Costituzione della Repubblica - 27/12/1947 - n. 0 art. 28[I] I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. InquadramentoL'articolo 28 della Costituzione afferma il principio della diretta responsabilità dei pubblici dipendenti e funzionari a fronte degli atti lesivi dei diritti posti in essere nell'esercizio delle loro funzioni, con estensione della responsabilità civile anche allo Stato e agli enti pubblici. Ai fini della definizione della responsabilità, la norma rinvia alle leggi civili, penali ed amministrative. L'articolo in esame esprime un importante principio in materia di azione amministrativa. Ciononostante, la sua collocazione nell'ambito della Costituzione è disgiunta dagli artt. 97 e 98 Cost., dedicati alla pubblica amministrazione, essendo questi ultimi inseriti non nella Parte I, bensì nella Parte II, Titolo III, Sezione II, perché riguarda i diritti dei cittadini verso la Pubblica amministrazione e non una regola di organizzazione. Un punto di contatto tra questi due articoli e quello in esame si rinviene nel comma 2 dell'art. 97 il quale prevede che nell'ordinamento degli uffici pubblici sono determinate le sfere di competenze, le attribuzioni e le «responsabilità proprie dei funzionari». La disposizione suggerisce una lettura unificante con il principio di cui trattasi, ma quest'ultimo si riferisce alla specifica responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per gli atti compiuti in violazione dei diritti, mentre la responsabilità propria dei funzionari rinvia alla categoria generale degli obblighi e doveri del pubblico impiegato che scaturiscono nell'assetto organizzativo e dallo specifico ruolo ricoperto. Inoltre, il dato letterale e la collocazione topografica dell'art. 28 portano ad ulteriori considerazioni anche in relazione ad altre norme. Invero, molti articoli che interessano l'amministrazione pubblica sono «sparsi» in varie parti della Costituzione: alcuni direttamente, quali l'art. 95 sul governo e gli articoli sui servizi pubblici (artt. 32, 33, 38, 41, 43, 47), altri indirettamente, primi tra tutti gli articoli che affermano i principi di eguaglianza e di democrazia. Dal che emergono vari modelli di amministrazione, nessuno dei quali può assurgere a modello principale. Quello espresso dall'art. 28 pare, in primo luogo, legare l'amministrazione alla collettività nazionale, al cui servizio i suoi impiegati sono posti (Casetta, 37 ss.). Pertanto, il principio è volto ad assicurare che il soggetto pubblico risponda del complesso delle attività dell'ufficio ad esso affidato. Ciò posto, però, com'è stato evidenziato in dottrina, quella dell'art. 28 è una disposizione dal significato ritenuto poco chiaro, pleonastico e per molto tempo disattesa dalla giurisprudenza (Bin e Pitruzzella, 528; Merusi e Clarich, 356). In effetti, nel suo discorso pronunciato all'Assemblea costituente nella seduta del 4 marzo 1947, Calamandrei individuava nell'ambito del Progetto della Costituzione «una quantità di disposizioni vaghe, specialmente tra l'art. 23 e l'art. 44 (rapporti etico sociali e rapporti etico economici), le quali non sono vere e proprie norme giuridiche nel senso preciso e pratico della parola, ma sono precetti morali, definizioni, velleità, programmi, propositi, magari manifesti elettorali, magari sermoni, tutti camuffati da norme giuridiche» (Calamandrei, 484). Prima di analizzare nello specifico il dettato della norma, occorre esaminare la portata del principio in commento rispetto ad altri principi sanciti dalla Costituzione. Ai fini della corretta esegesi, soccorrono la lettura coordinata con altri principi costituzionali e il dato sistematico. Quanto al primo aspetto, la Costituzione italiana è ispirata al tradizionale principio di supremazia della pubblica amministrazione nei confronti del privato. Per questo motivo, l'atto amministrativo è dotato di esecutorietà ovvero è idoneo ad essere portato ad esecuzione anche con l'uso della forza prima ancora che ne sia accertata la legittimità. Tale considerazione preliminare appare fondamentale ai fini della interpretazione della norma di cui trattasi, in quanto il principio di supremazia della P.A. male si concilierebbe con altri principi costituzionali, quali quelli dell'eguaglianza e della democraticità, se non fosse stato temperato da norme poste a tutela della libertà (Martines, 368). Di qui il principio che contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi (art. 113 Cost.), i principi di imparzialità dell'amministrazione, di riserva di legge quanto all'organizzazione degli uffici e di accesso all'impiego pubblico mediante concorso (art. 97 Cost.). Tra i principi può essere compreso quello di cui all'articolo 28 della Costituzione. Come è stato osservato, la novità introdotta dalle costituzioni moderne di tipo rigido, quale quella italiana, si rinviene non soltanto nell'ampliamento della categoria delle libertà e dei diritti alle esigenze proprie dello Stato sociale, ma nell'avere potenziato gli strumenti di garanzia anche dei tradizionali diritti. Sebbene l'intero ordinamento possa essere inteso a tutela dei diritti, la Costituzione ha specificamente previsto norme orientate a tale obiettivo, ivi incluso l'art. 28 Cost. (Bin, Pitruzzella, 526). L'esigenza di garantire i diritti riconosciuti è strettamente legata alla disciplina dei diritti in quanto gli stessi rischierebbero di risolversi in una mera enunciazione formale se non fossero opportunamente tutelati. Già nello stato liberale si era avvertita l'esigenza di garantire i diritti riconosciuti e ad essa aveva risposto il principio di ripartizione dei poteri, in quanto strumento volto ad assicurare controlli reciproci, evitando abusi ai danni dei titolari dei diritti. Analogamente, il principio costituzionale della riserva di legge rappresenta lo strumento attraverso il quale la materia viene sottratta a possibili arbitri del governo e, ancora, la tutela giurisdizionale quale possibilità di tutela di fronte ad organi indipendenti dal potere politico in caso di violazione di norme sui diritti. Persino le norme costituzionali che, in tema di diritti, prevedono la possibilità di privazione temporanea della loro efficacia, con conseguente sospensione delle garanzie in presenza di situazioni di grave emergenza ovvero la razionalizzazione degli stati di crisi, possono essere lette in chiave di salvaguardia del nucleo di garanzie ritenuto incomprimibile anche nelle situazioni più critiche per la vita nazionale (De Virgottini, 369). Quanto al dato sistematico, l'art. 28 è collocato nella Parte I della Costituzione, Titolo I, dedicato ai rapporti civili, quale norma di chiusura a tutela dei diritti dell'uomo sanciti negli articoli precedenti. Ma poiché la norma si riferisce agli atti compiuti «in violazione dei diritti», il quesito è se i diritti considerati sono solo quelli compresi nel Titolo I di cui l'art. 28 rappresenta l'ultimo degli articoli che lo compongono, oppure sono compresi anche altri diritti. Secondo il presente diverso angolo prospettico, si amplia la portata del principio della responsabilità del pubblico funzionario (e dell'amministrazione) nel senso che rileva l'intangibilità dei diritti tutelati nei confronti del pubblico potere piuttosto che l'aspetto sanzionatorio connesso alla responsabilità. Ma occorre partire dall'analisi del principio. Nel suo dettato specifico, viene proposta un'interpretazione della norma in considerazione delle parti che la compongono. In particolare, gli elementi che concorrono a delineare la responsabilità del funzionario sono la responsabilità diretta del funzionario e del dipendente pubblico; la responsabilità penale, civile e amministrativa secondo le leggi; la violazione di diritti del cittadino; infine, la estensione della responsabilità civile alla pubblica amministrazione (Merusi, Clarich, 362). La genesi dell'art. 28 Cost.Il principio della responsabilità dei pubblici agenti si intreccia con la più ampia problematica della responsabilità pubblica ( rule of the law ), senza peraltro ridursi o sovrapporsi ad essa (Benvenuti, 581). Si tratta di un istituto la cui portata innovativa si coglie nel confronto con il regime previgente, con particolare riguardo al tema della responsabilità civile. L'originalità dell'art. 28 Cost. è evidente nell'analisi comparativa con gli ordinamenti italiani che hanno preceduto l'unità d'Italia. Nel Regno di Sardegna, la disciplina della responsabilità dei pubblici dipendenti si ispirava al modello