Legge - 7/08/1990 - n. 241 art. 11 - Accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento 1Accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento 1
1. In accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell'art. 10, l'amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero [, nei casi previsti dalla legge,] in sostituzione di questo 2. 1- bis . Al fine di favorire la conclusione degli accordi di cui al comma 1, il responsabile del procedimento può predisporre un calendario di incontri cui invita, separatamente o contestualmente, il destinatario del provvedimento ed eventuali contro interessati 3. 2. Gli accordi di cui al presente articolo debbono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto, salvo che la legge disponga altrimenti. Ad essi si applicano, ove non diversamente previsto, i princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. Gli accordi di cui al presente articolo devono essere motivati ai sensi dell'articolo 3 4. 3. Gli accordi sostitutivi di provvedimenti sono soggetti ai medesimi controlli previsti per questi ultimi. 4. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l'amministrazione recede unilateralmente dall'accordo, salvo l'obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato. 4-bis. A garanzia dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa, in tutti i casi in cui una pubblica amministrazione conclude accordi nelle ipotesi previste al comma l, la stipulazione dell'accordo è preceduta da una determinazione dell'organo che sarebbe competente per l'adozione del provvedimento 5. [5. Le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi di cui al presente articolo sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. ] 6 [1] Rubrica inserita dall’articolo 21, comma 1, lettera m), della legge 11 febbraio 2005, n. 15. [2] Comma modificato dall’articolo 7, comma 1, lettera a), della legge 11 febbraio 2005, n. 15. [3] Comma aggiunto dall’articolo 3-quinques, comma 1, del D.L. 12 maggio 1995, n. 163. [4] Comma modificato dall'articolo 1, comma 47, della Legge 6 novembre 2012, n. 190. [5] Comma aggiunto dall’articolo 7, comma 1, lettera b), della legge 11 febbraio 2005, n. 15. [6] Comma abrogato dall'articolo 4, comma 1, punto 14), dell'Allegato 4 al D.Lgs.2 luglio 2010, n. 104. InquadramentoLe fattispecie generali degli accordi amministrativi, originariamente recessive rispetto all'ordinaria estrinsecazione dell'attività amministrativa, imperniata sulla spendita del potere autoritativo per provvedimenti, hanno caratterizzato il processo di trasformazione della p.a., favorendo lo sviluppo di un modello di amministrazione che, anziché configurarsi esclusivamente mediante un'azione autonoma e autocentrata, è andato evolvendosi attraverso la ricerca del consenso. Gli accordi, pertanto, sono il portato dell'evoluzione del modus agendi della p.a., la quale, piuttosto che esercitare in forma unilaterale il potere funzionalizzato alla cura dell'interesse pubblico, rinunciando all'«esercizio solitario» delle prerogative ad essa appartenenti, partecipa il privato della formazione e della determinazione del contenuto dell'atto finale. Tale prospettiva si pone in perfetta coerenza con i criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza, nonché con i princípi dell'ordinamento comunitario che permeano tutta l'attività amministrativa, ai sensi del comma 1 della l. n. 241/1990. Ciò ha spinto la dottrina a parlare di «cessione della unilateralità dell'azione amministrativa», posto che «l'atto amministrativo diventa l'esito di articolate sequenze negoziali, oggetto di negoziazione tra p.a. e destinatario, che perde il suo potere di imporre autoritativamente «dall'alto» l'atto. Questo promana dalla mutata concezione del pubblico interesse, il quale, lungi dall'essere circondato da un'aura di superiorità e trascendenza rispetto a qualunque altro interesse, tale da legittimare l'imposizione autoritativa ai privati, viene a connotarsi come l'interesse che nel caso concreto il soggetto pubblico è tenuto a realizzare e a garantire. Si è perciò sempre più diffuso il ricorso a forme convenzionali (accordi, contratti, convenzioni, patti, intese), ridisegnando la mappa delle funzioni amministrative nel contesto di rapporti organizzativi con la p.a.» (Boschi, 603). La disciplina contenuta nell'art. 11, l. n. 241/1990, potenziata con la novella del 2005, costituisce il fondamento legislativo del potere riconosciuto all'amministrazione di definire con i privati due diverse tipologie di accordi: la prima tipologia, inerente ai moduli c.d. «integrativi» (così rubricati ex lege con l'approvazione dell'art. 21, comma 1, lettera m), l. n. 15/2005), stipulati tra la p.a. procedente e il privato, interessato a prestare il consenso e a partecipare attivamente alla determinazione del contenuto «discrezionale» dell'accordo e, quindi, del provvedimento; la seconda tipologia, relativa ai moduli c.d. «sostitutivi», conclusi per surrogare in toto il provvedimento stesso. La struttura normativa degli accordi amministrativi designa moduli aperti, suscettibili di vari modelli e graduazioni consensuali (T.A.R. Liguria I, n. 542/2006), idonea a conferire a siffatti paradigmi anche una funzione deflattiva del contenzioso, posto che la partecipazione al procedimento da parte del privato consente l'instaurazione di una sorta di contraddittorio anticipato (Cons. St. VI, n. 264/2000). Deve, comunque, osservarsi come, con il ricorso a schemi consensuali, lo svolgimento dell'azione amministrativa resta in ogni caso ancorato ai canoni tipici dell'agire della p.a. e, in particolare, al vincolo teleologico posto a fondamento della persistente tensione al perseguimento dell'interesse pubblico (c.d. «vincolo di scopo»), informato, altresì, ai principi di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 Cost. (Cons. St., n. 2636/2002; T.A.R. Sicilia, Catania II, 27 ottobre 2004, n. 2985; Cass.S.U., 30 marzo 2000, n. 71). Gli accordi in commento presentano, invero, considerevoli profili di difformità rispetto ai contratti di diritto comune stipulati dalla p.a. quale manifestazione di autonomia negoziale privatistica, anche rispetto alle ipotesi connotate dalla presenza di una procedura di evidenza pubblica. Nei contratti di diritto comune, infatti, la pubblica amministrazione agisce jure privatorum e, quindi, è equiparata al privato contraente, sebbene, in genere, ai fini della formazione del consenso, sia prevista una procedura amministrativa strutturata in modo tale da garantire il controllo sulla scelta del miglior contraente in funzione del più efficace perseguimento dell'interesse pubblico. Diversamente, gli accordi amministrativi si connotano proprio per la «veste autoritativa» dell'amministrazione stipulante (per la quale, peraltro, non è sufficiente la soggettività pubblica, e cioè che parte dell'accordo sia una p.a., ovvero una generica finalità di pubblico interesse) e per la riconducibilità del modulo consensuale ad uno specifico provvedimento amministrativo cui esso debba sostituirsi, definendosene il contenuto tra le parti (Cons. St. IV, n. 5715/2018; Cons. St. IV, n. 1898/2009). Alla luce di quanto sin qui evidenziato, è evidente come l'esercizio funzionalizzato dell'attività amministrativa, anche in forma consensuale, non possa coesistere con l'autonomia negoziale privatistica ma debba necessariamente fondarsi sullo svolgimento del potere discrezionale per la realizzazione «doverosa» del fine pubblico (Cangelli, 312). La preordinazione al perseguimento dell'interesse pubblico, tipica della funzione, induce a ritenere come intrinsecamente discrezionale il segno distintivo dell'attività amministrativa consensuale, non potendosi considerare valido, sotto il profilo dogmatico, il trasferimento del piano strutturale privatistico sulla connotazione giuridica dell'attività svolta. Da ciò si può individuare, altresì, l'effettiva dualità esistente tra autonomia negoziale privatistica e discrezionalità amministrativa, atteso che il proprium dell'autonomia negoziale privatistica consiste nella regolazione degli interessi e nella scelta dei fini autodeterminati dalle parti, mentre tipico della discrezionalità amministrativa è il vincolo finalistico, fondato sulla necessità causale dell'esercizio del potere in funzione del raggiungimento di uno scopo eterodeterminato dalla legge (D'Angiolillo, 285). Emblematica al riguardo la modifica portata dalla l. n. 190/2012, che introduce un ultimo periodo al comma 2, secondo il quale: «Gli accordi di cui al presente articolo devono essere motivati ai sensi dell'articolo 3». Ciò a riprova del fatto che l'esercizio consensuale del potere amministrativo non comporta l'abdicazione alle garanzie che le norme sul procedimento, inclusa quella relativa all'obbligo di motivazione, sono dettate onde assicurare l'esercizio democratico del potere dell'amministrazione. Se è vero che l'esercizio del potere discrezionale da parte della p.a. può condurre alla conclusione di un accordo, ai sensi dell'art. 11, altrettanto vero è che non è precluso all'Amministrazione il successivo esercizio di poteri autoritativi, per ragioni di pubblico interesse, essendo, tra l'altro, espressamente statuito dal comma 4 dell'art. 11 che l'Amministrazione può recedere unilateralmente, salvo eventuale indennizzo in favore del privato (Cons. St. IV, n. 6344/2007; T.A.R. Lombardia, Milano II, n. 6519/2007). Fonti e tipologie di accordi.L'art. 11, l. n. 241/1990, come da ultimo modificato e integrato dalla l. n. 15/2005, costituisce il fondamento legislativo degli accordi amministrativi. Di tali accordi esistono due distinte tipologie, le quali, pur avendo una disciplina sostanzialmente identica, si differenziano per la funzione svolta all'interno della serie procedimentale. Nel caso della fattispecie afferente ai cd. accordi «integrativi», la causa del procedimento amministrativo è connotata dalla predeterminazione del contenuto del provvedimento finale, da individuare proprio mediante accordo; nel caso della fattispecie relativa ai cd. accordi «sostitutivi», il procedimento amministrativo termina con tale modulo in luogo del provvedimento. Nella specie, gli accordi integrativi (altrimenti detti dalla dottrina «procedimentali», considerato il dato di anteriorità logico-giuridica posto tra essi e l'atto conclusivo), si sostanziano in modelli consensuali mediante cui p.a. e privato concordano il contenuto del provvedimento amministrativo. In questa prima fattispecie rimane ineludibile la presenza di un provvedimento che recepisca il contenuto dell'accordo tra p.a. e privato. Generalmente, il privato, accordandosi con l'amministrazione sul contenuto del provvedimento (T.A.R. Puglia, Lecce I, 4 luglio 2006, n. 4090), accetta clausole gravose con un'implicita rinuncia ad un futuro contenzioso, ma anche con la garanzia che l'amministrazione non possa adottare immotivatamente un provvedimento di contenuto diverso; ove poi la p.a. cambi legittimamente avviso, è tenuta a corrispondergli un indennizzo qualora egli venga eventualmente danneggiato. Ciò induce a ritenere che l'accordo integrativo non possa essere valutato come strumento volto a definire in modo generico un positivo riscontro all'istanza del privato. È pertanto da respingere una lettura riduttiva dell'istituto, in quanto l'accordo integrativo ha sempre la finalità di definire consensualmente, e in concreto, i tratti discrezionali dell'azione amministrativa. Con gli accordi sostitutivi, invece, il provvedimento finale non è emanato: è il caso, ad esempio, delle convenzioni di lottizzazione (Cons. St. IV, n. 3255/2008). La l. n. 15/2005, eliminando l'inciso limitativo («nei casi previsti dalla legge») contenuto nella formulazione originaria della l. n. 241/1990, ha segnato definitivamente la caduta del principio di tipicità dell'accordo «sostitutivo», estendendone la portata all'intera area del potere amministrativo discrezionale, fermo restando, in ogni caso, che, al pari del provvedimento, anche l'accordo, costituente una forma consensuale di esercizio del potere, deve presentare i presupposti ed il contenuto essenziale richiesti dalla legge. In definitiva, deve rilevarsi come la sussistenza del potere amministrativo costituisca sempre il presupposto della facoltà dell'amministrazione di ricorrere all'accordo anziché al provvedimento. Sotto questo profilo, va rimarcato che gli accordi amministrativi, presupponendo l'esistenza di provvedimenti da integrare o sostituire, non possono obbedire alla logica dell'atipicità in senso stretto, che, invece, involge l'autonomia negoziale privatistica ex art. 1322, comma 2, c.c.: la tipologia ed i contenuti essenziali degli accordi sono, infatti, inevitabilmente influenzati dalla tipicità e nominatività dei provvedimenti di riferimento, in guisa da delimitare l'intervento consensuale sugli elementi accidentali e sugli aspetti integrativi dei contenuti essenziali che non possono che essere quelli del provvedimento cui accedono, disciplinato da norme imperative di legge (T.A.R. Lazio, Roma II-ter, n. 1654/2006). In sede esegetica, poi, sono ipotizzabili altre catalogazioni ispirate all'elemento teleologico dell'accordo: sotto tale aspetto la dottrina identifica accordi operativi, esecutivi, interpretativi, e modificativi del pregresso procedimento. Per la verità, la distinzione tra accordi integrativi e sostitutivi era di maggior rilievo antecedentemente alla riforma del 2005, posto che il legislatore consentiva l'utilizzo degli accordi sostitutivi solo in presenza di un'espressa previsione di legge. La l. n. 15/2005, invece, ha generalizzato la possibilità di ricorrere a qualsivoglia tipologia di accordi, di modo che, fatte salve le differenze funzionali, l'ambito di applicazione oggettiva degli accordi integrativi e sostitutivi risulta coincidente. Pertanto, entrambe le tipologie di accordo possono essere considerate strutturalmente assimilabili ed appartenenti ad una categoria dogmatica unitaria avente carattere