Decreto legislativo - 30/03/2001 - n. 165 art. 1 - Finalità ed ambito di applicazione ( Art. 1 del d.lgs n. 29 del 1993 , come modificato dall' art. 1 del d.lgs n. 80 del 1998 )

Ciro Silvestro

Finalità ed ambito di applicazione

(Art. 1 del d.lgs n. 29 del 1993, come modificato dall'art. 1 del d.lgs n. 80 del 1998)

1. Le disposizioni del presente decreto disciplinano l'organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, tenuto conto delle autonomie locali e di quelle delle regioni e delle province autonome, nel rispetto dell'articolo 97, comma primo, della Costituzione, al fine di:

a) accrescere l'efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi dell'Unione europea, anche mediante il coordinato sviluppo di sistemi informativi pubblici;

b) razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica;

c) realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, assicurando la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti, applicando condizioni uniformi rispetto a quelle del lavoro privato, garantendo pari opportunità alle lavoratrici ed ai lavoratori nonché l’assenza di qualunque forma di discriminazione e di violenza morale o psichica 1.

2. Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CONI 2 34  56 78910(A).

3. Le disposizioni del presente decreto costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione. Le Regioni a statuto ordinario si attengono ad esse tenendo conto delle peculiarità dei rispettivi ordinamenti. I principi desumibili dall'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, e successive modificazioni, e dall'articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni ed integrazioni, costituiscono altresì, per le Regioni a statuto speciale e per le province autonome di Trento e di Bolzano, norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica 11.

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(A) In riferimento al presente comma vedi: Parere Autorità garante per la protezione dei dati personali 24 aprile 2013, n. 2460830; Parere Autorità garante per la protezione dei dati personali 24 aprile 2013, n. 2470970. In riferimento a Datori di lavoro di cui al presente comma che impiegano lavoratori assicurati al Fondo pensioni lavoratori dello spettacolo vedi: Circolare INPS - Istituto nazionale previdenza sociale 28/06/2019 n. 98; Circolare INPS - Istituto nazionale previdenza sociale 21 maggio, 2025 n. 93.

[3] A norma dell'articolo 2, comma 35, della legge 22 dicembre 2008, n. 203, dalla data di presentazione del disegno di legge finanziaria decorrono le trattative per il rinnovo dei contratti del personale di cui al presente comma. In riferimento al presente comma vedi anche l’articolo 1, comma 154, della Legge 24 dicembre 2012, n. 228. Inoltre, a norma dell'articolo 8, comma 1, del D.L. 8 aprile 2013, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 giugno 2013, n. 64, gli atti di cessione dei crediti certi, liquidi ed esigibili maturati nei confronti delle pubbliche amministrazioni di cui presente comma, alla data del 31 dicembre 2012 per somministrazioni, forniture ed appalti sono esenti da imposte, tasse e diritti di qualsiasi tipo; la disposizione di cui al citato comma 1 non si applica all'imposta sul valore aggiunto. Vedi anche quando disposto dal comma 2, del medesimo articolo 8.

[4] A norma dell'articolo 38-bis, comma 1, del D.L. 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla Legge 23 giugno 2014, n. 89 , gli atti di cessione dei crediti certi, liquidi ed esigibili nei confronti delle pubbliche amministrazioni di cui al presente comma per somministrazioni, forniture ed appalti e per obbligazioni relative a prestazioni professionali, alla data del 31 dicembre 2013, nonche' le operazioni di ridefinizione dei relativi debiti richieste dalla pubblica amministrazione debitrice e garanzie connesse, sono esenti da imposte, tasse e diritti di qualsiasi tipo. La disposizione di cui al presente comma non si applica all'imposta sul valore aggiunto. A norma dell'articolo articolo 41, comma 1, del D.L. 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla Legge 23 giugno 2014, n. 89, a decorrere dall'esercizio 2014, alle relazioni ai bilanci consuntivi o di esercizio delle pubbliche amministrazioni, di cui al presente comma, e' allegato un prospetto, sottoscritto dal rappresentante legale e dal responsabile finanziario, attestante l'importo dei pagamenti relativi a transazioni commerciali effettuati dopo la scadenza dei termini previsti dal decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, nonche' il tempo medio dei pagamenti effettuati. In caso di superamento dei predetti termini, le medesime relazioni indicano le misure adottate o previste per consentire la tempestiva effettuazione dei pagamenti. L'organo di controllo di regolarita' amministrativa e contabile verifica le attestazioni di cui al primo periodo, dandone atto nella propria relazione. Per le Amministrazioni dello Stato, in sede di rendiconto generale, il prospetto di cui al primo periodo e' allegato a ciascuno stato di previsione della spesa. Vedi inoltre l'articolo 42, comma 1, del D.L. 66/2014.

[6] A norma dell'articolo 103, comma 5, del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla Legge 24 aprile 2020, n. 27, i termini dei procedimenti disciplinari del personale delle amministrazioni di cui al presente comma, pendenti alla data del 23 febbraio 2020 o iniziati successivamente a tale data, sono sospesi fino alla data del 15 aprile 2020. Da ultimo, l'articolo 37, comma 1, del D.L. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla Legge 5 giugno 2020, n. 40, modificando il medesimo articolo 103, comma 5, D.L. 18/2020, ha prorogato il termine di cui al presente comma al 15 maggio 2020.

[7] In riferimento al presente comma vedi l'articolo 10, comma 1, del D.L. 1 aprile 2021, n. 44, convertito con modificazioni dalla Legge 28 maggio 2021, n. 76. Per l'estensione delle procedure telematiche di cui all'articolo 3-bis del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 463, ad atti e provvedimenti amministrativi emanati dalle pubbliche amministrazioni di cui presente comma, vedi il Provvedimento 23 gennaio 2024.

[8] Per l'applicazione delle disposizioni di cui al presente comma, vedi l'articolo 2, comma 1 del D.Lgs. 13 dicembre 2023, n. 222 e l'articolo 1, comma 1, del D.Lgs. 12 luglio 2024, n. 103.

[9] A norma dell'articolo 12, comma 1, del D.L. 14 marzo 2025, n. 25, convertito, con modificazioni, dalla Legge 9 maggio 2025, n. 69, a decorrere dalla data di entrata in vigore del D.L. 25/2025 medesimo, per i dipendenti delle amministrazioni di cui al presente comma, il periodo di assenza per malattia dovuta al COVID-19 non è equiparato al periodo di ricovero ospedaliero ed è computabile ai fini del periodo di comporto.