francese il quale, in ossequio al principio della separazione dei poteri, escludeva dalla cognizione del giudice la responsabilità di costoro. Tale esclusione dal sindacato giurisdizionale è stata perseguita in Italia, come in Francia, attraverso la progressiva introduzione di posizioni di privilegio a favore dei pubblici agenti, con corrispondente diminuzione del controllo del giudice. Così, ad esempio, risale al Regno di Napoli l'introduzione della c.d. garanzia amministrativa, istituto in base al quale l'azione di responsabilità nei confronti dei pubblici dipendenti era subordinata alla previa autorizzazione di un organo dell'Amministrazione di appartenenza. Gli studi hanno rinvenuto esempi di «garanzia amministrativa» nel r.d. n. 1226/1812; nella l. n. 77/1816; nella l. n. 1360/1818. Anche nel Regno di Sardegna, e poi in quello d'Italia, sono stati individuati altri esempi di privilegio in ragione della carica o della funzione di pubblici agenti. Ulteriori ne sono seguiti nel periodo liberale e in occasione di situazioni eccezionali quali la prima guerra mondiale, per consolidarsi durante il regime fascista e sedimentarsi nel nostro ordinamento giuridico (Benvenuti, 583). Detti privilegi hanno garantito al pubblico dipendente una possibile immunità processuale con effetti significativi di diritto sostanziale: la possibilità di sottrarre il funzionario pubblico all'azione di responsabilità e, conseguentemente, alla responsabilità stessa (Merusi, Clarich, 382). Tuttavia, se da un lato si è registrata la tendenza dell'ordinamento a sottrarre dalla cognizione del giudice la responsabilità degli operatori pubblici, dall'altro non è stata mai esclusa la sua configurabilità in astratto la quale ha continuato a confrontarsi con il tema generale della responsabilità della pubblica amministrazione. Tuttavia, con l'entrata in vigore della Costituzione, la disciplina della responsabilità civile della pubblica amministrazione subisce un'inversione di tendenza: l'imputazione diretta della responsabilità alla persona giuridica, Stato o ente pubblico, viene sostituita da un'imputazione diretta al dipendente (Merusi, Clarich, 365). Il principio è rimasto fermo nell'ordinamento e le sue implicazioni hanno avviluppato, senza soluzione di discontinuità, anche il periodo repubblicano, con la conseguenza che la responsabilità del funzionario ha assunto una dimensione endogena allo Stato stesso estrinsecandosi principalmente in sede penale e amministrativa. Viceversa, in sede civile, la concorrente responsabilità dell'ente e del dipendente hanno portato l'attenzione dei giuristi a concentrarsi sulla prima (Benvenuti, 584). Il problema del concorso di responsabilità dell'amministrazione e del funzionario in ambito civile ha occupato a lungo gli «operatori» del diritto. In giurisprudenza, nel periodo anteriore all'entrata in vigore della Costituzione, si è affermata l'ammissibilità di una «doppia responsabilità diretta»: quella del funzionario e quella dell'ente pubblico, al primo (funzionario) si attribuiva la responsabilità di avere posto in essere il fatto lesivo; al secondo (ente pubblico) la responsabilità di avere leso l'altrui diritto, con ciò disattendendo i propri fini istituzionali e a quelli generali dello Stato (Cass. S.U. , n. 3378/1927; Cass. S.U. , n. 2037/1932; Cass. I, n. 47/1941; Cass. II, n. 1138/1940). In dottrina, già prima della Costituzione, si riteneva possibile affiancare alla responsabilità civile dei funzionari pubblici, la responsabilità dello Stato e degli enti pubblici riconducendola agli schemi civilistici, dapprima, della responsabilità indiretta o per fatto altrui e, poi, della responsabilità diretta o per fatto proprio (Benvenuti, 583). Il carattere «diretto» della responsabilità dell'amministrazione e dei suoi dipendenti è stato riconosciuto in un secondo momento con l'affermarsi della teoria della c.d. immedesimazione organica, secondo cui il dipendente pubblico rappresenta una longa manus dell'ente di appartenenza: «lo Stato e gli enti pubblici non possono che agire a mezzo dei propri organi, il cui operato non è di soggetti distinti, ma degli enti stessi in cui s'immedesimano» (Tenore, 12). Secondo tale teoria, l'immedesimazione organica tra enti e dipendenti pubblici comportava la diretta attribuzione del fatto compiuto dal dipendente anche all'amministrazione di appartenenza. L'unica deroga era prevista nel caso in cui l'agente pubblico avesse agito con dolo. Ciò perché la sussistenza di tale elemento soggettivo era considerata idonea ad interrompere il rapporto di identificazione tra il soggetto agente e l'ente pubblico, così escludendo la riferibilità dell'atto alla pubblica amministrazione (Benvenuti, 584). Nel rinviare ad un successivo paragrafo la trattazione circa la natura giuridica della responsabilità civile dei dipendenti pubblici, quanto rappresentato a proposito della responsabilità diretta dei pubblici agenti è finalizzato ad evidenziare la sua evoluzione nel nostro ordinamento: in un primo momento, nel senso di prevederla per poi escluderne la perseguibilità attraverso l'introduzione di forme di privilegio; in un secondo momento, ammettendo forme di coesistenza della responsabilità dell'amministrazione e del dipendente pubblico, sia pure con controversi profili, tuttora per certi aspetti persistenti, circa la natura diretta o indiretta della responsabilità della P.A. Eppure, a fronte delle diverse posizioni dottrinali a proposito della natura della responsabilità, ammettere la sussistenza della duplice responsabilità dell'ente e del dipendente pubblico ha portato inevitabilmente ad enfatizzare la prima a dispetto della seconda. Ciò in quanto, ai fini della solvibilità, è più conveniente per il soggetto danneggiato citare in giudizio l'ente pubblico piuttosto che il dipendente ai fini del ristoro del diritto leso (Benvenuti, 585). L'art. 28 ha inteso estendere a quanti agiscano per lo Stato quella responsabilità personale che prima era espressamente prevista solo per alcune categorie (giudici, cancellieri, conservatori di registri immobiliari). Con il che sono stati accomunati gli uni e gli altri in una stessa proposizione normativa, affermativa di un principio valevole per tutti coloro che svolgano un'attività statale: un principio generale che, da una parte, li rende personalmente responsabili, ma dall'altra non esclude, poiché la norma rinvia alle leggi ordinarie, che la responsabilità sia disciplinata variamente per categorie o per situazioni. In particolare, la singolarità della funzione giurisdizionale, la natura dei provvedimenti giudiziarie la stessa posizione super partes del magistrato possono suggerire, come hanno suggerito ante litteram, condizioni e limiti alla relativa responsabilità civile. Si tratta di limitazioni che non comportano una negazione totale della responsabilità, la quale altrimenti si tradurrebbe in una palese violazione del principio costituzionale (art. 28) e dell'art. 3 Cost. in relazione allo statuto degli impiegati civili dello Stato (d.P.R. n. 3/1957). La responsabilità dello Stato s'accompagna a quella dei “funzionari” e dei “dipendenti” nell'art. 28 della Costituzione e nei principi della legislazione ordinaria: dimodoché una legge, che negasse al cittadino danneggiato dal giudice qualunque pretesa verso l'amministrazione statale, sarebbe contraria a giustizia in un ordinamento, che, anche a livello costituzionale, dà azione almeno alle vittime dell'attività amministrativa. Nella realtà, in virtù dell'art. 28 Cost., là dove è responsabile il “funzionario” o “dipendente”, lo sarà entro gli stessi limiti lo Stato (art. 28 “In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato”). E poiché questo è il modello sul quale occorre ormai interpretare le norme, in esse dovrà leggersi anche la responsabilità dello Stato per gli atti o le omissioni di cui risponde il giudice nell'esercizio del suo ministero (Corte cost. n. 2/1968). L'ambito oggettivo di applicazione dell'art. 28 Cost.Nel disporre che i funzionari e i dipendenti pubblici rispondono degli atti da loro compiuti in violazione dei diritti, l'art. 28 Cost. delinea l'ambito applicativo della responsabilità degli operatori pubblici sul piano oggettivo e soggettivo. Per quanto concerne l'ambito oggettivo di applicazione, la norma individua gli atti compiuti dai pubblici agenti «in violazione dei diritti». Il dato letterale pone il problema della natura dei menzionati diritti, atteso il riferimento specifico ad