definitorio generale (F. Fracchia, 102), in quanto, pur avendo connotazioni in parte proprie, ambedue i tipi esplicano un potere che si fonda sul consenso (Sticchi Damiani, 59-63). Elemento che accomuna accordi integrativi e sostitutivi è, comunque, rilevabile nel dato che l'art. 11 assolve ad una duplice funzione: quella di legittimare, sul piano legislativo, l'impiego degli accordi già conosciuti nella prassi precedente l'entrata in vigore della l. n. 241/1990 (soprattutto nel settore dell'urbanistica e delle concessioni); quella di ricomporre ed unificare le diverse ipotesi di accordi tra i privati e la pubblica amministrazione, già previste da leggi settoriali, negli schemi-base previsti al comma 1 della norma citata. Un'ulteriore osservazione circa i caratteri comuni degli accordi amministrativi di che trattasi va compiuta in merito alla stretta connessione intercorrente tra le fattispecie consensuali di cui all'art. 11 e la partecipazione: dal comma 1 della norma si deduce, infatti, come la stipulazione di entrambe le tipologie di accordi abbia luogo «in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell'articolo 10». Del resto, non casualmente il legislatore colloca gli accordi de quibus nel capo III della l. n. 241/1990 rubricato «Partecipazione al procedimento amministrativo». Invero, l'inclusione della disciplina degli accordi amministrativi nel Capo della «legge sul procedimento» dedicato alla partecipazione non può non subire l'influsso di tale istituto: la partecipazione svolge, infatti, la funzione di mezzo di difesa del cittadino ovvero, in misura maggioritaria, di strumento di collaborazione del privato con la pubblica amministrazione avente la finalità del migliore perseguimento dell'interesse pubblico (D'Angiolillo, 107). Secondo Cass. sez. un. n. 33944/2023,l'obbligazione assunta in via contrattuale - relativa al trasferimento di aree, previa loro bonifica, alla pubblica amministrazione - è idonea a configurare un accordo ai sensi dell'art. 11 della l. n. 241 del 1990 ed è perciò incensurabile, con la deduzione della violazione di norme in tema di giurisdizione, la decisione del G.A. che abbia affermato la propria giurisdizione esclusiva al riguardo; ne consegue altresì che rispetto alla predetta obbligazione contrattuale il giudice amministrativo può emettere una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., pur se non espressamente contemplata dagli artt. 29 e 30 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, sia perché secondo una interpretazione costituzionalmente orientata il giudice amministrativo, nelle controversie rimesse alla sua giurisdizione esclusiva, può erogare ogni forma di tutela del diritto soggettivo, sia perché, a norma degli artt. 11 e 15 della l. n. 241 del 1990, agli accordi provvedimentali si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti. La natura giuridica degli accordi ex art. 11, l. n. 241/1990 (rinvio)Oltremodo dibattuta è la natura ascrivibile agli accordi amministrativi. Lungi dal costituire un problema prettamente dogmatico e concettuale, la qualificazione giuridica degli accordi implica l'identificazione della disciplina applicabile alle fattispecie in esame. Il tema verrà trattato approfonditamente nei par. 3.1. e seguenti. L'ambito oggettivo di applicazione dell'art. 11: casi di esclusione.Ai sensi e per gli effetti di quanto stabilito all'art. 13, l. n. 241/1990, l'applicabilità dell'art. 11 è esclusa ove la p.a. debba emanare atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, nonché nei procedimenti tributari. In virtù delle peculiarità dei relativi procedimenti, per tali tipologie di atti il legislatore ha, invero, previsto specifiche forme di partecipazione; inoltre, nel caso di atti con una molteplicità indefinita di destinatari (è sempre il caso delle fattispecie richiamate all'art. 13) il legislatore ha, certamente, preso atto della difficoltà di dirigere su un'unica determinazione condivisa il consenso della totalità dei soggetti interessati. I limiti di applicazione stabiliti per i moduli consensuali contemplati all'art. 11 non possono considerarsi validi qualora gli accordi siano stipulati fra pubbliche amministrazioni, considerato che l'art. 13 stabilisce tali restrizioni esclusivamente per le disposizioni inserite nel Capo III della legge (ove è, infatti, incluso il menzionato art. 11), dedicato alla partecipazione dei privati al procedimento amministrativo, e non, dunque, a valere sulla disciplina degli accordi fra amministrazioni, prevista al Capo IV della l. n. 241/1990, riservato alla semplificazione dell'azione amministrativa. Tant'è che la giurisprudenza amministrativa ritiene ammissibile la stipulazione di accordi fra pubbliche amministrazioni tesi all'esercizio di funzioni programmatiche (T.A.R. Toscana I, n. 228/2007) e all'assunzione di impegni finalizzati all'emanazione di singoli provvedimenti amministrativi aventi natura pianificatoria (Cons. St. VI, n. 25/2001). La generale disciplina dell'art. 11 l. n. 241/1990 trova applicazione anche nel caso di convenzioni con contenuto patrimoniale, afferenti al previo esercizio di potestà (quegli atti bilaterali che sono ordinariamente ricondotti alla categoria definita come contratti di diritto pubblico, o a oggetto pubblico); per altro verso, essa deve applicarsi anche ad ipotesi in cui, difettando ogni substrato patrimoniale, il richiamo alla applicabilità dei principi del codice civile in tema di obbligazioni e contratti, risulta avere un ambito di applicazione se non nullo, certamente più ristretto (Cons. St. IV, n. 2257/2017). Accordi ed attività discrezionale e vincolata della p.a.Il paradigma di amministrazione consensuale contemplato dall'art. 11, l. n. 241/1990, comporta un concordamento tra amministrazione e privati nell'ambito della discrezionalità riservata alla p.a. (T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, n. 679/2001), posto che la stipulazione degli accordi in esame è espressione dell'esercizio del potere discrezionale dell'amministrazione competente all'emanazione dell'atto (Cons. St. IV, n. 5715/2018). Ne consegue, pertanto, che la fattispecie degli accordi in commento non si attaglia sic et simpliciter all'attività vincolata della pubblica amministrazione, atteso che, in tal caso, gli effetti ad essa collegati sono pienamente disciplinati da norme, mancando un campo di negoziazione tra pubblica amministrazione e privati (T.A.R. Lombardia, II, n. 1246/2015). Deve soggiungersi, tuttavia, che, anche nel caso di procedimenti finalizzati alla adozione di provvedimenti di natura sostanzialmente vincolata (come, ad es., i titoli abilitativi in materia edilizia), residuano spazi di utilizzabilità dello strumento consensuale, laddove l'attività amministrativa si sviluppi in fasi che necessitino dell'esercizio di una discrezionalità, sia pure tecnica, in ordine al «quantum», al «quomodo» e al «quando» degli adempimenti da eseguire, considerato che gli accordi si sostanziano in strumenti di semplificazione, idonei a far conseguire a tutte le parti un'utilità ulteriore rispetto a quella che sarebbe consentita dal provvedimento finale (Cons. St. IV, n. 6344/2007). L'ambito soggettivo di applicazione dell'art. 11: l'individuazione dei soggetti controparti della p.a.L'art. 11 dispone che «in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell'articolo 10, l'amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo». Il riferimento all'accoglimento di osservazioni e proposte ha indotto taluno a ritenere che i soggetti abilitati ad assumere l'iniziativa per la conclusione di un accordo possano essere esclusivamente coloro nei cui confronti l'emanando provvedimento avrebbe prodotto conseguenze dirette. Secondo altri, invece, il contenuto della norma si riferisce esplicitamente a tutti i soggetti interessati, annoverando, quindi, oltre ai destinatari diretti dell'atto, anche i soggetti di cui agli artt. 7 e 9, l. n. 241/1990, i quali possono subire, anche indirettamente, gli effetti pregiudizievoli del provvedimento. Alla luce di tale considerazione, si concreterebbe una differenziazione tra accordi integrativi e sostitutivi, atteso che, in caso di accordo integrativo, finalizzato all'emanazione di un provvedimento finale, l'assunzione dell'iniziativa procedimentale potrebbe competere ad uno spettro più «allargato» di soggetti verso cui siffatto provvedimento sia idoneo a riverberare gli effetti, ai sensi degli artt. 7 e 9, l. n. 241/1990. Per la conclusione di accordi integrativi e sostitutivi l'iniziativa deve formalmente combinarsi secondo lo scambio della proposta del privato e dell'eventuale accettazione della controparte pubblica. Quanto all'individuazione del soggetto pubblico abilitato alla manifestazione di volontà, l'amministrazione procedente può concludere accordi attraverso coloro i quali abbiano la titolarità e la disponibilità delle posizioni interessate, senza spostamento dell'ordine delle competenze delle autorità investite della responsabilità nel procedimento. Tale soggetto deve individuarsi nell'organo competente all'adozione del provvedimento finale o da altro organo appositamente delegato (T.A.R. Lazio, Roma II, n. 1654/2006), dovendo, in mancanza, trovare applicazione l'art. 1398 c.c. in materia di falsus procurator e di rappresentanza senza potere, con la conseguente inefficacia relativa dell'accordo, fatto salvo quanto stabilito ex art. 1399 c.c. per l'eventuale ratifica. La salvaguardia dei diritti dei terzi.L'art. 11 statuisce che l'accordo deve essere concluso senza «pregiudizio dei diritti dei terzi». Sembrerebbe, pertanto, che la disposizione si ispiri al principio di relatività degli effetti del contratto rispetto ai terzi di cui all'art. 1372 c.c., giusto quanto previsto in tema di applicabilità agli accordi amministrativi dei principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti (art. 11, comma 2). Nello specifico, l'individuazione concreta dei « terzi » varia a seconda dei soggetti stipulanti l'accordo: nell'ipotesi di accordo diretto con il destinatario dell'atto, il terzo si identifica negli altri soggetti di cui agli artt. 7 e 9, l. n. 241/1990; in presenza, invece, di un accordo con i soggetti interessati di cui agli artt. 7 e 9, il terzo è individuabile nel destinatario diretto del provvedimento, risultando lo stesso estraneo all'accordo. Ne consegue che il terzo può dolersi della lesione di interessi legittimi o di diritti soggettivi mediante l'impugnativa diretta dell'accordo (in caso di accordi sostitutivi) o del provvedimento finale (in caso di accordi integrativi). La disciplina: l'iniziativa all'adozione dell'accordo (comma 1-bis)Il comma 1 -bis dell'art. 11 prevede che il responsabile del procedimento può predisporre un calendario di riunioni cui invitare separatamente o congiuntamente il destinatario del provvedimento ed eventuali soggetti controinteressati. Attraverso questa successione di incontri si avvia una sorta di negoziazione tra l'amministrazione procedente ed i soggetti coinvolti, finalizzata alla stipulazione dell'accordo. Essendo opportuno evitare qualsiasi enfatizzazione dello schema procedimentale disegnato dall'art. 11 e, dunque, un arroccamento interpretativo, non può escludersi che sia la stessa amministrazione ad adottare l'iniziativa di stipula dell'accordo, indipendentemente da richieste o altre determinazioni del privato, sempre che vi sia un nesso funzionale di inerenza dell'accordo ad una potestà pubblicistica (Cass. S.U., 15 dicembre 2000, n. 1262). Ciò non esclude, inoltre, che la proposta di accordo del privato possa eventualmente essere formulata anche nell'ambito di un procedimento amministrativo in itinere: in tali ipotesi sull'amministrazione procedente grava l'obbligo «di prendere quantomeno in esame la proposta, con la conseguente illegittimità dell'atto finale non preceduto da alcuna valutazione della proposta proveniente dal privato con indicazione delle ragioni che rendono la proposta inaccettabile, o comunque rendono preferibile nello specifico l'adozione di atti unilaterali» (T.A.R. Liguria I, n. 1233/2007). La forma dell'accordo (comma 2)Le disposizioni di cui ai commi 2, 3 e 4-bis dell'art. 11 assolvono una funzione garantista ai fini del soddisfacimento dell'interesse pubblico, cui è teleologicamente orientata l'attività della p.a. (c.d. «vincolo di scopo»), la quale, ancorché si esplichi mediante l'adesione a forme consensuali di esercizio del potere, deve essere comunque informata ai principi di buon andamento ed imparzialità ex art. 97 Cost. Nello specifico, il comma 2 prescrive, a pena di nullità, l'obbligo della forma scritta dell'accordo, salvo diverse previsioni ex lege. L'obbligo formale è legato ai principi di legalità, di pubblicità e di trasparenza dell'attività amministrativa e, oltre a garantire i necessari controlli per assicurare la certezza dei rapporti e la rispondenza effettiva del contenuto dell'accordo all'interesse pubblico, facilita una eventuale azionabilità degli strumenti di tutela. L'accordo, peraltro, appare assoggettabile al disposto di cui agli artt. 2643 e 2645 c.c., in merito alla trascrizione, secondo quanto accade normalmente per le convenzioni di lottizzazione, a fini di opponibilità. In ogni caso, per il perfezionamento dell'obbligo formale di redazione dell'atto scritto «è sufficiente che le parti abbiano sottoscritto il verbale di una riunione nel corso della quale siano state concordate le modalità di successivo esercizio da parte dell'amministrazione di una sua competenza» (Cons. St. IV, n. 6344/2007). Ai fini della qualificazione dell'atto come accordo sostitutivo, piuttosto che come contratto privatistico, occorre avere riguardo al suo contenuto, non già alla sua forma (T.A.R. Molise I, n. 337/2015). I controlli sull'accordo (comma 3)Il terzo comma dell'art. 11 richiede che l'accordo sostitutivo sia sottoposto agli stessi meccanismi di controllo previsti per il provvedimento di cui fa le veci. La previsione in commento