Codice Civile art. 1671 - Recesso unilaterale dal contratto.

Francesco Agnino

Recesso unilaterale dal contratto.

[I]. Il committente può recedere dal contratto [1660 3], anche se è stata iniziata l'esecuzione dell'opera o la prestazione del servizio [1373], purché tenga indenne l'appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno [1372, 2227].

Inquadramento

Con il recesso si consente al committente di troncare un rapporto contrattuale per il quale il suo interesse è venuto meno trattenendo la parte di opera o di servizio già eseguiti. Il legislatore, tuttavia, contempera questa esigenza con quella dell'appaltatore a non essere pregiudicato da un atto che non esige nemmeno una giustificazione: pertanto, questi ha diritto al compenso per quanto già eseguito e trattenuto dal committente nonché a ciò che avrebbe dovuto percepire se l'opera fosse stata compiuta per intero.

La domanda dell'appaltatore volta a conseguire dal committente il corrispettivo previsto per l'esercizio della facoltà di recesso pattuita in suo favore ai sensi dell'art. 1373 c.c. presuppone l'esistenza di un patto espresso che attribuisca al committente la facoltà di recedere dal contratto prima che questo abbia avuto un principio di esecuzione, nonché l'avvenuto esercizio del recesso entro tale limite temporale, ed ha per oggetto la prestazione, in corrispettivo dello ius poenitendi, di una somma (multa poenitentialis) integrante un debito di valuta e non di valore; diversa, invece è, la domanda dello stesso appaltatore di essere tenuto indenne dal committente avvalsosi del diritto di recesso riconosciutogli dall'art. 1671 c.c., la quale presuppone l'esercizio, in un qualsiasi momento posteriore alla conclusione del contratto e quindi anche ad iniziata esecuzione del medesimo, di una facoltà di recesso che al committente è attribuita direttamente dalla legge ed ha per oggetto un obbligo indennitario (Cass. n. 5368/2018).

In altri termini, la domanda proposta, da chi siasi obbligato ad eseguire corrispettivo una determinata opera, per ottenere la condanna della controparte al pagamento della «penale» convenzionalmente stabilita per l'ipotesi di un recesso della stessa dal contratto in un momento anteriore all'esecuzione del medesimo (nella specie, per l'eventualità di un recesso «del cliente» prima dell'«inizio dei lavori»), e quella dell'appaltatore di essere tenuto indenne, dal committente che si sia avvalso del diritto di recesso riconosciutogli dall'art. 1671 c.c., delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno, configurano domande sostanzialmente diverse quanto ai presupposti (di fatto e di diritto), all'oggetto, alle finalità pratiche perseguite.

La prima, riconducibile all'istituto del recesso unilaterale (convenzionale), previsto e disciplinato in generale dall'art. 1373 c.c., ha come presupposti l'esistenza di un patto espresso in forza del quale sia stata riconosciuta alla controparte la facoltà di recedere dal contratto prima dell'inizio della sua esecuzione, dietro pagamento — in funzione di corrispettivo dello jus poenitendi, e non di risarcimento del danno per la mancata esecuzione del contratto — di una somma determinata (o agevolmente determinabile sulla base di prefissati criteri o parametri), nonché l'avvenuto esercizio di tale facoltà prima che il contratto avesse un «principio di esecuzione». Oggetto della pretesa è la prestazione di simile corrispettivo (multa penitenziale), integrante, non diversamente da quello dovuto a titolo di penale contrattuale (Cass. n. 6995/1983; Cass. n. 5122/1985; Cass. n. 5583/1987; Cass. n. 2468/1988), un debito di valuta e non di valore, con conseguente irrilevanza della sopravvenuta svalutazione monetaria, salva l'applicabilità — ove ne ricorrano le condizioni — dell'art. 1224 c.c.

La seconda presuppone invece che il committente, avvalendosi di una facoltà direttamente attribuitagli dall'ordinamento giuridico (art. 1671 c.c.), in un qualsiasi momento posteriore alla conclusione del contratto, e quindi anche ad iniziata sua esecuzione, abbia manifestato in modo non equivoco una volontà contraria all'esecuzione o completamente dell'opera. Suo specifico oggetto sono le conseguenze indennitarie poste dal legislatore a carico del committente recedente, riconducibili, per funzione ed estensione, a quelle risarcitorie derivanti dall'inadempimento del committente medesimo (Cass. n. 1411/1987); ristoro delle perdite subite dall'appaltatore (per le spese sostenute ed i lavori eseguiti) e del mancato guadagno. Dalla natura di debito di valore propria dell'obbligazione dedotta in giudizio, discende poi che il giudice del merito, nel procedere alla quantificazione del danno in concreto sofferto dall'appaltatore, potrà applicare gli stessi criteri e principi dettati in tema di risarcimento del danno da inadempimento da quello delle possibilità di una valutazione del danno in via equitativa (Cass. n. 2608/1983), a quello della necessità di tener conto, anche d'ufficio, della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla data della liquidazione (Cass. n. 6132/1980; Cass. n. 1911/1981).

