenza della Corte cost. n. 318/2002 dichiarativa — nelle more del giudizio di appello — della illegittimità costituzionale degli artt. 9 e 62 l. n. 203/1982 in tema di equo canone, aveva accertato un credito dell'affittuario per canoni pagati in più) è un credito di valuta non soggetto alla disciplina di cui all'art. 429, comma 3, c.p.c. e ai fini della sua rivalutazione il creditore è tenuto, a norma dell'art. 1224, comma 2, c.c., a fornire la prova del maggior danno oltre gli interessi legali e di crediti da questi nascenti (Cass. n. 5524/2008, a mente della quale: deve escludersi che il credito dell'affittuario, diretto conduttore di un fondo rustico, nei confronti del proprietario concedente, per canoni corrisposti in misura superiore a quella di legge integri un credito di lavoro di cui all'art. 429, comma 3, c.p.c. Non sussiste, infatti, alcuna relazione, tra l'attività lavorativa, svolta dal conduttore sul fondo, e il credito per canoni versati in eccesso, atteso che questo ultimo trova la propria causa, più che nel rapporto di affitto, nell'art. 2033 c.c. Come, in particolare, in presenza di lavoratori subordinati sono «redditi di lavoro», soggetti alla disciplina di cui all'art. 429, comma 3, c.p.c. esclusivamente le somme loro dovute dal datore di lavoro a causa del rapporto di lavoro e, non quindi, le somme reclamate nei confronti del locatore di immobili urbani, ai sensi dell'art. 79 l. n. 392/1978, ancorché il relativo giudizio si svolga con il rito del lavoro), così non può dubitarsi, da un lato, che in caso di contratti associativi agrari sono «redditi di lavoro» solo quelli maturati, dal «prestatore di lavoro» nei confronti dell'altra parte del rapporto, in conseguenza delle prestazioni lavorative rese nell'interesse comune, dall'altro, che per l'affittuario coltivatore diretto hanno natura di «reddito di lavoro» solo le somme percepite a causa dell'attività lavorativa da lui esplicata, e, quindi, esclusivamente gli utili che egli ricava, detratte le spese, per la commercializzazione dei prodotti del proprio fondo). Dimostrazione della qualità di coltivatore direttoLa qualità di coltivatore diretto, così come definita dall'art. 31 l. n. 590/1965 e gli altri requisiti necessari al riconoscimento del diritto di prelazione e riscatto in favore dell'affittuario di fondo rustico, ai sensi dell'art. 8 l. n. 590/1965 cit., integrano circostanze di fatto non soggette a limitazioni probatorie, né, in particolare, a quelle fissate dagli artt. 2721 ss. c.c., per cui possono esser dimostrate per testimoni e per presunzioni, così come possono esser desunte dal comportamento processuale della controparte, che abbia implicitamente o esplicitamente riconosciuto la loro sussistenza (Cass. n. 9604/1999: «la qualità di coltivatore diretto, così come definita dall'art. 31 l. n. 590/1965 e gli altri requisiti necessari al riconoscimento del diritto di prelazione e riscatto in favore dell'affittuario di fondo rustico, ai sensi dell'art. 8 legge precitata e successive modificazioni, integrano circostanze di fatto non soggette a limitazioni probatorie, né, in particolare, a quelle fissate dagli art. 2721 ss. c.c., per cui possono esser dimostrate per testimoni e per presunzioni, così come possono esser desunte dal comportamento processuale della controparte, che abbia implicitamente o esplicitamente riconosciuto la loro sussistenza»). Pertanto, in materia agraria, il possesso della qualità di coltivatore diretto da parte di chi esercita la prelazione o il riscatto può essere provato con qualsiasi mezzo, non escluse le presunzioni, e tale requisito è anche svincolato da qualsiasi preventivo accertamento o controllo amministrativo (Cass. n. 413/2006). In altri termini, il possesso della qualità di coltivatore diretto da parte di chi esercita la prelazione o il riscatto può essere provato con qualsiasi mezzo, non escluse le presunzioni (Cass. n. 5671/1997) e che nell'attuale ordinamento fondato sul principio del libero convincimento del giudice non esiste una gerarchia di efficacia delle prove, sicché, salvo il caso delle prove legali, il giudice può fondare su prove indiziare a preferenza di altre prove il proprio convincimento, del quale è solo tenuto a dare conto con motivazione