Inquadramento

Con l'espressione pubblico impiego si definisce quel peculiare rapporto di lavoro subordinato in cui una persona fisica pone professionalmente la propria attività lavorativa, in via continuativa e dietro retribuzione, alle dipendenze dello Stato o di un ente pubblico (non economico), assumendo i corrispondenti diritti e doveri.

Per effetto della instaurazione del rapporto de quo, il dipendente risulta stabilmente inserito nell'organizzazione della P.A. datrice di lavoro, rispetto alla quale, pertanto, è gerarchicamente subordinato; inoltre, la sua prestazione concorre alla realizzazione dei fini istituzionali dell'ente.

La disciplina ordinamentale dei rapporti di lavoro e di impiego pubblico e dei connessi profili organizzativi degli uffici trova la sua collocazione nel d.lgs. n. 165/2001, recante Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

Il rapporto di pubblico impiego, in particolare, si configura come:

volontario, in quanto sia per la costituzione che per la continuazione del rapporto è richiesta la volontà della P.A. e quella del dipendente;

strettamente personale, in quanto la relazione intercorrente tra dipendente e P.A. ha carattere fiduciario, fattore che impone la personalità della prestazione stessa, essendo rilevante la specifica capacità intellettiva e tecnica di coloro che l'ente assume (intuitu personae);

sinallagmatico, in quanto la prestazione lavorativa e la corresponsione della retribuzione sono collegate fra loro da un nesso di corrispettività, trovando l'una la propria causa nell'altra.

La giurisprudenza ha individuato una serie di indici rilevatori del rapporto di pubblico impiego, tra i quali si contano: il carattere pubblico del datore di lavoro; il vincolo di subordinazione gerarchica; l'osservanza di un orario di lavoro; l'espletamento di mansioni corrispondenti a quelli della qualifica rivendicata; la correlazione delle prestazioni lavorative con i fini istituzionali dell'ente ovvero l'inserimento stabile nell'organizzazione dell'ente; la predeterminazione del corrispettivo; l'esclusività e continuità della prestazione lavorativa; l'assenza di obbligazione di risultato e del relativo rischio economico; la sussistenza di un atto di nomina. Riguardo l'atto di nomina, la giurisprudenza precisa, altresì, che la volontà dell'amministrazione può risultare in via indiretta, in particolare attraverso il criterio fattuale dello stabile ed effettivo inserimento del lavoratore dipendente nella organizzazione pubblica.

Alla presenza degli indici rilevatori, comunque, «può attribuirsi soltanto una funzione di astratta qualificazione, ai fini della determinazione della giurisdizione, nonché della disciplina economica e previdenziale delle prestazioni lavorative di fatto erogate, essendo comunque nullo e improduttivo di effetti un rapporto di lavoro instaurato al di fuori dei parametri legislativi che, nel rispetto dell'art. 97, comma 3, della Costituzione, regolano l'accesso al pubblico impiego tramite concorso» (Cons. St. IV, n. 4756/2005; Cons. St. VI, n. 3329/2010).

Ancora, perché un rapporto di lavoro possa dirsi caratterizzato dalla “esclusività”, ai fini della configurazione di un rapporto di pubblico impiego, non basta che il prestatore d'opera non svolga di fatto altra attività lavorativa retribuita, ma occorre che nel contratto di lavoro vi sia una clausola con la quale il lavoratore si obbliga a non svolgere altre attività lavorative, se non autorizzato (Cons. St. III, n. 6535/2012).

Con formulazione ancora più puntuale, la Cassazione ha esplicitato che «deve ravvisarsi un rapporto di pubblico impiego ogni volta che tra un ente pubblico ed un soggetto privato venga costituito un rapporto non occasionale di locazione di opere, con il conseguente inserimento del secondo nell'organizzazione amministrativa del primo, per il perseguimento di finalità attribuite al medesimo dalla legge; tale natura pubblicistica dell'impiego non è esclusa né dalla mancanza di un atto formale di nomina, né dall'assenza di stabilità o dall'apposizione di un termine – essendo sufficiente che le prestazioni del dipendente abbiano carattere continuativo, ancorché provvisorio, né, infine, dall'assoggettamento del rapporto alla disciplina sostanziale di diritto privato; la pubblicità del rapporto, invece, deve escludersi sia nel caso di inserimento del lavoratore in una struttura separata ed autonoma dell'ente gestita con criteri imprenditoriali, sia nel caso in cui sia la legge a qualificare espressamente come privato il rapporto di lavoro, in deroga ai principi sopra enunciati» (Cass. S.U., n. 18622/2008).

Infine, va rilevato che «per la qualificazione di un rapporto di lavoro svolto alle dipendenze di una pubblica amministrazione, è irrilevante la denominazione data dall'atto genetico del rapporto, perché rilevano le concrete modalità di svolgimento della attività lavorativa» (Cons. St., Ad. plen., n. 1/1992).

Il rapporto di pubblico impiego nell'ambito del genus dei rapporti di servizio.

Le caratteristiche del rapporto di lavoro pubblico (o alle dipendenze delle P.A., espressione che, dopo la privatizzazione realizzata dal d.lgs. n. 29/1993 – antesignano del decreto n. 165 –, contende il campo a quella di pubblico impiego) meglio si avvertono nel confronto con le altre tipologie in cui può articolarsi il rapporto di servizio con la P.A.

Infatti, il rapporto di servizio è, in generale, il rapporto giuridico intersoggettivo da cui deriva l'inserimento di una persona fisica, con determinate funzioni, nell'apparato organizzativo dell'amministrazione e da cui sorgono specifiche posizioni giuridiche in capo alle due parti.

A seconda del titolo, ossia del fatto costitutivo che li instaura, i rapporti di servizio si distinguono in:

– di diritto, qualora si costituiscono mediante un atto di assunzione dell'ente;

– di fatto, in assenza di un tale regolare atto.

Il rapporto di servizio di diritto si distingue, inoltre, in volontario o coattivo, a seconda che presupponga il consenso dell'interessato. I casi di rapporto di servizio coattivo trovano applicazione solo nei casi tassativi di legge: l'art. 23 Cost. stabilisce che «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge». Un esempio di rapporto di servizio coattivo è costituito dal servizio militare, che ha carattere cogente anche laddove instaurato con arruolamento volontario, non operando l'istituto delle dimissioni volontarie.

