Decreto legislativo - 19/08/2016 - n. 175 art. 14 - Crisi d'impresa di società a partecipazione pubblicaCrisi d'impresa di società a partecipazione pubblica
1. Le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza di cui al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, e al decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39 1. 2. Qualora emergano, nell'ambito dei programmi di valutazione del rischio di cui all'articolo 6, comma 2, uno o più indicatori di crisi aziendale, l'organo amministrativo della società a controllo pubblico adotta senza indugio i provvedimenti necessari al fine di prevenire l'aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminarne le cause, attraverso un idoneo piano di risanamento 2. 3. Quando si determini la situazione di cui al comma 2, la mancata adozione di provvedimenti adeguati, da parte dell'organo amministrativo, costituisce grave irregolarità ai sensi dell'articolo 2409 del codice civile 3 4. Non costituisce provvedimento adeguato, ai sensi dei commi 1 e 2, la previsione di un ripianamento delle perdite da parte dell'amministrazione o delle amministrazioni pubbliche socie, anche se attuato in concomitanza a un aumento di capitale o ad un trasferimento straordinario di partecipazioni o al rilascio di garanzie o in qualsiasi altra forma giuridica, a meno che tale intervento sia accompagnato da un piano di ristrutturazione aziendale, dal quale risulti comprovata la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell'equilibrio economico delle attività svolte, approvato ai sensi del comma 2, anche in deroga al comma 5 4. 5. Le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, non possono, salvo quanto previsto dagli articoli 2447 e 2482-ter del codice civile, sottoscrivere aumenti di capitale, effettuare trasferimenti straordinari, aperture di credito, né rilasciare garanzie a favore delle società partecipate, con esclusione delle società quotate e degli istituti di credito, che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali. Sono in ogni caso consentiti i trasferimenti straordinari alle società di cui al primo periodo, a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma relativi allo svolgimento di servizi di pubblico interesse ovvero alla realizzazione di investimenti, purché le misure indicate siano contemplate in un piano di risanamento, approvato dall'Autorità di regolazione di settore ove esistente e comunicato alla Corte dei conti con le modalità di cui all'articolo 5, che contempli il raggiungimento dell'equilibrio finanziario entro tre anni. Al fine di salvaguardare la continuità nella prestazione di servizi di pubblico interesse, a fronte di gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l'ordine pubblico e la sanità, su richiesta della amministrazione interessata, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con gli altri Ministri competenti e soggetto a registrazione della Corte dei conti, possono essere autorizzati gli interventi di cui al primo periodo del presente comma 5. 6. Nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, le pubbliche amministrazioni controllanti non possono costituire nuove società, né acquisire o mantenere partecipazioni in società, [1] Comma modificato dall'articolo 8, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [2] Comma modificato dall'articolo 8, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [3] Comma modificato dall'articolo 8, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [4] Comma modificato dall'articolo 8, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [5] Comma modificato dall'articolo 8, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. InquadramentoL'art. 14 del TUSP disciplina alcuni aspetti delle crisi d'impresa delle società a partecipazione pubblica. La sua portata precettiva non è però autosufficiente, dovendo la norma in commento essere letta avuto riguardo anche a quanto disposto: i) sia dalle molteplici previsioni di legge cui fa espresso rinvio; ii) sia dalle norme generali di diritto privato che disciplinano la crisi e l'insolvenza delle società non espressamente richiamate ma che, ciò nonostante, sono compatibili con la disciplina ivi istituita. L'art. 14 del TUSP si muove lungo due principali direttive: i) da un lato, codifica il principio per cui le società a partecipazione pubblica, possono fallire, nonché essere sottoposte a concordato preventivo e ad amministrazione straordinaria; ii) dall'altro lato, regolamenta diritti, poteri e obblighi cui sono sottoposti gli amministratori e i soci pubblici nell'ipotesi in cui le società a partecipazione pubblica versino in una situazione di crisi aziendale. L'obiettivo perseguito dall'art. 14 del TUSP è duplice: a) assicurare una tutela dell'interesse pubblico all'efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, alla tutela e promozione della concorrenza e del mercato, nonché alla razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica (in linea con quanto prescritto dall'art. 1, comma 2 del medesimo Testo Unico). Questa finalità è perseguita: con la sottoposizione degli amministratori all'obbligo di adottare il piano di risanamento previsto dal comma 2; con l'istituzione di limiti alla possibilità di procedere a operazioni di aumento di capitale o di un trasferimento straordinario di partecipazioni o di rilascio di garanzie; con la limitazione del potere delle amministrazioni pubbliche di costituire, acquisire o mantenere partecipazioni in società, qualora le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella titolare di affidamenti diretti che sia stata dichiarata fallita; b) salvaguardare l'interesse dei creditori, che è protetto dalle norme di diritto privato su fallimento e procedure concorsuali. Da un punto di vista sistematico l'art. 14 del TUSP risulta coerente con la concezione della società a partecipazione pubblica che fa leva sulla distinzione, sul piano giuridico-formale, tra amministrazione pubblica ed ente privato societario, che è pur sempre centro di imputazione di rapporti e posizioni giuridiche soggettive diverso dall'ente partecipante. Si tratta di una distinzione di fondamentale importante e dalla quale deriva: a) sul piano dei rapporti interni, che l'amministrazione pubblica riveste unicamente il ruolo di socio in base al capitale conferito, senza che gli sia consentito di influire sul funzionamento della società avvalendosi di