Legge - 9/12/1998 - n. 431 art. 2 - Modalità di stipula e di rinnovo dei contratti di locazione.Modalità di stipula e di rinnovo dei contratti di locazione. 1. Le parti possono stipulare contratti di locazione di durata non inferiore a quattro anni, decorsi i quali i contratti sono rinnovati per un periodo di quattro anni, fatti salvi i casi in cui il locatore intenda adibire l'immobile agli usi o effettuare sullo stesso le opere di cui all'articolo 3, ovvero vendere l'immobile alle condizioni e con le modalità di cui al medesimo articolo 3. Alla seconda scadenza del contratto, ciascuna delle parti ha diritto di attivare la procedura per il rinnovo a nuove condizioni o per la rinuncia al rinnovo del contratto, comunicando la propria intenzione con lettera raccomandata da inviare all'altra parte almeno sei mesi prima della scadenza. La parte interpellata deve rispondere a mezzo lettera raccomandata entro sessanta giorni dalla data di ricezione della raccomandata di cui al secondo periodo. In mancanza di risposta o di accordo il contratto si intenderà scaduto alla data di cessazione della locazione. In mancanza della comunicazione di cui al secondo periodo il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni 1. 2. Per i contratti stipulati o rinnovati ai sensi del comma 1, i contraenti possono avvalersi dell'assistenza delle organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori. 3. In alternativa a quanto previsto dal comma 1, le parti possono stipulare contratti di locazione, definendo il valore del canone, la durata del contratto, anche in relazione a quanto previsto dall'articolo 5, comma 1, nel rispetto comunque di quanto previsto dal comma 5 del presente articolo, ed altre condizioni contrattuali sulla base di quanto stabilito in appositi accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative. Al fine di promuovere i predetti accordi, i comuni, anche in forma associata, provvedono a convocare le predette organizzazioni entro sessanta giorni dalla emanazione del decreto di cui al comma 2 dell'articolo 4. I medesimi accordi sono depositati, a cura delle organizzazioni firmatarie, presso ogni comune dell'area territoriale interessata 23. 4. Per favorire la realizzazione degli accordi di cui al comma 3, i comuni possono deliberare, nel rispetto dell'equilibrio di bilancio, aliquote dell'imposta comunale sugli immobili (ICI) più favorevoli per i proprietari che concedono in locazione a titolo di abitazione principale immobili alle condizioni definite dagli accordi stessi. I comuni che adottano tali delibere possono derogare al limite minimo stabilito, ai fini della determinazione delle aliquote, dalla normativa vigente al momento in cui le delibere stesse sono assunte. I comuni di cui all'articolo 1 del decreto-legge 30 dicembre 1988, n. 551, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 1989, n. 61, e successive modificazioni, per la stessa finalità di cui al primo periodo possono derogare al limite massimo stabilito dalla normativa vigente in misura non superiore al 2 per mille, limitatamente agli immobili non locati per i quali non risultino essere stati registrati contratti di locazione da almeno due anni 4. 5. I contratti di locazione stipulati ai sensi del comma 3 non possono avere durata inferiore ai tre anni, ad eccezione di quelli di cui all'articolo 5. Alla prima scadenza del contratto, ove le parti non concordino sul rinnovo del medesimo, il contratto è prorogato di diritto per due anni fatta salva la facoltà di disdetta da parte del locatore che intenda adibire l'immobile agli usi o effettuare sullo stesso le opere di cui all'articolo 3, ovvero vendere l'immobile alle condizioni e con le modalità di cui al medesimo articolo 3. Alla scadenza del periodo di proroga biennale ciascuna delle parti ha diritto di attivare la procedura per il rinnovo a nuove condizioni o per la rinuncia al rinnovo del contratto comunicando la propria intenzione con lettera raccomandata da inviare all'altra parte almeno sei mesi prima della scadenza. In mancanza della comunicazione il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni 5. 6. I contratti di locazione stipulati prima della data di entrata in vigore della presente legge che si rinnovino tacitamente sono disciplinati dal comma 1 del presente articolo. [1] Vedi l' articolo 2 del D.M. 30 dicembre 2002 . [2] Comma modificato dall'art. 2, l. 8 gennaio 2002, n. 2. Vedi anche gli articoli 1 e 5 del D.M. 30 dicembre 2002. [3] A norma dell'articolo 3, comma 2, del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, come modificato dall'articolo 9, comma 1, del D.L. 28 marzo 2014 n. 47 e dall'articolo 1, comma 6 della Legge 27 dicembre 2019, n. 160, per il quadriennio 2014-2017, l'aliquota prevista per i contratti stipulati secondo le disposizioni di cui al presente comma, relativi ad abitazioni ubicate nei comuni di cui all'articolo 1, comma 1, lettere a) e b), del D.L. 30 dicembre 1988, n. 551, convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 febbraio 1989, n. 61, e negli altri comuni ad alta tensione abitativa individuati dal Comitato interministeriale per la programmazione economica, l'aliquota della cedolare secca calcolata sul canone pattuito dalle parti e' ridotta al 10 per cento. [4] A norma dell'articolo 2, comma 288, della Legge 24 dicembre 2007, n. 244 il presente comma deve essere interpretato nel senso che le aliquote possono arrivare fino all’esenzione dall’imposta. [5] A norma dell'articolo 19-bis, comma 1, del D.L. 30 aprile 2019, n. 34, convertito con modificazioni dalla Legge 28 giugno 2019, n. 58, le disposizioni di cui al quarto periodo del presente comma, si interpreta nel senso che, in mancanza della comunicazione ivi prevista, il contratto e' rinnovato tacitamente, a ciascuna scadenza, per un ulteriore biennio. InquadramentoL'articolo in commento contiene l'indicazione delle due tipologie di contratti di locazione ad uso di abitazione che le parti possono stipulare e la disciplina in tema di durata e di rinnovo dei contratti stessi. Detta regolamentazione è integrata dal successivo art. 3, in cui è spiegato il meccanismo del diniego di rinnovo alla prima scadenza (modellato sulla disciplina delle locazioni non abitative: artt. 29 ss. l. n. 392/1978) e dall'art. 5 l. n. 431/1998, dedicato alle locazioni transitorie: quest'ultima norma, in particolare, chiarisce che il decreto con cui il Ministro dei lavori pubblici, di concerto con il Ministro delle finanze, definisce, a norma dell'art. 4 della stessa legge, i criteri generali per la definizione dei canoni, nel modello di cui all'art. 2, comma 3, stabilisce pure le condizioni e le modalità per la stipula dei contratti di locazione di natura transitoria “anche di durata inferiore” alle prescrizioni della legge stessa (e quindi dell'art. 2). L'art. 2 prevede, dunque, un primo modello a canone libero, in cui la durata minima del contratto è di quattro anni, con rinnovo automatico per altri quattro, salvo che il locatore non si avvalga della facoltà di denegare il rinnovo, in presenza delle condizioni tassativamente elencate dal primo comma dell'art. 3, e un secondo modello a canone “concordato” della durata di tre anni, con proroga (ma in realtà, più semplicemente, rinnovo) di due anni: sempre che, anche in questo secondo caso, il locatore, ricorrendone le condizioni (le medesime contemplate per le locazioni a canone libero), non intenda avvalersi del diniego di rinnovo alla prima scadenza. Questa seconda tipologia comprende i contratti che le parti possono concludere sulla base di quanto stabilito in appositi accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative; il comma 3 dell'art. 2 prevede che al fine di promuovere i predetti accordi, i comuni, anche in forma associata, provvedono a convocare le predette organizzazioni entro sessanta giorni dalla emanazione del decreto di cui al comma 2 dell'art. 4: è, questo, il decreto ministeriale che conferisce efficacia normativa alla convenzione nazionale di cui allo stesso art. 4. Schematicamente, infatti, si può dire che nella definizione dei contenuti dei contratti a canone concordato rilevano, nell'ordine: la detta convenzione, con cui si individuano “i criteri generali per la definizione dei canoni, anche in relazione alla durata dei contratti, alla rendita catastale dell'immobile e ad altri parametri