rappresenta una delle deroghe sancite dallo stesso art. 11 all'applicabilità agli accordi («ove non diversamente previsto») dei principi stabiliti dal codice civile in materia di obbligazioni e contratti, assoggettando implicitamente l'atto di consenso all'esito positivo dei controlli cui esso stesso è sottoposto (V. Mengoli, 73; Corte Conti, Contr. Stato, n. 19/2009; T.A.R. Lazio, Roma III, n. 563/2007). La ratio della disposizione va rinvenuta nella finalità di evitare che la scelta del modulo consensuale possa tradursi, di fatto, nell'elusione delle forme di verifica della legittimità amministrativa cui sarebbe stato sottoposto ex lege il provvedimento sostituito. La determinazione preventiva (comma 4-bis)Il comma 4-bis dell'art. 11, ad espressa tutela del principio di buon andamento ed imparzialità, prevede che la conclusione dell'accordo deve essere preceduta da una determinazione dell'organo competente ad adottare il provvedimento finale. In epoca anteriore alla novella, era già stata posta la questione in ordine alla necessità che l'accordo venisse anticipato da un atto formale della p.a., esplicativo delle ragioni che avevano indotto l'amministrazione a preferire lo strumento consensuale a quello provvedimentale. Tuttavia, tale impostazione restrittiva era stata criticata in dottrina e respinta dalla giurisprudenza sull'assunto della piena fungibilità del modulo consensuale rispetto a quello unilaterale e della conseguente facoltà esercitabile dall'amministrazione nella scelta. La previsione in esame, pertanto, dà luogo ad un capovolgimento di prospettiva rispetto al passato, che lo stesso legislatore si preoccupa di giustificare attraverso la manifestata esigenza – nella quale riecheggiano con forza i principi fondamentali enunciati dall'art. 97 Cost. – di garantire l'imparzialità ed il buon andamento della pubblica amministrazione. Al riguardo, occorre rilevare come nella disposizione in commento venga ribadito, sebbene non espressamente, il dettato dell'art. 1 della stessa l. n. 241/1990, tenuto conto che i «Princìpi generali dell'attività amministrativa», indicati in tale norma, in effetti, costituiscono corollari proprio dell'art. 97 Cost. Nondimeno, non può sottacersi il rilievo in base a cui la determinazione, propedeutica all'accordo, non possa assicurare isolatamente ed autonomamente l'imparzialità ed il buon andamento dell'azione amministrativa se non idoneamente inserita in un quadro procedimentale, di cui rappresenti la manifestazione di sintesi all'esterno. È il procedimento, infatti, il principale strumento di affermazione dell'imparzialità e del buon andamento ed è in tale sede che, nell'esplicazione delle conformazioni proprie dell'attività amministrativa, detti princìpi assumono la funzione di parametri di comparazione e composizione della pluralità di interessi (pubblici e privati): l'imparzialità, in quanto valore funzionale dell'obiettività dell'amministrazione pubblica, attuato mediante l'apertura a tutti gli interessi coinvolti nell'azione amministrativa e la comparazione di essi, strumentale all'adozione delle scelte conseguenti; il buon andamento, in quanto valore finale, risultante dall'attività amministrativa tesa alla soddisfazione dell'interesse pubblico mediante il coordinamento e la composizione dei diversi interessi affluiti nel procedimento (D'Angiolillo, 115). Nello specifico, il nuovo comma 4 -bis dell'art. 11 rivela una sorta di apprensione del legislatore, che sembra voler compensare, in qualche modo, l'eliminazione della riserva di legge in materia di accordi sostitutivi, con l'assunzione dell'imparzialità e del buon andamento ad immediati ed espressi canoni di legittimità, il cui mancato rispetto permette il sindacato dell'azione amministrativa sub specie di violazione di legge, prima ancora che di eccesso di potere. Nonostante il contenuto della determinazione preventiva non sia specificato nel testo della riforma, sembra unanimemente ritenersi che essa debba assolvere ad una prima, importante funzione consistente nell'indicazione non soltanto del fine pubblico che l'amministrazione si prefigge di realizzare mediante la stipulazione dell'accordo ma, sull'esempio del francese acte détachable o dello spagnolo acto jurídico, viepiù delle motivazioni, in fatto e in diritto, che inducono a ritenere lo strumento consensuale più concretamente idoneo rispetto a quello provvedimentale al perseguimento di tale fine (Montedoro). Ciò vuol dire che – anche in relazione al necessario rispetto dei parametri motivazionali minimi richiesti, a pena di illegittimità dell'atto, dall'art. 3, l. n. 241/1990 – è espressamente richiesto dal legislatore che nella determinazione preventiva vengano evidenziati gli elementi indispensabili alla verifica della rispondenza dell'azione amministrativa ai canoni di imparzialità e di buon andamento (T.A.R. Lazio, Roma II-ter, nn. 1654-1677/2006). Parimenti, la necessità di assicurare la rispondenza dell'opzione consensuale all'interesse pubblico, impone la conoscibilità del contenuto essenziale dell'accordo attraverso l'anticipata esplicitazione delle sue clausole fondamentali, sulla traccia di quanto disposto in tema di determinazione a contrattare dall'art. 192, T.U.E.L., d.lgs. 267/2000. Alla luce delle funzioni sopra citate, la determinazione è stata qualificata alla stregua di uno «schermo provvedimentale in cui si esplicitano le valutazioni relative al pubblico interesse perseguito» (Cangelli, 73) nonché come una «esternazione della motivazione» (Cerulli, Irelli) circa la decisione di aderire all'accordo, fondata sulle risultanze istruttorie e propedeutica alla conclusione dell'accordo stesso. Come anticipato, è evidente la simmetria tra l'istituto in esame e la determinazione preliminare a contrattare che precede la stipula dei contratti della p.a., posto che in entrambi i casi si tratta di atti prodromici all'adozione di atti di natura consensuale. Deve, tuttavia, sottolinearsi come la principale differenza intercorrente tra la determinazione a contrattare (di cui all'art. 192, T.U.E.L., d.lgs. 267/2000) e la determinazione preventiva alla stipula dell'accordo (di cui all'art. 11, l. n. 241/1990) afferisce all'organo competente all'adozione dell'atto: infatti, la prima può anche provenire da un organo diverso da quello chiamato alla stipulazione; la seconda deve necessariamente provenire dall'organo competente all'emanazione del provvedimento finale e, dunque, specificamente responsabile della funzione decisoria nel procedimento. Si pensi, ad esempio, all'ipotesi «fisiologica», in cui all'accordo si arriva in accoglimento delle osservazioni e proposte presentate dall'interessato e dai controinteressati nel corso del procedimento. Inoltre, a differenza della determinazione preventiva, la determinazione a contrattare, è atto interno della p.a., che non genera posizioni giuridiche tutelabili in capo ai terzi, ed è, quindi, più agevolmente revocabile, mentre il provvedimento in esame costituisce atto idoneo a manifestare all'esterno la volontà della p.a. di addivenire alla stipulazione dell'accordo amministrativo (Corradino, 725). L'anticipazione dei contenuti dell'accordo, dedotta nella motivazione della determinazione preventiva, delinea anche una seconda rilevante funzione che può configurarsi nella possibilità di una tutela giurisdizionale o amministrativa anticipata, attivabile tanto rispetto alle ragioni che hanno condotto all'opzione del modulo consensuale anziché a quella del provvedimento unilaterale quanto rispetto agli stessi contenuti sostanziali dell'accordo (in cui può essere rimarchevole anche la conoscenza specifica della fase di formazione dell'accordo che precede la stipulazione) nonché anche alla scelta della controparte. Allo stesso modo, con la determinazione preventiva adottata dall'«organo che sarebbe competente per l'adozione del provvedimento» la pubblica amministrazione può esercitare anticipatamente i poteri di autotutela ancor prima di addivenire alla conclusione dell'accordo. L'assenza della previa determinazione, ovvero la sua eventuale patologia, si riverbera sulla validità dell'accordo, anche se l'individuazione esatta del vizio inficiante l'accordo stesso varia a seconda della natura ad esso ascrivibile. Il tema verrà affrontato infra. L'applicazione dei principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti (comma 2)Oltre a disporre che gli accordi amministrativi, a pena di nullità, debbano essere stipulati per iscritto, il secondo comma dell'art. 11 stabilisce che «ad essi si applicano, ove non diversamente previsto, i princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili». La parte della dottrina aderente alla tesi sulla natura privatistica degli accordi ricava da tale disposizione il fondamento giuridico dell'assimilazione di tali moduli consensuali alla disciplina civilistica in materia di contratti e obbligazioni. Altra parte della dottrina, prediligendo la natura pubblicistica degli accordi, ritiene, invece, che non sia possibile accomunare contratti ed accordi in quanto la norma citata fornisce una disciplina con funzione complementare, sussidiaria, integrativa ed interpretativa, dovendo inevitabilmente essere sottoposta a deroghe e adattamenti volti a dare rilievo ai peculiari caratteri pubblicistici delle differenti fattispecie. A conferma di ciò, occorre notare come non sia priva di rilevanza la circostanza che la delimitazione effettiva del rinvio operato dall'art. 11 è circoscrivibile ai « princìpi » richiamati alla «materia» delle «obbligazioni» e dei «contratti» nonché che siffatto rinvio sia consentito soltanto in quanto i princìpi siano «compatibili» e «ove non diversamente previsto». Rispetto a ciascun principio civilistico, dunque, deve essere svolta un'interpretazione adeguata al caso di specie, al fine di verificarne la compatibilità con l'accordo amministrativo (Mengoli, 82). Peraltro, la compatibilità richiesta dall'art. 11 va valutata non soltanto riguardo ai princìpi che presiedono la corretta funzionalizzazione dell'attività amministrativa, ma anche in relazione alla struttura del giudizio amministrativo (Vacirca, in Aa.Vv., 204). Il richiamo alla normativa civilistica, inoltre, è operante subordinatamente all'inesistenza di una specifica disposizione riferibile ad altra disciplina, di fonte non pattizia, che non sia quella sul procedimento amministrativo (Fracchia, 190). Non sembra, invero, potersi ritenere che la clausola di «non diversa previsione» debba riferirsi alla derogabilità, ad opera delle parti, dei princìpi civilistici, considerato che tale eventualità trova un limite invalicabile nelle norme imperative previste dal codice civile (Mengoli, 83). La possibilità di traslare princìpi propri del diritto privato in tema di obbligazioni e contratti agli accordi amministrativi, fattispecie palesemente non previste da tali disposizioni e che sono «altro» rispetto ai contratti (Fracchia, 194), è applicabile soltanto in virtù dell'espressa previsione operata dall'art. 11, l. n. 241/1990 (Sticchi Damiani, 64). Avviene, di fatto, in tal modo una combinazione tra princìpi di diritto pubblico (in virtù dei quali la p.a. determina discrezionalmente di accordarsi con il privato) e princìpi di diritto privato (che rappresentano la disciplina generale del rapporto), in forza dei quali l'amministrazione deve dare esecuzione a ciò che ha concordato. Non sembra, peraltro, che la formula utilizzata dal legislatore ammetta che la disciplina codicistica possa applicarsi in tutta la sua estensione, in ogni sua specifica regola (Scoca, in Aa.Vv., 32). Secondo la giurisprudenza prevalente (Cons. St. V, n. 5000/2013) gli accordi tra privati e P.A., che possono essere alternativi rispetto al provvedimento (sostitutivi), ovvero rispetto alla determinazione del contenuto discrezionale del provvedimento (integrativi), non sono qualificabili quali contratti ad evidenza pubblica, che costituiscono veri e propri contratti di diritto privato, soggetti, come tali, salvo espresse disposizioni derogatorie, alla disciplina privatistica. Gli accordi in questione, coerentemente con la loro natura giuridica, non sono disciplinati dall'insieme delle regole proprie del diritto privato, ma unicamente dai “principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti”. Si tratta, invece, di “contratti ad oggetto pubblico” caratterizzati dalla circostanza che, da un lato, le parti non possono disporre liberamente delle proprie posizioni poiché coinvolgono interessi collettivi, e, d'altro lato, la pubblica amministrazione stipulante ha sempre possibilità di recedere in base a nuove valutazioni di pubblico interesse, salvo l'obbligo a suo carico di liquidare un indennizzo laddove il recesso produca pregiudizi al privato. Funzione e causa dell'accordo procedimentale è quindi quella di sviluppare un determinato procedimento amministrativo fino al suo termine mediante la negoziazione della funzione pubblica tra l'amministrazione agente e il soggetto inciso dal potere pubblicistico dispiegato nel caso concreto. Laddove poi diventi impossibile attuare l'obiettivo di pubblico interesse connesso ad un procedimento nell'ambito del quale sia stato stipulato l'accordo, quest'ultimo potrà dirsi risolto per impossibilità sopravvenuta, salvo verificare se ad una delle parti debba accollarsi la relativa responsabilità (T.A.R. Toscana, I, n. 1158/2013). Prima dell'entrata in vigore della l. n. 241/1990, alcuni princìpi civilistici essenziali, compatibili con l'attività consensuale della pubblica amministrazione, erano già stati enucleati dalla giurisprudenza, in particolare, nell'inquadramento della tutela delle situazioni soggettive connesse agli accordi in materia urbanistica derivanti dalle convenzioni di lottizzazione o dalle convenzioni urbanistiche in generale. Tra essi si deve ricordare, ad esempio, la responsabilità risarcitoria della p.a. per danno causato al privato mediante la revoca illegittima dell'accordo nonché per il pregiudizio