poteri pubblicistici; b) sul piano dei rapporti esterni, che la società benché partecipata da amministrazioni pubbliche può fallire e/o essere sottoposta a una delle procedure concorsuali richiamate nell'art. 14, comma 1 del TUSP e, quindi, può cessare di operare e di esistere, perché è un ente di diritto privato che non persegue direttamente l'interesse pubblico connesso alla funzione esercitata. La funzione esercitata dalla società, in cui si traduce l'oggetto sociale, infatti, è solo l'occasione per il conseguimento di determinati obiettivi economici, ma non è il fine della società che è e rimane lucrativo (Goisis, 37). L'art. 14 del TUSP si compone di una pluralità di precetti aventi un ambito di applicazione differenziato: alcuni operano nei confronti di tutte le società a partecipazione pubblica; altri, invece, sono riferiti unicamente alle società a controllo pubblico; altri, infine, si applicano alle sole società titolari di affidamenti diretti (c.d. società in house). Fallimento, concordato preventivo e amministrazione straordinaria delle società a partecipazione pubblicaL'art. 14, comma 1 del TUSP dispone che «le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza di cui al d.lgs. n. 270/1999, e al d.l. n. 347/2003, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 39/2004». Questa norma chiude definitivamente il dibattito che era insorto tra i sostenitori del regime di generale ‘fallibilità' di tutte le società a partecipazione pubblica e chi, invece, riteneva di poter escludere talune di esse (in particolare, le società in house) dal regime delle procedure concorsuali. Si tratta di un dibattito che già prima dell'entrata in vigore del Testo Unico era stato risolto dalla Cassazione aderendo alla prima soluzione, perché l'art. 1 l. fall. esclude dall'area della concorsualità unicamente gli enti pubblici, non anche le società pubbliche, per le quali trovano applicazione le norme del codice civile, nonché quelle sul fallimento, concordato preventivo ed amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (Cass. n. 22209/2013; Cass. n. 3196/2017). L'art. 14, comma 1 del TUSP fa espresso riferimento alle società a partecipazione pubblica, nessuna esclusa. Sicché, tale previsione opera sia nei confronti delle società meramente partecipate, sia nei confronti delle società controllate direttamente e/o indirettamente da amministrazioni pubbliche, sia nei confronti delle società in house. Questo perché la categoria delle «società a partecipazione pubblica» (definita dall'art. 1, comma 1 lett. n) identifica un genus cui sono riconducibili le due species costituite dalle «società a controllo pubblico» (art. 1, comma 1 lett. m) e dalle società in house (art. 1, comma 1, lett. q). L'opinione su questo punto della dottrina è consolidata (D'Attorre, 1055; Fimmanò, 1092; Stanghellini, 334). Nello stesso senso depone anche la giurisprudenza, secondo cui «in tema di fallibilità, è dunque ormai del tutto irrilevante ogni indagine in ordine alla natura in house o meno della società che sia in mano pubblica, poiché la scelta del legislatore di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali – e dunque di perseguire l'interesse pubblico mediante lo strumento privatistico – comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con essi entrano in rapporto anche avuto riguardo al necessario rispetto delle regole della concorrenza, che impongono parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con identiche forme e modalità» (Cass., ord. n. 13160/2020). Dal punto di vista procedimentale, il TUSP nulla dispone con riguardo a presupposti e modalità di svolgimento delle procedure concorsuali menzionate dall'art. 14, comma 1. La lacuna è, tuttavia, solo apparente, perché la disciplina delle procedure concorsuali cui possono essere sottoposte le società a partecipazione pubblica è quella attualmente recata dalla legge fallimentare, dal d.lgs. n. 270/1999 e dal d.l. n. 347/2003, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 39/2004. Ciò si evince, sia dal rinvio esterno operato a tali disposizioni dalla norma in commento; sia dalla clausola generale sancita dall'art. 1, comma 3 del medesimo TUSP, a tenor del quale «per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato». Restano quindi ferme le considerazioni esposte dalla Suprema Corte in ordine alla compatibilità dell'art. 104 l. fall. con le società a partecipazione pubblica, in base alle quali, poiché per effetto della sentenza di fallimento si determina l'attribuzione in favore dell'autorità giudiziaria del potere di decidere in ordine alla eventuale prosecuzione dell'attività di impresa: «nel valutare la ricorrenza di un danno grave, in presenza del quale autorizzare l'esercizio provvisorio, il tribunale può tenere conto non solo dell'interesse del ceto creditorio, ma anche della generalità dei terzi, fra i quali ben possono essere annoverati i cittadini che usufruiscono del servizio erogato dall'impresa fallita»; e «l'autorizzazione alla continuazione temporanea dell'esercizio» non comporta «una inammissibile sostituzione dell'autorità giudiziaria ordinaria all'autorità amministrativa, che aveva in precedenza scelto il soggetto cui affidare la gestione e che continuerebbe ad intrattenere con questo, per la durata dell'esercizio, i medesimi rapporti che vi intratteneva prima della dichiarazione di fallimento» (Cass. n. 22209/2013). Ciò, tuttavia, non significa che l'autorizzazione di cui all'art. 104 l. fall. debba essere concessa privilegiando unicamente l'interesse pubblico alla continuità del servizio pubblico eventualmente erogato dalla società partecipata. Proprio perché le società a partecipazione pubblica «sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza», il Tribunale deve necessariamente salvaguardare l'interesse del ceto creditizio; sicché, l'esercizio provvisorio non può essere disposto o, se disposto, deve cessare, nel caso in cui risulti pregiudizievole per l'interesse dei creditori (D'Attorre, 1059; Stanghellini, 339). Le procedure di composizione della crisi non espressamente richiamate dall'art. 14Come osservato al precedente par. 2, l'art. 14 del TUSP prevede che le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria. Dal punto di vista redazionale, la norma è improntata a un regime di stretta tipicità. Ciò induce a ritenere non compatibili con le società a partecipazione pubblica le altre procedure