essi e non anche agli interessi legittimi come rinvenibile in altre norme della Costituzione riguardanti, viepiù, la tutela del soggetto nei confronti della P.A. in sede giurisdizionale (artt. 24,103 e 113 Cost.). Nel silenzio della disposizione, la dottrina maggioritaria ritiene che il riferimento sia ai «diritti costituzionalmente tutelati» e non ai «diritti soggettivi» (Merusi, Clarich, 362 ss.; Benvenuti, 585). Infatti, dare rilevanza alla violazione dei soli diritti soggettivi del cittadino, in quanto soggetto privato, comporta una limitazione della disciplina rispetto al complessivo rapporto che intercorre tra privato e pubblica autorità. Nei rapporti tra privato e pubblica amministrazione la possibile lesione di un diritto soggettivo non è evento eccezionale, ma l'esercizio del pubblico potere comporta anzitutto il coinvolgimento di interessi legittimi, oppositivi e pretensivi, nonché di situazioni soggettive di affidamento «incolpevole» in ordine alle quali si pongono profili di meritevolezza di tutela. Sul punto, si richiama l'Aduanza plenaria del Consiglio di Stato, che con sentenze 19, 20 e 21 del 2021, ha ribadito che i princpi di buona fede e tutela dell'affidamneto sono comuni al diritto civile e al diritto amministrativo, ovverosia ai rapporti paritetici di diritto soggettivo così come a quelli originati dall'esistenza e dall'esercizio in concreto del pubblico potere. In altri termini, la mancata osservanza del dovere di correttezza da parte dell'amministrazione in violazione del principio di affidamento può determinare una lesione della situazione soggettiva del privato che afferisce pur sempre all'esercizio del potere pubblico, si manifesti esso con un provvedimento tipico o con un comportamento pur sempre tenuto nell'esercizio di quel potere, e la cui natura quindi resta “qualificata” dall'inerenza al pubblico potere. Si tratta, quindi, di aspettative correlate ad « interessi legittimi (...) concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo » ai sensi dell'art. 7, comma 1, cod. proc. amm, la cui lesione rimane devoluta al giudice amministrativo. Come infatti testualmente previsto dalla disposizione in parola, la giurisdizione è devoluta al giudice amministrativo non solo nel caso in cui il potere sia stato esercitato, ma anche nel caso contrario di mancato esercizio. Non è conseguentemente possibile scindere sul piano del riparto giurisdizionale le due ipotesi, che peraltro possono in astratto dare luogo a profili diversi di addebito sul piano diacronico (per il fatto ad esempio di avere esercitato il potere tardivamente e di averlo poi esercitato illegittimamente), la cui cognizione va concentrata presso un unico giudice, ovvero quello amministrativo, quale giudice naturale della funzione amministrativa. Nell'autonomia dei due ordini di regole operanti con riguardo all'esercizio della funzione pubblica, di validità degli atti e di comportamento complessivo dell'amministrazione, si colloca l'affidamento del privato. Quest'ultimo si proietta sulla positiva conclusione del procedimento, e dunque sull'attuazione dell'interesse legittimo di cui il medesimo privato è portatore, ma che diventa in sé tutelabile in via risarcitoria se l'amministrazione con il proprio comportamento abbia suscitato una ragionevole aspettativa sulla conclusione positiva del procedimento. E ciò a prescindere dal fatto che il bene della vita fosse dovuto ed anche se si accertasse in positivo che non era dovuto, come nel caso deciso da questa Adunanza plenaria nel precedente sopra esaminato (l'Adunanza plenaria si è più di recente espressa negli stessi termini, in Ad. plen. n. 5/2008). È in ogni caso pacifico che sarebbe eccessivamente restrittivo limitare la portata del principio costituzionale di cui trattasi nell'ambito predefinito della lesione del solo diritto soggettivo da parte della P.A. Al contrario, la ridetta norma acquista significato se la si ritiene volta a tutelare i diritti fondamentali previsti in Costituzione dai possibili abusi o dall'illegittimo esercizio del potere amministrativo. Con il generico termine «diritti», dunque, i Padri costituenti hanno inteso riferirsi ai diritti sanciti in Costituzione. Tale interpretazione appare trovare positivo riscontro in molteplici considerazioni. In primo luogo, la collocazione topografica della norma. Come detto, l'articolo in esame è inserito all'interno del Titolo I, Parte I, della Costituzione dedicati rispettivamente ai «rapporti civili» e ai «diritti e doveri dei cittadini». Esso si pone a chiusura di un sistema in base al quale la Costituzione, riconosce i diritti inviolabili dell'uomo e li garantisce attraverso una norma che prevede conseguenze giuridiche per i comportamenti, attivi od omissivi, dei pubblici agenti posti in essere in loro violazione. La ratio è evidente: una volta riconosciuti, i diritti fondamentali sono inviolabili anche da parte dei funzionari e dei pubblici dipendenti dei cui atti direttamente rispondono. In sostanza, l'articolo in commento è incentrato sui profili di responsabilità del pubblico dipendente in quanto posti in diretta relazione con i diritti che si intendono tutelare anche a fronte dell'esercizio di pubblici poteri. D'altronde, se l'intento del legislatore fosse stato di tipo meramente afflittivo, nel senso di fare assurgere a rango costituzionale la previsione delle conseguenze sanzionatorie della responsabilità degli operatori pubblici, la norma sarebbe stata collocata nella sezione della Costituzione dedicata alla pubblica amministrazione (artt. 97 e ss. Cost.). Altro argomento in favore dell'interpretazione della norma nel senso di essere stata introdotta a tutela dei diritti inviolabili è dato dalla relazione tra l'art. 28 e l'art. 27 Cost. Quest'ultimo afferma il principio che la responsabilità penale è personale. Nella lettura congiunta delle due norme, riconoscere nella ratio dell'art. 28 Cost. quella di introdurre soltanto il principio della responsabilità diretta, cioè personale, degli operatori pubblici, implicherebbe un'interpretazione pleonastica, quanto meno a proposito di quella penale, attesa la richiamata previsione già contenuta nell'art. 27 Cost. Né convince la considerazione che la norma in commento estenda il principio della responsabilità personale nei confronti del dipendente pubblico per gli atti compiuti nell'esercizio delle funzioni pubbliche: ciò perché tale responsabilità non sembra essere esclusa dal principio generale della responsabilità personale e, vieppiù, sarebbe ingiustificata nella sua collocazione in un articolo distinto dall'art. 27 Cost. Invero, la responsabilità prevista dall'art. 28, in quanto specificamente riferita agli atti posti in essere dal pubblico dipendente nell'esercizio delle sue funzioni, avrebbe giustificato l'aggiunta all'art. 27 di un comma o di un periodo, non di un articolo distinto. L'interpretazione della norma nel senso di avere introdotto il principio della responsabilità diretta del pubblico agente sarebbe comunque eccessivamente riduttiva della sua portata. Infine, la conferma che l'articolo trova la sua ragione di garanzia in relazione ai diritti riconosciuti dalla Costituzione si rinviene nei lavori preparatori. Fin dai primi interventi della Prima sottocommissione della Costituente si è cercato di dare «precedenza sostanziale alla persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo a servizio di quella» (Dossetti, 21). Alla luce dei suddetti principi ispiratori, è stato rilevato che cambia il rapporto tra cittadino e pubblici poteri, con un'inversione radicale nel senso che lo Stato non è più elemento primo rispetto al singolo consociato. In tale contesto, l'affermazione della responsabilità dei pubblici agenti assume una duplice valenza sul piano oggettivo e soggettivo. Con riferimento al piano oggettivo assurge al ruolo di garanzia effettiva delle libertà costituzionalmente riconosciute ed il riferimento fondamentale è ai diritti inviolabili dell'uomo sanciti dall'art. 2 della Costituzione. Sul piano soggettivo, l'esplicita affermazione della responsabilità dei pubblici agenti si colloca come elemento di soggettivazione delle disposizioni costituzionali in tema di pubblica amministrazione di cui agli artt. 97 e ss. nel senso che, dalla trama del rapporto organico, gli uomini danno vita e voce all'agire dello Stato. L'agire amministrativo non si fonda più sui presupposti della impersonalità del potere, del formalismo come mezzo per limitare gli sforzi di