Il rapporto di servizio volontario può essere:

impiegatizio, quindi di pubblico impiego, caratterizzato dalle predette coordinate;

onorario, se legato all'esercizio di funzioni volontariamente assunte «per sentimento di dovere civico e di dignità sociale» (Cass. S.U., n. 129/1999), derivando da un mandato elettivo, da un incarico onorifico, dalla nomina ai vertici di enti pubblici (presidenti, consiglieri di amministrazione, commissari straordinari) conferita con scelta discrezionale di alta amministrazione nell'ambito di poteri pubblicistici, ecc. Tale rapporto è di durata temporanea e non viene espletato a titolo di professione. Rientrano nel novero dei funzionari onorari, ad es., i membri elettivi dei consigli degli enti territoriali, i parlamentari, i sindaci e gli assessori, i ministri, i difensori civici, i giudici di pace, i consoli onorari, i componenti di alcuni organi collegiali, ecc. Si afferma generalmente che mentre i compensi del pubblico dipendente hanno carattere retributivo, in quanto inseriti in un rapporto sinallagmatico, quelli percepiti dal funzionario onorario hanno carattere indennitario e di rimborso delle spese, a titolo di ristoro del sacrificio sopportato nel dedicarsi all'incarico (che in alcuni casi è, però, assorbente). Ciò rappresenta un residuo storico della originaria gratuità dell'incarico onorario. L'eventuale trattamento economico del funzionario onorario, in difetto di previsione di legge, resta affidato alle discrezionali determinazioni dell'autorità che procede all'investitura, finalizzate esclusivamente al pubblico interesse e al decoro della funzione esercitata.

Il funzionario onorario «dopo il provvedimento di nomina è titolare di un diritto soggettivo alla conservazione dell'ufficio ed alla conseguente corresponsione delle indennità di funzione prevista dallo statuto dell'ente» (Cass. S.U., n. 60/1994).

La giurisprudenza ha affermato che la figura del funzionario onorario ha carattere residuale rispetto a quella del pubblico dipendente senza che, peraltro, possa ipotizzarsi un tertium genus (neppure sotto il profilo della parasubordinazione). Essa si configura ogni qualvolta esista un rapporto di servizio con attribuzione di funzioni pubbliche, ma manchino gli elementi caratterizzanti dell'impiego pubblico, quali: la scelta del dipendente a carattere prettamente tecnico-amministrativo, effettuata mediante procedure concorsuali (che si contrappone, nel caso del funzionario onorario, ad una scelta generalmente politico-discrezionale); l'inserimento strutturale del dipendente nell'apparato organizzativo della P.A. (rispetto all'inserimento meramente funzionale del funzionario onorario); lo svolgimento del rapporto secondo un apposito statuto per il pubblico impiego (che si contrappone ad una disciplina del rapporto di funzionario onorario derivante pressoché esclusivamente dall'atto di conferimento dell'incarico e dalla natura dello stesso); il carattere retributivo – perché inserito in un rapporto sinallagmatico – del compenso percepito dal pubblico dipendente (rispetto al carattere indennitario e di ristoro delle spese rivestito dal compenso percepito dal funzionario onorario); la durata tendenzialmente indeterminata del rapporto di pubblico impiego (a fronte della normale temporaneità dell'incarico onorario; cfr. Cass. I, n. 19435/2003 e T.A.R. Lazio, Roma II-ter, n. 3276/2003).

I principi costituzionali

La Carta costituzionale non disciplina direttamente ed organicamente la materia del pubblico impiego. Tuttavia, la Costituzione detta una serie di rilevanti prescrizioni che delineano taluni aspetti fondamentali.

Primi tra questi la riserva relativa di legge in materia di organizzazione e i principi di imparzialità e di buon andamento.

L'art. 97 Cost. precisa che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge e che nell'ordinamento di questi sono fissati le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari, in modo da assicurare l'imparzialità e il buon andamento dell'amministrazione. Emerge, così, l'idea che il collegamento del dipendente pubblico alla P.A. deve essere conformato in modo tale da sottrarlo ai condizionamenti della politica, escludendo in radice ogni rischio di discriminazione.

Come rimarcato dalla Consulta, l'art. 97 Cost. individua nell'imparzialità dell'amministrazione uno dei principi essenziali cui deve informarsi, in tutte le sue diverse articolazioni, l'organizzazione dei pubblici uffici; nell'imparzialità «viene a esprimersi la distinzione più profonda tra politica e amministrazione, tra l'azione del «governo» – che, nelle democrazie parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza – e l'azione dell'«amministrazione» – che, nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall'ordinamento» (Corte cost. n. 453/1990).

Altro fondamentale principio attiene all'accesso ai pubblici impieghi.

L'art. 97 Cost. prevede che agli impieghi pubblici si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge; l'art. 51 Cost., statuisce la par condicio di tutti i cittadini, dell'uno o dell'altro sesso, nell'accesso agli uffici pubblici (potendo la legge parificare ai cittadini gli «italiani non appartenenti alla Repubblica»), nonché la promozione delle pari opportunità.

Una serie di norme intervengono, poi, riguardo lo svolgimento del rapporto di pubblico impiego:

a) in base all'art. 98 Cost., i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione, vietando, altresì, che gli impiegati, ove membri del Parlamento, possano conseguire promozioni per ragione diversa dell'anzianità; per alcune categorie di dipendenti pubblici (magistrati, militari di carriera in servizio attivo, i funzionari e agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero) la legge può anche stabilire limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici;

b) i cittadini che ricoprono funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge (art. 54 Cost.);

c) i funzionari e i dipendenti pubblici assumono una responsabilità diretta, civile, penale e amministrativa, per gli atti compiuti in violazione di diritti (art. 28 Cost.).

In particolare, dal principio di esclusività – costituzionalmente garantito dall'art. 98, comma 1, Cost. – che “si sostanzia nel dovere di dedicare interamente all'ufficio la propria attività lavorativa senza disperdere le proprie energie in attività esterne ed ulteriori rispetto al rapporto di impiego” (Cons. St. II, n. 1129/2018; Cass. sez. lav., n. 5961/2013) – discende la normativa primaria che disciplina il sistema delle incompatibilità e degli incarichi extra officio dei dipendenti pubblici (cfr. l'art. 53 del decreto n. 165/2001). Centri di interesse alternativi all'ufficio pubblico rivestito, implicanti attività caratterizzate da intensità, continuità e professionalità, potrebbero, infatti, turbare la regolarità del servizio o attenuare l'indipendenza del lavoratore e il prestigio della P.A. Al contrario, i dipendenti pubblici non devono essere portatori di interessi partigiani alternativi, o confliggenti, a quelli dell'amministrazione di appartenenza.