di composizione della crisi che non sono ivi espressamente richiamate (si pensi, ad esempio, alle procedure di cui all'art. 6 della l. n. 3/2012, previste al fine di porre rimedio alle situazioni di sovraindebitamento non soggette né assoggettabili a procedure concorsuali diverse dall'accordo di composizione della crisi disciplinato dagli artt. 10 e ss. e liquidazione del patrimonio di cui all'art. 14-ter ss.; o alla liquidazione coatta amministrativa. La soluzione interpretativa appena prospettata è da ritenere preferibile perché conforme, sia a quanto testualmente disposto dalla norma del TUSP in commento, sia alla finalità cui quest'ultima è preposta, che è quella di identificare gli strumenti di risoluzione della situazione di crisi di impresa ritenuti dal legislatore compatibili con il modello societario a partecipazione pubblica. L'interpretazione dell'art. 14 del TUSP appena proposta non è tuttavia univoca in dottrina. A chi si è espresso in favore di questa posizione (D'Attorre, 1056; Fimmanò, 1101; Chionna, 216) si contrappone, invece, chi sostiene che le società a partecipazione pubblica, in ragione della loro natura privatistica, sono un modello organizzativo compatibile anche con le norme sulle procedure di gestione della crisi di impresa non espressamente menzionate dal comma 1 (Stanghellini, 33). Società a partecipazione pubblica e accordi di ristrutturazione dei debiti.A conclusioni opposte rispetto a quelle appena rassegnate deve invece pervenirsi con riguardo alla questione concernente la compatibilità degli accordi di ristrutturazione dei debiti disciplinati dall'art. 182-bis l. fall. e le società a partecipazione pubblica. Il presupposto per la stipulazione di questi ultimi accordi, infatti, coincide con quello per il fallimento, la liquidazione giudiziale e il concordato preventivo. Pertanto, sebbene questo strumento non sia espressamente richiamato dall'art. 14, comma 1 del TUSP, dal fatto che la norma in commento sancisca la sottoposizione delle società partecipate a fallimento e concordato preventivo si ricava, in via interpretativa, la possibilità di addivenire anche ad accordi di ristrutturazione del debito (Chionna, 216; D'Attorre, 1056; Fimmanò, 1101; Stanghellini, 335). Quanto precede vale a maggior ragione se si considera che: a) gli accordi di cui all'art. 182-bis l. fall. non hanno natura di procedura concorsuale, ma matrice prettamente contrattuale; b) l'art. 14, comma 1 del TUSP identifica le procedure concorsuali che le società a partecipazione pubblica possono applicare quando la situazione di crisi non si è risolta; ma gli accordi ex art. 182-bis l. fall. sono funzionali a prevenire e/o a risolvere situazioni di crisi. Art. 14, comma 1 del TUSP e d.lgs. n. 14/2019A distanza di circa tre anni dalla entrata in vigore del TUSP è stato emanato il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza di cui al d.lgs. n. 14/2019 (di seguito, CCII), la cui entrata in vigore, inizialmente prevista per il mese di agosto 2020, è stata più volte prorogata (da ultimo al 16 maggio 2022, con il d.l. n. 118/2021). Sul piano del diritto intertemporale, la futura entrata in vigore del CCII porrà di fronte alla questione dell'attualità del rinvio esterno alle «disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza di cui al d.lgs. n. 270/1999, e al d.l. n. 347/2003, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 39/2004» operata dall'art. 14, comma 1 del TUSP. Sul punto, è auspicabile a un aggiornamento di quest'ultima norma e, in particolar modo, a una sua riformulazione con indicazione specifica delle procedure disciplinate dal CCII compatibili con le società a partecipazione pubblica. Nelle more, la questione può tuttavia essere risolta in via interpretativa, nel senso di ritenere che le disposizioni del TUSP in materia di crisi delle società a partecipazione pubblica continueranno ad applicarsi anche dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019. Tanto può essere affermato se si considera che: a) l'art. 1, comma 1 del CCII dispone che le norme ivi contenute disciplinano «le situazioni di crisi o insolvenza del debitore, sia esso consumatore o professionista, ovvero imprenditore che eserciti, anche non a fini di lucro, un'attività commerciale, artigiana o agricola, operando quale persona fisica, persona giuridica o altro ente collettivo, gruppo di imprese o società pubblica, con esclusione dello Stato e degli enti pubblici» e contiene, pertanto, un espresso riferimento alle società c.d. pubbliche; b) l'art. 1, comma 2 fa salve le norme in materia di «amministrazione straordinaria delle grandi imprese» che sono espressamente menzionate all'art. 14, comma 1 del TUSP; c) il medesimo art. 1 del CCII, al successivo comma 3, fa anche «salve le disposizioni delle leggi speciali in materia di crisi di impresa delle società pubbliche»; d) l'art. 349 del CCII, infine, prevede che «nelle disposizioni normative vigenti i termini «fallimento», «procedura fallimentare», «fallito» nonché le espressioni dagli stessi termini derivate devono intendersi sostituite, rispettivamente, con le espressioni «liquidazione giudiziale», «procedura di liquidazione giudiziale» e «debitore assoggettato a liquidazione giudiziale» e loro derivati, con salvezza della continuità delle fattispecie». Per questo motivo, sul punto è possibile concludere affermando che: a) i rinvii operati dal TUSP alla legge fallimentare possono essere intesi come operati alle corrispondenti norme del CCII; b) i rinvii operati dal TUSP alle procedure che nel CCII non hanno cambiato denominazione, ma hanno cambiato la disciplina, devono intendersi riferiti alle nuove previsioni contenute nel d.lgs. n. 14/2019 (in senso conforme, D'Attorre, 1036). Gli strumenti di allerta e i correttivi per prevenire, correggere e eliminare situazioni di crisi aziendale.Qualora emergano – nell'ambito dei programmi di valutazione del rischio – uno o più indicatori di crisi aziendale, l'art. 14, comma 2 del TUSP obbliga l'organo amministrativo della società a controllo pubblico ad adottare senza indugio i provvedimenti necessari al fine di prevenire l'aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminarne le cause, attraverso un idoneo piano di risanamento. Sul piano soggettivo, la norma in commento ha un ambito di applicazione limitato alle società a controllo pubblico, ovvero alle «società in cui