oggettivi, nonché delle modalità per garantire particolari esigenze delle parti” (art. 4, comma 1) e con cui inoltre si approvano i tipi di contratto da adottare per la stipula (art. 4-bis, introdotto dalla l. n. 2/2002); il decreto del Ministro dei lavori pubblici, di concerto con il Ministro delle finanze – da emanare entro trenta giorni dalla conclusione della convenzione nazionale, ovvero dalla constatazione, da parte del Ministro dei lavori pubblici, della mancanza di accordo delle parti, trascorsi novanta giorni dalla loro convocazione – che recepisce i criteri generali approvati o che, in caso di mancato accordo delle associazioni, fissa direttamente tali criteri, basandosi sugli orientamenti prevalenti espressi; gli accordi territoriali stipulati, sulla scorta delle indicazioni di cui sopra, dalle associazioni maggiormente rappresentative a livello locale della proprietà edilizia e dei conduttori (accordi che, a differenza di quanto inizialmente previsto, non definiscono più i contratti-tipo, di cui invece si occupa, come si è detto, la convenzione nazionale). La realizzazione degli accordi territoriali è sostenuta dal legislatore accordando ai comuni la facoltà di deliberare, nel rispetto dell'equilibrio di bilancio, aliquote dell'imposta comunale sugli immobili più favorevoli per i proprietari che concedono in locazione a titolo di abitazione principale immobili alle condizioni definite dagli accordi stessi, derogando al limite minimo stabilito, ai fini della determinazione delle aliquote, dalla normativa vigente (art. 2, comma 4); secondo la norma di interpretazione autentica contenuta nell'art. 2, comma 288, l. n. 244/2007, poi, “tali aliquote possono arrivare fino all'esenzione dall'imposta”. I precedenti sulla durata e il rinnovo: la legge dell'equo canoneIl tema della durata minima della locazione ad uso abitativo è stato affrontato per la prima volta dalla l. n. 392/1978, che ha dato una disciplina organica alle locazioni urbane, affrancandosi dalla logica che aveva ispirato la legislazione vincolistica del periodo post-bellico. Come è stato osservato, l'art. 1 della detta legge, nel prevedere che la durata della locazione avente ad oggetto immobili urbani ad uso di abitazione non potesse essere inferiore a quattro anni, innovava sensibilmente al regime vincolistico che aveva preceduto l'entrata in vigore della legge medesima: regime che non aveva regolamentato la durata dei nuovi contratti di locazione, ma si era limitato a stabilire proroghe legali dirette a far fronte a circostanze contingenti, limitate nel tempo (Dogliotti, Figone, 239). La legge dell'equo canone, sotto tale aspetto, presentava una portata marcatamente innovativa, declinando il tema dell'estensione temporale del rapporto – disciplinato dal codice avendo riguardo alla durata massima o all'indeterminatezza della durata (artt. 1573 e 1574 c.c.) – con riferimento alla durata minima: e ciò faceva comminando la nullità delle pattuizioni che contravvenissero alla prescrizione legislativa, di natura cogente; la giurisprudenza aveva poi precisato che, in assenza di limiti quanto alla legittimazione a dedurre detta nullità e in mancanza di previsioni che conferissero a tale nullità natura relativa, la stessa, alla stregua del principio generale dell'art. 1421 c.c., poteva essere essere fatta valere da chiunque vi avesse interesse ed essere rilevata anche d'ufficio dal giudice (Cass. III, n. 1776/1989; Cass. III, n. 5827/1993). Ma la l. n. 392/1978 modificava anche il precedente assetto normativo delle locazioni urbane ad uso di abitazione, per le quali era stato operante, per lungo tempo, il regime di proroga, temperato dalla facoltà, in capo al locatore, e in casi particolari (v., ad esempio, art. 4 l. n. 253/1950), di far cessare tale coatta protrazione del vincolo. Si trattava, dunque, di una disciplina in forte discontinuità col passato, che i giudici di merito non tardarono a sospettare di incostituzionalità: e tuttavia, a più riprese il giudice delle leggi reputò che la nuova regolamentazione della durata e del rinnovo delle locazioni abitative fosse conforme alle norme della nostra carta fondamentale. Le censure di incostituzionalità avevano ravvisato nella disciplina introdotta con riguardo alla durata della locazione una penalizzazione del conduttore, incidente su suoi diritti di rango costituzionale, e assunto, in sintesi, che il legislatore avrebbe dovuto disciplinare la locazione abitativa prevedendo una figura di contratto a tempo indeterminato da cui il locatore potesse recedere solo per giusta causa: tali censure furono per l'appunto disattese (a partire dalla pronuncia di Corte cost. n. 252/1983). In una prospettiva opposta si era addirittura tacciato di incostituzionalità l'intero disegno della l. n. 392/1978, rilevandosi come il legislatore, dopo aver fallito nel suo compito di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana ed alla formazione della famiglia, che trova nella disponibilità di una abitazione la propria sede, avrebbe finito per imporre alla proprietà privata l'onere di realizzare tale obiettivo (così Pret. Roma 30 ottobre 1987): e a quest'ultimo proposito, il giudice delle leggi, richiamandosi a propri precedenti, aveva avuto modo di ribadire che la previsione relativa alla durata delle locazioni abitative rispondesse all'apprezzabile esigenza di assicurare ai conduttori un'adeguata stabilità del rapporto: vale a dire del godimento di un bene primario (Corte cost. n. 1028/1988). Segue. La legge sui patti in derogaNel 1992 il legislatore rimise mano alla disciplina delle locazioni abitative. Con il d.l. n. 333/1992, convertito, con importanti modificazioni, nella l. n. 359/1992, venne introdotto il regime del “patti in deroga”, che per diversi aspetti anticipa, con riguardo al profilo della durata, la disciplina vigente, contenuta nella l. n. 431/1998. L'art. 11 del detto decreto-legge (articolo abrogato dall'art. 14 l. n. 431/1998) prevedeva anzitutto, al comma 1, che le disposizioni in materia di equo canone non fossero applicabili ai contratti di locazione nuovi, aventi ad oggetto immobili per i quali, alla data di entrata in vigore del decreto, non fosse stata presentata la dichiarazione di ultimazione dei lavori, sempre che, al momento della conclusione del contratto, fosse stata richiesta la certificazione di abitabilità e presentata domanda di accatastamento (in tema, v. Cass. III, n. 1695/2006). Al comma 2, lo stesso art. 11 disponeva, poi, che nei contratti di locazione relativi ad immobili non compresi fra quelli di cui al comma 1, stipulati o rinnovati successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, le parti, con l'assistenza delle organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative a livello nazionale, tramite le loro organizzazioni provinciali, potessero stipulare accordi in deroga alle norme della citata l. n. 392/1978: ciò nei casi in cui il locatore rinunciasse alla facoltà di disdettare i contratti alla prima scadenza; quest'ultima facoltà era nondimeno fatta salva ove lo stesso locatore intendesse “adibire l'immobile agli usi o effettuare sullo stesso le opere di cui, rispettivamente, agli articoli 29 e 59 della citata l. n. 392/1978”. Con i patti in deroga si accordava dunque alle parti il potere di determinare liberamente l'ammontare del corrispettivo della locazione, ma si stabiliva che una tale estensione dell'autonomia contrattuale (altrimenti preclusa dalla disciplina dell'equo canone) dovesse essere compensato da una vera e propria restrizione del potere del locatore di far cessare il contratto alla prima scadenza: ai fini della deroga il locatore avrebbe dovuto infatti impegnarsi, nella sostanza, a consentire il rinnovo (impegno che non precludeva però allo stesso di intimare disdetta nei casi specifici di cui alle norme appena richiamate). Per la verità, nel suo impianto originario l'art. 11 subordinava la deroga all'ulteriore condizione dell'assistenza prestata, in sede di stipula, dalle associazioni rappresentative della proprietà e degli inquilini: la norma venne tuttavia sul punto dichiarata costituzionalmente illegittima (Corte cost., n. 309/1996). Nel complesso l'intervento legislativo del 1993 non privava la l. n. 392/1978 della sua posizione di centralità all'interno della materia delle locazioni urbane abitative, giacché