Codice Civile art. 1366 - Interpretazione di buona fede.InquadramentoI criteri di interpretazione previsti dal codice civile sono di duplice natura, nel senso che un primo gruppo di norme (artt. 1362-1365 c.c.) regola l'interpretazione soggettiva (o storica), diretta ad accertare la comune intenzione delle parti mentre un secondo gruppo (artt. 1366-1371 c.c.) disciplina l'interpretazione oggettiva, la quale si propone di dare al contratto (o a sue singole clausole) il significato meglio rispondente ai valori di obiettiva ragionevolezza, equità e funzionalità, alla quale si fa ricorso quando la comune intenzione dei contraenti, pur dopo l'applicazione dei criteri appartenenti al primo gruppo, resta oscura o di dubbio significato. Nella distinzione tra le due macroaree resta, però, in posizione mediana la collocazione dell'art. 1366 c.c.: secondo un primo orientamento, si tratterebbe di una norma di interpretazione oggettiva (Carresi, 524), mentre per una diversa opzione si tratterebbe di una norma di interpretazione soggettiva, seppure sussidiaria (Bianca, 385). Una posizione intermedia tra le due appena esposte, infine, ritiene essersi in presenza di una norma di raccordo tra i due gruppi, riguardante al contempo, cioè, tanto l'interpretazione soggettiva che quella oggettiva, valevole sempre come criterio di applicazione di tutte le regole sull'interpretazione, quale vero e proprio «punto di sutura tra gli articoli che precedono e i seguenti», secondo quanto emerge dalla relazione del Guardasigilli (Mirabelli, 275) La buona fede rilevante ex art. 1366 c.c.Il criterio posto dall'art. 1366 c.c. ha carattere centrale nella teorica dell'interpretazione del contratto, imponendo che il contratto venga interpretato secondo la lettura che di esso ne darebbero i contraenti leali e corretti: ciò che, paradossalmente, può condurre finanche ad attribuire al contratto — o a sue singole clausole — un significato diverso da quello testuale delle espressioni che vi figurano, sì da superare atteggiamenti cavillosi o inutilmente oppositivi ad opera delle parti. Ricostruita quale clausola interpretativa trasversale alle due macroaree di cui si è detto (interpretazione soggettiva ed oggettiva), può dirsi che, ove correlata al primo gruppo di norme (artt. 1362-1365 c.c.), la buona fece va intesa nel senso che le dichiarazioni negoziali devono ritenersi provenienti da soggetti corretti e leali, secondo una sorta di presunzione di onestà che riguarderebbe chi emette la dichiarazione ed il destinatario; ove relazionata al secondo gruppo di norme (artt. 1367-1371 c.c.), invece, la buona fede va intesa come operazione ermeneutica che consente di valutare il contratto in termini di operazione economica utile ed equilibrata. La buona fede interpretativa rappresenta, pertanto, il punto di sutura tra la ricerca della reale volontà delle parti, costituente il primo momento del processo interpretativo, in base alla comune intenzione ed al senso letterale delle parole, ed il persistere di un dubbio sul preciso contenuto della volontà contrattuale, in base ad un criterio obiettivo, fondato su di un canone di reciproca lealtà nella condotta tra le parti, ed inteso alla tutela dell'affidamento che ciascuna parte deve porre nel significato della dichiarazione dell'altra (Cass. III, n. 6819/2001). Analogamente Cass. III, n. 12120/2005 per cui criteri legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia interna in forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi-integrativi, quale va considerato anche il principio di buona fede, sebbene questo rappresenti un punto di collegamento tra le due categorie. Contra, però, Cass. III, n. 8411/2003, per cui l'interpretazione del contratto secondo buona fede costituisce un mezzo ermeneutico sussidiario che presuppone la persistenza di un dubbio sul reale significato delle dichiarazioni contrattuali delle parti, sicché non è consentito farvi ricorso quando il giudice del merito, attraverso l'esame degli elementi di prova raccolti, abbia già accertato l'effettiva volontà delle parti. Nello stesso senso, ad esempio, Cons. Stato V, n. 7948/2023. L'indirizzo che riconosce alla clausola di