Finalità del decreto

Il comma 1 dell'art. 1 del decreto n. 165 reca l'indicazione delle finalità della legge di riforma.

Il primo obiettivo è individuato nell'accrescimento dell'efficienza delle pubbliche amministrazioni. La norma richiama una relazione con i livelli di efficienza dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi dell'Unione europea, manifestando la consapevolezza del rilievo di tale fattore per la complessiva competitività del sistema paese. L'ulteriore riferimento al coordinato sviluppo di sistemi informativi pubblici indica uno degli strumenti utili al raggiungimento dell'obiettivo.

Il secondo obiettivo è ispirato alla razionalizzazione del costo del lavoro e al contenimento della spesa complessiva per il personale e richiama i vincoli di finanza pubblica.

Segue la migliore utilizzazione delle risorse umane (con particolare riferimento alla formazione e sviluppo professionale dei dipendenti) e l'applicazione di condizioni uniformi rispetto a quelle del lavoro privato. Il legislatore del 2010 ha, poi, aggiunto la garanzia delle pari opportunità alle lavoratrici ed ai lavoratori nonché il contrasto a qualunque forma di discriminazione e di violenza morale o psichica.

Come sintetizzato da Corte Conti Lombardia, n. 172/2006, «l'evoluzione privatistica della P.A., pur dettata da condivisibili esigenze di recupero di efficienza, efficacia ed economicità dell'azione pubblica, non può mai andare a scapito del rispetto di regole, legislative e contrattuali, dettate proprio per il rispetto di basilari canoni costituzionali, quali il buon andamento e l'imparzialità dell'azione pubblica, il rispetto del tetto di spesa pubblica, la parità di trattamento tra pubblici dipendenti: in altre parole, l'efficienza e l'efficacia aziendale e la «logica del risultato» non possono, in una struttura pubblica, andare a discapito del principio di legalità formale, che rappresenta ancora oggi un limite per le scelte gestionali della dirigenza pubblica e che ha come parametri da rispettare non solo le fonti legislative, ma anche quelle contrattuali, oggi assurte nella gerarchia delle fonti in materia di pubblico impiego, ex art. 2 d.lgs. n. 165/2001».

In sostanza, «la disciplina del rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato è contraddistinta da una spiccata specialità data dal sistema delle fonti concorrenti (la legge e il contratto, ma anche gli atti organizzativi, normativi o amministrativi); dal procedimento di formazione dei contratti collettivi del settore e dal sistema di selezione dei soggetti contrattuali; dalla natura giuridica e dagli effetti peculiari dei contratti collettivi; dalla stipulazione del contratto di lavoro con soggetti scelti all'esito di procedimenti amministrativi; dalla sensibile deviazione rispetto a regole fondamentali del lavoro privato (inapplicabilità della sanzione della costituzione di rapporti a tempo indeterminato per la violazione delle regole sulle assunzioni a tempo; disciplina delle mansioni; divieto di svolgere altre attività e regime delle incompatibilità, ecc.). Queste peculiarità di disciplina sono tali da collocare il rapporto suddetto a metà strada tra il modello pubblicistico e quello privatistico» (cd. sistema misto) (Cass. S.U., ord. n. 1807/2003).

Secondo quanto sottolineato dalla Consulta, «la legge delega n. 421/1992, ed il d.lgs. n. 29/1993, adottano una scelta volta a valorizzare la distinzione tra organizzazione della P.A., la cui disciplina viene affidata in primo luogo alla legge, e rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti tendenzialmente demandato allo strumento della contrattazione collettiva, con uno statuto temperato da talune eccezioni prevalentemente privatistico, ritenuto più idoneo alla realizzazione delle esigenze di flessibilità nella gestione del personale sottese alla riforma, salvi restando i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l'organizzazione e l'azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzate, mentre la legge non rinuncia a disciplinare nel merito vari aspetti dei rapporti privatizzati, più strettamente legati a profili organizzativi, tra i quali quelli concernenti la dirigenza» (Corte cost. n. 313/1996).

Amministrazioni destinatarie della normativa di riforma. Il nodo degli enti territoriali

Le originarie coordinate dell'ambito di applicazione

La generale riforma del pubblico impiego sancita dal d.lgs. n. 29/1993, nel segno della contrattualizzazione dei rapporti di lavoro e dell'autonomia gestionale della dirigenza, ha manifestato da subito uno spiccato carattere universalistico, ossia la sua tendenziale estensione a tutte le pubbliche amministrazioni (enti territoriali compresi) e a tutti i pubblici dipendenti.

Già all'indomani del suo varo è stato da più parti posto il problema dell'armonizzabilità della nuova disciplina con il principio costituzionale dell'autonomia regionale. Segnatamente per quanto afferisce al nuovo assetto della contrattazione collettiva, si era osservato che il d.lgs. 29/1993, nel sopprimere la previgente recezione del testo contrattato in seno ad atto normativo di pertinenza regionale, aveva eliminato il controllo delle Regioni sull'accordo nel momento terminale, senza previamente introdurre, quale indispensabile contrappeso, una forma di effettiva partecipazione delle medesime nella fase della negoziazione. Nella allora vigente formulazione del decreto n. 29, il potere di direttiva del solo Presidente del Consiglio nei confronti dell'Agenzia per le relazioni sindacali, unitamente all'abolizione della fase interna di ricezione/adeguamento del contratto, appariva concorrere a produrre una violazione del quadro costituzionale delle attribuzioni regionali. Del pari sospetta di incostituzionalità, sotto il profilo della lesione dell'autonomia regionale, era stata ritenuta la disciplina in materia di mobilità del personale, ab imis carente di strumenti idonei ad assicurare una partecipazione, quanto meno in chiave consultiva, delle Regioni alle relative procedure. La fondamentale pronuncia Corte cost. n. 359/1993 ha in buona misura accolto le predette censure di incostituzionalità, aprendo le porte alla di riscrittura, da parte del legislatore, di questa parte del decreto.