i patti in deroga costituivano un'eccezione rispetto al regime dell'equo canone: come è stato osservato, al nuovo modello non poteva dunque conferirsi il carattere dell'ordinarietà (Lazzaro, Di Marzio, 54). Il rapporto tra regola (regime dell'equo canone) ed eccezione (regime dei patti in deroga) trovava fondamento proprio nel fatto che per superare le limitazioni che la l. n. 392/1978 fissava alla determinazione del canone era necessario che il locatore rinunciasse alla richiamata facoltà di dare disdetta alla prima scadenza, secondo uno schema più volte richiamato dalla Corte di legittimità in diverse pronunce sul tema (così, tra le più recenti: Cass III, n. 9254/2017; Cass III, n. 23794/2014; Cass. III, n. 8402/2009). Ci si era domandati quando, in concreto, ricorresse la rinuncia del locatore a dare disdetta per la prima scadenza. Sul punto la giurisprudenza aveva assunto una posizione di opportuno rigore: così, si era escluso che la condizione imposta dalla legge fosse soddisfatta dalla generica previsione secondo cui alla scadenza la locazione “si rinnova tacitamente per un egual periodo” (Cass. III, n. 14746/2007) o, peggio, dalla disposizione pattizia circa la “rinnovabilità” della locazione alla scadenza: espressione, questa, implicante la facoltà di scegliere se rinnovare o no il contratto, e quindi anche di optare, eventualmente, per la cessazione, con una tempestiva disdetta, secondo l'ordinaria disciplina dell'art. 3 della l. n. 392/1978 (così Cass. III, n. 3431/2002). Ma la suddetta rinuncia venne esclusa anche nell'ipotesi in cui nel contratto fosse contenuto un espresso richiamo all'art. 11 della l. 359/1992, ove le parti si fossero limitate a prevedere una clausola di rinnovo automatico della locazione per un secondo quadriennio nell'ipotesi di mancata comunicazione della disdetta al conduttore (Cass. III, n. 17034/2014; in precedenza, Trib. Palermo 20 marzo 2001). Allo stesso modo, si reputò insufficiente a integrare la condizione in esame la clausola pattizia di non aver inteso dar corso ad un contratto soggetto alla legge sull'equo canone, per la mancanza di quel minimum costitutivo richiesto dall'art. 11 del d.l. n. 333/1992 della rinuncia preventiva del locatore alla facoltà di inviare la disdetta alla prima scadenza (Trib. Verona 15 febbraio 2001). Fu poi giustamente escluso che tale rinuncia potesse essere sostituita da una durata di fatto della locazione, protrattasi per molti anni (nella specie, dodici) (Cass. III, n. 9254/ 2017). La necessità che il locatore rinunciasse a intimare disdetta per la prima scadenza imponeva poi di chiarire se le parti fossero libere di individuare detta scadenza e se, quindi, il modulo dei patti in deroga potesse applicarsi a contratti che prevedessero una durata inferiore a quella quadriennale, prevista dall'art. 1 l. n. 392/1978 (quali quelli conclusi per esigenze transitorie, a norma dell'art. 26 l. n. 392/1978). Al quesito venne dato un responso di segno negativo, osservandosi come, in relazione al bilanciamento degli interessi dei contraenti che il legislatore aveva inteso perseguire, la rinuncia alla disdetta da parte del locatore costituisse lo strumento per assicurare una maggiore stabilità del rapporto: il che implicava il riferimento al solo paradigma normativo di base possibile, che era individuato in quello della durata quadriennale delle locazioni abitative ordinarie; in difetto – si osservava – sarebbe mancato un parametro di raffronto cui correlare il vantaggio effettivo minimo, e non solo nominale, che si era inteso garantire al conduttore (Cass. III, n. 4678/1998). In tal senso si era pertanto escluso che la deroga alla disciplina dell'equo canone potesse trovare fondamento in un contratto di locazione stipulato per una durata di due anni più due (Cass. III, n. 8402/2009; Cass. III, n. 18509/2007; Cass. III, n. 21243/2006). Naturalmente, in presenza di un contratto che prevedesse la rinuncia del locatore alla disdetta per la prima scadenza infraquadriennale, la condizione prevista dall'art. 11 del d.l. n. 333/1992 non trovava riscontro, onde la deroga alla disciplina legale dell'equo canone non poteva reputarsi valida; si determinava, cioè, una situazione equivalente a quella della stipula di patto in deroga in assenza della rinuncia del locatore alla disdetta per la prima scadenza: situazione in presenza della quale la Cassazione riteneva non potesse operarsi l'inserimento automatico della rinuncia stessa, pena l'inammissibile introduzione nel contratto di un requisito essenziale mancante, e, in ultima analisi, la creazione di un contratto di una tipologia diversa da quella voluta dalle parti (Cass. III, n. 3431/2002). Il nuovo regime: il doppio quadriennio dei contratti a canone liberoIl legislatore del 1998 segue, per i contratti di cui all'art. 2, comma 1, della l. n. 431, uno schema che ricalca quello dei patti in deroga: che è quello del rapporto di durata quadriennale con divieto, per il locatore, di dare disdetta per la prima scadenza (salve le ipotesi tassativamente indicate dalla legge: nella specie, dal successivo art. 3). Si tratta, tuttavia, di un modello che si distingue nettamente da quello introdotto con l'art. 11 d.l. n. 333/1992 avendo riguardo al suo presupposto applicativo: che non è più dato dalla volontà delle parti di derogare alla disciplina dell'equo canone attraverso un negozio connotato dalla rinuncia del locatore alla facoltà di far cessare il contratto alla prima scadenza, quanto, piuttosto, dalla prescrizione normativa che individua nel doppio quadriennio l'elemento distintivo di uno dei due tipi di locazione abitativa ordinaria (non transitoria) che le parti possono concludere. Il che ha delle conseguenze significative sul piano pratico: basti considerare che la clausola del contratto di locazione a canone libero che preveda una scadenza inferiore ai quattro anni è nulla, in quanto viola una norma imperativa sulla durata, senza che ciò abbia ripercussioni sulla misura del canone, che resta quella convenuta contrattualmente; diversamente accadeva nel caso di stipula di patti in deroga, giacché questi non ammettevano un corrispettivo superiore all'equo canone ove non fosse assicurato al conduttore un contratto che prevedesse il ciclo di un doppio quadriennio. Nel regime della l. n. 431/1998, la nullità della disposizione contrattuale che preveda una durata inferiore a quella indicata dall'art. 3 è espressamente comminata dall'art. 13 della stessa legge: disposizione che, occupandosi dei “limiti di durata del contratto”, riguarda ovviamente anche le locazioni a canone concertato. L'art. 2 non conferisce espressamente al conduttore la facoltà di intimare disdetta per la prima scadenza e ciò ha indotto alcuni autori a ritenere che, salvo non ricorra una delle ipotesi legittimanti il diniego di rinnovo del locatore, la durata ordinaria del contratto rimarrebbe fissata in otto anni: in tal senso, il locatario potrebbe far cessare il contratto prima del detto termine solo avvalendosi del recesso (quello convenzionale, di cui all'art. 4, comma 1, l. n. 392/1978, o quello fondato su gravi motivi, giusta l'art. 3, comma 6, l. n. 431/1998) (Carrato, 25; analogamente Bucci, 56) Tale soluzione risulta seguita in giurisprudenza (Trib. Bergamo 27 ottobre 2010), secondo cui, per il combinato disposto degli artt. 2 e 3 l. n. 431/1998 è consentito al solo locatore inviare disdetta motivata per la prima scadenza contrattuale, potendo il conduttore esercitare soltanto la facoltà di recesso. In senso contrario, è stata valorizzata la ratio della disciplina, che mirerebbe a favorire il conduttore: tale ratio imporrebbe allora di consentire anche al conduttore di impedire la rinnovazione del rapporto comunicando al locatore il suo intendimento, senza alcuna motivazione, prima della rinnovazione del contratto (Verardi, 255). È sicuro, poi, che la prescrizione normativa non escluda il potere delle parti di stabilire la durata del contratto in un termine maggiore rispetto al quadriennio: deve però negarsi che le parti possano, per così dire, frazionare gli otto anni a loro piacimento, contemplando, ad esempio, che a una durata ultraquadriennale si sommi un rinnovo infraquadriennale (Gabrielli, Padovini, 501). Va segnalato che né l'art. 2, né l'art. 13 della l. n. 431/1998 si occupano dell'ipotesi (per la verità affatto