buona fede oggettiva la portata di regola generale di interpretazione del contratto è dominante anche in dottrina (Bianca, 395; Mirabelli, 272). Va da sé, dunque, che il concetto di buona fede rilevante ai sensi dell'art. 1366 c.c. è quello di buona fede in senso oggettivo, conforme, cioè, ai canoni di correttezza, lealtà e chiarezza: in questo senso, si tratta della stessa buona fede che permea di sé gli artt. 1175,1337 e 1375 c.c., quale strumento di attuazione del dovere di solidarietà sociale posto dall'art. 2 Cost. I principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione e nell'interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175,1366 e 1375 c.c., rilevano sia sul piano dell'individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti: sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l'equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l'abuso del diritto (Cass. III, n. 20106/2009). Chiarisce Cass. III, n. 6675/2018 che, in tema di interpretazione del contratto, l'elemento letterale, sebbene centrale nella ricerca della reale volontà delle parti, deve essere riguardato alla stregua di ulteriori criteri ermeneutici e, segnatamente, dell'interpretazione funzionale, che attribuisce rilievo alla causa concreta del contratto ed allo scopo pratico perseguito dalle parti, oltre che dell'interpretazione secondo buona fede, che si specifica nel significato di lealtà e si concreta nel non suscitare falsi affidamenti e nel non contestare ragionevoli affidamenti ingenerati nella controparte. La comune intenzione dei contraenti deve essere dunque ricercata avendo riguardo al senso letterale delle parole da verificare alla luce dell'intero contesto negoziale ai sensi dell'art. 1363 c.c., nonché dei criteri d'interpretazione soggettiva di cui agli artt. 1369 e 1366 c.c., e volti, rispettivamente, a consentire l'accertamento del significato dell'accordo in coerenza con la relativa ragione pratica o causa concreta e ad escludere — mediante comportamento improntato a lealtà ed a salvaguardia dell'altrui interesse — interpretazioni cavillose deponenti per un significato in contrasto con gli interessi che le parti hanno voluto tutelare mediante la stipulazione negoziale. Ancora più chiara Cass. III, n. 5239/2004, per cui il criterio della buona fede nella interpretazione dei contratti deve ritenersi funzionale ad escludere il ricorso a significati unilaterali o contrastanti con un criterio di affidamento dell'uomo medio, ma non consente di assegnare all'atto una portata diversa da quella che emerge dal suo contenuto obiettivo, corrispondente alla convinzione soggettiva di una singola persona Ambito di applicabilità della previsioneSi ritiene in dottrina che la clausola di buona fede in sede interpretativa si applica anche relativamente ai negozi unilaterali recettizi (Grassetti, 906) mentre, difettando la ratio della tutela dell'affidamento del terzo, si esclude che essa si applichi al testamento. In giurisprudenza, mentre si concorda con la dottrina circa l'applicabilità del criterio della buona fede anche relativamente agli atti unilaterali (Cass. III, n. 12721/2007. Cfr. anche, a tale riguardo, Cass. I, n. 10235/1995: la lettera di patronage con la quale il patrocinante non si limita ad esternare la propria posizione di influenza — in base alla quale, avendo contenuto meramente «informativo», una eventuale responsabilità del medesimo può essere affermata alla stregua dei principi sanciti dagli artt. 1337 e 1338 c.c.-, ma assume degli «impegni», ha natura di negozio giuridico unilaterale, rientrando nello schema negoziale delineato dall'art. 1333 c.c. e, pertanto, in tal caso, nella ricerca dell'effettivo contenuto della dichiarazione del patrocinante, trovano applicazione — nei limiti in cui essi possono essere ritenuti applicabili anche ai negozi unilaterali in base a quanto disposto dall'art. 1324 c.c. — i principi sanciti dagli artt. 1362 e 1366 c.c. ed a quelli pre-negoziali. Cfr. anche Cass. III, n. 5239/2004, ci si discosta da quella laddove si ammette l'operatività della regola anche per il testamento (Cass. II, n. 1770/1955).. 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