La seconda privatizzazione (innescata dalla delega contenuta nella l. n. 59/1997) ha investito la stessa norma – chiave in tema di definizione dell'ambito di applicazione della disciplina generale sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle p.a., rappresentata dall'art. 1 del d.lgs. 165/2001. È qui, nel testo sostituito nel 1998 e infine approdato alla vigente formulazione, che vengono offerte tre indicazioni di sistema sui rapporti tra norme generali sul lavoro alle dipendenze delle P.A. e policentrico universo delle amministrazioni italiane:

– il comma 1, oltre a richiamare il rispetto dell'art. 97 Cost. (organizzazione dei pubblici uffici secondo disposizioni di legge, assicurando imparzialità e buon andamento), sottolinea il rilievo, costituzionalmente garantito, delle autonomie locali, di quelle delle regioni e delle province autonome;

– L'ambito di applicazione della riforma è indicato dal comma 2 con una formulazione ampia, che rispecchia il grado di accentuato pluralismo del nostro sistema amministrativo. Per amministrazioni pubbliche vengono intese, infatti, tutte «le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni di cui al decreto n. 165 hanno continuato ad applicarsi anche al CONI;

– il comma 3 dell'art. 1 in commento specifica ancora – testualmente – che le disposizioni del decreto legislativo costituiscono, per la legislazione regionale, principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della Costituzione (il rinvio è però al testo vigente prima della recente riforma costituzionale, che contemplava, per le regioni ordinarie, l'attribuzione soltanto di potestà legislativa concorrente; cfr. infra). La norma prosegue precisando che le regioni a statuto ordinario si attengono alle disposizioni del decreto tenendo conto delle peculiarità dei rispettivi ordinamenti, mentre i principi desumibili dall'art. 2 della l. n. 421/1992, e successive modificazioni, e dall'art. 11, comma 4, della l. n. 59/1997, e successive modificazioni ed integrazioni, costituiscono altresì, per le Regioni a statuto speciale e per le province autonome di Trento e di Bolzano, norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica.

La cornice entro cui si muovevano tali disposizioni (quella, cioè, del cd. federalismo amministrativo a costituzione invariata, come da ultimo definito dopo le leggi Bassanini) è stata, però, totalmente alterata dalla sopraggiunta legge costituzionale n. 3/2001, che ha profondamente innovato il titolo V della parte seconda della Costituzione, disegnando un nuovo scenario in tema di potestà normativa attribuita ai diversi livelli di governo.

L'irrompere della riforma del Titolo V

A distanza di pochi mesi dall'emanazione del decreto n. 165/2001, il quadro del sistema costituzionale delle fonti è stato ridisegnato dalla riforma del titolo V Cost.. In particolare, l'inversione del precedente criterio di riparto delle competenze legislative ha prodotto una competenza statale esclusiva in materie tassativamente enumerate (art. 117, comma 2, Cost.), la ridefinizione della competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni (art. 117, comma 3, Cost.) ed, infine, l'emergere di una competenza legislativa regionale residuale e generale (art. 117, comma 4, Cost.). Si aggiunga che la potestà legislativa deve essere comunque esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117, comma 1, Cost.).

Sul tema delle fonti di disciplina dell'organizzazione degli uffici e dei rapporti di lavoro pubblici, il vigente art. 117 Cost. si limita, invero, a statuire che l'ordinamento civile (ossia la disciplina delle relazioni negoziali che costituiscono espressione dell'autonomia privata riconosciuta ai soggetti, diritto del lavoro compreso) rientra tra le materie sottoposte alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. L'ordinamento ed organizzazione amministrativa delle regioni e delle pubbliche amministrazioni para regionali è, invece, materia riconducibile alla potestà legislativa regionale esclusiva (e residuale), in pendant con la riserva alla legislazione statale esclusiva del solo «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali» (art. 117, comma 2, lett. g) e alla mancata enumerazione nel novero delle materie di legislazione concorrente. Parallelamente, è significativo il rilievo, nel nuovo ordito costituzionale, della peculiare posizione garantita agli enti locali. Sono, infatti, sottolineate: 1) la potestà regolamentare riconosciuta a comuni, province e città metropolitane in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni attribuite; 2) la riserva alla legislazione statale degli organi di governo e delle «funzioni fondamentali» degli enti locali (cfr. la lettera p) dell'art. 117, comma 2).

Si aggiunga che il legislatore costituzionale, per definire gli ambiti della legislazione nazionale e quelli della legislazione regionale, a volte indica materie, ma altre volte funzioni-obiettivo. Così, in particolare, la disposizione che riserva alla legislazione esclusiva statale la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lett. m). Tali funzioni –obiettivo appaiono in grado di legittimare interventi trasversali da parte del legislatore nazionale, con ampie ricadute in vari ambiti altrimenti assegnati alla legislazione regionale. In più, anche l'esercizio della competenza (prima concorrente e poi esclusiva dopo la l. Cost. n. 1/2012) sull'armonizzazione dei bilanci pubblici e di quella (rimasta concorrente) sul coordinamento della finanza pubblica (cfr. il comma 2, lett. e) e il comma 3 dell'art. 117), è potenzialmente idoneo ad incidere sull'organizzazione e sulla gestione delle risorse umane dell'intero universo delle p.a., enti territoriali compresi.

Con riferimento a comuni, province e città metropolitane va ulteriormente evidenziato che la riserva allo Stato della legislazione in tema di organi di governo (art. 117, comma 2, lett. p) già appare configurare un'impermeabilità da parte di altre fonti del principio di distinzione politica-amministrazione, peraltro di diretta applicazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (così Corte cost. n. 333/1993).

Parte della dottrina ha, da subito, evidenziato l'ormai acquisita assimilazione tra lavoro pubblico e privato: le disposizioni del d.lgs. n. 165/2001, seppur speciali rispetto alla normativa del lavoro privato, costituirebbero una disciplina differenziata che si muove, pur sempre, in un habitat civilistico, rappresentando una componente dell'ordinamento civile (quella, appunto, relativa ai rapporti tra dipendenti privatizzati e amministrazioni pubbliche operanti con i poteri e le capacità del privato datore di lavoro). Una volta stabilita l'appartenenza del lavoro pubblico all'«ordinamento civile», va precisato che in tale «materia» rientra tutto quanto riguarda direttamente la disciplina dei rapporti di lavoro, sia a livello individuale sia a livello collettivo, rimanendo ad essa estranea, invece, la disciplina dei profili riconducibili alla potestà di organizzazione degli uffici. Si è pertanto, ipotizzato un intervento del legislatore regionale solo con riferimento ad istituti che sono rimasti regolati dal diritto pubblico, ad esempio, la disciplina dei procedimenti relativi alla assunzione dei lavoratori, e nel rispetto dei relativi principi costituzionali, oltre che a tutti gli aspetti di natura squisitamente organizzativa (Carinci, 16).