rara) della mancata previsione convenzionale della durata del rapporto (fattispecie, questa, di contro espressamente contemplata dall'art. 1 l. n. 392/1978). È tuttavia da condividere la soluzione di chi ha sostenuto doversi in tal caso applicare al contratto la durata quadriennale prevista per legge, conferendosi al disposto dell'art. 2, comma 1, della l. n. 431/1998, una portata, in ultima analisi, non solo sostitutiva, ma pure integrativa (Carrato, 24). Per tirare le fila, dunque, alla prima scadenza il locatore potrà provocare il venir meno del vincolo solo in presenza delle condizioni di cui all'art. 3, mentre pare doversi ritenere che il conduttore possa dare sempre disdetta. Alla seconda scadenza, il locatore, al pari del conduttore, potrà far cessare il contratto con semplice disdetta. Il regime giuridico della disdetta riferibile alla prima o alle successive scadenze contrattuali è questione di diritto. Tuttavia l'omessa indicazione alle parti di una questione mista di fatto e di diritto, rilevata d'ufficio, sulla quale si fondi la decisione, priva le parti del potere di allegazione e di prova sulla questione stessa. Facendo applicazione di tale principio, in una fattispecie in cui il conduttore aveva richiesto il risarcimento dei danni patiti perché la locatrice, ottenuto il rilascio dell'immobile per diniego del rinnovo del contratto di locazione ad uso abitativo, non lo aveva destinato allo scopo comunicato, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di appello che, non attenendosi al richiamato principio, aveva rilevato d'ufficio, senza consentire alle parti di dedurre sul punto, la questione di diritto concernente la circostanza che la disdetta era relativa alla seconda scadenza, con conseguente inapplicabilità dell'art. 3, comma 5, l. n. 431 del 1998, disposizione invocata dal menzionato conduttore (Cass. III, n. 11308/2020). E da aggiungere che, in mancanza di una iniziativa in tal senso, la locazione andrà incontro a un ulteriore rinnovo. Il nuovo ciclo contrattuale avrà, poi, durata quadriennale, sicché alla successiva scadenza il contratto potrà essere fatto cessare, ancora, previa comunicazione di mera disdetta, non occorrendo il diniego di rinnovo: la riconduzione, in altri termini, sarà di quattro anni e non di quattro anni più quattro. Diverse conseguenze si determinano se, alla seconda scadenza, le parti, nel convenire nuove condizioni, addivengano a una vera e propria novazione della locazione: in questo caso, infatti, avrà vita una nuova locazione la cui disciplina, quanto alla durata, resterà assoggettata all'art. 2, comma 1, della l. n. 431/1998. La disdetta e la cessazione del contratto alla naturale scadenzaNel quadro definito dall'art. 2 in commento, il contratto, alla prima come alla seconda scadenza, cessa in forza di disdetta. Per lo scoccare del primo quadriennio la legge prevede che il locatore possa affrancarsi dal vicolo manifestando alla controparte la propria volontà di adibire l'immobile agli usi o effettuare sullo stesso le opere di cui all'art. 3, ovvero vendere l'immobile alle condizioni e con le modalità di cui al medesimo articolo: in tal caso la disdetta deve essere motivata, secondo lo schema, già ampiamento collaudato, descritto dall'art. 29 della l. n. 392/1978. Per la seconda scadenza l'art. 2, comma 1, prevede una articolata procedura, che, oltre a non essere sanzionata, è stata ritenuta giustamente superflua, dal momento che quel che rileva, ai fini della cessazione del contratto, è il fatto che una delle parti abbia intimato all'altra disdetta entro sei mesi dalla scadenza e il dato del mancato accordo di locatore e conduttore quanto alla prosecuzione del rapporto (Bucci, 51). In termini generali, la disdetta può definirsi come atto negoziale unilaterale e recettizio, concretantesi in una manifestazione di volontà diretta ad impedire la prosecuzione o la rinnovazione tacita del rapporto locativo (per tutte, v. Cass. III, n. 409/2006). Tale complessa definizione dell'atto si spiega avendo riguardo alle diverse tipologie delle locazioni contemplate dal codice civile (art. 1596 c.c.): a tempo determinato e a tempo indeterminato. Con riferimento alle prime, infatti, la disdetta è idonea a provocare la cessazione del contratto alla scadenza, impedendo che il rapporto si perpetui nel tempo, secondo uno schema operativo che è stato pure utilizzato dal legislatore del 1978 e da quello del 1998 per le locazioni di immobili urbani: la disdetta, per tali rapporti, opera, quindi, quale elemento di una fattispecie estintiva. Per contro, con riguardo alle locazioni a tempo determinato regolamentate dal codice civile, la disdetta non incide sulla cessazione del contratto di locazione, che si produce in ragione della mera scadenza del termine, ma opera quale fatto impeditivo della rinnovazione tacita (art. 1597, comma 3, c.c.): se è stata intimata disdetta, tale rinnovazione non può più desumersi dalla condotta di inerzia tipizzata legalmente (protrazione della detenzione dell'immobile da parte del conduttore, consentita dal locatore). Corollario di tale duplice funzione della disdetta è il principio per cui l'atto non possa mai determinare una cessazione del rapporto prima della sua naturale scadenza. In conseguenza, se la disdetta è stata intimata per un termine anteriore rispetto a quello di effettiva scadenza, essa avrà effetto per la data in cui il rapporto può venire effettivamente a cessare (Cass. III, n. 1318/1996; Cass. III, n. 2076/1989). Allo stesso modo, è irrilevante che la disdetta si riferisca ad una scadenza già verificatasi, giacché la disdetta inidonea, per inosservanza del termine, a produrre la cessazione della locazione per la scadenza indicata, ha l'efficacia di produrla per la scadenza successiva (Cass. III, n. 12607/2018; Cass. III, n. 14486/2008; Cass. III, n. 7352/1997). Più controverso è quel che si verifica allorquando la disdetta sia comunicata per un termine successivo a quello in cui la locazione potrebbe cessare. La giurisprudenza oscilla, infatti, tra la tesi del rinnovo del contratto (Pret. Milano 29 ottobre 1983) e la ricerca di una soluzione che, valorizzando il significato che possa attribuirsi alla volontà dell'intimante, tenga conto, nella sostanza, dell'affidamento ingenerato nel destinatario della disdetta (Pret. Verona 11 gennaio 1991; Pret. Pisa 17 marzo 1993). L'effetto della cessazione della locazione alla scadenza successiva rispetto a quella per cui essa è stata comunicata opera anche nel caso in cui la disdetta, intimata per lo spirare del primo quadriennio, non possa valere quale diniego di rinnovo: infatti, la disdetta priva della specificazione dei motivi di diniego, intimata per la prima delle scadenze nel regime della l. n. 431/1998, benché inidonea ad impedire la rinnovazione contrattuale a tale data, è automaticamente valida per quella immediatamente successiva, salvo che dalla disdetta stessa o da un'opposta univoca volontà successiva dell'intimante non risulti una espressa indicazione in senso contrario (Cass. III, n. 27541/2014; si tratta del medesimo principio affermato, da tempo, in tema di locazioni non abitative, per cui il diniego di rinnovazione della locazione ex art. 29 della l. n. 392/1978, nullo in relazione alla prima scadenza, ben può convertirsi in una disdetta cosiddetta “semplice” o a regime “libero” (non essendo richiesto che sia motivata), valida per la seconda scadenza contrattuale, recando essa il contenuto inequivocabile della manifestazione di volontà contraria alla prosecuzione e alla rinnovazione del rapporto (Cass III, n. 264/2011; Cass. III, n. 13641/2004). La forma della disdettaQuanto alla forma, occorre ricordare che l'art. 3 della l. n. 392/1978 aveva previsto che la disdetta delle locazioni abitative dovesse essere comunicata con lettera raccomandata; ci si era quindi chiesti se con tale norma fosse stato introdotto, per la disdetta, un particolare regime formale: e cioè se, in forza della detta disposizione, dovesse ritenersi che l'atto in questione soggiacesse, oramai, alla forma scritta ad substantiam. La Corte di legittimità si era orientata in senso negativo. Era stato osservato come l'art. 3 della l. n. 392/1978 disponesse che l'intenzione di non rinnovare il contratto fosse comunicata all'altra parte con lettera raccomandata, senza che tuttavia tale forma fosse