una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo» (art. 2, comma 1 lett. m) del TUSP). Sul piano oggettivo, essa presuppone l'emersione di uno o più indicatori di crisi aziendale che devono emergere nell'ambito del programma di valutazione del rischio adottato ai sensi dell'art. 6, comma 2 del medesimo Testo Unico. La nozione di rischio di crisi aziendale non è definita dall'art. 2 del TUSP. Tuttavia, come recentemente precisato nelle «Indicazioni sul programma di valutazione del rischio aziendale» adottate dalla Struttura di indirizzo, monitoraggio e controllo sull'attuazione del TUSP, «[i]l rischio di crisi aziendale può essere definito come la probabile manifestazione dello stato di difficoltà di un'impresa, non solo per il profilo economico-finanziario (inteso come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate), ma – più in generale – aziendale». Il concetto di rischio deve essere, quindi, inteso, «in senso ampio, arrivando ad interessare la struttura e l'organizzazione della realtà aziendale nel complesso, comprendendo anche profili non direttamente desumibili da indici contabili quali, ad esempio, quello normativo, ambientale». La portata ampia della nozione giuridica di rischio di crisi aziendale rilevante ai sensi degli artt. 6 e 14 del TUSP è coerente con il criterio di efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche che è alla base del Testo Unico (art. 1, comma 2); nonché, più in generale, con la funzione di prevenzione della crisi, che è particolarmente significativa per le società a controllo pubblico, la cui attività è spesso incentrata sullo svolgimento di servizi generali e servizi di interesse economico generale ed è solitamente caratterizzata da un rilevante coinvolgimento di risorse pubbliche. In questo contesto è quindi fondamentale implementare un sistema efficiente di risoluzione delle difficoltà, che permetta il contenimento delle esternalità negative derivanti da possibili inefficienze gestionali e garantisca il mantenimento della continuità aziendale, a vantaggio sia delle molteplici istanze di tutela che ruotano attorno a tali società che della collettività in generale. Da qui la centralità assunta sia dallo strumento di allerta disciplinato dall'art. 6 comma 2 del TUSP; sia dagli strumenti correttivi che devono essere introdotti ai sensi del successivo art. 14, comma 2. La disciplina istituita dal TUSP è connotata da profili di specialità e codifica espressamente gli obblighi gravanti sugli amministratori per prevenire e gestire situazioni di crisi aziendale, predeterminando – ma solo in parte – il contenuto delle misure che devono essere istituite a questo fine. Su quest'ultimo aspetto occorre soffermarsi. Nella norma in commento, infatti, è previsto unicamente l'obbligo degli amministratori di adottare «senza indugio i provvedimenti necessari al fine di prevenire l'aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminarne le cause, attraverso un idoneo piano di risanamento». L'art. 14, comma 2 del TUSP indentifica oggetto e obiettivi che devono essere perseguiti con il piano di risanamento, ma nulla dispone in ordine al contenuto delle specifiche misure che devono essere istituite. Indicazioni utili per meglio definire la portata precettiva della disposizione qui esaminata possono essere tratte dal successivo comma 4, a tenore del quale: «[n]on costituisce provvedimento adeguato, ai sensi dei commi 1 e 2, la previsione di un ripianamento delle perdite da parte dell'amministrazione o delle amministrazioni pubbliche socie, anche se attuato in concomitanza a un aumento di capitale o ad un trasferimento straordinario di partecipazioni o al rilascio di garanzie o in qualsiasi altra forma giuridica, a meno che tale intervento sia accompagnato da un piano di ristrutturazione aziendale, dal quale risulti comprovata la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell'equilibrio economico delle attività svolte, approvato ai sensi del comma 2, anche in deroga al comma 5». L'art. 14, comma 4 del TUSP è significativo perché chiarisce ciò che l'organo amministrativo non può limitarsi ad adottare. In particolare, dalla norma in esame si evince – in negativo – l'inadeguatezza di meri interventi «a breve termine» consistenti in misure di ripianamento delle perdite da parte dell'amministrazione o delle amministrazioni pubbliche socie, anche se attuato in concomitanza a un aumento di capitale o ad un trasferimento straordinario di partecipazioni o al rilascio di garanzie o in qualsiasi altra forma giuridica. Da qui la conclusione per cui il piano di risanamento (al comma 4 viene utilizzata l'espressione, sostanzialmente coincidente con quella impiegata al comma 2, di piano di ristrutturazione – Guizzi, Rossi, 304) non può essere giudicato adeguato qualora sia circoscritto alle misure elencate all'art. 14, comma 4 del TUSP. Gli interventi correttivi che devono essere adottati per far fronte alle situazioni di rischio di crisi non possono, quindi, essere estemporanei, ma devono essere parte di un piano che preveda misure programmatiche più ampie per impedire che la crisi degeneri in insolvenza e per assicurare il recupero dell'equilibrio economico e finanziario dell'attività (D'Attorre, 1042). Si è fatto riferimento al duplice profilo dell'equilibrio economico e finanziario perché, nonostante l'art. 14, comma 4 del TUSP faccia un esplicito riferimento solamente al primo (equilibrio economico), è da ritenere che l'equilibrio finanziario (inteso come riallineamento dei flussi finanziari in entrata e in uscita) non possa essere raggiunto stabilmente senza un recupero del primo. Sicché, il raggiungimento dell'equilibrio economico porta anche al raggiungimento di un equilibrio finanziario, in ragione delle interrelazioni esistenti tra profili economico-reddituali e profili finanziari (D'Attorre, 1042; Racugno, 178; Tiscini, Lisi, 804). Con riferimento all'iter procedurale propedeutico all'adozione del piano di risanamento, l'art. 14 del TUSP nulla dispone. La norma in commento non reca neppure alcuna prescrizione in ordine ai profili di indipendenza dell'autore del piano. Né, tanto meno, disciplina gli effetti che derivano dalla sua adozione. Sul punto, è da ritenere che: a) l'obbligo istituito dalla norma in esame sia correttamente adempiuto con l'adozione di un piano che in concreto contenga misure atte a raggiungere le finalità ivi previste e che non si limiti a contenere i rimedi «a breve termine» previsti dal comma 4; b) l'unico effetto derivante dall'esatto adempimento di questo obbligo, sia costituito dall'esclusione dei presupposti per contestare agli amministratori la grave irregolarità ai sensi dell'articolo 2409 del codice civile (art. 14, comma 3 del TUSP); c) laddove l'obiettivo di risanamento non appaia in concreto percorribile, gli amministratori possono attivarsi per mettere in liquidazione la società o per presentare istanza di (auto)fallimento (D'Attorre, 1042). In particolare, il piano ex art. 14, commi 2 e 4 del TUSPnon è un piano attestato di risanamentoexart. 