Se le regioni non sono dotate di potestà legislativa sulle linee ordinamentali della disciplina dei rapporti di lavoro e sui livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili, è con riferimento a questi ambiti che può essere colto lo spazio di intervento della contrattazione nazionale, quale potere eteronomo filiato dal legislatore nazionale. Legislatore e contrattazione nazionale, tuttavia, non possono comprimere la potestà legislativa regionale e incrociare la materia dell'ordinamento e dell'organizzazione amministrativa (Zoppoli, 161).

Sotto questo profilo, considerazioni critiche si sono addensate sul modello di contrattazione collettiva centrato sull'ARAN e sulla rappresentanza legale di tutte le pubbliche amministrazioni agli effetti della contrattazione collettiva nazionale. Si è, tuttavia, anche qui osservato come «l'intervento conformativo del legislatore statale in ordine alla rappresentanza di parte pubblica in sede di contrattazione nazionale abbia ancora una sua giustificazione costituzionale in quanto funzionale ad assicurare in modo adeguato su tutto il territorio nazionale – in virtù della presenza di un unico agente negoziale – l'omogeneità dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali (art. 117, comma 2, lett. m) dei lavoratori pubblici e, in via indiretta, degli stesi cittadini utenti dei servizi da essi erogati o forniti» (VIscomi, 173).

È, quindi, apparsa non più proponibile «un interpretazione del nuovo dettato costituzionale che riprenda interamente un precedente orientamento, diretto a ricondurre all'ordinamento degli uffici la disciplina del lavoro pubblico » (Zoppoli, 164).

L'intervento della l. n. 131/2003

Con la l. n. 131/2003 (cd. legge La Loggia) un forte impulso è stato impresso nella direzione di una lettura nuova dell'ordinamento degli enti locali, alla ricerca dei rispettivi spazi dell'autonomia statutaria e regolamentare e della legislazione nazionale. In particolare, l'art. 4 della l. n. 131, ai commi 2 e 3, precisa che lo statuto degli enti locali, «in armonia con la Costituzione e con i principi generali in materia di organizzazione pubblica, nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in attuazione dell'art. 117, comma 2, lettera p), della Costituzione, stabilisce i principi di organizzazione e funzionamento dell'ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare» e che «l'organizzazione degli enti locali è disciplinata dai regolamenti nel rispetto delle norme statutarie». A seguire, il comma 4 dispone che la disciplina dell'organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle funzioni dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane è riservata alla potestà regolamentare dell'ente locale, ma nell'ambito della legislazione dello Stato o della Regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità, secondo le rispettive competenze, conformemente a quanto previsto dagli artt. 114,117, comma 6, e 118 della Costituzione.

Sulla scorta dei nuovi elementi forniti dal legislatore del 2003, parte della dottrina ha ricostruito, in materia di organizzazione pubblica, «una sorta di doppio cerchio concentrico: il primo, più ampio, riguarda i principi generali dell'amministrazione, che potremo in senso lato attrarre nella sfera dei livelli essenziali dei diritti civili, e che, in quanto tali, postulano uniformità a livello nazionale; il secondo invece è un cerchio concentrico più stretto nel quale opera la legge regionale più proiettata verso le esigenze di organizzazione delle funzioni per la parte di competenza regionale. Nei principi di organizzazione pubblica – del primo cerchio – rientrerà quindi, ad esempio, la disciplina dell'accesso (art. 10 t.u.), dell'azione popolare (art. 9 t.u.), l'obbligo della motivazione degli atti amministrativi, la disciplina del personale degli enti locali (nella parte in cui non si debba considerare ordinamento civile); [..] Il riferimento, contenuto all'art. 4 della l. 131/2003, ai limiti dello statuto derivanti dai principi generali in materia di amministrazione pubblica lascia propendere più a limiti generalissimi di fonte statale, cogliendo la preoccupazione di riconoscere degli spazi generali e valevoli per tutti i cittadini di garanzia dell'azione amministrativa» (Carpino).

Al contempo, la giurisprudenza amministrativa non ha mancato di esplorare i rapporti tra norme costituzionali, legislazione statale considerata direttamente attuativa dei precetti costituzionali e vincoli alla potestà normativa regionale e a quella regolamentare degli enti locali territoriali. Sul punto, ad es., T. A. R. Lombardia, Milano III, n. 53/2008, ha affermato, in materia di concorsi pubblici, che la previsione dell'obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica dei bandi di concorso indetti da tutte le pubbliche amministrazioni, di cui all'art. 4 del d.P.R. n. 487/1994, è direttamente attuativa del precetto di cui all'art. 51 Cost., che riconosce a tutti i cittadini, indistintamente ed in condizioni di uguaglianza, il diritto di accedere agli uffici pubblici. Conseguentemente, l'art. 4 del d.P.R. n. 487/1994, come legificato dall'art. 70, comma 3, d.lgs. n. 165/2001, è stato ritenuto diretta espressione dei precetti costituzionali di cui agli artt. 4,51 e 97, commi 2 e 3, Cost., e quindi idoneo a vincolare la potestà normativa regionale e quella regolamentare degli enti locali territoriali, ai sensi dell'art. 117, comma 1, Cost.

Questioni applicative

Ad una chiarificazione dell'assetto delle competenze in materia di lavoro pubblico, sia con riferimento ai profili più strettamente lavoristici che con riferimento a quelli organizzativi, sono valsi le elaborazioni della Corte costituzionale nonché gli interventi del legislatore nazionale. L'azione combinata di tali attori: 1) ha attratto nell'ambito della materia dell'ordinamento civile, e quindi alla legislazione esclusiva dello Stato, la regolamentazione del rapporto di lavoro di tutti i dipendenti pubblici (anche con riguardo alle regioni ad autonomia speciale), specificando le ricadute applicative; 2) ha confermato la legittimazione della competenza dello Stato sulle funzioni obiettivo o materie «cd. trasversali» (in particolare, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali) ad intervenire anche in settori altrimenti riservati alla potestà regionale; a tale dato si aggiunge il rilievo dell'esercizio della competenza statale su armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica; 3) ha giustificato una compressione delle prerogative regionali attraverso il richiamo ai principi costituzionali comunque rilevanti in tema di organizzazione e lavoro pubblico e alle sottese istanze ed esigenze unitarie.