prescritta a pena di nullità: e si era negato che potesse pervenirsi in via interpretativa a ritenere che lo fosse, visto che in materia di locazione vigeva il principio, non derogato che per le locazioni ultranovennali, della libertà di forma (Cass. III, n. 11982/1991). Se ne desumeva che la disdetta potesse essere comunicata al conduttore anche in forma diversa da quella prescritta dall'art. 3, purché mediante un atto idoneo a rivelare inequivocabilmente nel caso concreto la volontà di non rinnovare il contratto alla scadenza (Cass. III. n. 11899/1998; Cass. III, n. 12496/2000). La giurisprudenza si era quindi dimostrata particolarmente liberale nel prendere in considerazione le diverse fattispecie che le si erano prospettate. Si era così ritenuto che la disdetta potesse essere contenuta in un atto processuale come l'intimazione di sfratto per finita locazione, nel quale, però, doveva essere espressa chiaramente e senza possibilità di equivoci la volontà del locatore, ovvero risultare che detta volontà era presupposta logicamente e giuridicamente (Cass. III, n. 409/2006; Cass. III, n. 8443/1995): assunto che è stato ribadito anche nella vigenza dell'articolo in commento dalla giurisprudenza successiva (Cass. III, n. 28471/2017); a maggior ragione doveva rivelarsi idonea a produrre gli effetti della disdetta l'intimazione di licenza per finita locazione, assumendo quest'ultima, sul piano sostanziale, il valore di un atto negoziale inteso ad evitare la tacita riconduzione (Cass. III, n. 289/1986, secondo cui l'esigenza processuale della contestualità della intimazione e della citazione per la convalida, comporta che il mandato alle liti conferito dall'istante a margine o in calce dell'atto di citazione vada riferito non soltanto ad una rappresentanza processuale, ma anche ad una rappresentanza negoziale dell'istante medesimo, avendo la volontà di riavere l'immobile come necessario presupposto quello di impedire la rinnovazione della locazione; v. pure Cass. III, n. 8729/2011); allo stesso modo, in tema di locazioni non abitative, era stato affermato che l'ordinanza di “sfratto amministrativo” emessa da un comune in relazione a terreno appartenente al proprio patrimonio disponibile costituisse atto equipollente a quelli previsti dall'art. 28 della l. n. 392/1978 e, come tale, fosse idoneo a far cessare il rapporto (Cass. III, n. 27931/2005). Si era pure reputato possibile che la manifestazione di volontà di porre fine al rapporto si attuasse con la notificazione degli atti di un precedente giudizio, definito con il rigetto della domanda di cessazione del contratto (Trib. Milano 9 febbraio 1995); con riferimento alla locazione non abitativa la S.C. ha rilevato, poi, che la richiesta giudiziale di cessazione del rapporto fosse idonea a costituire disdetta del contratto ove pure proposta in alternativa ad altra domanda di rilascio del cespite perchè occupato sine titulo (Cass. III, n. 19410/2016). Riconoscendo che la disdetta del contratto di locazione per uso abitativo fosse suscettibile di essere comunicata anche con una forma diversa da quella prescritta dall'art. 3 della l. n. 392/1978, sempre che risultasse inequivocabilmente idonea a rivelare, nel caso concreto, la volontà di non rinnovare il contratto alla scadenza, e che essa potesse essere contenuta, quindi, anche in un atto processuale che logicamente o giuridicamente presupponesse la volontà della disdetta o che, comunque, nel caso concreto, esprimesse anche la volontà del locatore di non rinnovare il contratto alla scadenza, la Suprema Corte aveva tuttavia negato che tale volontà potesse considerarsi implicitamente espressa nell'intimazione di sfratto per morosità, e ciò in quanto tale atto non la presuppone logicamente o giuridicamente: si riteneva necessario così, perché questo effetto si producesse, che il giudice accertasse in concreto che tale intimazione esprimesse anche la volontà del locatore di non rinnovare il contratto alla scadenza (Cass. III, n. 11982/1991). Sul presupposto che la disdetta potesse essere trasmessa con mezzi diversi dalla lettera raccomandata, la giurisprudenza aveva poi individuato degli equipollenti di essa nella trasmissione operata a mezzo di spedizioniere (Trib. Napoli 9 luglio 1985), attraverso ufficiale giudiziario (Pret. Fidenza 5 luglio 1988) o messo di conciliazione (Cass. III, n. 2898/1985), con invio di raccomandata “a mano” (Pret. Roma 29 settembre 1984; Pret. Padova 23 giugno 1989; Trib. Potenza 15 luglio 2009) e spedizione di telegramma (Pret. Fidenza 1° aprile 1990); non anche con trasmissione di fax, negandosi, in particolare, che con riferimento a tale evenienza potesse trovare applicazione il principio, comunemente affermato con riferimento alla comunicazione a mezzo posta, secondo cui compete al destinatario dimostrare che il plico a lui pervenuto sia vuoto (e ciò perché tale principio sottenderebbe la previa dimostrazione del fatto che il plico sia pervenuto all'indirizzo: risultato, quest'ultimo, non comprovato dalla semplice documentazione del fax, che è predisposta unilateralmente dal mittente e che quindi non fornisce alcun riscontro munito di sicura attendibilità: Pret. Roma 28 dicembre 1998). Dal principio di libertà di forma, reputato compatibile con la disciplina della disdetta introdotta dall'art. 3 (e dall'art. 28) della l. n. 392/1978, conseguiva, poi, l'affermazione per cui, in difetto di sottoscrizione dell'atto, l'indagine da compiere dovesse essere diretta ad accertare con ogni mezzo se, sul piano della prova, la manifestazione negoziale, quale che fosse il mezzo adoperato, avesse raggiunto lo scopo di far conoscere al conduttore l'intenzione inequivocabile del locatore di porre fine al contratto, senza che potesse incidere, in tema, la disciplina della scrittura privata ex art. 2702 c.c. e la mancanza del requisito della sottoscrizione (Cass. III, n. 9916/1994). Coerente con la negazione dell'esistenza del vincolo formale doveva rivelarsi, in ultimo, la posizione assunta dalla Corte regolatrice con riferimento all'ipotesi della procura a dare disdetta. Era affermato, infatti, che la disdetta della locazione, sebbene dovesse farsi mediante lettera raccomandata, potesse essere validamente comunicata in tale forma da un mandatario incaricato verbalmente dal locatore, essendo richiesta la predetta formalità unicamente per garantire gli scopi dell'atto, cioè la sua cognizione da parte del destinatario e la certezza della tempestiva comunicazione, lasciando immutato il regime della libertà di forma che presiede il vigente ordinamento (Cass. III, n. 9890/1995; in precedenza, in tema di locazioni non abitative, Cass. III, n. 4512/1989, Cass. III, n. 2763/1992, Cass. III, n. 3265/1995). Si è dubitato che i risultati raggiunti da questa abbondante elaborazione giurisprudenziale siano spendibili avendo riguardo alla disciplina introdotta dalla l. n. 431/1998. Certamente, al di là delle inutili ridondanze sulla procedura di rinnovo, il nucleo precettivo della prescrizione contenuta nell'art. 2, comma 1, relativa al contratto a canone libero alla seconda scadenza, ricalca quello dell'abrogato art. 3 della l. n. 392/1978, e analogo rilievo può svolgersi con riferimento al comma 5 dello stesso art. 2, relativo ai contratti a canone concertato: in entrambi i casi la locazione cessa se è comunicata disdetta, a mezzo di lettera raccomandata, sei mesi prima dello spirare del termine finale. Sembrerebbe, dunque, che non vi siano ostacoli per continuare a ritenere che la disdetta sia atto a forma libera. In dottrina, si è però richiamata la necessità di affrontare oggi il problema della forma della disdetta attribuendo rilievo all'art. 1, comma 4, l. n. 431/1998, che richiede per la valida stipula del contratto di locazione la forma scritta. Si è osservato, in particolare, che la configurazione della locazione come contratto formale potrebbe avere interferenze anche sul regime della forma della disdetta, qualora dovesse anche alla stessa ritenersi applicabile il principio, di origine giurisprudenziale, secondo cui quando per la formazione di un determinato contratto è richiesta una forma particolare, questa stessa forma deve ritenersi implicitamente richiesta per tutti gli atti preparatori, integrativi, modificativi o risolutivi di quel contratto: e il problema avrebbe qui ragione di porsi in quanto la