In tema di appalto di servizi, l'accordo circa la durata e la rinnovazione del rapporto non comporta deroga all'art. 1671 c.c., trattandosi di previsioni tra loro non incompatibili, giacché il rinnovo automatico, in mancanza di disdetta entro il termine pattuito, produce i suoi effetti solo sulla durata del rapporto, ma lascia inalterata la facoltà del committente di recedere dal contratto in qualsiasi momento, anche in corso di esecuzione, con obbligo di indennizzo verso l'appaltatore (Cass. n. 15335/2024).

Differenze tra risoluzione e recesso

Non diversamente, peraltro, nell'ambito della disciplina privatistica dell'appalto, mentre è preclusa al committente la facoltà di risolvere unilateralmente il contratto per inadempimento dell'appaltatore, non essendo egli titolare di poteri di autotutela, l'esercizio del diritto di recesso non è subordinato a particolari presupposti, ma può aver luogo per qualsiasi causa, il cui accertamento non è neppure richiesto ai fini della legittimità del recesso, non essendo configurabile un diritto dell'appaltatore alla realizzazione dell'opera o allo svolgimento del servizio, la cui prosecuzione risponde esclusivamente all'interesse del committente (Cass. n. 9645/2011; Cass. n. 10742/2008; Cass. n. 20811/2014).

Nei contratti a prestazione continuata o periodica (nella specie, l'appalto), la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento è alternativa alla domanda di accertamento dell'esercizio del recesso, distinguendosene per causa petendi e petitum, atteso che, mirando la prima a una pronuncia di carattere costitutivo che faccia risalire la risoluzione al momento dell'inadempimento ed essendo fondata sulla commissione di un illecito (mentre, l'altra, sull'esercizio di una facoltà consentita dalla legge), il suo accoglimento preclude l'esame delle altre cause di scioglimento del medesimo rapporto contrattuale. Ne consegue, ulteriormente, che tra dette domande non vi è rapporto di continenza, sicché possono essere proposte nello stesso giudizio, dovendo il giudice, in caso di rigetto delle domande di risoluzione, esaminare se sia fondata quella di declaratoria di legittimo esercizio del diritto di recesso (Cass. n. 7878/2011).

Pertanto, il diritto di recesso che l'art. 1671 accorda al committente è da questi esercitabile in qualsiasi momento dell'esecuzione del contratto di appalto e per qualsiasi ragione che induca il committente medesimo a porre fine al rapporto, non essendo configurabile un diritto dell'appaltatore (cui spetta unicamente l'indennizzo previsto dalla norma) a proseguire nell'esecuzione dell'opera o del servizio. Deriva da quanto precede, pertanto, sciogliendosi il contratto esclusivamente per effetto dell'unilaterale iniziativa del recedente — ancorché il recesso possa essere giustificato anche dalla sfiducia verso l'appaltatore per fatti di inadempimento — non è necessaria alcuna indagine sull'importanza di detto inadempimento e/o sulla ricorrenza di una giusta causa di recesso.

La dottrina (Rubino-Iudica, in Comm. S. B., 2007, 158) prevalente non ritiene necessario un preavviso.

Lo scioglimento anticipato del rapporto di appalto — che ne sia la causa — lascia permanere le specifiche obbligazioni, riconducibili al contratto, rispettivamente dell'appaltatore di lasciare libero il fondo, essendo l'occupazione dello stesso giustificata dal fine della realizzazione o completamento dell'opera, e del committente di non ostacolare e rendere possibile l'attuazione del correlato diritto dell'appaltatore di smontare il cantiere e di ritirare gli attrezzi ed i materiali da lui forniti e non ancora utilizzati.

Appalto di opera pubblica

In tema di appalto di lavori pubblici, il recesso ad nutum del committente previsto dall'art. 345 l. n. 2248/1865, all. F — diversamente dall'annullamento d'ufficio, che postula il riesame della legittimità dell'atto amministrativo da parte della p.a. che lo ha adottato, nell'ambito del suo potere di autotutela — è espressione di un diritto potestativo il cui esercizio, può avere luogo in qualsiasi momento e non richiede particolari presupposti, ma solo un'apposita manifestazione di volontà dell'Amministrazione.

Il recesso ad nutum, previsto dall'art. 345, all. F, l. n. 2248/1865, costituisce infatti espressione di un diritto potestativo, il cui esercizio, che determina lo scioglimento del contratto per iniziativa unilaterale del committente, può aver luogo in qualsiasi momento e non richiede particolari presupposti, ma solo un'apposita manifestazione di volontà della Amministrazione (Cass. n. 8565/1993; Cass. n. 1402/1972).