arrecato a posizioni soggettive private per violazione da parte della stessa amministrazione delle regole circa il buon andamento e l'imparzialità ex art. 97 Cost. E, ancora, va annoverata la responsabilità precontrattuale della p.a. configurabile nei casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative e nelle relazioni con i terzi, abbia compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con i princìpi di correttezza e di buona fede. In realtà, lo stesso percorso procedimentale fissato dall'art. 11 per la conclusione dell'accordo, che prevede proposte avanzate dal privato alla p.a. (che, a sua volta, può accettare), potrebbe giustificare l'obbligo di buona fede da parte dell'amministrazione e configurare, come i sostenitori della lettura privatistica della fattispecie degli accordi e parte della giurisprudenza hanno già affermato (Cons. St. VI, n. 1763/2006; T.A.R. Lazio, Roma I, n. 5766/2006), l'instaurazione di trattative in senso proprio, tutelabili attraverso l'impiego degli strumenti disciplinati dagli artt. 1337 e 1338 c.c., ammettendosi la formazione della tipologia di responsabilità precontrattuale sopra richiamata (Cons. St. V, n. 6137/2007). In generale, appare ammissibile l'applicazione della clausola rebus sic stantibus, espressione del principio di buona fede ex art. 1337 c.c., che, unitamente al principio pacta sunt servanda, costituisce il fulcro della disciplina cui il secondo comma dell'art. 11 fa rinvio. Va, in particolare, evidenziato che, oltre che dalla norma innanzi indicata, la regola generale della buona fede in senso oggettivo, concretata nei canoni di lealtà e salvaguardia, è ricavabile anche dagli artt. 1175,1366 e 1375 c.c. Appare, peraltro, sterile qualsiasi discettazione circa l'applicabilità dell'art. 1373 c.c. in materia di recesso unilaterale, valutata l'esistenza di una specifica disposizione sul recesso applicabile agli accordi amministrativi, ai sensi del quarto comma dell'art. 11. Diversamente, fra i princìpi civilistici in materia di obbligazioni e di contratti sembra potersi affermare che la conclusione dell'accordo possa essere correlata allo schema di cui all'art. 1326 c.c., all'atto della conoscenza, da parte del proponente, dell'accettazione dell'altra parte. Analogamente, a norma dell'art. 1328 c.c., l'accettazione stessa può ritenersi revocabile fino a quando la revoca sia conosciuta dal proponente prima dell'accettazione. Altro criterio sussumibile entro i canoni civilistici è senz'altro quello concernente la diligenza del buon padre di famiglia di cui all'art. 1176 c.c. Non appare incompatibile con la disciplina degli accordi la disposizione contenuta nell'art. 1339 c.c. che stabilisce l'automatica sostituzione delle clausole contrattuali conformi a legge rispetto a quelle, volute dalle parti, eventualmente contrastanti; così come sembrano compatibili le disposizioni di cui all'art. 1340, secondo cui s'intendono apposte al contratto le c.d. clausole d'uso, ove non diversamente previsto, all'art. 1341, in materia di condizioni generali di contratto, e all'art. 1342, riguardo alla necessaria approvazione specifica delle clausole c.d. vessatorie. Risultano, inoltre, attagliabili agli accordi amministrativi le norme civilistiche in materia di condizione, di cui agli artt. 1353 e ss. c.c., e di interpretazione del contratto, di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. Egualmente, appaiono pienamente applicabili agli accordi i princìpi dettati dal c.c. in tema di successione ex lege e mortis causa nel contratto. E, ancora, sono senz'altro adottabili le norme sulla rappresentanza diretta così come quelle di cui all'art. 1398 c.c. in materia di falsus procurator e di rappresentanza senza potere con la conseguente inefficacia relativa dell'accordo, salvi i casi di ratifica ex art. 1399 c.c. (T.A.R. Lazio, Roma II, n. 1654/2006). Con riferimento alle situazioni in cui vi sia un inadempimento degli obblighi assunti, sono senz'altro applicabili i princìpi in tema di azione di adempimento (T.A.R. Lombardia, Brescia, n. 1157/2003) nonché di risoluzione per inadempimento (T.A.R. Lombardia, Milano I, n. 1253/2009; Cons. St. V, n. 236/2006), per sopravvenuta impossibilità della prestazione (Fracchia, 202) e per eccessiva onerosità a causa di sopravvenuti eventi straordinari e imprevedibili (T.A.R. Lombardia, Milano II, n. 193/2007). Parimenti, è opponibile l' exceptio inadimpleti contractus ai sensi dell'art. 1460 c.c. (T.A.R. Toscana, III, n. 1146/2006). Sembrano senz'altro trasferibili agli accordi amministrativi anche le norme sulla simulazione contenute negli artt. 1414 e ss. c.c. Infine, appare estraneo agli accordi amministrativi l'istituto della rescissione: è alquanto difficile, infatti, immaginare che una delle parti sia stata costretta a stipulare un accordo amministrativo perché versante in stato di pericolo (a norma dell'art. 1447 c.c.) ovvero di bisogno, patendone, in tal caso, un pregiudizio ultra dimidium a vantaggio dell'altra parte, in conformità a quanto previsto dall'art. 1448 c.c. (D'Angiolillo, 145). Il recesso unilaterale (comma 4)Il quarto comma dell'art. 11 conferisce alla p.a. il potere di recedere unilateralmente dagli accordi stipulati con il privato. Sono due gli elementi specificati nella norma per definire i limiti dell'esercizio del predetto potere da parte dell'amministrazione: da un lato, il carattere preminente dell'interesse pubblico da perseguire; dall'altro, l'obbligo di indennizzare il privato che abbia eventualmente subìto pregiudizi proprio a causa del recesso (T.A.R. Lazio, Roma II, n. 1645/2006). Si è, dunque, posto fine all'annoso dibattito che aveva indotto dottrina e giurisprudenza a discutere in merito alla legittimità di un recesso fondato su una rinnovata valutazione dell'interesse pubblico derivante da diverse e sopravvenute ragioni di diritto o di fatto, considerata la funzionalizzazione dell'agere pubblico. La norma in esame, tuttavia, ha negato l'esistenza di un generale potere di recesso da parte della p.a., inteso quale portato di un mero jus poenitendi. In tal modo, i «sopravvenuti motivi di pubblico interesse», che giustificano il ricorso al recesso unilaterale da parte della p.a., devono essere conseguenza della maturazione di nuovi elementi in grado di determinare una reale incompatibilità tra il sussistere dell'interesse pubblico ed il mantenersi dell'accordo. Il recesso unilaterale è, infatti, espressamene previsto per il caso in cui sopravvengano motivi di pubblico interesse che si discostino da quelli originariamente sussistenti e non è da ritenersi applicabile laddove siffatto pubblico interesse sia originariamente carente (Scoca, in Aa.Vv., 39). La ratio di quanto statuito espressamente dall'art. 11, comma 4, è costituita dalla necessità di assicurare alla pubblica amministrazione, anche quando l'interesse pubblico non coincida con la tutela dell'interesse dei privati (Sticchi Damiani, 76), di provvedere sempre e comunque alla miglior cura dello stesso interesse pubblico. Una parte della dottrina configura il recesso unilaterale, contemplato al quarto comma dell'art. 11, nell'ambito della disciplina civilistica di cui agli artt. 1372 e 1373 c.c., puntando essenzialmente sull'equivalente funzione di ristoro patrimoniale dell'«indennizzo» (art. 11, comma 4, l. n. 241/1990) e del «corrispettivo per il recesso» (art. 1373, comma 3, c.c.). Tuttavia, il recesso delineato dall'art. 11 mostra evidenti elementi di differenziazione rispetto alle citate disposizioni del codice civile. In primo luogo, mentre il « corrispettivo per il recesso » s'inquadra, nell'ottica civilistica, in un determinato valore economico avente titolo di risarcimento, l'«indennizzo», sia sul piano terminologico che giuridico, è un istituto che rappresenta un ristoro a carattere prevalentemente reintegrativo. Va, poi, considerato che mentre il recesso disciplinato dagli artt. 1372 e 1373 c.c. è una fattispecie a carattere eccezionale, facoltativa e subordinata ad una valutazione insindacabile del soggetto che ha il potere di recedere dal contratto, il recesso contemplato dalla norma dell'art. 11, l. n. 241/1990, ha un carattere di doverosità derivante direttamente dalla necessità di realizzare l'interesse pubblico (Sticchi Damiani, 68). Anche la giurisprudenza, d'altro canto, sembra aver chiarito qualsivoglia equivoco circa l'assimilazione del recesso di cui all'art. 11, l. n. 241/1990, con il recesso dei contratti di diritto comune, confermando come il primo presenti il duplice carattere della «funzionalizzazione», che presuppone una sopravvenienza di pubblico interesse, e della «doverosità» (Cons. St. V, 30 settembre 2013, n. 4872; T.A.R. Liguria, I, 11 luglio 2007, n. 1377). Tali peculiarità avevano già indotto parte della stessa giurisprudenza a ritenere (T.A.R. Emilia-Romagna, Parma, n. 373/2000) che il g.a. potesse esperire un penetrante controllo sul recesso, concretato attraverso una verifica di illegittimità per eccesso di potere. A tale posizione pretoria, peraltro, ha controbattuto chi, piuttosto, ha ritenuto che, nella fase di esecuzione dell'accordo, il sindacato del g.a. non possa atteggiarsi nelle forme del controllo sull'eccesso di potere, dovendo limitarsi a verificare il rispetto della buona fede e l'assenza di forme di abuso del diritto (Cons. St. V, n. 1327/2000). In definitiva, la previsione espressa del principio rebus sic stantibus all'interno della fattispecie normativa di cui al quarto comma dell'art. 11 riduce la vincolatività degli accordi e, sulla base della natura dell'interesse tutelato e delle differenti posizioni degli stipulanti (la p.a. e il privato), fornisce un ulteriore argomento utile ad evidenziare la diversità degli accordi amministrativi rispetto ai negozi civilistici (Cangelli, 283). Segue: Recesso e autotutelaLa spendibilità di un potere di autotutela da parte dell'amministrazione attraverso il ritiro della determinazione preventiva, con la conseguente caducazione a posteriori dell'intera sequenza procedimentale, è stata oggetto di un animato dibattito intercorso nell'ambito della dottrina e della giurisprudenza. In connessione a tale problematica, peraltro, non irrilevante è il tema della conciliabilità dell'esercizio di siffatto potere di secondo grado con la potestà, riconosciuta in capo all'amministrazione, di recedere unilateralmente dall'accordo amministrativo. Ciò è tanto più importante laddove si consideri che l'annullamento della determinazione preventiva non comporta la corresponsione di un indennizzo a beneficio del privato, così come è, d'altro canto, dovuto nel caso di recesso dall'accordo. Il punto di equilibrio tra il potere di annullamento in autotutela della determinazione preventiva e il potere di recesso dall'accordo è stato riscontrato nel requisito della sopravvenienza dell'interesse pubblico giustificativo del recesso (art. 11, comma 4), in contrapposizione all'originaria illegittimità, che, unitamente al pubblico interesse attuale al ritiro dell'atto viziato, consente, invece, l'annullamento d'ufficio dell'atto di cui al comma 4-bis dell'art. 11: è proprio tale illegittimità originaria che, invalidando gli atti successivi e consequenziali, segnatamente, l'accordo intervenuto fra la p.a. ed il privato, rende ammissibile – innanzitutto sul piano della conformità ai principi costituzionali – la caducazione con effetti retroattivi e senza indennizzo dell'intera sequenza procedimentale, non potendosi accettare che il privato tragga vantaggio da una situazione ab origine viziata (fatte salve le prestazioni già eventualmente eseguite). Il correttivo al potere di autotutela, peraltro, è insito nella stessa disciplina legislativa dell'annullamento di cui all'art. 21-nonies, l. n. 241/1990, laddove, nel limitare l'esercizio di tale potere ad un termine «ragionevole», viene prestata adeguata tutela sia all'affidamento dei privati interessati sia alla posizione degli eventuali controinteressati. L'indennizzo: qualificazione e conseguenze applicative.Altri interrogativi sono stati avanzati in merito all'esatta qualificazione dell'indennizzo. È stato ritenuto che l'indennizzo debba essere effettivo o, comunque, rappresentare una forma adeguata di ristoro per il privato, il quale vede interrompersi il rapporto instaurato con la p.a. in nome di un sopravvenuto pubblico interesse. Si è, altresì, considerato che le conseguenze patrimoniali di un recesso legittimo certamente non possono che avere natura indennitaria. L'indennizzo è riconosciuto al privato che abbia riposto un legittimo affidamento nella maggiore stabilità degli interessi derivanti dalla sottoscrizione di un accordo procedimentale rispetto al tradizionale modulo provvedimentale (T.A.R. Piemonte, I, 23 aprile 2019, n. 463). Ma se non sembrano esservi dubbi in merito alla possibilità di indennizzare totalmente il danno emergente, maggiormente controverso è il riconoscimento dell'indennizzabilità del lucro cessante, sostenuta da chi ritiene che l'indennizzo debba essere comprensivo anche del mancato guadagno subìto a seguito del recesso della p.a. Ma, contro tale ultima tesi, viene osservato che l'indennizzo non possa avere un contenuto integralmente risarcitorio dal momento che, in questa ipotesi, non si differenzierebbe dal risarcimento del danno. In proposito, infatti, mutatis mutandis, è addotto l'esempio ricavabile dalla materia delle espropriazioni, laddove l'indennizzo è la misura ordinariamente stabilita nel caso di esercizio legittimo del potere da parte dell'amministrazione, mentre il risarcimento del danno è il rimedio differentemente previsto in presenza di un'illegittima modalità di estrinsecazione del potere o di carenza assoluta dello stesso da parte dell'amministrazione medesima, nei casi di occupazione acquisitiva o usurpativa (D'Angiolillo, 158-159). Per quantificare l'entità dell'indennizzo, nel silenzio del legislatore, si è fatto ricorso alle norme di diritto positivo, ritenendo applicabili i criteri relativi