disdetta viene ad incidere sul rapporto contrattuale, determinandone l'estinzione (Marinelli, Panico, Silvestrini, 69). Si è quindi escluso (Cosentino, 58; Mazzeo, 67) che la disdetta di cui alla l. n. 431/1998 possa essere data oralmente (in senso affermativo, invece, Lazzaro, Di Marzio, 607), che la stessa possa non essere sottoscritta e che la procura a dare disdetta sia suscettibile di essere conferita verbis tantum (Cosentino, 59; Mazzeo, 68). Può aggiungersi che, accedendo alla tesi prospettata, la ratifica della comunicazione data dal non legittimato non potrebbe prescindere dal vincolo di forma (art. 1399, comma 1, c.c.) e che sarebbe precluso provare l'esistenza dell'atto di disdetta, oltre che per testimoni e per presunzioni (artt. 2725 e 2729, comma 2, c.c.), anche attraverso l'interrogatorio formale (su tale preclusione, in linea generale: Cass. II, n. 6232/1993) o con il giuramento (art. 2739, comma 1, c.c.). Pare, nondimeno, che la giurisprudenza di legittimità non intenda discostarsi dagli approdi guadagnati nel passato. La Suprema Corte ha, infatti, escluso che per la disdetta contemplata dalla norma in commento sia prescritta una forma ad substantiam: è stato affermato, per la precisione, che l'art. 2, comma 1, della l. n. 431/1998, nel disporre che la disdetta al termine del secondo periodo di durata contrattuale sia effettuata in forma scritta ed inviata a mezzo raccomandata, non ne sanziona l'inosservanza con la nullità, sicché sono ammissibili forme equipollenti purchè idonee ad evidenziare all'altra parte la volontà negoziale, derivandone altresì che, ove all'invio della lettera di disdetta provveda un rappresentante della parte, non è necessario il conferimento al medesimo di un mandato in forma scritta (Cass. III, n. 11808/2016). Gli effetti della disdettaIl comma 1 della norma in commento, così come il comma 5, stabilisce che la disdetta vada data con lettera raccomandata “da inviare all'altra parte almeno sei mesi prima della scadenza”. La formulazione non è certo delle più felici, alimentando il dubbio che per apprezzare la tempestività dell'atto debba guardarsi non già al momento del recapito della missiva, quanto quello del suo inoltro al destinatario. Ma una tale soluzione contrasterebbe con la funzione stessa del termine, che e` quella di garantire al soggetto cui l'atto é indirizzato un adeguato lasso di tempo per ricercare un nuovo contraente (Di Marzio, 39) e potrebbe sospettarsi di incostituzionalità, quantomeno sotto il profilo della non ragionevole disparità di trattamento tra la fattispecie da essa regolamentata, da un lato, e quelle del diniego di rinnovo (art. 3, comma 1, l. n. 431/1998) e del recesso del conduttore (artt. 3, comma 6, l. n. 431/1998 e 4, comma 1, l. n. 392/1978), dall'altro (Di Marzio, Falabella, 2029): ipotesi queste ultime, per le quali non rileva, pacificamente, il momento dell'invio. D'altro canto, la valorizzazione del momento del recapito dell'atto, per la disdetta, è correlata alla natura recettizia di questa. Insegna infatti la giurisprudenza che la disdetta di un contratto di locazione è un atto recettizio, che produce i propri effetti (consistenti nell'impedire il rinnovo del contratto, e non già nello sciogliere il contratto in corso) solo dal momento in cui perviene al destinatario, salva una diversa pattuizione delle parti, tant'è che risulta essere tardiva la disdetta spedita prima del termine contrattualmente previsto per l'esercizio della relativa facoltà, ma pervenuta al destinatario successivamente a tale data (Cass. III, n. 8006/2009, in tema, però, di locazione non abitativa). Facendo applicazione della disciplina vigente in tema di atti recettizi, si deve ovviamente ritenere che il dichiarante debba dare la prova che la disdetta comunicata a mezzo di corrispondenza epistolare sia pervenuta a conoscenza del conduttore, quantomeno alla stregua della presunzione di cui all'art. 1335 c.c. (con particolare riferimento alla disdetta di cui all'art. 3 della l. n. 392/1978, v. Cass. III, n. 9696/1998; Cass. III, n. 12057/1993; più di recente, in tema di locazione ad uso diverso dall'abitazione, Cass. III, n. 27526/2013, in cui è ribadito che la disdetta del contratto ha lo scopo di impedire la prosecuzione del rapporto e costituisce un atto negoziale e recettizio, disciplinato dagli artt. 1334 e 1335 c.c., che si presume conosciuto dal destinatario nel momento in cui è recapitato al suo indirizzo, e non nel diverso momento in cui questi ne prenda effettiva conoscenza). La presunzione di conoscenza della dichiarazione unilaterale recettizia che sia giunta all'indirizzo del destinatario, operante ove lo stesso non provi di essere stato senza colpa nell'impossibilita di averne notizia a norma dell'art. 1335 c.c., comporta, poi, con riguardo al caso di dichiarazione spedita in plico chiuso, che spetti al destinatario medesimo di fornire la dimostrazione dell'assunto secondo cui tale plico gli sia stato consegnato vuoto (Cass. III, n. 4083/1978; Cass. III, n. 6024/1991; App. Napoli 22 aprile 2016; con riferimento ad atto diverso dalla disdetta, v. Cass. lav., n. 12078/2003). Secondo la giurisprudenza di legittimità, è sufficiente che il mittente provi l'avvenuto recapito della dichiarazione all'indirizzo del destinatario, non essendo necessario che egli dimostri la ricezione della dichiarazione da parte del destinatario o di persona autorizzata a riceverla, ai sensi del regolamento di esecuzione del codice postale (Cass. III, n. 12866/1997): e infatti, l'osservanza della modalità della consegna personale della raccomandata al destinatario riguarda lo svolgimento dell'attività amministrativa del portalettere ed essa non può riflettersi sul rapporto civilistico di cui al suddetto art. 1335 c.c. fra dichiarante e destinatario, né sovrapporsi ad esso (Cass. III, n. 5164/1991). Nell'ipotesi in cui il plico non venga materialmente consegnato all'indirizzo, ma avviato all'ufficio postale per la prescritta giacenza, troverà pur sempre applicazione il principio per cui, per ritenere sussistente, ex art. 1335 c.c., la presunzione di conoscenza, da parte del destinatario, della dichiarazione a questo diretta, occorre la prova, il cui onere incombe sul dichiarante, che la dichiarazione stessa sia pervenuta all'indirizzo del destinatario: e il momento rilevante a tal fine, ove la prima sia stata inviata mediante lettera raccomandata non consegnata per l'assenza del secondo (o di altra persona abilitata a riceverla), coincide con il rilascio del relativo avviso di giacenza del plico presso l'ufficio postale, e non già con il momento in cui la lettera sia arrivata al recapito in cui non fu consegnata (Cass. II, n. 22311/2016; Cass. lav., n. 7370/1998; con specifico riferimento alla disdetta della locazione, v. Cass. III, n. 8399/1996; per il caso in cui il destinatario sia utilizzatore di casella postale, v., invece, Cass. III, n. 2070/2015). Come atto recettizio, la disdetta produce i propri effetti nel momento di debba presumere che il destinatario ne abbia avuto conoscenza. Poiché non necessita dell'accettazione di questo (Cass. III, n. 1428/1963), non opera, per essa, la regola dell'art. 1328 c.c., onde è esclusa una sua revoca, da parte del dichiarante, una volta che sia pervenuta all'indirizzo. In tal senso va richiamata l'affermazione, formulata dalla Suprema Corte in tema di locazioni non abitative, per cui la volontà del locatore di non rinnovare il contratto espressa attraverso la disdetta é unica e mira all'unico effetto di porre fine al rapporto locativo in essere, per cui la disdetta, come atto unilaterale e recettizio, avente effetti sostanziali, non é revocabile se non per nuovo accordo esplicito o tacito delle parti (Cass. III, n. 11365/1996, in motivazione). Il termine per la disdetta – come si è detto – è stato fissato in sei mesi dalla scadenza contrattuale. Ci si è interrogati sulla possibilità di derogare contrattualmente a tale termine e si è opinato che non vi sarebbe alcuna norma che commini la nullità di una clausola di tale contenuto (Martone, 24; Di Marzio, 43). È qui da rilevare che l'art. 13 della l. n. 431/1998, a differenza dell'art. 79 della l. n. 392/1978, non colpisce con tale forma di invalidità le pattuizioni tendenti ad attribuire al locatore vantaggi contrastanti con le previsioni della legge; potrebbe al limite