Il nuovo atteggiarsi della legislazione nazionale.

Sviluppando un indirizzo già affacciatosi in alcune normative, post riforma del titolo V Cost., di novella di istitutii del pubblico impiego (l. n. 145/2002 di riordino della dirigenza; d.l. n. 4/2006 sulle forme contrattuali flessibili), il legislatore nazionale ha fornito importanti indicazioni con l'art. 74 del d.lgs. n. 150/2009, deputato a definire l'ambito di applicazione della riforma Brunetta del pubblico impiego.

Ai sensi della norma in oggetto, rientrano nella potestà legislativa esclusiva esercitata dallo Stato, in quanto attinenti alle materie contemplate dall'art. 117, comma 2, lett. l) e m), Cost. (ordinamento civile e determinazione de livelli essenziali delle prestazioni) le disposizioni del d.lgs. n. 150/2009 che riguardano: trasparenza; qualità dei servizi pubblici; inderogabilità da parte della contrattazione collettiva delle norme su merito e premi; potere di organizzazione degli uffici; disciplina dei rapporti sindacali e degli istituti di partecipazione da parte dei C.C.N.L.; disciplina della contrattazione collettiva; collegamento alla performance del trattamento economico accessorio; procedimento disciplinare.

Costituiscono, invece, principi generali dell'ordinamento in quanto direttamente attuativi dell'art. 97 Cost. le disposizioni (norme interposte) del d.lgs. n. 150/2009 che riguardano: norme sui principi generali; ciclo di gestione della performance; caratteri degli obiettivi; sistemi di misurazione e valutazione della performance e ambiti di misurazione e valutazione della performance individuale; responsabilità dell'organo di indirizzo politico-amministrativo; premialità e selettività dei sistemi premianti e delle progressioni economiche; concorsi con la riserva massima definita per il personale interno; attribuzione di incarichi e responsabilità; accesso ai percorsi di alta formazione; premio di efficienza; aree funzionali e accesso alle posizioni economiche apicali nel loro ambito.

La predetta impostazione rifà capolino nella legge delega Madia, la n. 124/2015, dove tra i principi e criteri direttivi il complessivo riordino del pubblico impiego, recati dall'art. 17, si ritrova il «riconoscimento alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano della potestà legislativa in materia di lavoro del proprio personale dipendente, nel rispetto della disciplina nazionale sull'ordinamento del personale alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, come definita anche dal decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, dei princìpi di coordinamento della finanza pubblica, anche con riferimento alla normativa volta al contenimento del costo del personale, nonché dei rispettivi statuti speciali e delle relative norme di attuazione». All'art. 22 della medesima legge si specifica ulteriormente, come già nel decreto Brunetta, che «le disposizioni della presente legge sono applicabili nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di Bolzano compatibilmente con i rispettivi statuti e le relative norme di attuazione, anche con riferimento alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3».

Gli apporti della giurisprudenza costituzionale.

Prima pronuncia della Consulta successiva alla riforma del titolo V, sul tema in argomento, è stata Corte cost. n. 274/2003. Nell'occasione, il Giudice delle leggi ha dichiarato l'illegittimità della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002, n. 11, che introduceva, per l'accesso alla qualifica dirigenziale dell'amministrazione regionale (e degli enti regionali) una disciplina ingiustificatamente derogatoria alla regola del concorso pubblico. La Corte costituzionale ha precisato. 1) la possibilità di limiti alla potestà legislativa regionale residuale «indirettamente derivanti dall'esercizio da parte dello Stato della potestà legislativa esclusiva in «materie» suscettibili, per la loro configurazione, di interferire»; 2) l'esclusione di limiti derivanti da leggi statali già qualificabili come norme fondamentali di riforma economico-sociale, 3) la valenza di limite dei principi costituzionali, primo e più importante fattore di unificazione dell'ordinamento nel suo complesso e quindi anche principale strumento di uniformazione della disciplina sull'organizzazione amministrativa degli enti territoriali. Tale valenza veniva riconosciuta a: 1) il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) inteso come principio di ragionevolezza sulla base del quale la legge deve trattare in modo eguale situazioni eguali ed in modo ragionevolmente diverso situazioni diverse; 2) il principio del pubblico concorso (art. 97 Cost.), quale forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego, in quanto strumento che offre le migliori garanzie di selezione dei più capaci in funzione dell'efficienza della pubblica amministrazione; 3) i principi di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.), quali principi essenziali cui deve informarsi, in tutte le sue diverse articolazioni, l'organizzazione dei pubblici uffici; 4) il principio di tutela dell'unità giuridica (art. 120, comma 2, Cost.), presupposto per l'esercizio del potere di intervento sostitutivo del Governo.

La Corte costituzionale ha, poi, sancito che il rapporto di impiego alle dipendenze di Regioni ed enti locali, essendo stato “privatizzato” in virtù dell'art. 2 della l. n. 421/1992, dell'art. 11, comma 4, della l. n. 59/1997 e dei decreti legislativi emanati in attuazione di quelle leggi delega, «è retto dalla disciplina generale dei rapporti di lavoro tra privati ed è, perciò, soggetto alle regole che garantiscono l'uniformità di tale tipo di rapporti; conseguentemente i princípi fissati dalla legge statale in materia costituiscono tipici limiti di diritto privato, fondati sull'esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire l'uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti fra privati e, come tali, si impongono anche alle Regioni a statuto speciale» (Corte cost., n. 189/2007).