al recesso dai contratti di appalti pubblici di cui all'art. 109, d.lgs. 50/2016 (c.d. codice dei contratti pubblici). È stato anche ritenuto che, in mancanza di una specifica indicazione normativa, la quantificazione dell'indennizzo possa essere rimessa alla valutazione equitativa del giudice. D'altro canto, se un recesso della pubblica amministrazione conforme al disposto di cui al quarto comma dell'art. 11 comporta il diritto all'indennizzo da parte del privato, un potere di recesso esercitato assolutamente contra legem provoca il diritto al risarcimento integrale del danno subìto dal privato (T.A.R. Lombardia, Milano III, n. 434/2003; T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, n. 291/2004). Analogamente, deve escludersi l'obbligo di indennizzo a carico della p.a. in caso di inesistenza dell'accordo «per mancanza di possibilità che i soggetti firmatari per conto dell'amministrazione possano impegnare questa verso l'esterno» (T.A.R. Lazio, Roma II, 3 marzo 2006, n. 1654), ovvero ove il recesso si sia verificato per fatto imputabile ai privati acquiescenti (T.A.R. Sicilia, Catania I, 21 novembre 2006, n. 2319). Al contrario, non fa venire meno l'obbligo di indennizzo l'inattuabilità economica dell'operazione oggetto dell'accordo a cagione della quale l'amministrazione abbia inteso recedere dallo stesso (T.A.R. Emilia-Romagna II, n. 459/2020). Disciplina processuale.Il quinto comma dell'art. 11, l. n. 241/1990, devolveva al g.a. la giurisdizione esclusiva sulle controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi (Cass. S.U., n. 19494/2008). La norma è oggi trasfusa nell'art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, del c.p.a. 2.27. Il d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, recante il «Codice del processo amministrativo» ha trapiantato tale regola nel codice con l'abrogazione dell'art. 11, comma 5, l. n. 241/1990 e la previsione, senso all'art. 133, secondo cui sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo e degli accordi fra pubbliche amministrazioni (comma 1, lett. a.2)). La scelta del legislatore è stata avallata dalle pronunce della Corte costituzionale (Corte cost., n. 35/2010; Corte cost., n. 204/2004), secondo la quale: «Nella definizione dei confini della giurisdizione esclusiva, ai sensi dell'art. 103, comma 1, Cost., è necessario in primo luogo, che la controversia involga situazioni giuridiche di diritto soggettivo e di interesse legittimo strettamente connesse; è bene, però, aggiungere che, se è pur vero, in linea con le ragioni storiche all'origine della configurazione di tale giurisdizione, che è normalmente necessaria la sussistenza di un intreccio di posizioni giuridiche nell'ambito del quale risulti difficile individuare i connotati identificativi delle singole situazioni soggettive, non può escludersi che la cognizione del giudice amministrativo possa avere ad oggetto, ricorrendo agli altri requisiti indicati in seguito, anche soltanto diritti soggettivi; in secondo luogo, è necessario che il legislatore assegni al giudice amministrativo la cognizione non di «blocchi di materie», ma di materie determinate; infine, è richiesto che l'amministrazione agisca, in tali ambiti predefiniti, come autorità e cioè attraverso la spendita di poteri amministrativi che possono essere esercitati sia mediante atti unilaterali e autoritativi, sia mediante moduli consensuali ai sensi dell'art. 11 l. n. 241/1990, sia infine mediante comportamenti, purché questi ultimi siano posti in essere nell'esercizio di un potere pubblico e non consistano, invece, in meri comportamenti materiali avulsi da tale esercizio. In tale ultimo caso, infatti, la cognizione delle controversie nascenti da siffatti comportamenti spetta alla giurisdizione del giudice ordinario». Tale attribuzione è fondata sulla necessità di garantire effettività e completezza alla tutela giurisdizionale dei privati venuti in contatto con la p.a., assicurando omogeneità di giudizio indipendentemente dalla natura giuridica delle posizioni soggettive (configurabili come interessi legittimi o diritti soggettivi). Ciò al fine di evitare che, per ottenere tutela su questioni afferenti alla medesima materia, occorra rivolgersi a due diversi ordini di giudici, con un frazionamento di competenze tra autorità giudiziaria ordinaria e autorità giudiziaria amministrativa. L'esigenza di semplificare la ricerca del giudice competente in fattispecie contraddistinte dalla posizione di «frontiera» tra potere pubblico e schemi civilistici porta a confutare la tesi della dottrina secondo cui la giurisdizione esclusiva presupporrebbe la presenza della giurisdizione del giudice amministrativo, per posizione o per materia (Vacirca, in Aa.Vv., 197). Tale tesi è stata basata su due motivazioni fondamentali. La prima è relativa all'eventuale violazione del criterio della devoluzione per «particolari materie», contenuto nell'art. 103 Cost., a fronte di una diversa e più ampia interpretazione a tenore della quale per «materia» si intendesse qualsiasi accordo. L'altra motivazione, addotta a presupposto della tesi citata, risiede nel rilievo a mente del quale, mentre gli accordi integrativi potrebbero essere conclusi nell'esercizio di un potere discrezionale dell'amministrazione, cui fa da contraltare un interesse legittimo del privato (e pertanto per essi è pacifica la giurisdizione generale di legittimità del g.a.), gli accordi sostitutivi potrebbero essere stipulati anche in assenza di un potere discrezionale, ma in questo caso la scelta sarebbe rimessa, comunque, ad una legislazione settoriale. Per la verità, la questione è stata affrontata dallaSuprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sent. 12 marzo 2001, n. 105, nella quale è spiegato che, stante l'ampio tenore letterale della norma di cui all'art. 11, comma 5, la giurisdizione esclusiva del g.a. contiene la totalità delle controversie concernenti la funzione amministrativa esercitata mediante il peculiare modulo consensuale in esame. Sono, quindi, in essa comprese non solo le controversie che insorgono in relazione ad un accordo già concluso, per vagliarne la conformità al modello legale o per individuarne la portata ed il contenuto o che attengono alla «esecuzione», ma anche quelle che riguardano la fase procedimentale prodromica all'eventuale «conclusione», quale momento concernente la «formazione», dell'accordo medesimo (Cass. S.U., n. 9952/2009; Cons. St. IV, n. 1898/2009). L'essenziale, dunque, è che la res litigiosa riguardi un accordo concluso nel perseguimento di un pubblico interesse, quale alternativa nell'esercizio di un potere discrezionale ed autoritativo della p.a. (Cass. S.U., 9 ottobre 2009, nn. 6960-21472/2009; Cons. St. V, n. 4952/2008). La tesi in questione risulta oggi rivista in parte. E, infatti, il giudice della giurisdizione (Cass. civ., S.U., n. 21650/2021) sembra aver operato un parziale revirement in relazione alle controversie aventi ad oggetto l'esecuzione dell'accordo. Si afferma, infatti, che In tema di riparto di giurisdizione, ai sensi dell'art. 11, comma 5, della l. n. 241/1990, oggi trasfuso nell'art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, del c.p.a., spetta al giudice amministrativo la cognizione delle controversie relative ad un accordo sostitutivo o integrativo di un provvedimento amministrativo all'interno del quale la P.A., esercitando potestà pubblicistiche, individui le modalità e le condizioni necessarie per la concessione ed erogazione di un finanziamento, restando invece devoluta al giudice ordinario la controversia che attiene alla fase di erogazione del contributo o di ritiro della sovvenzione relativamente al dedotto inadempimento del destinatario. Per il principio di compiutezza della giurisdizione esclusiva (E. Sticchi Damiani, 135), sono state ritenute proponibili azioni volte ad ottenere sentenze costitutive, di accertamento e di condanna, già prima che entrasse in vigore il c.p.a. (Sandulli, Trotta, 80). In materia di accordi, dunque, il privato ha potestà di invocare dinanzi al giudice amministrativo l'azione costitutiva di annullamento dell'accordo per vizi di legittimità, l'azione di accertamento del rapporto, potendo avanzare, altresì, per entrambi i casi, la domanda di condanna al risarcimento del danno. In applicazione di detto principio, pertanto, la giurisprudenza amministrativa ha affermato la giurisdizione del g.a. in materia di accordo concluso al fine di realizzare l'interesse pubblico individuato da unaprescrizione di un p.r.g., in quanto esso «rappresenta un accordo sostitutivo e pertanto soggetto alla giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 11 della l. n. 241/1990» (T.A.R. Lombardia, II, 4 dicembre 2007, n. 6538); in materia di realizzazione dell'opera pubblica oggetto del piano di recupero in materia edilizia (T.A.R. Emilia Romagna, Parma I, n. 314/2008); in materia di lottizzazione (Cass. civ. S.U., n. 9284/2017; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., n. 1187/2009; Cass.S.U., n. 15288/2009; Cass.S.U., n. 9151/2009; Cons. St. IV, n. 781/2008); in ambito espropriativo, in relazione alle fattispecie di cessione volontaria (Cass. S.U., 30 gennaio 2008, n. 2029; Cons. St. VI, 14 settembre 2005, n. 4735; T.A.R. Piemonte, I, 17 gennaio 2007, n. 44); nonché in materia di convenzioni stipulate tra A.S.L. e soggetti del privato sociale per il servizio ambulanze e pronto soccorso (Cons. St. IV, 12 giugno 2009, n. 3743). Analogamente, è stata ritenuta sussistente la giurisdizione del g.a. in materia diprevalenza della disciplina tariffaria di matrice comunitaria su quella nazionale e regionale, come recepita nel disciplinare della concessione di trasporto pubblico locale, in quanto questioni relative al contenuto ed alla portata dell'accordo sostitutivo (T.A.R. Molise, Campobasso I, 8 ottobre 2008, n. 732); per le controversie relative all'impugnazione di una revoca del beneficio finanziario concesso ad una società per la realizzazione di un investimento produttivo in sede di approvazione di un patto territoriale (Cass. S.U., 23 marzo 2009, n. 6960; Cass.S.U., 8 luglio 2008, n. 18630) nonché per analogo provvedimento di ritiro di agevolazioni finanziarie concesse in virtù di un protocollo aggiuntivo ad un contratto d'area (T.A.R. Lazio, Roma III-ter, 25 novembre 2009, n. 11650); in materia di convenzioni integrative di provvedimenti di concessione di servizi pubblici (Cons. St. V, n. 236/2006); in materia di convenzioni fra enti territoriali e consorzio per lo sviluppo industriale in ordine all'affidamento dello svolgimento delle funzioni connesse alla gestione non solo tecnica ma anche amministrativa delle aree industriali (Cons. St. VI, n. 7057/2009); in materia di finanziamenti concessi in sede di formazione ed esecuzione di un patto territoriale (Cass. S.U., n. 10377/2019); in materia di revoca del beneficio finanziario accordato ad una società per la realizzazione di un investimento produttivo in sede di approvazione di un “patto territoriale” (Cass. S.U., n. 2082/2019). Deve in ogni caso soggiungersi che fuoriesce dal raggio di azione della giurisdizione esclusiva ex art. 11, l. n. 241/1990 quella in cui la cognizione dell'accordo assuma carattere meramente incidentale rispetto al petitum sostanziale azionato, cioè l'accertamento costitutivo del diritto all'ottenimento della proprietà di un'area nei confronti degli attuali proprietari, soggetti terzi rispetto all'accordo (T.A.R. Liguria II, n. 768/2008). Ciò non toglie, in ogni caso, che il regime della tutela, pur pienamente devoluto al g.a., sarà necessariamente conformato in base alla posizione giuridica di interesse legittimo o di diritto soggettivo fatta valere dal ricorrente. In tal modo, gli strumenti processuali saranno diversi a seconda che il privato avanzi richieste risarcitorie a salvaguardia delle posizioni di interesse legittimo o di diritto soggettivo asseritamente incise, ovvero azioni demolitorie a tutela di posizioni di interesse legittimo volte a caducare provvedimenti adottati dall'amministrazione in violazione del vincolo assunto in sede di accordo, oppure domande giudiziali di accertamento onde ottenere la verifica dell'inadempimento da parte della p.a. rispetto all'adozione di comportamenti o di provvedimenti ai quali si è obbligata (Cons. St. VI, n. 2636/2002). Deve sottolinearsi, peraltro, che anche l'amministrazione può rivolgersi al g.a. per ottenere la risoluzione dell'accordo o farne dichiarare la nullità (T.A.R. Lazio, Roma II, 20 aprile 2006, n. 2883), ovvero per domandare una sentenza costitutiva che tenga luogo dell'atto consensuale al quale il privato si è in precedenza obbligato nella stipulazione (T.A.R. Piemonte I, n. 44/2007), in alternativa rispetto all'utilizzo dei potere unilaterale di cui è dotata. Sembra non potersi avere alcun dubbio circa l'estensione alla giurisdizione esclusiva delle controversie tra la pubblica amministrazione ed i privati che, pur non avendo stipulato l'accordo, hanno partecipato alla fase di «formazione» del medesimo ovvero ne beneficiano (Vacirca, in Aa.Vv., 199-200), restando, invece, escluse le controversie insorgenti tra i privati coinvolti nell'accordo ed i terzi, per i quali la giurisdizione del g.a. ha l'ordinaria estensione di legittimità. Così, ex multis, T.A.R. Lombardia, Brescia, n. 903/2005, che ha stabilito che «l'art. 11 l. n. 241/1990 delimita la giurisdizione esclusiva alle sole controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi, con la conseguenza che la stessa deve necessariamente intendersi circoscritta alle sole controversie insorte tra le parti che abbiano stipulato l'accordo, come si ricava dallo stesso dato testuale della norma citata (infatti le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi non possono avere come parti soggetti che non siano anche parti dell'accordo). Le controversie instaurate dal terzo rientrano invece nella giurisdizione generale di legittimità e non si sottraggono alle ordinarie regole