67 l. fall. e non produce gli effetti giuridici previsti da quest'ultima disposizione di legge (su tutti, esenzione dall'azione revocatoria degli atti, dei pagamenti e delle garanzie concesse sui beni del debitore e esenzione dai reati di bancarotta semplice e documentale). È questa l'opinione prevalente nella dottrina (D'Attorre, 1048; Stanghellini, 341-342). Ciò, tuttavia, non esclude che le società a controllo pubblico: a) possano dotarsi di un genuino piano ai sensi dell'art. 67 l. fall.; in questo caso, l'auto-vincolo assunto dalla società produrrebbe gli effetti giuridici previsti dalla legge fallimentare; o, in alternativa b) possano adempiere all'obbligo previsto dall'art. 14, commi 2 e 4 del TUSP facendo redigere e attestare il piano da un professionista che presenti i requisiti di indipendenza prescritti dall'art. 67 l. fall. Questa seconda soluzione, a ben vedere, risulta, non solo compatibile con gli obblighi previsti dal Testo Unico, ma sotto certi aspetti più conforme all'esigenza di salvaguardare l'interesse di cui sono portatori i soci pubblici, assicurando maggiori garanzie il coinvolgimento di un professionista che non sia legato all'impresa e a coloro che hanno interesse all'operazione di risanamento da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l'indipendenza di giudizio e che, in ogni caso, sia in possesso dei requisiti previsti dall'articolo 2399 cod. civ. e che non abbia, neanche per il tramite di soggetti con i quali è unito in associazione professionale, prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore ovvero partecipato agli organi di amministrazione o di controllo (C. conti, sez. contr. Regione Siciliana, ord. n. 15/2018). Come osservato in precedenza, l'inadempimento all'obbligo previsto dall'art. 14, comma 2, del TUSP espone gli amministratori a responsabilità ai sensi dell'art. 2409 c.c. Al riguardo, preme precisare che non costituisce grave irregolarità la mera mancata adozione del piano e che, piuttosto, la conseguenza giuridica prevista dalla norma in esame dipende dalla mancata adozione di un piano che in concreto risulti non adeguato alla situazione di crisi. Il divieto di c.d. soccorso finanziario.L'art. 14, comma 5 del TUSPlimita il diritto delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 3, della l. n. 196/2009 – e, quindi, degli enti e dei soggetti indicati nell'elenco che è annualmente pubblicato dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) sulla base delle definizioni di cui agli specifici regolamenti dell'Unione europea in materia di contabilità pubblica – di sottoscrivere aumenti di capitale, di effettuare trasferimenti straordinari, aperture di credito, nonché di rilasciare garanzie a favore delle società dalle medesime partecipate. L'esercizio di questo diritto è, in particolare, vietato qualora si tratti di società partecipate che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali. La perdita di esercizio, quale risultato del conto economico, misura la riduzione del patrimonio netto, per effetto della gestione, prescindendo dai profili esclusivamente finanziari rilevanti nella contabilità dei soci pubblici. La perdita di esercizio, dunque, non rappresenta di per sé un elemento patologico, potendo coincidere, a date circostanze, anche con ipotesi di sana gestione (per es.: nelle fasi di start up delle società o a seguito di investimenti atti a produrre utili negli esercizi successivi). Tuttavia, l'art. 14, comma 5 del TUSP fa leva sull'inequivocabile segnale negativo costituito da perdite realizzatesi consecutivamente per tre esercizi (ancorché coperte in corso d'anno con riserve disponibili) e individua in queste ultime un indice che fa presumere la sussistenza di situazioni di crisi cronicizzate, o tese alla cronicizzazione, che impongono una rigorosa condotta nei rapporti istituzionali fra l'ente pubblico e le sue partecipate, attesa l'incidenza dei risultati di gestione di queste ultime sugli equilibri di bilancio del socio pubblico. Il riferimento operato alle perdite infrannuali ripianate con riserve disponibili desta invece alcune perplessità, dato che queste perdite possono anche essere compensate da utili nella residua parte dell'esercizio (Stanghellini, 347). L'art. 14, comma 5 del TUSP, come si è detto, osta alle operazioni di pura ricapitalizzazione e codifica all'interno del Testo Unico il c.d. «divieto di soccorso finanziario», in passato disciplinato art. 6, comma 19 del d.l. n. 78/2009 (C. conti, sez. reg. contr. Veneto, n. 119/2020; C. conti, sez. reg. contr. Emilia-Romagna, n. 58/2020). La finalità assolta dal divieto in questione è triplice: a) garantire l'equilibrio dei bilanci degli enti soci che possono subire gli effetti negativi del bilancio delle partecipate; b) promuovere la maggiore efficienza nella gestione delle società partecipate; c) non consentire all'eventuale finanziamento pubblico una distorsione della concorrenza, come tutelata anche dal diritto europeo, il quale vieta che soggetti che operano nel mercato comune beneficino di diritti speciali o esclusivi, o comunque di privilegi in grado di alterare la concorrenza «nel mercato», in un'ottica macroeconomica (C. conti, sez. reg. contr. Campania, n. 5/2021; C. conti, sez. reg. contr. Lombardia, n. 69/2020). Per effetto del divieto codificato dalla norma in commento, quindi, il socio pubblico incontra particolari limiti nell'espletamento dell'autonomia negoziale in tema di finanziamento della società in cui partecipa, non potendo, quale regola generale, liberamente impiegare risorse pubbliche per finanziare una società che non è capace di operare con le proprie risorse economico. Dall'art. 14, comma 5 del TUSP si desume, così, il principio per cui «l'attuale sistema normativo, in attuazione di precisi divieti di origine