Obbligazione indennitaria e riparto dell'onere della prova

Relativamente all'oggetto dell'obbligo indennitario gravante sul committente che recede dal contratto, si osserva, in particolare, che il mancato guadagno è costituito dall'utile netto che l'appaltatore avrebbe potuto ricavare dal completamento dell'opera in riferimento ai lavori rimasti ineseguiti; e ciò in quanto i lavori già eseguiti devono essere pagati integralmente dal committente in base ai prezzi pattuiti, già comprensivi del guadagno dell'appaltatore. Pertanto, qualora il recesso avvenga prima dell'inizio dei lavori, il mancato guadagno si estende a tutto l'utile che l'appaltatore avrebbe ritratto dall'esecuzione dell'intera opera (Cass. n. 192/1942), ed è costituito dalla differenza tra il prezzo globale dell'appalto contrattualmente stabilito e le spese (non ancora sostenute e, quindi, non indennizzabili autonomamente ai sensi dell'art. 1671) che si sarebbero rese necessarie per l'esecuzione dei lavori.

Infatti, dà luogo ad una obbligazione di valore di natura indennitaria l'esercizio, posteriore alla conclusione del contratto, della facoltà di recesso unilaterale attribuita dall'art. 1671 al committente, che è tenuto a tenere indenne l'appaltatore del danno emergente e del lucro cessante, da liquidare anche in via equitativa, tenendo conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla data della liquidazione (Cass. n. 17340/2003). Trattasi di obbligazione risarcitoria come emerge dal significato etimologico-lessicale dell'espressione «tenga indenne» e dal principio per cui pure i danni derivanti da attività lecite vanno risarciti al danneggiato incolpevole (Cass. n. 77/2003).

Da ciò consegue che avendo l'indennizzo di cui all'art. 1671, spettante all'appaltatore in caso di recesso unilaterale da parte del committente, natura risarcitoria di un danno, lo stesso costituisce debito di valore e — non di valuta (Cass. n. 550/2014).

La domanda dell'appaltatore volta a conseguire dal committente il corrispettivo previsto per l'esercizio della facoltà di recesso pattuita in suo favore ai sensi dell'art. 1373 c.c. presuppone l'esistenza di un patto espresso che attribuisca al committente la facoltà di recedere dal contratto prima che questo abbia avuto un principio di esecuzione, nonché l'avvenuto esercizio del recesso entro tale limite temporale, ed ha per oggetto la prestazione, in corrispettivo dello ius poenitendi, di una somma (multa poenitentialis) integrante un debito di valuta e non di valore; diversa, invece è, la domanda dello stesso appaltatore di essere tenuto indenne dal committente avvalsosi del diritto di recesso riconosciutogli dall'art. 1671 c.c., la quale presuppone l'esercizio, in un qualsiasi momento posteriore alla conclusione del contratto e quindi anche ad iniziata esecuzione del medesimo, di una facoltà di recesso che al committente è attribuita direttamente dalla legge ed ha per oggetto un obbligo indennitario (Cass. n. 5368/2018).

Ovviamente, nell'ipotesi di recesso unilaterale del committente dal contratto, grava sull'appaltatore che chiede di essere indennizzato del mancato guadagno l'onere di dimostrare quale sarebbe stato il guadagno da lui conseguibile con l'esecuzione delle opere appaltate (differenza tra prezzo di appalto e costo delle stesse), restando salva per il committente la facoltà di provare che l'interruzione dell'appalto non ha impedito all'appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli ha procurato vantaggi diversi (Cass. n. 1189/1966; Cass. n. 77/2003, relativa proprio ad una ipotesi di recesso esercitato dal committente prima dell'inizio dei lavori).

In ipotesi di recesso unilaterale del committente dal contratto di appalto, ex art. 1671 c.c., grava sull'appaltatore, che chieda di essere indennizzato del mancato guadagno, l'onere di dimostrare quale sarebbe stato l'utile netto da lui conseguibile con l'esecuzione delle opere appaltate, costituito dalla differenza tra il pattuito prezzo globale dell'appalto e le spese che si sarebbero rese necessarie per la realizzazione delle opere, salva la facoltà, per il committente, di provare che l'interruzione dell'appalto non abbia impedito all'appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli abbia procurato vantaggi diversi (Cass. n. 28402/2017).

È stato di recente ribadito dalla Corte di cassazione che, in ipotesi di recesso unilaterale del committente dal contratto d'appalto, ex art. 1671 c.c., grava sull'appaltatore, che chieda di essere indennizzato del mancato guadagno, l'onere di dimostrare quale sarebbe stato l'utile netto da lui conseguibile con l'esecuzione delle opere appaltate, costituito dalla differenza tra il pattuito prezzo globale dell'appalto e le spese che si sarebbero rese necessarie per la realizzazione delle opere, salva la facoltà, per il committente, di provare che l'interruzione dell'appalto non abbia impedito all'appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli abbia procurato vantaggi diversi (Cass. n. 8853/2017; Cass. n. 9132/2012; Cass. n. 1189/1966).

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