comprensione e di azione coerente ma, al contrario, sull'adozione libera e consapevole delle scelte, su una piena e contestuale assunzione di responsabilità (Benvenuti, 585). Una volta accolta la tesi che il riferimento della norma in esame riguarda i diritti riconosciuti dalla Costituzione, appare necessario specificare a quali diritti costituzionali l'art. 28 Cost. faccia riferimento. Come detto, le considerazioni di ordine sistematico e la ratio dell'art. 28 Cost. inducono a una lettura congiunta dello stesso con l'art. 2 Cost., posto a tutela dei «diritti inviolabili dell'uomo». A tali conclusioni sono pervenute la dottrina e la giurisprudenza. Con riferimento alla prima, già se n'è fatta menzione. Con riguardo alla seconda, si segnalano ripetute pronunce della Corte costituzionale secondo la quale l'art. 2 Cost. «nel riconoscere e garantire in genere i diritti inviolabili dell'uomo necessariamente si riporta alle norme successive in cui tali diritti sono particolarmente presi in considerazione» (Corte cost. n. 11/1956; Corte cost.n. 29/1962; n. 1/1969; Corte cost.n. 37/1969; Corte cost.n. 168/1971). I diritti tutelati dall'art. 28 Cost. sono dunque i diritti inviolabili dell'uomo: il diritto alla vita, alla salute, all'eguaglianza, al lavoro, alla libertà di pensiero, alla riservatezza... L'articolo 28 della Costituzione è la norma di chiusura di un sistema volto alla tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, garantendone la inviolabilità anche nei confronti dell'esercizio illegittimo o addirittura illecito del potere pubblico. L'ambito soggettivo di applicazioneCon riferimento all'ambito soggettivo di applicazione, l'art. 28 Cost. comprende i «funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici», con estensione della responsabilità civile anche allo «Stato e agli enti pubblici». La formula utilizzata dal legislatore è molto ampia in quanto comprende la categoria dei funzionari e quella dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici. Quindi, l'interpretazione del dato letterale depone del senso che la previsione abbia inteso riferirsi non soltanto nei confronti di coloro che pongano in essere atti in costanza di un rapporto di pubblico impiego. Il rapporto di pubblico impiego viene definito come il rapporto giuridico in forza del quale un soggetto pone volontariamente la propria prestazione lavorativa in modo continuativo ed esclusivo al servizio di un ente pubblico per il conseguimento dei fini istituzionali di quest'ultimo, ricevendo come corrispettivo una retribuzione. Elementi rivelatori del rapporto sono la natura pubblica dell'ente datore di lavoro, la continuità, l'esclusività, la correlazione con i fini istituzionali dell'ente, la retribuzione predeterminata (Virga, 3). Invero, se si ritenesse che la norma riguardasse i dipendenti con rapporto c.d. di pubblico impiego, secondo la definizione testé menzionata, talune fattispecie dovrebbero ritenersi escluse dalla configurabilità della responsabilità ex art. 28 Cost. Ad esempio, risulterebbero non compresi nella previsione gli operatori per gli atti posti in essere in presenza di rapporto di lavoro con quegli enti che non hanno natura pubblica (quali, ad esempio, le società in house); le condotte penalmente rilevanti che mettono in discussione ovvero contraddicono il perseguimento dei fini istituzionali dell'ente pubblico; le funzioni svolte in assenza di una vera e propria retribuzione come nella prestazione del servizio onorario. La giurisprudenza, invece, ha compreso nella categoria dei pubblici dipendenti che rispondono ex art. 28 Cost. anche soggetti che non hanno instaurato un rapporto di pubblico impiego nei termini anzidetti. In sostanza, quanto ai soggetti che possono essere chiamati a rispondere degli atti da loro posti in essere, si è ritenuto che non sia condizione necessaria per l'attribuzione della responsabilità ai sensi dell'art. 28 Cost. l'esistenza di un rapporto di servizio tra la P.A. e il soggetto agente. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha un orientamento consolidato. Secondo la Corte di cassazione, l'art. 28 della Costituzione ha introdotto il principio generale della responsabilità diretta dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici. Esso ha il suo fondamento in un rapporto di natura pubblicistica, non necessariamente impiegatizio, fra l'amministrazione ed i suoi organi e prevede, infatti, un'ipotesi di responsabilità per atti compiuti in violazione dei diritti dei soggetti privati la quale si aggiunge, in via alternativa e paritetica, a quella dell'ente pubblico (con salvezza delle ipotesi di interruzione del rapporto organico per attività compiute per fini egoistici) dando luogo a due azioni risarcitorie solidali a tutti gli effetti (Cass. II, n. 1045/1999). La circostanza che la norma faccia congiuntamente riferimento alla figura dei dipendenti e dei funzionari rivela come il rapporto di pubblico impiego non sia condizione indispensabile ai fini dell'imputazione della responsabilità: «La indicazione congiunta dei “funzionari e dipendenti” evidenzia che il Costituente ha collegato la responsabilità non “al rapporto di servizio” – che non ricorre per il funzionario – ma all'”esercizio della funzione”: mostrando così di voler porre sullo stesso piano la responsabilità delle due categorie di soggetti. [...] è sufficiente che l'agente abbia agito nell'ambito delle mansioni affidategli per il soddisfacimento dell'interesse pubblico perseguito dall'ente» (Cass. sez.lav., n. 1890/2000). Sulla questione sono emblematiche due pronunce rese in un arco temporale di quasi venti anni. Le Sezioni unite hanno ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice contabile nell'ipotesi di progettista esterno, a fronte di domanda risarcitoria per danni da carenze progettuali avanzata nei confronti di un professionista cui è stato affidato da un ente pubblico l'incarico di consulente “artistico” del direttore dei lavori, qualora il professionista debba ritenersi inserito in modo continuativo, ancorché temporaneo, nell'apparato organizzativo della P.A., assumendo particolari vincoli ed obblighi funzionali ad assicurare il perseguimento delle esigenze generali e, cioè, tutte le volte in cui la relazione tra l'autore dell'illecito e l'ente pubblico danneggiato integri un rapporto di servizio in senso lato (Cass. ord., S.U., n. 19891/2014). Ma già nel 1997 era stata riconosciuta la responsabilità ex art. 28 Cost. del Ministero della giustizia per l'attività illecita posta in essere da un custode giudiziario, nominato in sostituzione del cancelliere, nell'esercizio della funzione di custodia di beni sottoposti a sequestro penale. In quella decisione si è affermato che la nomina del custode implica la investitura di una funzione pubblica ed il suo inserimento nell'amministrazione giudiziaria, sia pure in mancanza di un rapporto di impiego. Secondo la Suprema corte, la norma costituzionale, facendo riferimento tanto ai funzionari quanto ai dipendenti, presuppone che il rapporto di pubblico impiego non sia condizione indispensabile per l'estensione della responsabilità de qua, anche in capo all'ente pubblico. Viceversa, ciò che rileva «è il titolo che legittima l'esercizio della funzione pubblica in vista dell'interesse pubblico istituzionalmente affidato alla amministrazione, e la riferibilità alla stessa dell'attività compiuta nello svolgimento dei rapporti e nei fini istituzionali pubblici» (Cass. I, n. 5559/1997). Anche secondo la dottrina, il principio in base al quale i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili delle lesioni arrecate a terzi nell'esercizio delle loro funzioni trova il suo fondamento in un rapporto di natura pubblicistica, non necessariamente impiegatizio, fra l'amministrazione e i suoi organi (De Rentiis, 103). D'altronde, come evidenziato, l'esplicita affermazione della responsabilità dei pubblici agenti è frutto di una scelta consapevole del legislatore costituente volta a «soggettivizzare» la pubblica amministrazione e, di conseguenza, a responsabilizzare maggiormente coloro che concorrono nell'agire dello Stato. L'art. 28 Cost. s'inserisce in un processo di cambiamento di una burocrazia spersonalizzata. L'affermazione del principio in esame segna il passaggio da una concezione, di derivazione hegeliana (Staatslehre), secondo cui lo Stato ha il ruolo di elemento primo rispetto al singolo consociato, al rapporto tra Stato al servizio del cittadino (Benvenuti, 535). Il