europea, pone limiti al ‘soccorso' da parte degli enti pubblici a favore di società partecipate che si trovino in situazione di precarietà finanziaria» e vieta il «‘salvataggio a tutti i costì di strutture ed organismi partecipati o variamente collegati alla p.a. che versano in situazioni d'irrimediabile dissesto» (C. conti, sez. reg. contr. Veneto, n. 24/2021). Ai soci pubblici è in altri termini preclusa la possibilità di «disporre, a qualsiasi titolo, erogazioni finanziarie ‘a fondo perduto' in favore di società in grave situazione deficitaria» e «l'ammissibilità di trasferimenti straordinari» è relegata «ad ipotesi derogatoria e residuale, percorribile con finalità di risanamento aziendale e per il solo perseguimento di esigenze pubblicistiche di conclamato rilievo, in quanto sottendenti prestazioni di servizi di interesse generale ovvero la realizzazione di programmi di investimenti affidati e regolati convenzionalmente, secondo prospettive di continuità» (C. conti, sez. reg. contr. Abruzzo, n. 4/2021; C. conti, sez. reg. contr. Lazio, n. 66/2018). La portata del divieto di soccorso finanziario è intesa dalla giurisprudenza contabile in senso ampio, tanto da essere stata estesa oltre i confini della specifica disposizione del TUSP qui commentata. Adottando una marcata impronta sostanzialista (che appare tuttavia discutibile, se si pone mente alla finalità e all'ambito di applicazione che contraddistingue il TUSP), in alcune recenti pronunce la Corte dei Conti ha ad esempio ritenuto che siano sottoposti al divieto di «soccorso finanziario» anche i Consorzi costituiti da enti locali, sul presupposto che, sebbene la norma non li contempli direttamente, ma si riferisca esclusivamente agli organismi partecipati aventi struttura societaria, «dal suo tenore emerge un principio generale [...], fondato su esigenze di tutela dell'economicità gestionale e della concorrenza, estensibile anche ai consorzi, quali realtà operative inserite a tutti gli effetti nel contesto della finanza territoriale». Tale interpretazione è (lo si ripete, discutibilmente) stata valutata «conforme ai principi espressi dalla legislazione ordinaria, volti al rispetto dei criteri di economicità e razionalità nell'utilizzo delle risorse pubbliche»; e ciò a prescindere, a tutela dell'effettività del precetto, dalle forme giuridiche prescelte per la partecipazione in organismi privati che finirebbero, altrimenti, col prestarsi a elusione del chiaro dettato normativo (C. conti, sez. reg. contr. Campania, n. 5/2021; C. conti, sez. reg. contr. Abruzzo, n. 157/2020, C. conti, sez. reg. contr. Lombardia, n. 296/2019). La giurisprudenza contabile ha inoltre più volte affermato che il divieto di soccorso finanziario opera anche per le società poste in liquidazione, le quali, proprio perché «rimangono in vita senza la possibilità di intraprendere nuove operazioni rientranti nell'oggetto sociale, ma al solo fine di risolvere i rapporti finanziari e patrimoniali pendenti, compresi quelli relativi alla ripartizione proporzionale tra i soci dell'eventuale patrimonio netto risultante all'esito della procedura, non possono prospettare alcuna possibilità di recupero o risanamento» (C. conti, sez. reg. contr. Lazio, n. 1/2019; C. conti n. 66/2018; C. conti, sez. reg. contr. Lombardia, n. 84/2018; C. conti, n. 42/2014 e C. conti n. 260/2015; C. conti, sez. reg. contr. Piemonte, n. 3/2018). Il divieto di c.d. soccorso finanziario e i suoi temperamenti.Il divieto di soccorso finanziario codificato dall'art. 14, comma 5 del TUSP non opera tuttavia ‘in assoluto'. Anzitutto, dal perimetro del divieto in questione sono espressamente escluse le società quotate e gli istituti di credito. È inoltre ammessa la sottoscrizione da parte di aumenti di capitale nelle ipotesi di riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale disciplinate dagli artt. 2447 e 2482-ter del c.c. In questo caso, però, il socio pubblico non può intervenire liberamente e a proprio piacimento, ma è tenuto a preventivamente valutare e motivare lo specifico interesse pubblico perseguito in relazione ai propri scopi istituzionali, evidenziando in particolare le ragioni economico-giuridiche dell'operazione, le quali devono necessariamente essere fondate sulla possibilità di assicurare una continuità aziendale finanziariamente sostenibile. La giurisprudenza contabile ha, al riguardo, evidenziato la necessità che la decisione di sottoscrivere l'aumento sia supportata da un programma industriale o da una prospettiva che realizzi l'economicità e l'efficienza della gestione nel medio e lungo periodo, segnalando altresì l'esigenza di porre un freno alla distorta prassi di procedere a ricapitalizzazioni e ad altri trasferimenti straordinari per coprire le perdite strutturali, anche alla luce delle disposizioni euro-unitarie che vietano agli operatori economici di beneficiare di diritti speciali o esclusivi, o comunque di privilegi in grado di alterare le fisiologiche dinamiche concorrenziali del mercato (C. conti, sez. contr. Reg. Lazio, n. 1/2019; C. conti, sez. reg. contr. Liguria n. 24/2017). Con specifico riferimento alle società strumentali degli enti locali, è stato a tal proposito affermato che la scelta di ricapitalizzazione della società deve essere motivata in merito alla inerenza con le finalità istituzionali dell'ente; e che, a fini prudenziali, e indipendentemente dalla fonte della provvista, il socio pubblico dovrebbe astenersi da finalità di finanziamento nei confronti delle società partecipate qualora non abbia in concreto adottato tutti gli strumenti idonei ad un controllo approfondito della gestione operativa e finanziaria della società partecipata, al fine di appurare se la stessa necessiti, diversamente, di interventi di ricapitalizzazione (non attuabili ovviamente con giacenze di cassa), non solo ai fini del rispetto del principio di trasparenza dell'azione amministrativa (che impone che l'organo consiliare debba essere a conoscenza del possibile risultato che consegue ad un'operazione finanziaria e adottare le conseguenti decisioni) ma anche al fine di prevenire una minaccia agli equilibri finanziari dell'ente locale (C. conti, sez. contr. Veneto, n. 18/2021). I principi appena enunciati valgono, a ben vedere, per tutte le società partecipate, a prescindere dal fatto che si tratti di società partecipate da enti locali. Poiché, infatti, la sottoscrizione di un aumento di