di riparto di giurisdizione che si fondano sul criterio del “petitum” sostanziale, avendo pertanto riguardo all'intrinseca consistenza della situazione soggettiva dedotta in giudizio, in relazione alla reale tutela accordata dall'ordinamento, prescindendo dalla prospettazione fattane dalle parti in giudizio. Ne consegue che nel solo caso di affermata lesione di interessi legittimi i terzi sono legittimati ad adire il g.a., impugnando l'accordo, mentre qualora i terzi lamentino la lesione di diritti soggettivi, come ricorre nel caso di specie, saranno invece legittimati a ricorrere al g.o. il quale, ove ne ricorrano i presupposti, potrà disapplicare l'accordo limitatamente alla parte lesiva dei diritti medesimi.». Resta dubbia l'applicabilità dell'esecuzione in forma specifica di cui all'art. 2932 c.c. in seguito all'eventuale inerzia dell'amministrazione nei confronti del privato. Secondo la parte della dottrina incline a conferire all'accordo una connotazione privatistica, l'utilizzo del mezzo innanzi indicato sarebbe praticabile, contestandosi che in favore dell'amministrazione medesima perdurino profili di discrezionalità, autotutela o di dispensa dalla giurisdizione. Ampiamente prevalente è, tuttavia, il contrario indirizzo, di matrice pubblicistica, teso a contestare il rimedio di cui innanzi in considerazione della mancanza di profili di compatibilità tra la progressione procedimentale intercorrente tra l'accordo ed il provvedimento finale rispetto alla sequenza sussistente tra il contratto preliminare ed il contratto definitivo (Mengoli, 155). Secondo tale orientamento, la disposizione di cui all'art. 11 va interpretata estensivamente, considerando assoggettate alla giurisdizione del g.a. anche le controversie in materia di interpretazione degli accordi amministrativi (Mengoli, 206). Al fine di valutare lacompromettibilità in arbitrato di una controversia derivante dall'esecuzione di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento amministrativo, devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, occorre valutare la natura delle situazioni giuridiche azionate, potendosi ricorrere a tale strumento di risoluzione delle controversie solo se abbiano la consistenza di diritto soggettivo, ai sensi dell'art. 12 c.p.a., e non invece la consistenza di interesse legittimo (Cass. I, n. 2738/2021). In tema di devoluzione in arbitrato rituale di controversie con la pubblica amministrazione, la convenzione urbanistica, quale accordo sostitutivo ex art. 11 l. n. 241/1990, non è suscettibile – per tutto ciò che non è disposto dal regolamento contrattuale – di produrre obblighi per la pubblica amministrazione correlati a diritti soggettivi del privato attraverso l'integrazione legale dell'accordo, in ragione della incompatibilità del principio di integrazione del contratto sulla base della buona fede con la norma attributiva del potere amministrativo. Ne consegue che la controversia derivante dalla mancata adozione di provvedimenti da parte della pubblica amministrazione che abbia determinato la non eseguibilità della convenzione urbanistica non può essere risolta mediante arbitrato rituale in quanto è afferente ad interessi legittimi (Cass. S.U., n. 12428/2021). Segue. Le posizioni soggettive e i rimedi processuali. L'esigenza di definire i lineamenti processuali del giudizio innanzi al g.a. obbliga una puntuale individuazione delle posizioni soggettive interessate alle diverse fasi procedimentali dell'accordo. A tal fine, è particolarmente esplicativa la decisione del Consiglio di Stato, VI, n. 2636/2002, nella quale è stato redatto una sorta di «catalogo» delle principali azioni esperibili, in relazione allo svolgimento delle singole fasi del procedimento. Segue. Posizioni soggettive prima della sottoscrizione: ripensamento della P.A. e rimedi processuali. Conseguentemente alla scelta discrezionale operata dalla p.a. (nei limiti della conformità all'interesse pubblico e in ossequio agli idonei oneri motivazionali) nell'accedere al modello di amministrazione consensuale, il privato può vantare un interesse legittimo alla stipulazione, con la conseguenza che l'azione giudiziaria proponibile è finalizzata all'obbligo di una rivalutazione delle ragioni per le quali l'amministrazione ha escluso l'opportunità di addivenire alla conclusione dell'accordo. La domanda giudiziale, invece, non potrà mai essere diretta alla determinazione da parte del g.a. del contenuto dell'accordo (Mengoli, 125). Segue. Le posizioni soggettive prima della sottoscrizione dell'accordo: ripensamento del privato. Il privato non è gravato da veri e propri doveri anteriormente alla conclusione dell'accordo sostitutivo ed a seguito dell'accordo integrativo, cioè prima che il procedimento sia concluso (Cass. I, n. 4572/1992). Egli, dunque, può revocare la propria volontà con una dichiarazione unilaterale contraria mediante cui manifesta il proposito di rinunciare alla stipulazione dell'accordo, esercitando un vero e proprio jus poenitendi, a fronte del quale la p.a. non è assistita da alcuno strumento, ancorché processuale, coercitivo. Segue. Posizioni soggettive dopo la sottoscrizione: inadempimento della P.A. e rimedi processuali. Le situazioni giuridiche soggettive che si radicano in capo agli stipulanti in seguito alla sottoscrizione dell'accordo hanno consistenza di interesse legittimo ovvero, in particolare secondo i fautori della natura privatistica degli accordi, di diritto soggettivo all'adempimento. In ogni caso, alla stregua dei principi civilistici applicabili, l'adempimento dell'accordo deve avvenire mediante la diligenza del buon padre di famiglia, di cui all'art. 1176 c.c.: ne consegue, l'attivazione del rimedio previsto dall'art. 1219 in materia risarcitoria, nonché, secondo gli assertori della natura privatistica dell'accordo, dall'art. 2932 c.c. Secondo la giurisprudenza, inoltre, il privato ha la possibilità di domandare la risoluzione giudiziale dell'accordo in caso di mera inerzia della P.A. (Cons. St. VI, n. 2636/2002). Infine, il privato può impugnare il provvedimento conclusivo adottato in violazione dell'accordo integrativo e ottenere il conseguente risarcimento del danno (Cons. St. VI, n. 2636/2002). La giurisprudenza e la dottrina hanno anche evidenziato che, in caso di inadempimento da parte della p.a. in merito al contenuto di un accordo, il soggetto privato possa esperire il ricorso avverso il silenzio ai sensi dell'art. 21-bis l. 1034/1971; nell'ipotesi in cui si possa rilevare un provvedimento difforme dall'accordo integrativo, potrà essere proposto, invece, l'ordinario ricorso con finalità demolitoria dell'atto viziato sotto il profilo della violazione di legge e dell'eccesso di potere, proponendo, contestualmente, anche l'azione risarcitoria (D'Angiolillo, 169). Segue. Posizioni soggettive dopo la sottoscrizione: inadempimento del privato e rimedi processuali. L'inadempimento del privato in relazione ad un accordo sostitutivo (ovvero dopo l'adozione del conforme atto amministrativo di recepimento) costituisce presupposto per l'esercizio del potere di autotutela da parte della p.a. (Cons. St. VI, 15 maggio 2002, n. 2636), ritenendosi che tale comportamento costituisce una forma di acquiescenza preventiva al provvedimento di autotutela, con la conseguenza che un'eventuale azione impugnatoria sarebbe da considerare inammissibile. La p.a., inoltre, può far ricorso, oltre che agli strumenti civilistici di cui all'art. 1219 c.c. Secondo la dottrina favorevole a sostenere la natura privatistica degli accordi e a giudizio di parte della giurisprudenza (Cons. St. VI, n. 2636/2002; T.A.R. Lombardia, Brescia II, n. 860/2009), la p.a. può ricorrere anche al dispositivo di cui all'art. 2932 c.c. (vedi par. 3.3.). Casistica.La crescente tendenza dell'ordinamento verso un modello di «amministrazione di risultato» ha alimentato la cultura della consensualità nell'agire della pubblica amministrazione, spingendo, peraltro, il legislatore ad utilizzare, nelle discipline di settore, formule consensuali riconducibili ai paradigmi generali contenuti nell'art. 11, l. n. 241/1990. Prima dell'entrata in vigore della «legge sul procedimento», tuttavia, erano già presenti nell'ordinamento moduli consensuali disciplinanti il rapporto di natura consensuale intercorrente tra amministrazione pubblica e privati: il riferimento è, in particolare, agli accordi di cessione volontaria dei beni espropriandi, alle convenzioni accessive al provvedimento ed alle convenzioni urbanistiche. Nei paragrafi seguenti si esamineranno, senza alcuna pretesa di esaustività, alcune fattispecie di accordi disciplinati dalla normativa settoriale. Segue. Cessione volontaria in materia espropriativa. L'atto di cessione volontaria del bene espropriando è stato ascritto alnovero degli accordi sostitutivi (T.A.R. Campania, Salerno II, n. 418/2020; Cass.S.U., n. 2029/2008), trattandosi di un modello consensuale posto in essere nell'esercizio di una potestà pubblicistica (Cons. St. VI, n. 4735/2005). Infatti, l'art. 20, T.U. espr., d.P.R. 327/2001, definisce uno specifico procedimento finalizzato alla conclusione di un accordo avente ad oggetto la determinazione dell'indennità di espropriazione. In particolare, la norma stabilisce che, una volta ricevuta la notificazione della determinazione dell'indennità di esproprio, il proprietario del bene espropriando può condividerla irrevocabilmente e depositare la documentazione attestante la piena e libera proprietà del bene. In tal caso il beneficiario dell'esproprio ed il proprietario stipulano l'atto di cessione del bene, trasmesso per la trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari. Dal concordamento dell'indennità d'esproprio sorge per il proprietario l'obbligo di concludere l'accordo di cessione del bene. L'art. 45 del T.U. in materia espropriativa, inoltre, dispone che fin da quando è dichiarata la pubblica utilità dell'opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio, il proprietario ha il «diritto» di stipulare con il soggetto beneficiario dell'espropriazione l'atto di cessione del bene o della sua quota di proprietà. Nel senso che la cessione volontaria di beni immobili rientra nel genus dei cd. contratti ad oggetto pubblico Cons. St. II, n. 705/2020: «La cessione volontaria di beni immobili rientra nel più ampio genus dei cd. contratti ad oggetto pubblico, che si diversifica dai normali contratti di compravendita di diritto privato per una serie di imprescindibili elementi costitutivi, che vanno individuati nell'inserimento del negozio nell'ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell'acquisizione del bene da parte dell'espropriante, quale strumento alternativo all'ablazione d'autorità mediante decreto di esproprio; nella preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell'indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall'art. 12, l. n. 865/1971; nel prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell'indennità di espropriazione. Hanno chiarito i magistrati di piazza Capodiferro chiarito che la peculiarità di tale tipologia di accordo ha comportato oscillazioni giurisprudenziali rivenienti dall'accentuato valore solo civilistico degli stessi (Cass. S.U., 6 dicembre 2010, n. 24687), ovvero, al contrario, sull'enfatizzato rilievo attribuito al potere autoritativo comunque sotteso alla relativa stipula, con conseguente assegnazione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva anche per le controversie che attengono alla loro esecuzione (Cons. St. V, n. 4179/2013). Il Giudice delle leggi (Corte cost. n 204/2004 e Corte cost. 191/2006), ha chiarito che l'utilizzo dello strumento degli accordi presuppone l'esistenza in capo alla p.a. di un potere autoritativo: l'accordo sostituisce l'atto unilaterale, ma non può essere utilizzato se non in sostituzione di un provvedimento espressione di potere autoritativo. Traendo spunto dalle coordinate offerte dalla Consulta in sede di valutazione della costituzionalità dell'art. 53, d.P.R. n. 327 del 2001, si è dunque affermato che, attratta la cessione volontaria sotto il più duttile ombrello dell'accordo sostitutivo o integrativo di provvedimento, sia pure nei limiti della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a sostituire, le controversie relative alla sua esecuzione, diverse da quelle in tema di indennità, devono essere conosciute dal giudice amministrativo (Cons. St. VI. n. 4735/2005). L'inserimento della cessione nell'ambito di un accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento ex art. 11, l. n. 241/1990 non si palesa dunque neutra rispetto all'individuazione del giudice chiamato a decidere le relative controversie, con ciò dequotando l'accordo a vuoto simulacro formale. Gli accordi sostitutivi di provvedimento, disciplinati a livello generale nell'art. 11 della l. n. 241/1990, costituiscono la formale consacrazione della legittimazione negoziale delle pubbliche amministrazioni. Trattasi di un istituto che attinge egualmente alla natura di patto o convenzione, ma anche di fonte di situazioni giuridiche patrimoniali diverse dalle obbligazioni civilistiche, che non esaurisce, come ha evidenziato la dottrina più accorta, il previgente modello del contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione della molteplicità di funzioni cui può assolvere. Esso si connota per la sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra funzione economico sociale e cura dell'interesse pubblico e «sostituisce» il provvedimento anche in senso finalistico, consentendo cioè attraverso il modulo della negoziazione di ottenere un risultato più conveniente di quello ottenibile con il primo da parte dell'amministrazione. La previsione, all'interno della disciplina del procedimento amministrativo, di un istituto generale quale l'accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento, quest'ultimo originariamente circoscritto ai soli casi previsti dalla legge (v. la novella apportata con la l. n. 15/2005, che