combinato soggettivo e oggettivo delle responsabilità ex art. 28 Cost.L'articolo 28 della Costituzione si compone di due disposizioni: la prima, rivolta unicamente ai funzionari e dipendenti pubblici, prevede nei loro confronti un triplice ordine di responsabilità (penale, civile e amministrativa); la seconda, relativa allo Stato e agli enti pubblici, si estende anche ad essi la sola responsabilità civile. Tali disposizioni sono rette da un nesso di strumentalità, atteso che la seconda è applicabile solo e in quanto sia applicabile la prima (Benvenuti, 588). Infatti, la configurabilità della responsabilità civile dello Stato e degli enti pubblici è subordinata alla preliminare sussistenza della responsabilità civile dei pubblici dipendenti. Inoltre, la norma in esame si basa su tre presupposti teorici: il compimento, da parte dei funzionari e dipendenti pubblici, di un illecito; la conseguente e diretta responsabilità degli stessi secondo le leggi penali, civili e amministrative; l'estensione della responsabilità civile dei pubblici agenti all'amministrazione di appartenenza. Nonostante molteplici interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali abbiano cercato di ricondurre l'art. 28 Cost. a norma dedicata alla sola disciplina della responsabilità civile, l'oggetto della tutela (i diritti costituzionali, e non i soli diritti soggettivi) e l'espresso riferimento alle «leggi penali, civili e amministrative» impongono un'analisi delle questioni che hanno riguardato ciascuna delle citate forme di responsabilità. La responsabilità civile della P.A.Il richiamo dell'art. 28 Cost. alle leggi civili consente di configurare una responsabilità civile del dipendente pubblico ogni qualvolta quest'ultimo, nell'esercizio delle sue funzioni, arrechi danni ingiusti a soggetti terzi. Come detto, la norma prevede che la responsabilità civile si estenda anche allo Stato e agli enti pubblici. La ratio è triplice: garantire la tutela delle libertà e dei diritti del cittadino anche nei confronti della pubblica amministrazione; responsabilizzare maggiormente i funzionari e dipendenti pubblici; «soggettivizzare» i principi generali dell'organizzazione e dell'azione amministrativa di cui agli artt. 95 e 97 Cost. così da fornire un'immagine della P.A. non più impersonale. L'art. 28 Cost. si inserisce, infatti, nel processo europeo che ha portato al tramonto della irresponsabilità amministrativa con il progressivo venire meno del motto di derivazione anglosassone «The King can do no wrong», in favore di una maggiore responsabilizzazione della pubblica amministrazione (Scoca, 550). Quest'ultima, infatti, si compone di uomini e donne che danno vita agli organi dello Stato e che rispondono degli atti compiuti in violazione dei diritti. Si dà così rilevanza autonoma alla responsabilità del singolo funzionario o dipendente autore del fatto dannoso, che in passato era assorbita in quella della pubblica amministrazione (Cass. III, n. 1441/1966, in Foro amm., 1966, 515). La circostanza che la responsabilità da illecito civile si estenda allo Stato e agli enti pubblici ha spinto la dottrina e la giurisprudenza ad interrogarsi su come gli illeciti posti in essere dai dipendenti pubblici possano essere imputati alla pubblica amministrazione. Il dibattito sulla natura giuridica della responsabilità della P.A. ha visto nel tempo contrapporsi tre diversi orientamenti. Secondo un primo orientamento dottrinale, più datato, la responsabilità della P.A. avrebbe natura indiretta con conseguente applicazione della disciplina della responsabilità per fatto altrui di cui all'art. 2049 c.c. (Cammeo, 232 ss.). L'impostazione muove dalla considerazione che non è possibile riferire stati psicologici quali il dolo e la colpa alla P.A. in quanto persona giuridica. Per questo motivo, la responsabilità viene imputata in via diretta ai soli dipendenti pubblici quali autori materiali dell'illecito e, in via indiretta, alla pubblica amministrazione. A conferma di tale tesi depone il dato letterale dell'art. 28 Cost., nella parte in cui stabilisce che la responsabilità dei funzionari e dipendenti «si estende» allo Stato e agli enti pubblici. Tuttavia, con l'affermarsi della teoria della immedesimazione organica, altra parte della dottrina ha sostenuto la natura diretta della responsabilità della pubblica amministrazione. Già a partire dalla fine dell'Ottocento comincia, infatti, a svilupparsi l'idea che, in virtù del rapporto di immedesimazione organica tra la P.A. e i suoi funzionari, gli atti compiuti dai dipendenti pubblici nell'esercizio delle loro funzioni, sono immediatamente imputabili all'ente di appartenenza, con conseguente responsabilità diretta di quest'ultimo. Quella dell'ente diventa responsabilità per fatto proprio, diretta, e la disciplina applicabile corrisponde a quella del codice civile in quanto l'autore del fatto illecito è lo stesso ente, mentre la persona fisica agente viene a perdere importanza di fronte al terzo che ha la possibilità di agire contro un soggetto assai più solvibile senza bisogno dell'accertamento, talora non facile, di responsabilità individuali all'interno della pubblica amministrazione. La tesi non è da tutti condivisa, in quanto sembra inconciliabile con il dettato costituzionale che configura la responsabilità della pubblica amministrazione quale «aggiuntiva» (e non sostitutiva) rispetto a quella dei suoi agenti. In sostanza, la norma ha la finalità di rafforzare il rispetto della legalità da parte dei funzionari pubblici, mentre la responsabilità dell'ente pubblico opera in via sussidiaria o solidale a garanzia della solvibilità. Parte della dottrina, quindi, ritiene che la norma costituzionale di cui trattasi abbia introdotto una forma di responsabilità dell'amministrazione quale indiretta, per fatto altrui, ai sensi dell'art. 2049 c.c. (Casetta, 684). La giurisprudenza prevalente è da decenni orientata nel senso che la responsabilità della PA per fatto del dipendente è diretta. Infatti, con l'art. 28 Cost. «non si è inteso snaturare la responsabilità diretta della Pubblica Amministrazione per fatti illeciti dei suoi funzionari e dei suoi dipendenti, che abbiano agito nell'ambito dei compiti loro affidati e non per fini propri, per affermare il principio della responsabilità indiretta di essa, ma si è voluto soltanto sancire, accanto alla responsabilità dell'ente, anche quella del singolo funzionario o dipendente autore del fatto dannoso, che in passato era ritenuta assorbita dalla responsabilità dell'amministrazione» (Cass III, n. 1441/1966, cit.; Cass. II ord., n. 28079/2018). In adesione alla menzionata giurisprudenza, la dottrina prevalente qualifica come diretta sia la responsabilità del funzionario pubblico, sia quella della pubblica amministrazione (Alessi, 193 ss. e 231 ss.; Esposito, 340). Ciò, anche in ragione del dato letterale dell'art. 28 Cost. che, utilizzando il verbo «estendere», sembra evocare un meccanismo di imputazione diretta e solidale di entrambi. Sulla distinzione a proposito del concorso di responsabilità dell'amministrazione e del dipendente, si segnala che, in tema di responsabilità per danni da attività medico-chirurgica espletata presso una struttura ospedaliera, quando la domanda risarcitoria attinge solo l'operato del medico, e non anche i profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria, la transazione tra medico e danneggiato, con conseguente declaratoria di cessata materia del contendere, impedisce la prosecuzione dell'azione nei confronti della struttura sanitaria, perché questa è convenuta in giudizio solo in ragione del rapporto di lavoro subordinato col professionista, e dunque per fatto altrui, sicché la transazione raggiunta tra il medico e il danneggiato, escludendo la possibilità di accertare e dichiarare la colpa del primo, fa venir meno la responsabilità della struttura, senza che sia neppure possibile invocare l'art. 1304 c.c. (Cass. III, n. 15860/2015). Resta, poi, da definire in cosa si sostanzi l'illecito oggetto della domanda risarcitoria. Infatti, i meri comportamenti od operazioni materiali sono riconducibili nell'ambito della disciplina codicistica, in base alla specifica fattispecie. Nell'ipotesi di illecito riconducibile all'esercizio di un pubblico potere ovvero rappresenti l'esplicazione di un'attività provvedimentale si pone il problema di come l'attività illegittima possa essere ricondotta nell'ambito della disciplina dell'illecito civile ex art. 2043 c.c. La