discutersi della possibilità di considerare imperativa, ai sensi dell'art. 1418, comma 1 c.c., la norma che fissa in sei mesi (in non meno di sei mesi) il termine per l'intimazione di disdetta. Quanto alla possibilità, da parte dei contraenti, di prevedere che il contratto, alla seconda scadenza, cessi senza obbligo di disdetta, occorre ricordare la soluzione seguita, sul punto, dalla giurisprudenza di legittimità nella vigenza della l. n. 392/1978: secondo la Cassazione, la clausola con la quale le parti stabiliscano che, alla scadenza, le stesse non intendono rinnovare il contratto di locazione, è valida e idonea a produrre l'effetto voluto quando formulata in modo da far conoscere inequivocabilmente all'inquilino che, alla scadenza, il rapporto locativo cesserà anche in mancanza di ulteriore disdetta (Cass. III, n. 5314/1995). Si tratta, è opportuno segnalare, di decisione cui è stato dato seguito in tempi più recenti (Trib. Salerno 29 ottobre 2010), ma che si pose in contrasto con un orientamento della giurisprudenza di merito (Pret. Milano 14 gennaio 1985), secondo cui la disdetta contenuta nel contratto di locazione dovrebbe ritenersi nulla, per illiceità della causa, o, ai sensi dell'art. 1344 c.c., in quanto negozio utilizzato indirettamente al fine di eludere il comando imperativo espresso dalla disposizione di cui all'art. 3 l. n. 392/1978. L'opinione espressa da alcuni autori sulla legittimità di una pattuzione dell'indicato tenore è pure di segno contrario (Cosentino, Vitucci, 443; Gabrielli, Padovini, 538 s.; Lazzaro, Di Marzio, 556). Ai fini del computo del termine semestrale previsto dalla legge, occorre considerare che si è in presenza di un termine di decadenza, sicché trovano applicazione le regole dettate dall'art. 2963 c.c. per la prescrizione, ma estensibili alla decadenza (Pret. Milano 16 luglio 1987). Se ne ricava: che, venendo in questione un termine “a mesi”, il sistema di computo sia quello ex nominatione dierum, onde la comunicazione della disdetta è da ritenersi tempestiva ove pervenga al conduttore nel giorno del mese di scadenza corrispondente a quello iniziale (Cass. III, n. 9701/1997); che ove, nel mese in cui cade il dies ad quem manchi il giorno corrispondente a quello del mese iniziale, trova applicazione l'art. 2963, comma 5 c.c., secondo cui il termine si compie con l'ultimo giorno dello stesso mese; che, dovendosi il termine calcolare a ritroso, il “mese e il giorno iniziale” e “il mese e il giorno di scadenza” di esso saranno rispettivamente rappresentati dal giorno del calendario che si prende come punto di riferimento iniziale per il calcolo a ritroso e da quello cui si perviene in conseguenza del calcolo stesso (Pret. Monza 23 ottobre 1986); che, ove il termine scada in un giorno festivo, dovrà farsi applicazione dell'art. 2963, comma 3, c.c., sicché detto termine risulterà prorogato al giorno successivo non festivo (Pret. Milano 16 luglio 1987). Durata e rinnovo dei contratti a canone concordatoPer i contratti a canone concordato, il comma 5 dell'articolo in commento prevede, anzitutto, che essi non possano avere durata inferiore ai tre anni, salvi i contratti transitori di cui all'art. 5. Alla prima scadenza del contratto, ove le parti non concordino sul rinnovo, il contratto risulta “prorogato di diritto per due anni” fatta salva, come per i contratti a canone libero, la facoltà di disdetta da parte del locatore che intenda adibire l'immobile agli usi o effettuare sullo stesso le opere di cui all'art. 3, ovvero vendere l'immobile a norma dello stesso articolo. Si è ritenuto, in dottrina, che la proroga prevista dalla norma non si differenzi dal rinnovo disciplinato dall'art. 2, comma 1, per i contratti a canone libero (Bucci, 54; Di Marzio, 50; in senso contrario: Gabrielli, Padovini, 507 ss.). La giurisprudenza di legittimità ha invece evidenziato come i contratti a canone concertato possano, in presenza di determinate circostanze, cessare, alla prima scadenza, senza necessità di disdetta. È stato affermato, in particolare, che il secondo inciso dell'art. 2, comma 5, deve interpretarsi nel senso che la locazione si intende prorogata di un biennio alla scadenza del triennio di durata previsto dalla legge, sempre che il locatore non abbia in relazione ad essa dato la prevista disdetta motivata: ma ciò soltanto qualora il conduttore abbia anteriormente manifestato l'intenzione di rimanere nell'immobile, e quindi se lo stesso locatario abbia proposto la conclusione di un rinnovo ed essa sia stata rifiutata dal locatore oppure se una simile proposta l'abbia fatta il locatore al conduttore, sempre anteriormente, e questi l'abbia rifiutata (ritenendola non conveniente). In mancanza di una di tali eventualità, e cioè sostanzialmente se non sia intervenuta una trattativa per il rinnovo non perfezionatasi – spiega la Corte – la locazione si deve, invece, intendere automaticamente cessata alla scadenza del triennio senza necessità di disdetta da parte dello stesso conduttore, trovando applicazione la disciplina dell'art. 1596, comma 1, c.c. (Cass. III, n. 16279/2016). Alla scadenza del biennio di eventuale “proroga”, si pone il problema della durata della riconduzione nel caso in cui manchi la comunicazione, prevista dalla norma, con cui almeno una delle parti manifesti all'altra la volontà di rinnovare il contratto a nuove condizioni o di rinunciare al rinnovo (espressioni di volontà, queste, che sono entrambe incompatibili con la mera prosecuzione della locazione, per come definita dalle condizioni inizialmente pattuite, e che, in ultima analisi, sembra si debbano equiparare alla disdetta). Ebbene, si è ritenuto che, in assenza della richiamata comunicazione, il contratto si rinnovi per tre anni (Bucci, 54; Di Marzio, 50; contra: Gabrielli, Padovini, 509). Tale soluzione è oggi smentita dal legislatore con la norma di interpretazione autentica inserita dal d.l. n. 34/2019 recante “Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi”, altrimenti definito “Decreto Crescita”, convertito, con modificazioni, in l. n. 58/2019; l'art. 19-bis del detto decreto legge, inserito in sede di conversione, prevede, infatti: “Il quarto periodo del comma 5 dell'articolo 2 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, si interpreta nel senso che, in mancanza della comunicazione ivi prevista, il contratto è rinnovato tacitamente, a ciascuna scadenza, per un ulteriore biennio”. Il mutamento del quadro normativo determinato dall'intervento della legge di interpretazione autentica è stato registrato dalla Corte regolatrice (Cass. III, n. 11308/2020), la quale non ha mancato di sollevare dubbi quanto alla costituzionalità del cit. art. 19-bis (dubbi che non si sono, per la verità, tradotti nella proposizione di una questione di legittimità costituzionale, dal momento che il tema della durata del contratto a canone concertato costituiva oggetto di una questione rimasta assorbita in sede di legittimità). E' da considerare, in proposito, che secondo la Corte costituzionale, la legge di conversione deve recare un contenuto omogeneo a quello del decreto-legge e che l'inserimento di norme eterogenee rispetto all'oggetto o alla finalità del decreto-legge determina la violazione dell'art. 77, comma 2, Cost.: tale violazione, per queste ultime norme, non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza, giacché esse, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari (Cass. n. 355 del 2010), ma scaturisce dall'uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione attribuisce ad esso, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge (Corte cost. n. 22/2012; si vedano pure Corte cost. n. 32/2014 e Corte cost. n. 154/2015). Ebbene, secondo la Corte di cassazione non si rinviene alcun collegamento dell'art. 19-bis, inserito in sede di conversione, col contenuto delle norme del capo II del decreto-legge, relativo a “Misure per il rilancio degli investimenti privati” (e, più in generale, dell'intero copro normativo), dato che il provvedimento legislativo governativo (“Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi”) non fa cenno alle locazioni (né tantomeno alla legge n. 431 del 1998), né contiene disposizioni tese a dettare discipline di altri negozi civilistici; inoltre, rispetto al complessivo obiettivo di rilancio dell'economia è parsa eccentrica una norma che