immune da vizi logici o giuridici (Cass. n. 1747/2003). Sotto altro aspetto, l'art. 2751-bis n. 4 c.c. prevede il privilegio generale sui mobili per i crediti del coltivatore diretto relativamente ai corrispettivi della vendita dei prodotti. La Corte di Cassazione ha più volte chiarito, per un verso, che la nozione di coltivatore diretto, ai fini del riconoscimento di tale privilegio, deve essere desunta dalle norme civilistiche (art. 1647 e art. 2083 c.c.), da cui si evince che elemento qualificante della categoria è la coltivazione del fondo, da parte del lavoratore, con il lavoro prevalente proprio e di persone della famiglia. A tale concetto, infatti, si è riferito il legislatore anche quando, introducendo con la legge n. 426/1975 l'art. 2751-bis c.c., ha sostanzialmente equiparato (ai fini del privilegio) al lavoro subordinato talune figure di lavoratori-imprenditori, qualora l'impresa sia gestita dallo stesso lavoratore (Cass. n. 6002/1999). Per altro verso, ha precisato che, ai sensi dell'art. 2135 c.c. (nel testo anteriore al d.lgs. n. 228/2001), l'attività di allevamento di bestiame può essere considerata agricola, anziché commerciale, soltanto quando essa si presenti in collegamento funzionale con il fondo, nel senso che essa trae occasione e sviluppo dallo sfruttamento del fondo agricolo (Cass. n. 10527/1998; Cass. n. 17042/2002). Inoltre, ai fini della risoluzione del contratto di affitto a coltivatore diretto non è sufficiente la prova dell'intervenuta cancellazione del conduttore del fondo rustico dall'elenco degli iscritti per i contributi agricoli unificati in seguito al raggiungimento dei limiti di età, atteso che ciò che rileva, ai fini della qualità di coltivatore diretto, non è il dato formale della iscrizione in elenchi, bensì l'effettivo esercizio dell'attività agricola con lavoro prevalentemente proprio e della propria famiglia (Cass. n. 7445/2001). Da ciò consegue, quindi, che la qualità di coltivatore diretto deve essere fornita in concreto in relazione alle necessità colturali del fondo, senza che certificazioni anagrafiche o altre attestazioni amministrative possano assurgere al valore di prova piena (Cass. n. 5082/1998). Differenze rispetto al contratto di pascipascoloSecondo costante giurisprudenza di legittimità, ai fini della distinzione tra il contratto di vendita di erbe ed il contratto di affitto di terreno pascolivo, assume decisivo rilievo lo scopo perseguito dalle parti che, nel primo caso, come nella fattispecie in esame è diretto solo all'alienazione dell'erba prodotta e considerata come bene distinto dal terreno, con conseguente limitazione dell'attività dell'acquirente alla mera raccolta di essa restando estranea all'economia del contratto la gestione produttiva del fondo; nel secondo caso, invece, l'intento delle parti è diretto al godimento del terreno pascolativo, nel senso che il diritto dell'affittuario di far propria l'erba si inquadra in una gestione produttiva del fondo, che esso è libero di organizzare a suo piacimento, sicché l'uso del terreno costituisce il mezzo indispensabile per l'esercizio dell'attività produttiva (Cass. n. 746/1984; Cass. n. 876/1983; Cass. n. 5075/1981). Sotto altro aspetto, ilcontratto avente ad oggetto la vendita di erbe (cd. pascipascolo), è un contratto di natura personale ed a contenuto obbligatorio, il quale prescinde del tutto dall'esistenza di un diritto reale sul bene (Cass. n. 2852/1982; Cass. n. 6846/1982; Cass. n. 358/1983). L'indagine sulla legittimazione attiva attiene, infatti, non alla qualità di proprietario, ma a quella di parte del rapporto obbligatorio, che non deve necessariamente identificarsi con la persona del proprietario. BibliografiaBarraso, Di Marzio, Falabella, La locazione, Padova, 1988; Barraso, Di Marzio, Falabella, La locazione, contratto, obbligazione, estinzione, Torino, 2010; Bianca, Diritto civile, III, Milano, 2000; Carrato, Scarpa, Le locazioni nella pratica del contrato e del processo, Milano, 2010; Cuffaro, Calvo, Ciatti, Della locazione. Disposizioni generali. Artt. 1571-1606, Milano, 2014; Gabrielli, Padovini, Le locazioni di immobili urbani, Padova, 2005; Grasselli, La locazione di immobili nel codice civile e nelle leggi speciali, Padova, 2005. |