distinzione rileva anche ai fini del riparto di giurisdizione, atteso che, in caso di condotte materiali, la competenza è del giudice ordinario, mentre a fronte di lesioni provocate nell'esercizio di pubblici poteri la cognizione è rimessa al giudice amministrativo. Al riguardo, però, è bene precisare che se l'azione risarcitoria è promossa nei confronti dei soli pubblici dipendenti, l'art. 103 Cost. non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati, sicché la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti di funzionari regionali in proprio per comportamenti lesivi del privato, assunti nell'ambito di un procedimento amministrativo di concessione pubblica, va proposta dinanzi al giudice ordinario, a ciò non ostando che tali comportamenti siano stati veicolati nella forma di provvedimenti impugnabili né che questi ultimi possano essere stati impugnati avanti al giudice amministrativo per la rimozione, con l'annullamento giurisdizionale, dei loro effetti pregiudizievoli (Cass. S.U., n. 29175/2020; Cass.S.U., n. 6690/2020; Ad. plen. n. 2/2017). Inoltre, va tenuto presente che si aggiungono ulteriori elementi a quelli costitutivi dell'illecito civile in presenza di fatti imputabili a pubblici impiegati. Elementi costitutivi dell'illecito ai sensi dell'art. 2043 c.c. sono: la condotta imputabile all'agente, il danno suscettibile di valutazione in termini economici, l'elemento psicologico del dolo o della colpa, il nesso causale tra la condotta e il danno. A fronte di fatti imputabili a pubblici impiegati, affinché concorra la responsabilità dell'amministrazione, è richiesta la sussistenza di un rapporto tra questa e l'autore del fatto illecito e che il fatto sia stato commesso nell'esercizio delle proprie funzioni. Peraltro, il testo unico del pubblico impiego del 1957 (artt. 22 e 23, d.P.R. n. 3/1957) prevede che l'impiegato è responsabile del danno cagionato ad altri qualora abbia agito con dolo o colpa grave e, in caso di organi collegiali, tutti i membri sono responsabili in solido salvo il caso in cui vi sia stato un dissenso espresso o fatto constatare nel verbale. L'attuale d.lgs. n. 165/2001 ha sostanzialmente mantenuto invariata la disciplina. È evidente che la normativa testé menzionata abbia voluto contenere la responsabilità di funzionari e dei pubblici dipendenti subordinandola alla presenza dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave. La Corte costituzionale ha ritenuto che è compatibile con il dettato dell'art. 28 Cost. la norma di legge che ha limitato la responsabilità del funzionario. Il rinvio alle leggi ordinarie operato dalla norma costituzionale consente una disciplina differenziata per categorie di dipendenti e per situazioni soggettive (Corte cost. n. 88/1963). L'importante è che la responsabilità non venga negata totalmente in quanto la Costituzione non ha escluso una disciplina più favorevole all'impiegato e all'ente da cui dipende. Infatti, per quanto ampia possa essere, in ipotesi, la sfera nella quale il legislatore può regolare i rapporti tra lo Stato ed i suoi dipendenti anche agli effetti della responsabilità verso di essi, sarebbe in contrasto con il precetto fondamentale contenuto nell'articolo in commento una legge che adottasse una disciplina tale da escludere in tutto, più o meno manifestamente, la responsabilità stessa in conseguenza di danni riportati per eventi di servizio (Corte cost. n. 1/1962). Quanto all'elemento soggettivo, mentre il pubblico agente risponde soltanto a titolo di dolo o di colpa grave, per l'amministrazione, che risponde a titolo di responsabilità diretta, la valutazione si basa sul giudizio prognostico di una colpa dell'uomo medio. Più complesso poi è l'accertamento della colpa nell'ipotesi in cui il fatto illecito consista nell'emanazione di un atto amministrativo illegittimo. La Corte di cassazione ha ritenuto che l'illegittimità del provvedimento determina la colpa dell'apparato (S.U. , n. 500/1999). Si tratta di una sentenza sulla quale si è scritto molto, atteso che da taluni è stata indicata come la pietra miliare di un cambiamento epocale in tema di responsabilità dell'amministrazione per lesione di interessi legittimi, da altri invece si è ritenuto che la sentenza non abbia segnato un importante cambiamento sul tema. Ad ogni buon fine, quanto alle situazioni soggettive risarcibili, è stata ammessa la configurabilità dell'illecito anche nell'ipotesi di lesione d'interessi legittimi e quindi nell'esercizio di pubblici poteri. A questo punto, assume poi rilievo la natura oppositiva o pretensiva dell'interesse legittimo. Infatti, in tema di responsabilità della P.A. per l'esercizio illegittimo della funzione pubblica, il diritto del privato al risarcimento del danno va accertato in maniera diversa a seconda della natura dell'interesse legittimo leso: quando esso è oppositivo, occorre verificare se l'illegittima attività dell'Amministrazione abbia leso l'interesse alla conservazione di un bene o di una situazione di vantaggio, mentre, se l'interesse è pretensivo, concretandosi la lesione nel diniego o nella ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo, occorre valutare a mezzo di un giudizio prognostico la fondatezza o meno della richiesta della parte, onde stabilire se la medesima fosse titolare di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, o di una situazione che, secondo un criterio di normalità, era destinata ad un esito favorevole (Cass. III, n. 21535/2021). In definitiva, tanto la pubblica amministrazione, quanto il pubblico dipendente possono rispondere del danno cagionato, ma sulla base di un diverso coefficiente psicologico: la prima risponde anche per colpa lieve, il secondo solo per dolo o colpa grave. Resta salvo che, una volta risarcito il danno, la P.A. può sempre rivalersi nei confronti del funzionario pubblico, ove questi abbia agito con dolo o colpa grave. L'unica condizione di imputazione della responsabilità del dipendente all'amministrazione di appartenenza è che sussista un «nesso di occasionalità necessaria», il quale sussiste ogni qual volta l'esercizio delle incombenze abbia anche solo agevolato la commissione dell'illecito sotto il profilo causale, a nulla rilevando che tale comportamento si sia posto in modo autonomo nell'ambito dell'incarico o abbia addirittura ecceduto i limiti di esso (Cass. III, n. 2226/1990). In altri termini, affinché possa ravvisarsi una responsabilità solidale della P.A., l'interprete deve accertare la sussistenza non solo del nesso di causalità fra il comportamento e l'evento dannoso, ma anche la riferibilità all'amministrazione del comportamento stesso (Cass. III, n. 10803/2000). Quest'ultima, secondo le ricostruzioni della Corte di cassazione, va esclusa solo relativamente a quelle attività strettamente personali del dipendente in relazione alle finalità istituzionali o non legate neppure da un nesso di occasionalità con i compiti affidatigli (Cass.I, n. 12786/1995; Cass. III, n. 10896/1996). La verifica della c.d. «riferibilità alla pubblica amministrazione dell'illecito» commesso dall'amministratore, dipendente o funzionario è dunque prodromica al riscontro della sussistenza dei presupposti di un illecito ascrivibile alla persona fisica agente, in termini di comportamento lesivo e nesso di causalità fra il comportamento e l'evento dannoso (De Rentiis, 108). Quanto detto è stato confermato anche dalla più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo la quale lo Stato o l'ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell'amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare (Cass. S.U., n. 13246/2019). La responsabilità penale dei dipendenti pubblici in relazione all'art. 28 Cost.Gli amministratori, dipendenti e funzionari pubblici sono responsabili anche penalmente degli atti da loro compiuti nell'esercizio delle funzioni. In virtù della qualità di pubblici ufficiali o di «incaricati di pubblico servizio», la loro condotta è considerata penalmente rilevante qualora integri gli estremi di una fattispecie di reato. Come per quella civile e amministrativa, anche la responsabilità penale dei dipendenti e funzionari pubblici trova fondamento costituzionale nell'art. 28 Cost. Tuttavia, nel caso specifico, la norma va letta in combinato disposto con l'art. 27, comma 1, Cost. ai sensi del quale «la responsabilità penale è personale». Nel sistema penale nazionale gli unici soggetti giuridici penalmente imputabili e destinatari delle norme penali sono le