Corte cost. n. 2/2004 ha, quindi, provveduto a delimitare la sfera della competenza legislativa regionale, rapportandola soltanto a quanto si riferisce all'ambito regionale stesso. Conseguentemente, è stata negata la riconduzione dell'organizzazione amministrativa (e anche del personale) degli enti locali alla potestà legislativa residuale della regione. Il Giudice delle leggi ha, nell'occasione, puntualizzato che «se pure l'intervenuta privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici vincola anche le Regioni, le quali pur sono dotate, ai sensi del quarto comma dell'art. 117 della Costituzione, di poteri legislativi propri in tema di organizzazione amministrativa e di ordinamento del personale, deve rilevarsi che la stessa legislazione statale in materia di ordinamento della dirigenza non esclude una, seppur ridotta, competenza normativa regionale in materia, dal momento che anzi prevede espressamente che «le Regioni a statuto ordinario, nell'esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare (...) adeguano ai principi dell'art. 4 e del presente Capo i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità (...)» (art. 27,comma 1, d.lgs. n. 165/2001)».

In un'altra paradigmatica pronuncia, relativa all'art. 34, comma 11, della l. n. 289/2002 (finanziaria 2003), nonché all'art. 3, comma 60, della l. n. 350/2003 (finanziaria 2004), la Consulta ha rilevato l'illegittimità di quelle norme che non si limitano a fissare un principio di coordinamento della finanza pubblica, ma pongono un precetto specifico e puntuale (nella specie, sull'entità della copertura delle vacanze verificatesi negli anni 2002 e 2003, imponendo una copertura non superiore al 50 per cento). Tali precetti si risolvono in una indebita invasione, da parte della legge statale, dell'area (organizzazione della propria struttura amministrativa) riservata alle autonomie regionali e agli enti locali, alle quali il legislatore nazionale può prescrivere criteri (ad esempio, di privilegiare il ricorso alle procedure di mobilità) ed obiettivi (ad esempio, contenimento della spesa pubblica), ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi (Corte cost. n. 390/2004; cfr. anche Corte cost. n. 215/2012 per la legittimità dei limiti legislativi alll'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale e del limite massimo agli aumenti retributivi che possono essere disposti dalla contrattazione collettiva, in quanto riconducibili, rispettivamente, ad un principio di coordinamento della finanza pubblica e all'ordinamento civile; sulla latitudine di quest'ultima materia, si veda, altresì, ex multis, Corte cost. n. 95/2007 e Corte cost. n. 380/2004).

Incostituzionalità della legge delega Madia in tema di riforma della dirigenza e del pubblico impiego

Una nuova prospettiva è stata inaugurata da Corte cost. n. 251/2016, pronuncia che ha dichiarato l'illegittimità, sotto vari profili, della legge n. 124/2015, cd. delega Madia, con riferimento alla disciplina di riforma del pubblico impiego.

Il Giudice delle leggi ha rilevato l'illegittimità costituzionale dell'art. 11, comma 1, lettere a), b), numero 2), c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), e comma 2, della legge n. 124/2015, nella parte in cui era previsto che i decreti legislativi attuativi in tema di riforma della dirigenza pubblica fossero adottati previa acquisizione del parere reso in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni. Analogamente è stata, altresì, dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 17, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t), della l. n. 124/2015, nella parte in cui, in combinato disposto con l'art. 16, commi 1 e 4, della medesima legge, si statuiva che il Governo adottasse i relativi decreti legislativi attuativi della riforma del pubblico impiego previo parere in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni. Secondo la ricostruzione della Consulta, la l. n. 124/2015 «rientra nel novero degli interventi volti a disciplinare, in maniera unitaria, fenomeni sociali complessi, rispetto ai quali si delinea una fitta trama di relazioni ed emergono interessi distinti che ben possono ripartirsi diversamente lungo l'asse delle competenze normative di Stato e Regioni, corrispondenti alle diverse materie coinvolte. In tali casi, occorre valutare se una delle materie coinvolte si imponga sulle altre con carattere di prevalenza, al fine di individuare la titolarità della competenza. Qualora la valutazione di prevalenza risulti impossibile ed avalli la diversa ipotesi di “concorrenza di competenze” statali e regionali, si apre la strada all'applicazione del principio della leale collaborazione, in ossequio al quale il legislatore statale deve predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, onde contemperare le ragioni dell'esercizio unitario delle competenze con la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle autonomie. Nella specie, la inestricabile connessione, rectius lo stretto intreccio tra materie e competenze fa sorgere il necessario ricorso all'intesa, forma più pregnante rispetto al parere, con il sistema delle Conferenze. In particolare, riguardo la riforma della dirigenza pubblica, non è costituzionalmente illegittimo l'intervento del legislatore statale, se necessario a garantire l'esigenza di unitarietà sottesa alla riforma; tuttavia, esso deve muoversi nel rispetto del principio di leale collaborazione, indispensabile in questo caso a guidare i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie.

La decisione è fortemente innovativa. Per la prima volta la Consulta ha fatto discendere dal principio costituzionale di leale collaborazione l'obbligo di un pieno coinvolgimento delle Regioni (per il tramite della Conferenza Stato-Regioni e della Conferenza unificata) nell'esercizio della funzione legislativa delegata (ma non di quella legislativa tout court) in materie che interferiscono con le competenze regionali. Pertanto, «nella situazione di «stretto intreccio» fra competenze statali e regionali che connota ogni tentativo di riforma sistematica dell'ordinamento del lavoro pubblico, l'obbligo di cercare in Conferenza una previa intesa sul decreto delegato costituisce un «limite ulteriore» della delega.» (D'Amico, 287; Poggi, Boggero).

Bibliografia

Calcagnile, Organizzazione degli uffici e riserva di amministrazione nello Stato delle autonomie, in giustizia-amministrativa.it, 2004; Carinci, Osservazioni sulla riforma del Titolo V della Costituzione., in Carinci, Miscione (a cura di), Il diritto del lavoro dal «Libro Bianco» al Disegno di legge delega 2002, Milano, 2002, 7; Carpino, Quali modifiche per il testo unico degli enti locali, in federalismi.it, 2003; D'Amico, Il seguito della sentenza. n. 251/2016 della Corte costituzionale fra «suggerimenti», «correzioni» e nuove impugnative, in Giornale di dir. amm., 2017, 287; Poggi, Boggero, Non si può riformare la p.a. senza intesa con gli enti territoriali: la Corte costituzionale ancora una volta dinanzi ad un Titolo V incompiuto, in federalismi.it, 2016; Viscomi, Prime riflessioni sulla struttura della contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni nella prospettiva della riforma costituzionale, in Il lavoro nelle p.a., 2002, suppl. 1, 173; Zoppoli, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i pezzi di un difficile puzzle?, in Il lavoro nelle p.a., 2002, suppl. 1, 160.

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