capitale è un'operazione che, nella sostanza, si traduce nell'acquisto di partecipazioni societarie di nuova emissione, è da ritenere che la decisione del socio pubblico di procedere in tal senso debba essere analiticamente motivata. Tanto discende dal chiaro tenore dell'art. 5, comma 1 del TUSP, secondo cui «[a] eccezione dei casi in cui la costituzione di una società o l'acquisto di una partecipazione, anche attraverso aumento di capitale, avvenga in conformità a espresse previsioni legislative, l'atto deliberativo [...] di acquisto di partecipazioni, anche indirette, da parte di amministrazioni pubbliche in società già costituite deve essere analiticamente motivato con riferimento alla necessità della società per il perseguimento delle finalità istituzionali di cui all'articolo 4, evidenziando, altresì, le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria, nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato. La motivazione deve anche dare conto della compatibilità della scelta con i principi di efficienza, di efficacia e di economicità dell'azione amministrativa». Inoltre, l'atto deliberativo deve dare «atto della compatibilità dell'intervento finanziario previsto con le norme dei trattati europei e, in particolare, con la disciplina europea in materia di aiuti di Stato alle imprese», dev'essere sottoposto dagli enti locali «a forme di consultazione pubblica, secondo modalità da essi stessi disciplinate» (art. 5, comma 2) e va inviato «alla Corte dei conti, a fini conoscitivi, e all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, che può esercitare i poteri di cui all'art. 21-bis della l. n. 287/1990» (art. 5, comma 3). Tutto questo induce a concludere che l'esercizio del diritto previsto dall'art. 14, comma 5 del TUSP in questione può ritenersi legittimo solo se si è in presenza un piano di risanamento e/o di un programma industriale e/o comunque di un business plan che consenta al socio pubblico di valutare che l'operazione di ricapitalizzazione sia tale da salvaguardare il patrimonio sociale e non sia, invece, destinata a fronteggiare in via meramente transitoria la situazione di crisi. E ciò a prescindere dal fatto che la società sia meramente partecipata o sia sottoposta a controllo pubblico, atteso che: a) per regola generale, non sono ammissibili «interventi tampone», con dispendio di disponibilità finanziarie a fondo perduto, erogate senza un programma industriale o una prospettiva che realizzi l'economicità o l'efficienza della gestione nel medio e lungo periodo (C. conti, sez. reg. contr. Marche, n. 123/2019; C. conti, sez. giur. Toscana, n. 84/2020); b) il socio di una società di capitali, salva l'ipotesi in cui sia esposto direttamente nei confronti dei creditori della società, risponde limitatamente alla quota di capitale detenuta. Sicché, dal momento che la copertura del fabbisogno finanziario di una società di capitali partecipata costituisce, di fatto, un accollo dei debiti di un soggetto terzo a beneficio dei creditori della società, se un soggetto di diritto pubblico si accolla un debito altrui, ha il dovere di evidenziarne la ragione economico-giuridica. Ciò in quanto, alla luce del principio di sana gestione finanziaria, l'assunzione di debiti altrui può essere giustificata solo dalla sussistenza di un prevalente interesse pubblico, adeguatamente motivato alla luce degli scopi istituzionali, rappresentando altrimenti un ingiustificato favor verso i creditori della società incapiente (C. conti, sez. reg. contr. Lombardia, n. 296/2019; C. conti, sez. reg. contr. Toscana, n. 84/2018). Il rinvio operato dall'art. 14, comma 5 del TUSP agli artt. 2447 e 2482-ter c.c. non si traduce, però, in una vera e propria deroga al divieto generale di soccorso finanziario. Piuttosto, è preferibile ritenere che con il rinvio operato a tali norme il TUSP abbia inteso ribadire la vigenza di un obbligo di legge che, come tutte le altre norme di diritto societario riguardanti la formazione, l'integrità e la conservazione del capitale sociale, svolge, insieme ad altre discipline (si pensi a quelle relative all'informazione contabile, alla responsabilità degli amministratori, alla regola per cui i creditori sociali non concorrono con i creditori personali dei soci sul patrimonio della società), un ruolo fondamentale di tutela per i creditori che bilancia il beneficio della responsabilità limitata per i soci delle società di capitali. Detto altrimenti: il socio pubblico, nel momento in cui è chiamato a decidere se ricapitalizzare, o meno, la società partecipata, deve avere riguardo alla funzione di garanzia per i creditori sociali principalmente riconosciuta al capitale sociale ed in ragione della quale si spiega la richiamata disciplina relativa alla riduzione «obbligatoria» del capitale sociale. Da qui la possibilità, nel caso in cui non disponga di risorse sufficienti e/o non sia persuaso delle prospettive di risanamento della società, di concorrere con la propria volontà alla formazione della delibera assembleare di approvazione dell'aumento di capitale e di non sottoscrivere l'aumento, riservando (specie in caso di aumento scindibile) agli altri soci (pubblici e/o privati) l'esercizio dei diritti di opzione e di prelazione previsti dalle norme del diritto societario. Il divieto di soccorso finanziario incontra poi due significative deroghe che operano entrambe su piano oggettivo. La prima, è quella prevista dal secondo periodo del richiamato art. 14, comma 5 del TUSP, il quale prevede che «[s]ono in ogni caso consentiti i trasferimenti straordinari alle società di cui al primo periodo, a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma relativi allo svolgimento di servizi di pubblico interesse ovvero alla realizzazione di investimenti, purché le misure indicate siano contemplate in un piano di risanamento, approvato dall'Autorità di regolazione di settore ove esistente e comunicato alla Corte dei conti con le modalità di cui all'articolo 5, che contempli il raggiungimento dell'equilibrio finanziario entro tre anni». Affinché questa deroga possa trovare concreta applicazione, la valutazione dell'Autorità di settore, cui è demandata l'approvazione del piano di risanamento (che deve prevedere il «raggiungimento dell'equilibrio finanziario entro tre anni»), assume carattere dirimente ed è insindacabile dalla Corte dei Conti, cui il piano è semplicemente comunicato (C. conti, sez. reg. contr. Regione Siciliana, n. 207/2018). Inoltre, trattandosi di una deroga istituita da una norma che pone un'eccezione a un principio generale, la stessa è di stretta interpretazione e ricorre esclusivamente a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma relativi allo svolgimento di servizi di pubblico interesse ovvero alla realizzazione di investimenti. Sicché, esula dal suo ambito di applicazione ogni ipotesi di un sostegno finanziario che non sia direttamente riconducibile a quelli tipizzati dal Testo Unico (C. conti, sez. reg. contr. Calabria, n. 29/2018, secondo cui «la fattispecie disciplinata dall'art. 161 della legge fallimentare non integra né può essere assimilata, sotto alcun profilo, alle ipotesi ricorrendo le quali è consentito «finanziare una società in perdita da parte di un ente locale»»; nonché, in termini più generali, C. conti, sez. reg. contr. Veneto, n. 18/2021, secondo cui «[i]l legislatore correla alla nozione di «trasferimenti» l'aggettivazione della straordinarietà che va intesa come eccezionalità, perché extra ordinem, dell'intervento contributivo, in ragione del riferito sfavore serbato dal medesimo legislatore per il «soccorso finanziario»»). La seconda deroga si configura nell'ulteriore ipotesi prevista dal successivo inciso della norma in commento, il quale dispone che, laddove si prospetti l'esigenza di «salvaguardare la continuità nella prestazione di servizi di pubblico interesse, a fronte di gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l'ordine pubblico e la sanità», gli interventi di soccorso finanziario «possono essere autorizzati, su richiesta della amministrazione interessata, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con gli altri Ministri competenti e soggetto a registrazione della Corte dei conti». Le due fattispecie derogatorie cui si è appena fatto riferimento sono distinte e non sovrapponibili. Sicché, in caso di trasferimenti extra ordinem il socio è tenuto a evidenziare e ad esplicitare la straordinarietà dell'intervento, nonché a fornirne adeguata motivazione con puntuale esposizione delle ragioni fattuali e giuridiche poste alla base della propria decisione. Tali ragioni devono quindi risultare logicamente differenti da quelle (gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l'ordine pubblico e la sanità) legittimanti la (diversa) deroga contemplata dal terzo periodo del richiamato art. 14, comma 5, terzo periodo del TUSP (C. conti, sez. reg. contr. Veneto, n. 18/2021). Va, infine, precisato che il divieto di soccorso finanziario non è in alcun modo temperato dal fatto che l'art. 21 del TUSP impone alle amministrazioni locali di effettuare accantonamenti a bilancio in ragione delle perdite di esercizio registrate dalle società partecipate. Infatti, tale previsione non significa che le amministrazioni siano tenute sempre e comunque a effettuare il ripiano, atteso che, se l'art. 21 del TUSP obbliga gli i soci pubblici, per ragioni di prudenza tese a preservare gli equilibri di bilancio, di accantonare predeterminate risorse in specifici fondi, «differente è la valutazione che il medesimo ente locale deve compiere ai fini della concreta destinazione di tali risorse a favore della società partecipata». E, come sottolineato in più occasioni dal Giudice contabile non sussiste alcun obbligo di ripiano a carico del comune socio (anche se unico), che deve, invece dimostrare, la motivata presenza di un interesse pubblico concreto al soccorso finanziario (C. conti, sez. reg. contr. Puglia, n. 47/2019; C. conti, sez. reg. contr. Lombardia, n. 224/2016). Le conseguenze derivanti dal fallimento delle società titolari di affidamenti diretti.Nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, le pubbliche amministrazioni controllanti non possono costituire nuove società, né acquisire o mantenere partecipazioni in società, qualora le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella dichiarata fallita. Così dispone l'art. 14, ultimo comma del TUSP, nell'ottica di reprimere la prassi – un tempo diffusa tra le amministrazioni pubbliche – di costituire a cascata nuove società all'indomani dell'insolvenza delle proprie partecipate, cui affidare in via diretta i servizi precedentemente esercitati dalle società fallite (Fimmanò, 1102). Presupposto per l'applicazione dell'art. 14, ultimo comma del TUSP è unicamente costituito dalla dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti. Per questo motivo, è da ritenere che: a) da un lato, esuli da suo ambito di applicazione l'ipotesi di società sottoposta a concordato preventivo o di amministrazione straordinaria; b) dall'altro lato, sia sussumibile nella fattispecie ivi identificata l'ipotesi della società titolare di affidamenti diretti a controllo pubblico congiunto: in questo caso, saranno sottoposte al divieto di costituire nuove società, di acquisire o di mantenere partecipazioni tutte le amministrazioni pubbliche che erano socie della società fallita. BibliografiaCaringella, Ciaralli, Bottega, Codice ragionato delle società pubbliche, Roma, 2018, 106 ss.; Chionna, Le soluzioni concordate della crisi delle società pubbliche, in Le nuove società partecipate e in house providing, in Quaderni di giurisprudenza commerciale, 2017, 213; D'Attorre, Crisi delle società pubbliche e strumenti di regolazione, in Fimmanò, Catricalà, Cantone (a cura di), Le società pubbliche, Napoli, 2020, 1035 ss.; Fimmanò, Insolvenza delle società pubbliche e procedure concorsuali, Napoli, 2020, 1067 ss.; Goisis, Il testo unico in materia di società a partecipazione pubblica: economicità e necessaria redditività dell'investimento pubblico, in Il diritto dell'economia, 2019, 23 ss.; Guizzi, Rossi, La crisi di società a partecipazione pubblica, in Guizzi (a cura di), La governance delle società pubbliche nel d.lgs. 175/2016, Milano, 2017, 271 ss.; Racugno, Crisi d'impresa e doveri degli organi sociali, in Ibba (a cura di), Le società a partecipazione pubblica a tre anni dal testo unico, Milano, 2019, 171 ss.; Stanghellini, Sub art. 14, in Morbidelli (a cura di), Codice delle società a partecipazione pubblica, Milano, 2018, 332 ss.; Tiscini, Lisi, Il programma di valutazione del rischio di crisi quale strumento di analisi e salvaguardia dell'equilibrio economico-finanziario delle società a controllo pubblico, in Fimmanò, Catricalà, Cantone (a cura di), Le società pubbliche, cit., 794 ss. |