persone fisiche, con ciò escludendo gli enti e le persone giuridiche, secondo il brocardo latino «societas delinquere non potest». In ossequio al principio di personalità della pena e in ragione delle finalità rieducative e preventive della sanzione penale, il pubblico dipendente che, nell'esercizio delle sue funzioni, compia reato ne risponde personalmente. Né il principio della eguale responsabilità dei funzionari e dipendenti dello Stato consente al legislatore di introdurre limitazioni. Per questo motivo, secondo la Consulta, si traduce in una violazione del principio della diretta responsabilità dei funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici il potere conferito al Ministro di grazia e giustizia di concedere o negare l'autorizzazione a procedere a carico degli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza per fatti compiuti in servizio, e relativi all'uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica (Corte cost. n. 94/1963). Analogamente, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima la c.d. garanzia amministrativa in favore del prefetto e del sindaco che condizionava l'esperimento dell'azione penale nei loro confronti ad una autorizzazione amministrativa, rendendone possibile l'esonero discrezionale. Ciò, invero, non è permesso in materia penale, essendo eccezionalmente dettati, da norme costituzionali, i casi di deroga al principio dell'obbligatorietà dell'azione del P.M. (Corte cost. n. 4/1965). Tuttavia, rientra nella discrezionalità del legislatore stabilire quali reati siano perseguibili d'ufficio e quali su querela di parte, nonché quali possano essere assoggettati a forme di depenalizzazione ovvero a particolari condizioni quali la richiesta del comandante del corpo da cui dipende il militare colpevole; fermo restando che il danneggiato potrà sempre far valere in sede civile il proprio diritto al risarcimento dei danni (Corte cost. n. 189/1976; Corte cost. n. 42/1975). Dunque, l'ente pubblico, alla stregua di qualsiasi persona giuridica che pone in essere la sua attività attraverso i propri organi rappresentativi, non risponde in sede penale dell'attività illecita posta in essere da questi ultimi: sono le persone fisiche, legate da rapporto di servizio all'ente pubblico, che rispondono penalmente per i singoli fatti di reato (De Rentiis, 29). A differenza della responsabilità civile, non è mai possibile estendere la responsabilità penale del dipendente all'amministrazione di appartenenza. Ciò posto, resta il problema della incidenza sul rapporto di servizio della condotta criminosa, nel senso della sua idoneità ad interrompere il rapporto di servizio e, quindi, ad impedire l'estensibilità della responsabilità civile all'amministrazione di appartenenza ai fini risarcitori dei danni cagionati. È stata ritenta configurabile la responsabilità civile della pubblica amministrazione anche per le condotte delittuose dei dipendenti pubblici dirette a perseguire finalità esclusivamente personali, purché l'adempimento delle funzioni pubbliche costituisca un'occasione necessaria che l'autore del reato sfrutta per il compimento degli atti penalmente illeciti (Cass. pen. V, n. 35588/2017; Cass. pen. VI, n. 44760/2015; Cass. pen. V, n. 1386/1998). La responsabilità amministrativa dei pubblici dipendentiSi riconducono nell'ambito della c.d. responsabilità amministrativa sia i danni cagionati dai dipendenti nei confronti dei privati cui consegue un obbligo di risarcimento della P.A., sia quelli causati all'Amministrazione sotto forma di minori incassi, di maggiori spese, di danneggiamento di beni, ecc. Ne derivano due forme di responsabilità amministrativa: una responsabilità «diretta» per i danni causati dal dipendente direttamente all'amministrazione; una responsabilità «indiretta» per i danni causati dal funzionario a un privato il quale ottenga il risarcimento dell'amministrazione di appartenenza, che a sua volta si rivalga sull'impiegato (Celotto, 28). In verità, il richiamo alla disciplina amministrativa comprende più ipotesi di responsabilità amministrativa del pubblico dipendente qualificabile, a seconda dei casi, come responsabilità amministrativa, contabile o disciplinare. La responsabilità disciplinare è connessa agli obblighi comportamentali scaturenti dal rapporto di lavoro, al contrario di quella amministrativa che invece consegue ai danni provocati all'amministrazione in violazione dei doveri ed obblighi del dipendente. Diversa ancora è la responsabilità in cui incorre il dipendente che ha il maneggio di denaro o di valori pubblici, con obbligo di documentare i risultati della gestione e, quindi, di rendicontare, assumendo a tal fine il ruolo di c.d. agente contabile. I danni cagionati in conseguenza di detta gestione determinano la responsabilità contabile la quale si atteggia come una species di quella amministrativa. C'è, infine, un'altra forma specifica di responsabilità amministrativa, quella dirigenziale, propria dei dirigenti tenuti a rispondere del raggiungimento degli obiettivi ai medesimi affidati. Quest'ultima responsabilità ha conseguenze in termini sia di remunerazione proporzionata nella parte c.d. variabile alla percentuale dei risultati raggiunti, sia di conferimento dell'incarico dirigenziale. Ma la responsabilità amministrativa vera e propria è quella del pubblico dipendente scaturente dai danni anche non patrimoniali provocati all'amministrazione. Il fondamento costituzionale della responsabilità in esame è rinvenibile nel combinato disposto dell'art. 28 Cost. e dell'art. 54, comma 2, Cost. Mentre la prima norma individua una generica responsabilità del funzionario pubblico «secondo le leggi amministrative», la seconda impone ai funzionari pubblici una «fedeltà qualificata» alla Repubblica, in ragione del legame istituzionale che investe i cittadini chiamati ad assumere cariche pubbliche (Celotto, 54). Infatti, ai sensi dell'art. 54, comma 2, Cost. «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle, con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». Il termine «responsabilità amministrativa» afferisce alla responsabilità cui incorre il soggetto persona fisica avente un rapporto di servizio con un ente pubblico il quale, in violazione dei suoi obblighi o doveri, cagioni un danno alla pubblica amministrazione (Lopilato, 1001). I presupposti in presenza dei quali può configurarsi la responsabilità amministrativa sono dunque due: la sussistenza di un «rapporto di servizio» tra il dipendente e la pubblica amministrazione; il danno al patrimonio pubblico conseguente alla condotta del dipendente pubblico. Quanto al primo requisito, giova sottolineare che il rapporto di servizio con la pubblica amministrazione, come detto, è stato inteso come più ampio rispetto al rapporto di pubblico impiego: esso riguarda, infatti, oltre il suddetto rapporto di pubblico impiego, qualunque altro modo di essere al servizio della pubblica amministrazione. Si fa riferimento, perciò, anche ad un rapporto onorario non professionale, come quello che intrattiene il sindaco con l'ente locale comunale, o come quello che il ministro intrattiene con l'amministrazione centrale; ovvero un rapporto meramente occasionale, come quello concernente lo svolgimento di un incarico di consulenza o di studio, ovvero quello di un rapporto interinale, ecc. (Mele, 273). Per ciò che concerne il secondo presupposto, sono risarcibili sia i pregiudizi patrimoniali che quelli non patrimoniali subiti dalla pubblica amministrazione (c.d. danno erariale). La responsabilità amministrativa è una responsabilità di tipo risarcitorio, nel senso che ogni danno prodotto al patrimonio dell'Amministrazione da parte dei pubblici agenti deve essere risarcito (Mele, 273). Il danno non patrimoniale è sempre risarcibile, anche a prescindere dal limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 del Codice penale, allorché vengano in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, risultando così smentita la premessa secondo cui, per diritto vivente, il danno non patrimoniale sarebbe risarcibile solo in presenza di una fattispecie almeno astratta di reato (Corte cost. n. 58/2005; Corte cost. n. 233/2003). La responsabilità amministrativa non è inquadrabile negli schemi civilistici della responsabilità contrattuale o aquiliana, ma trova fondamento nelle disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti (l. n. 20/1994). Il rapporto con l'amministrazione in costanza del quale scaturisce la responsabilità