è diretta a far chiarezza sulla durata della prosecuzione di contratti di locazione ad uso abitativo tacitamente rinnovati “alle medesime condizioni”. Il regime transitorioL'ultimo comma dell'articolo in commento si occupa del rinnovo dei contratti di locazione stipulati sotto l'impero della legge anteriore e dispone che essi siano disciplinati come quelli a canone libero di cui al comma 1. La disposizione va coordinata con la previsione contenuta nel comma 5 dell'art. 14 della l. n. 431/1998, secondo cui “[a]i contratti per la loro intera durata ed ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente legge continuano ad applicarsi ad ogni effetto le disposizioni normative in materia di locazioni vigenti prima di tale data”. Il senso della disciplina transitoria risultante da queste due norme è stato da tempo chiarito da parte della giurisprudenza. Secondo la Corte regolatrice l'ultimo comma dell'art. 2 della l. n. 431/1998 va interpretato nel senso che, se il contratto si rinnova tacitamente nella vigenza di questa legge, per mancanza di una disdetta che il locatore avrebbe potuto fare, ma che non ha fatto, il rapporto resta assoggettato alla nuova disciplina; laddove, invece, la disdetta sia comunque intervenuta tempestivamente, pur se non sostenuta da alcuna particolare esigenza del locatore, come consentito dall'art. 3 della l. n. 392/1978, il contratto resta soggetto alla disciplina previgente ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 14 della l. n. 431/1998: pertanto solo se il locatore, dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina, si trova nella possibilità di comunicare la disdetta e non lo fa, il rapporto resta sottoposto alla nuova disciplina integralmente, e quindi anche con riferimento alla doppia durata quadriennale: pure in tale ipotesi, infatti, il locatore conserva in pieno la facoltà di scegliere se dare o meno la disdetta in relazione alla legislazione vigente al momento della scelta, con tutti i presupposti e tutte le conseguenze giuridiche dettate da tale legislazione (Cass. III, n. 14866/2013; Cass. III, n. 7895/2010; Cass. III, n. 17995/2007; nel medesimo senso che, tra i contratti stipulati prima della sua entrata in vigore, sono soggetti alla nuova disciplina, anche con riferimento alla doppia durata quadriennale, solo quelli che vedono realizzato il presupposto della rinnovazione nel vigore della nuova legge e, quindi, solo quelli per i quali il termine utile per la comunicazione della disdetta da parte del locatore è venuto a scadenza in epoca successiva al 30 dicembre 1998 senza che tale disdetta sia stata data, sicché la rinnovazione si é verificata nella vigenza della nuova legge: Cass. III, 19747/2012; Cass. III, n. 7985/2010). Da osservare, peraltro, che, secondo la S.C., qualora sia intervenuta la rinnovazione tacita ai sensi del sesto comma dell’art. 2 l. n. 431 del 1998, il conduttore, in difetto di una norma che disponga l'abrogazione dell'art. 79 della menzionata L. n. 392 del 1978, in via retroattiva o precluda l'esercizio delle azioni dirette a rivendicare la nullità di pattuizioni relative ai contratti in corso alla suddetta data, è da considerarsi legittimato, in relazione al disposto dall’art. 14, comma 5, della medesima l. n. 431 del 1998, ad esercitare l'azione prevista dall'indicato art. 79 diretta a rivendicare l'applicazione, a decorrere dall'origine del contratto e fino alla sua naturale scadenza venutasi a verificare successivamente alla stessa data in difetto di idonea disdetta, del canone legale con la sua sostituzione imperativa, ai sensi dell'art. 1339 c.c., al pregresso canone convenzionale illegittimamente pattuito: in ipotesi di accoglimento dell'azione - si è detto - tale sostituzione, dispiega i suoi effetti anche con riferimento al periodo successivo alla rinnovazione tacita avvenuta nella vigenza della l. n. 431 del 1998 (Cass. III, n, 14392/2023, richiamando Cass. III, n. 12996/2009, Cass. III, n. 3596/2015, Cass. III, n. 19231/2015 e Cass. III, n. 15149/2017). È stato anche precisato come sia regolamentato il transito dei patti in deroga nella nuova disciplina. Si è affermato, in proposito, che l'art. 2, comma 6, in riferimento ai contratti di locazione abitativa stipulati, anteriormente alla sua entrata in vigore, ai sensi dell'art. 11, comma 2, del d.l. n. 333/1992, convertito con modificazioni nella l. n. 359/1992, deve essere interpretato nel senso che la rinnovazione tacita, la quale, determina la ricaduta del contratto nel regime di cui all'art. 2, comma 1, della l. n. 431/1998, si identifica nella scadenza del secondo periodo di durata del contratto, in relazione al quale il locatore poteva inviare disdetta immotivata ai sensi dell'art. 3 della l. n. 392/1978, e non nella scadenza del primo periodo di durata convenzionale, in relazione al quale il locatore poteva provocare la cessazione solo con diniego motivato (Cass. III, n. 11138/2013; Cass. III, n. 8943/2008). La Suprema Corte ha, inoltre, dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento tra locazione rinnovata tacitamente ed esplicitamente, dell'art. 14, comma 5, della l. n. 431/1998 nella sua interpretazione conforme al diritto vivente, secondo cui, qualora le parti di una locazione abitativa già regolata dalla l. n. 392/1978, dopo l'entrata in vigore della l. n. 431/1998 abbiano lasciato tacitamente rinnovare per mancata disdetta il contratto, esso rimane regolato, quanto alla durata, dalle disposizioni di detta legge, e, quanto al canone, da quelle della l. n. 359/1992, ivi compreso l'art. 79 della stessa legge. È stato osservato, in proposito, che tale effetto infatti non dipende da una scelta irragionevole del legislatore ma dall'inerzia del locatore il quale, pur potendo dare disdetta, lascia che il contratto si rinnovi (Cass. III, n. 19231/2015). Con riferimento ai contratti di locazione ad uso transitorio conclusi nella vigenza della l. n. 392/1978 si è affermato che essi pure siano soggetti alla disciplina dell'art. 2, comma 6 (Bucci, 151; Verardi, 129; Acierno, 123; Lazzaro, Di Marzio, 244). La tesi muove, in genere, dall'asserita ampiezza della disposizione di cui alla norma citata, ma suscita qualche perplessità con riferimento ai contratti transitori che cessino (dopo l'entrata in vigore della nuova legge) per semplice scadenza del termine, senza necessità di preventiva disdetta: premesso che il rinnovo di dette locazioni, rientranti tra quelle “per un tempo determinato” di cui all'art. 1596, comma 1, c.c., si sostanzia in una vera e propria fattispecie contrattuale, ci si potrebbe chiedere se per essi il tacito rinnovo sia configurabile, stante la necessità di concludere il nuovo contratto in forma scritta, giusta l'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998. Si veda, in tema, la sempre attuale schematizzazione offerta da una remota decisione del massimo consesso decidente (Cass. III, n. 2433/1971). BibliografiaAcierno, Art. 5. Contratti di locazione di natura transitoria, in Le nuove locazioni abitative - Commenti e materiali raccolti da Cuffaro, Milano, 2000, 112; Bucci, La disciplina delle locazioni abitative dopo le riforme, Padova, 2000; Carrato, Commento alla legge 9 dicembre 1998, n. 431. Art. 2, in Rass. loc., 1999, 21; Cosentino, Art. 3 (Disdetta del contratto da parte del locatore), in Le nuove locazioni abitative - Commenti e materiali raccolti da Cuffaro, Milano, 2000, 54; Cosentino, Vitucci, Le locazioni dopo le riforme del 1978-1985, Torino, 1986; Di Marzio, Art. 2 (Modalità di stipula e di rinnovo dei contratti di locazione), in Le nuove locazioni abitative - Commenti e materiali raccolti da Cuffaro, Milano, 2000, 29; Di Marzio, Falabella, La locazione, Torino, 2010; Dogliotti - Figone, La locazione - Disciplina generale. Le locazioni abitative, Milano, 1993; Gabrielli, Padovini, La locazione di immobili urbani, Padova, 2001; Lazzaro, Di Marzio, Le locazioni per uso abitativo, Milano, 2002; Marinelli, Panico, Silvestrini, Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo, Napoli, 1999; Martone, La nuova disciplina delle locazioni abitative, Padova,1999; Mazzeo, Le locazioni nella legislazione speciale, Milano, 2002; Verardi, Il diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza ed il recesso del conduttore, in Cuffaro (a cura di), Le locazioni ad uso di abitazione, Torino, 2000, 231. |