in esame è stato inteso in maniera ampia, comprendendo incarichi di tipo onorario e responsabilità di tipo contrattuale ed extracontrattuale del soggetto agente, nonché responsabilità anche nei confronti di amministrazioni diverse da quelle di appartenenza (Cass. S.U., n. 10741/2021). Si tratta di responsabilità personale. Quanto all'elemento soggettivo, l'art. 1, l. n. 20/1994, richiede che i fatti o le omissioni siano commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. È stato però precisato che, ferma restando l'insindacabilità giurisdizionale delle scelte di gestione del debito pubblico, da parte degli organi governativi a ciò preposti, mediante ricorso a contratti in strumenti finanziari derivati, rientra nella giurisdizione contabile, in quanto attinente al vaglio dei parametri di legittimità e non di mera opportunità o convenienza dell'agire amministrativo, l'azione di responsabilità per danno erariale con la quale si faccia valere, quale petitum sostanziale, la mala gestio alla quale i dirigenti del Ministero del Tesoro (oggi MEF) avrebbero dato corso, in concreto, nell'adozione di determinate modalità operative e nella pattuizione di specifiche condizioni negoziali relative a particolari contratti in tali strumenti (Cass. S.U., n. 2157/2021). Ancora, l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali compiute da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti non comporta che esse siano sottratte a ogni possibilità di controllo, e segnatamente a quello della conformità alla legge che regola l'attività amministrativa, potendo e dovendo la Corte dei conti verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell'ente, che devono essere ispirati ai criteri di economicità ed efficacia, rilevanti sul piano non della mera opportunità bensì della legittimità dell'azione amministrativa (Cass. S.U., n. 28975/2020). La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso. In ogni caso è esclusa la gravità della colpa quando il fatto dannoso tragga origine dall'emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità, limitatamente ai profili presi in considerazione nell'esercizio del controllo. Nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall'amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità. Tuttavia, è stata affermata l'inopponibilità in sede esecutiva la controdeduzione di vantaggi, a titolo di controcredito da compensare, se non soddisfa – in quanto illiquido e non pacifico neppure sostanzialmente, bensì da accertare in un giudizio che ne riscontri gli specifici e, in tal senso, non autoevidenti presupposti e contorni – i requisiti civilistici per operare come preteso fatto estintivo successivo al titolo esecutivo definitivo, azionato con riscossione esattoriale (Cass. VI, n. 25412/2021). Nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole. Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione. Questioni applicative1) La commmissione di un reato da parte del dipendente recide il nesso di immedesimazione organica? Cass. S.U. , n. 13246/19 affermano il modello binario della responsabilità civile della p.a. per fatto del dipendenti. È diretta, in base a criteri pubblicistici ex artt. 28 Cost. e 2043 c.c., a la responsabilità per attività del dipendente volta a fini istitutzionali, pur se frutto di reato e con abuso di potere, vista l'attribuzione diretta dal fatto alla p.a. (sempre il provvedimento, il comportamento se tenuto per fini non personali) in base al rapporto di immedesimazione organica. È indiretta, in base a criteri privatistici ex art. 2049 c.c., se l'interesse perseguito dall'agente è personale/egoistico (in caso di reato doloso in generale). Pur escludendosi l'immedesimazione organica e l'attribuzione diretta del fatto ex art. 28 Cost., permane in questo caso, come nele analoghe vicende priavtistiche, l'esistenza di un nesso di occasionalità necessaria del fatto con funzioni pubbliche o poteri pubblici che hanno reso possibile o significativamente agevolato l'illecito. Anche la P.A, come il preponente privato, deve quindi farsi carico di forme non oggettivamente improbabili di deviazione e infedeltà. La responsabilità della P.A. sarà totalmente esclusa solo in caso di assenza di collegamento significativo, a fronte di occasionalità non necessaria, puramente estrinseca e contingente (omicidio del rivale in amore nei locali degli uffici comunali). In caso di reato del dipendente scatta la prescrizione più lunga prevista dall'articolo 2947 comma 3 c.c. (Cass. S.U., n. 1641/2017). 2) Permane il tabù dell'irresponsabilità del legislatore? Cass. I ord., 13 dicembre 2021 n. 39534 , pronuciandosi sulla legge elettorale n. 270/2005 bocciata da Corte cost. n. 1/2014 ha da ultimo ribadito il princpio cons0lidato per cui il ristoro dell'eventuale pregiudizio è dato dalla stessa eliminazione della norma illegittima dall'ordinamento, qualificabile come risarcimento in forma specifica, ai sensi dell'art. 2058 c.c., e che non è dato invece un risarcimento monetario per equivalente; dall'altro lato, che nessun danno può essere ravvisato in re ipsa. A fronte della libertà della funzione politica legislativa(artt. 68, comma 1, 122, comma 4, Cost.), non è ravvisabile un'ingiustizia che possa qualificare il danno allegato in termini di illecito, né si può arrivare a fondare il diritto al risarcimento, dovendo escludersi, nell'ordinamento italiano, il diritto soggettivo del singolo all'esercizio del potere legislativo, il quale è libero nei fini e sottratto, perciò, a qualsiasi sindacato giurisdizionale, né può qualificarsi in termini di illecito da imputare allo Stato-persona, ai sensi dell'articolo 2043 c.c., una determinata conformazione dello stato-ordinamento. Nel caso di norma dichiarata incostituzionale, deve escludersi una responsabilità per illecito costituzionale, rilevante sul piano risarcitorio, in ragione dell'emanazione della norma espunta dall'ordinamento per contrasto con la Costituzione, in quanto, essendo la funzione legislativa espressione di un potere politico, incoercibile e sottratto al sindacato giurisdizionale, rispetto ad esso non possono configurarsi situazioni giuridiche soggettive dei singoli protette dall'ordinamento. Sebbene nel sistema delineato dalla Costituzione la discrezionalità del legislatore non sia assoluta, bensì limitata dal controllo accentrato di costituzionalità, tuttavia è proprio quel sistema che esclude che le norme costituzionali sulle scelte del legislatore possano attribuire direttamente al singolo diritti, la cui violazione sia fonte di responsabilità da far valere dinanzi all'autorità giudiziaria. Conf. Cons. St. V, 15 giugno 2021, n. 4642, secondo cui il fatto che il potere legislativo delegato sia limitato e non libero nei fini, con la conseguenza di poter essere sottoposto a sindacato di legittimità costituzionale non solo per il mancato rispetto dei vincoli imposti dalla carta repubblicana ma anche di quelli stabiliti dalla legge di delega, non implica assoggettamento dell'attività legislativa delegata a regime di responsabilità per illecito costituzionale interno. La dottrina (Pardolesi) obietta che l'indirizzo in esame esprime, sotto i profili evocati, “una sorta di atto di fede, che notoriamente non si discute. è lecito, però, chiedersi: fede in che cosa? La risposta è ardua. Ma si può procedere per esclusione. Cominciando col negare in maniera risoluta che si tratti di fede nella ragione.” Va, da ultmo, segnalato il timido spiraglio offerto da Cass. S.U., n. 36373/2021, sulla giurisdizione ordinaria per il danno da illecito legislativo discriminatorio ex art. 3 Cost., dovendosi identificare in tale giudice il plesso deputato alla tutela dei diritti fondamentali. BibliografiaAlessi, La responsabilità della pubblica amministrazione nell'evoluzione legislativa più recente, in Rass. dir. pubbl., I, 1949; Alessi, Responsabilità del pubblico funzionario e responsabilità dello Stato in base all'art. 28 Cost., in Riv. trim. dir. pubbl., 1951; Assemblea Costituente, I Sottocommissione, sedute 26 luglio - 19 dicembre 1946, in Camera dei deputati; Benvenuti, Art. 28 Cost., in Bifulco, Celotto, Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, 2006; Bin, Pitruzzella, Diritto costituzionale, Torino, 2018; Calamandrei, Chiarezza nella Costituzione, in Problemi vari e ricordi di giuristi, X, Roma, 2019; Cammeo, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, 1911; Caretti, U. 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