ha eliminato il relativo inciso dalla norma), ha definitivamente sancito la legittimazione negoziale delle pubbliche amministrazioni. L'istituto, tuttavia, in quanto nel contempo patto o convenzione, ma anche fonte di situazioni giuridiche patrimoniali diverse dalle obbligazioni civilistiche, non esaurisce, come ha evidenziato la dottrina più accorta, il previgente modello del contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione della molteplicità di funzioni cui può assolvere, pur connotandosi per la sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra funzione economico sociale e cura dell'interesse pubblico. L'accordo, dunque, «sostituisce» il provvedimento anche in senso finalistico, consentendo cioè attraverso il modulo della negoziazione di ottenere un risultato più conveniente di quello ottenibile con il primo da parte dell'amministrazione. Laddove, cioè, il responsabile del procedimento valuti che esso costituisce lo strumento più idoneo per la composizione degli interessi coinvolti nell'azione amministrativa, può addivenire alla stipula di un contratto cui l'ordinamento giuridico ricollega determinati effetti, ciascuno dei quali a sua volta conseguibile anche con provvedimenti. La significatività dell'istituto sta pertanto proprio nel suo mutuare aspetti necessariamente civilistici mischiandoli a contenuti tipicamente autoritativi, con ciò realizzando un'efficace sintesi – rectius, la miglior sintesi possibile, secondo la valutazione del soggetto pubblico agente- tra l'interesse pubblico sotteso all'intervento, complessivamente inteso, e il necessario incontro tra le volontà, quale metodologia per il suo perseguimento. Alla luce di ciò, tale atto è stato, dunque, configurato come un accordo stilato in sostituzione del decreto di esproprio. In tal senso si è espresso anche il T.A.R. Calabria-Reggio Calabria I, n. 688/2007, statuendo che «nell'ipotesi di cessione volontaria di immobili oggetto di una procedura espropriativa, l'accordo concluso tra le parti rientra nella categoria dei negozi di diritto pubblico (o ad oggetto pubblico), i quali sono soggetti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 11 della l. n. 241/1990. Infatti, la cessione volontaria del bene, nel procedimento espropriativo, in quanto sostitutiva del decreto di espropriazione, di cui produce i medesimi effetti, non perde la sua connotazione di atto autoritativo, implicando, più semplicemente la confluenza in un unico testo di provvedimento e negozio e senza che la presenza del secondo snaturi l'attività dell'amministrazione, dato che il fine pubblico può essere perseguito anche attraverso la diretta negoziazione del contenuto del provvedimento finale». La cessione volontaria degli immobili assoggettati ad espropriazione quale modo tipico di chiusura del relativo procedimento in forza di una relazione legale e predeterminata di alternatività, non di mera sostituzione, rispetto al decreto ablatorio, si caratterizza per una discrezionalità limitata all'an, laddove gli accordi ex art. 11 della l. n. 241/1990 si connotano per la sussistenza della stessa anche nel quomodo (Cons. St. II, n. 705/2020). Occorre precisare, tuttavia, che la definizione concordata dell'ammontare dell'indennità di espropriazionenon ha valenza sostitutiva degli atti conclusivi della procedura espropriativa, ritenendosi, al contrario, che essi possiedano «valenza meramente endoprocedimentale» e, dunque, integrativa, non essendo «idonei a trasferire la proprietà del bene dal proprietario all'espropriante» (Cass. S.U., n. 5624/2009; Cons. St. IV, n. 4022/2009) e necessitando, comunque, di un «negozio di cessione» (l'atto consensuale sostitutivo) o del decreto di espropriazione definitiva. Ed infatti, la conferma della valenza sostitutiva dell'accordo di cessione volontaria è chiaramente rilevabile sia dall'espresso disposto di cui all'art. 45, d.P.R. 327/2001, laddove è statuito che «l'accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio», sia da quanto stabilito all'art. 20, d.P.R. 327/2001, laddove è specificato che l'autorità espropriante, «in alternativa» alla cessione volontaria, può, comunque, «procedere alla emissione e all'esecuzione del decreto di esproprio» qualora il proprietario «si rifiuti di stipulare l'atto di cessione» (comma 9) o «anche su richiesta del promotore dell'espropriazione» (comma 11). Ciò non toglie che non è affatto impedito alla P.A., alla stregua della vigente normativa, di seguire la via di un accordo ai sensi dell'art. 11 l. n. 241/1990, che consenta di ottenere la disponibilità di un suolo elidendo in radice la stessa necessità di avviare la procedura di esproprio (Cons. St. IV, n. 3391/2016). Non va sottaciuto il contrario avviso espresso da un orientamento giurisprudenziale che, traendo origine da una pronuncia della Suprema Corte (Cass. S.U., n. 9845/2007), afferma che la normativa di cui all'art. 11, l. n. 241/1990, non può applicarsi alla normativa speciale sull'espropriazione per p.u., «il cui procedimento ha connotati tali, e soddisfa esigenze tali, da non tollerare commistioni con la disciplina generale della nuova legge sul procedimento. E risulta scandito con modi ed in tempi tali da non lasciare rilevanti margini alla discrezionalità degli atti del procedimento, espressamente prevista, invece, dalla l. n. 241/1990, art. 11, comma 1». Ciò in quanto la cessione volontaria degli immobili e la determinazione amichevole dell'indennità, in particolare, «non possono derogare in alcun modo dai prestabiliti parametri legali; e la funzione stessa della cessione è quella di rappresentare un modo tipico di chiusura del procedimento, secondo modalità ritenute necessarie dalla legge in virtù di una relazione legale e predeterminata di alternatività al decreto ablatorio: e per ciò non di semplice sostituzione che ne consenta l'inquadramento tra gli accordi sostitutivi previsti dalla l. n. 241/1990, art. 11, invece liberi nell'an e nel quomodo, a differenza degli accordi espropriativi, che sono liberi solo nell'an» (T.A.R. Puglia, Lecce I, n. 1953/2009). È necessario evidenziarsi, peraltro, come l'accordo in esame si differenzi dal contratto di compravendita del bene in quanto esso: a) è inserito nell'ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità del quale, dunque, la cessione costituisce un momento avente la funzione di realizzarne il risultato peculiare (acquisizione della proprietà dell'immobile all'espropriante) con uno strumento alternativo; b) la preesistenza, nell'ambito del procedimento, non solo della dichiarazione di pubblica utilità dell'opera realizzanda, ma anche del subprocedimento di determinazione dell'indennità da parte dell'espropriante, che deve essere da quest'ultimo offerta e dall'espropriando accettata con la sequenza e le modalità previste dalla legge; c) il prezzo per il trasferimento volontario dell'immobile, che deve correlarsi in modo vincolante ai parametri di legge stabiliti per la determinazione dell'indennità spettante per la sua espropriazione, dai quali non è possibile in alcun modo discostarsi (T.A.R. Calabria, Reggio Calabria I, n. 293/2008; Cass. I, n. 5390/2006). In ordine alla giurisdizione in materia di accordi di cessione volontaria dei beni espropriandi, l'art. 53, comma 1, T.U. espr., d.P.R. n. 327/2001, secondo cui sono devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a. le controversie aventi per oggetto anche gli accordi conseguenti all'applicazione delle disposizioni dello stesso T.U. espr., «ha inteso chiarire i dubbi sorti in precedenza circa l'applicabilità agli accordi stipulati nell'ambito delle procedure espropriative della disposizione di cui all'art. 11 della l. n. 241/1990» (T.A.R. Lombardia, Brescia, n. 903/2005). Segue. Accordi quadro in materia di contratti pubblici. L'art. 3, comma 1, lett. iii), d.lgs. 50/2016 (c.d. codice dei contratti pubblici), contiene la definizione di accordo quadro in materia di contratti pubblici: «l'accordo concluso tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici, il cui scopo è quello di stabilire le clausole relative agli appalti da aggiudicare durante un dato periodo, in particolare per quanto riguarda i prezzi e, se del caso, le quantità previste». La disciplina è invece contenuta nel successivo art. 54, d.lgs. n. 50/2016. Si tratterebbe, dunque, di un accordo integrativo di un successivo provvedimento, laddove la stazione appaltante corrisponda ad una pubblica amministrazione. La conclusione dell'accordo quadro è preceduta dall'osservanza delle procedure previste dal codice dei contratti. La durata dell'accordo non può superare i quattro anni per gli appalti nei settori ordinari e gli otto anni per gli appalti nei settori speciali, salvo in casi eccezionali, debitamente motivati in relazione, in particolare, all'oggetto dell'accordo quadro. Se da un lato, il ricorso ad accordi quadro può sortire l'effetto positivo di assicurare un risparmio della spesa pubblica, dall'altro, può costituire un presupposto per favorire intese collusive tra imprese a danno dell'amministrazione ovvero può spingere la stessa amministrazione ad abusarne. Di qui, la scelta del legislatore di statuire, al comma 10 dell'art. 59, il divieto per le stazioni appaltanti di utilizzare l'accordo quadro in modo abusivo o in modo da ostacolare, limitare o distorcere la concorrenza. Segue. Convenzione di lottizzazione. La convenzione di lottizzazione, la cui disciplina di base è contenuta nell'art. 28, l. 1150/1942, come modificato dalla l. n. 765/1967, rappresenta il più diffuso strumento di attuazione dei piani urbanistici comunali, tanto da essere considerata come l'archetipo delle diverse convenzioni urbanistiche. Secondo la dottrina e la giurisprudenza consolidata, la natura giuridica della convenzione è tipicamente riferibile agli accordi sostitutivi del provvedimento (CGA 11 gennaio n. 20/2021; T.A.R. Lombardia II, n. 974/2021). Più precisamente, la convenzione di lottizzazione si sostanzia in un accordo bilaterale, intercorrente fra i privati e l'ente pubblico, alternativo rispetto agli strumenti urbanistici attuativi, avente ad oggetto la definizione dell'assetto urbanistico di una parte del territorio comunale (T.A.R. Sicilia, Catania I, n. 2274/2010). Dalla sussunzione della convenzione di lottizzazione entro il genus degli accordi disciplinati dall'art. 11, l. n. 241/1990, deriva l'applicazione, per quanto non espressamente previsto dalla disciplina speciale, delle disposizioni di cui all'art. 11 citato. La stipulazione di una convenzione di lottizzazione costituisce l'esito di un complesso procedimento amministrativo le cui fasi fondamentali sono individuabili nella: a) proposizione dell'istanza a cura del privato interessato, corredata dal progetto e dallo schema di convenzione; b) approvazione del progetto e dello schema di convenzione da parte del Consiglio Comunale mediante apposito atto deliberativo; c) acquisizione del nulla osta dell'organo regionale, sentiti rispettivamente l'organo tecnico regionale e la competente Soprintendenza; d) sottoscrizione dell'atto convenzionale e successiva trascrizione nei registri immobiliari a cura del privato interessato; e) emissione del titolo abilitativo comunale (permesso di costruire). La convenzione deve prevedere: 1) la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria; 2) l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; 3) i termini non superiori ai dieci anni entro i quali deve essere ultimata l'esecuzione delle opere di cui sopra; 4) congrue garanzie finanziarie per l'adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione. «Le obbligazioni assunte con le convenzioni urbanistiche si configurano come di natura reale, in quanto legate ai beni che le presuppongono e fanno acquisire con la trascrizione della convenzione efficacia reale agli impegni assunti dal soggetto attuatore, che vengono in tal modo ad operare propter rem anche nei confronti e a favore dei successivi proprietari, senza necessitare di uno specifico atto di assunzione di tali obbligazioni verso il Comune. La realità delle obbligazioni comporta la loro natura ambulatoria ed il trasferimento della proprietà dei beni comporta l'automatica successione dell'acquirente nelle relative obbligazioni, ma anche dei diritti, assunti ed acquisiti nei confronti del Comune dal venditore, senza necessità di espresse «volturazioni» della convenzione. Non dovendo quindi il Comune accettare la cessione del contratto ex art. 1406 c.c. affinché le obbligazioni si trasferiscano all'acquirente e come pertanto l'amministrazione può pretendere l'adempimento della convenzione da parte degli acquirenti senza necessità di ulteriori atti, parimenti l'acquirente subentra nella posizione di diritto all'attuazione dell'intervento convenzionato» (Cons. St. IV, n. 1477/2009). Con riferimento al contenuto di una convenzione urbanistica, si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto; pertanto, l'esito dell'esegesi della formulazione letterale delle specifiche clausole dell'accordo, va comunque verificato alla luce, non solo dell'intero contesto contrattuale, ma anche della complessiva fattispecie procedimentale in cui si inserisce la convenzione in controversia, quale attuazione – secondo il modulo negoziale appunto – delle determinazioni urbanistiche proposte dal privato con il progetto di lottizzazione ed approvate dalle amministrazioni competenti (T.A.R. Campania II, n. 5167/2020). La riconducibilità della fattispecie al paradigma dell'art. 11, l. n. 241/1990, non può essere inficiata dalla circostanza che l'art. 13, l. n. 241/1990, esclude l'applicabilità delle disposizioni del Capo III della l. n. 241/1990 (tra cui anche l'art. 11) agli atti di programmazione e di pianificazione. Infatti, come innanzi specificato, le convenzioni di lottizzazione costituiscono strumenti di pianificazione di tipo attuativo dei piani urbanistici comunali e non atti di pianificazione generale, attraverso cui si attuano scelte compiute ed esauritesi ad un livello più alto di esercizio della discrezionalità. Rispetto a siffatti accordi, dunque, non sussistono le medesime esigenze pubblicistiche che rendono inimmaginabile una partecipazione dei privati all'attività amministrativa concordata (contra, T.A.R. Toscana, I, 3 marzo 2009, n. 383). Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con orientamento costante, ribadito anche di recente (Cass. S.U., n. 10186/2007) hanno tracciato una distinzione netta tra gli accordi sulla pianificazione dell'assetto urbanistico di un'area, ritenuti incompatibili con l'art. 13, l. n. 241/1990, e gli accordi che disciplinano gli interventi per l'attuazione di tale assetto, considerati, invece, ammissibili, come nel caso delle convenzioni di lottizzazione. Invero, la generale potestà pianificatoria dell'amministrazione non viene intaccata né eliminata dall'esistenza di una convenzione di lottizzazione siglata con i privati. Nel caso, però, si tratti di adottare una variante destinata a investire la stessa pianificazione attuativa, incidendo direttamente sulla disciplina convenzionale, è necessario il previo coinvolgimento dei firmatari, pur non necessitando l'unanimità dei consensi per apportare modifiche al contenuto della convenzione (Cons. St. IV, n. 3255/2008). A fronte dell'assimilazione delle convenzioni di lottizzazione agli accordi di cui all'art. 11, l. n. 241/1990, anche per le controversie ad esse relative sussiste la giurisdizione esclusiva del g.a. (Cass. S.U., n. 15288/2009; Cass.S.U., n. 9151/2009; Cons. St. IV, n. 781/2008). Peraltro, la giurisdizione del g.a. non si limita all'accertamento dell'inadempimento delle parti o all'esame delle rispettive istanze di adempimento ovvero di risoluzione ma si estende anche alla domanda di risarcimento dei danni (Cons. St. IV, n. 781/2008). Sui poteri del giudice amministrativo a fronte di una condotta oggettivamente ostativa alla realizzazione dell'assetto deciso nella convenzione urbanistica cfr. Cons. St. IV, n. 7072/2020: «In presenza di una condotta della società promittente alienante, proprietaria di un terreno promesso in vendita ad un Comune – a mezzo di convenzione urbanistica – a fronte del riconoscimento di diritti edificatori, oggettivamente ostativa alla realizzazione dell'assetto degli interessi scolpito, con effetti obbligatori, nella convenzione urbanistica stessa (ove, in particolare, si prevedeva che il prezzo del bene, già fissato nel quantum, sarebbe stato corrisposto dal Comune mediante scomputo del relativo ammontare dall'importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione per gli interventi edificatori contestualmente consentiti), il Giudice amministrativo adito dall'Ente ex art. 2932 c.c. ben può disporre, in difformità dalla lettera ma in conformità allo spirito, al senso ed alla finalità dell'accordo, lo scambio cosa – denaro, alla luce sia del risalente diritto del Comune di acquisire quanto ex adverso più volte formalmente promesso in cessione (dapprima nella convenzione, quindi con successivo comodato), sia del dovere di eseguire il negozio in buona fede (art. 1375 c.c.), disposizione espressiva di un principio fondamentale «in materia di obbligazioni e contratti» e, come tale, applicabile anche alle convenzioni lato sensu urbanistiche (e, in generale, agli accordi pubblico-privato)». In tema di individuazione, nella convenzione urbanistica, dei termini di adempimento delle obbligazioni derivanti dalle convenzioni urbanistiche e soggetti tenuti all'adempimento, cfr. Cons. St. IV, 7024/2020: «Anche nei casi in cui la convenzione urbanistica non disponga espressamente in ordine a tutti o a singoli termini di adempimento delle obbligazioni, tale termine non deve – sempre e necessariamente – coincidere con il termine finale di efficacia dello strumento urbanistico secondario, ben potendo dipendere dalla natura dell'opera di urbanizzazione e dal suo carattere di strumentalità con quanto venga edificato». Si intende affermare che – fermo il termine generale di adempimento delle obbligazioni del privato alla data di scadenza della convenzione – nel caso di opere di urbanizzazione strettamente connesse alla edificazione ed alla abitabilità di immobili a realizzarsi, occorre verificare – caso per caso – se il termine di adempimento dell'obbligazione di realizzazione di dette opere non debba coincidere con quello di realizzazione dei manufatti edilizi previsti dal piano (cfr. anche Cons. St. IV, n. 3127/2019). Allo stesso tempo, laddove (anche) a fronte di una edificazione non vi sia un contestuale ed altrettanto tempestivo e coerente adempimento delle altre obbligazioni, ben può il Comune sollecitare al privato (o comunque al soggetto che ha sottoscritto la convenzione) l'adempimento delle proprie obbligazioni. E ciò a maggior ragione laddove l'amministrazione abbia (in tutto o in parte) adempiuto alle proprie per il tramite del rilascio dei titoli autorizzatori edilizi. Occorre, infatti, ricordare che ciò che si definisce, sul piano negoziale della convenzione, in termini di obbligazioni dei contraenti e loro adempimento, costituisce anche, sul piano pubblicistico della pianificazione urbanistica, perseguimento dell'interesse pubblico all'ordinato assetto del territorio; interesse pubblico che non viene soddisfatto laddove, a fronte della realizzazione parziale di un piano attuativo per il tramite dell'edificazione di quanto consentito, non vi sia anche contestuale realizzazione delle opere di urbanizzazione previste. L'interesse pubblico alla corretta utilizzazione del territorio per il tramite della pianificazione urbanistica, anche secondaria, si cura e persegue per il tramite della completa e contestuale realizzazione di quanto previsto dal piano approvato; proprio per tale ragione il legislatore, fin dalla legge urbanistica/1942, ha sempre richiesto approvazione contestuale del piano e dello schema di convenzione. D'altra parte, diversamente opinando, l'amministrazione (a maggior ragione nei casi in cui abbia rilasciato i titoli edilizi), non potrebbe far altro che attendere (laddove non diversamente previsto) che scada il termine di efficacia del piano (e/o della convenzione) a suo tempo approvati, onde verificare l'intervenuto inadempimento delle obbligazioni, e in particolare di quelle connesse agli oneri di urbanizzazione, con la conseguenza di dover supporre – quasi come ipotesi ordinaria in presenza di patologie del rapporto – che opere di urbanizzazione caratterizzanti un determinato strumento urbanistico vengano verosimilmente realizzate oltre il termine di efficacia del medesimo. Né l'interesse pubblico può dirsi realizzato solo applicando eventuali sanzioni previste per l'inadempimento. Pertanto, per un verso, alla luce delle considerazioni innanzi esposte, ben può l'amministrazione sollecitare il privato all'adempimento delle proprie obbligazioni, anche prima della scadenza del termine di efficacia dello strumento urbanistico, a maggior ragione nei casi in cui, per la natura stessa della prestazione, appaia evidente ed inevitabile il superamento del termine di efficacia del piano. Tale conclusione coincide anche con quanto in generale previsto dagli artt. 1183-1185 c.c., poiché l'inadempimento contrattuale può concretarsi anche prima della scadenza prevista per l'adempimento, qualora il debitore – in violazione dell'obbligo di buona fede – tenga una condotta incompatibile con la volontà di adempiere alla scadenza (Cass. II, 23823/2012). Per altro verso – laddove si consideri che il termine finale per l'adempimento è proprio quello di efficacia del piano urbanistico – tale termine costituisce in ogni caso anche il dies a quo per l'azione di adempimento o di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, non potendosi ritenere,exart. 2935 c.c., che – in costanza di termine per adempiere – possa correre la prescrizione, non potendo l'amministrazione in tale lasso di tempo, esercitare i propri diritti (Cons. St. IV, n. 7008/2019,; Cons. St. IV, n. 3127/2019). Sempre Cons. St. IV, 7024/2020 rileva che all'adempimento delle obbligazioni derivanti dalle convenzioni urbanistiche sono tenuti non solo i soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che richiedono i titoli edilizi nell'ambito della lottizzazione, quelli che realizzano l'edificazione ed i loro aventi causa (Cass. civ., 28 giugno 2013 n. 16401; Cass. 15 maggio 2007, n. 11196; Cass. 27 agosto 2002, n. 12571). Segue. Convenzione per l'edilizia abitativa La convenzione di lottizzazione prevista dall'art. 28, l. n. 1150/1942, così come modificato dalla l. n 765/1967, va tenuta distinta dal modello convenzionale delineato agli artt. 17 e 18, d.P.R. 380/2001, T.U. in materia edilizia (già disciplinato dagli artt. 7 e 8 l. n. 10/1977, c.d. «Bucalossi»). Le predette disposizioni contemplano, infatti, una convenzione stipulabile tra il privato e l'amministrazione pubblica (il Comune) ai fini del rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di interventi di edilizia abitativa. In particolare, l'art. 17 del richiamato T.U. 380/2001 prevede che il contributo afferente al permesso di costruire possa essere ridotto alla sola quota degli oneri di urbanizzazione qualora il titolare del permesso si impegni, per mezzo di una convenzione con il comune, ad applicare prezzi di vendita e canoni di locazione determinati ai sensi dello schema convenzionale previsto dal successivo art. 18. Tale ultima norma dispone che il contenuto della convenzione conclusa tra il Comune ed il privato debba uniformarsi ad una convenzione-tipo preventivamente approvata dalla Regione, competendo allo stesso Comune, peraltro, l'individuazione della categoria di edifici cui appartiene la specifica costruzione oggetto del permesso di costruire. A siffatta convenzione è riconosciuto un carattere integrativo ed accessorio, qualificandosi come accordo sul contenuto discrezionale del permesso di costruire (Cass. S.U., n. 230/1999; Cass.S.U., n. 4016/1998). Essa deve obbligatoriamente contenere alcuni elementi: 1) la determinazione delle caratteristiche tipologiche e costruttive degli alloggi; 2) la determinazione dei prezzi di cessione degli alloggi, tenendo conto dei costi delle aree (secondo criteri e parametri definiti dalla Regione in misura tale che l'incidenza non superi il 20 per cento del costo di costruzione), del costo di costruzione, delle opere di urbanizzazione e delle spese generali, comprese quelle di progettazione e degli oneri di preammortamento e finanziamento; 3) la determinazione dei canoni di locazione degli alloggi, da stabilirsi in percentuale del valore desunto dai prezzi di cessione degli stessi; 4) la durata di validità della convenzione, non inferiore a 20 anni né superiore a 30. La trascrizione della convenzione presso la conservatoria dei registri immobiliari è a cura del Comune, sebbene le spese siano a carico del titolare del permesso di costruire. Il comma 4 dell'art. 18, inoltre, prevede che i prezzi di cessione degli alloggi ed i canoni di locazione siano suscettibili di variazione con frequenza non inferiore al biennio, nei limiti dell'adeguamento agli indici ufficiali ISTAT espressi dalle variazioni dei costi di costruzione intervenuti successivamente alla stipulazione della convenzione. Il disposto normativo testé illustrato implica la nullità di eventuali pattuizioni, intercorse tra il titolare del permesso di costruire ed il terzo, in deroga al tetto massimo dei prezzi fissati dalla convenzione, limitatamente alla parte eccedente. Come è evidente, a differenza della convenzione presente nell'ambito dei procedimenti relativi all'edilizia residenziale pubblica, tale modulo convenzionale non prevede procedimenti ablatori per l'acquisizione di aree destinate ad entrare nel patrimonio indisponibile del Comune o di proprietà dei soggetti realizzatori. Segue. Convenzione per l'edilizia economica e popolare. L'art. 35, l. n. 865/1971, nel sostituire il contenuto dell'art. 10 l. n. 167/1962, prevede un modello convenzionale stipulabile tra l'amministrazione pubblica (il Comune) e privati concessionari in diritto di superficie ovvero cessionari in diritto di proprietà di aree comprese nei piani per l'edilizia economica e popolare. La norma prevede espressamente che tali aree debbano essere previamente acquisite dal Comune, che non ne sia già proprietario, mediante il procedimento di espropriazione: gli atti ablativi possono anche intervenire in un momento successivo all'assegnazione (Cons. St. IV, n. 140/1992). Secondo l'esegesi pretoria, la convenzione in esame ha, comunque, «la sostanza e la forma di un accordo sostitutivo» (Cons. St. IV, n. 6358/2007) proprio a fronte della specifica previsione normativa del procedimento espropriativo che la p.a. dovrebbe necessariamente attivare per reperire gli spazi su cui attuare il programma di edilizia economica e popolare (Cass. S.U., n. 14031/2001; Cass.S.U., n. 8593/1998). In verità, nell'ambito della previsione normativa testé indicata, occorre correttamente distinguere due diverse fattispecie convenzionali: la prima è afferente alla regolazione della concessione in diritto di superficie delle zone comprese nei programmi di edilizia economica e popolare; la seconda è relativa alla disciplina della cessione in diritto di proprietà delle medesime tipologie di aree. Il tratto distintivo della prima fattispecie convenzionale è, in realtà, costituito da unafunzione prevalentemente integrativa del provvedimento di concessione e, secondo la giurisprudenza, ricondurrebbe lo schema in esame al paradigma della concessione-contratto (Cass. III, n. 10841/2001; Cass.S.U., n. 1055/2000; Cons. St. IV, n. 835/1999). Peraltro, il provvedimento di assegnazione delle aree è perfettamente integrabile mediante accordo (Cons. St., n. 1657/1999). Il contenuto della convenzione, da stipularsi per atto pubblico e da trascriversi presso la competente conservatoria dei registri immobiliari, è deliberato dal consiglio comunale, che, con il medesimo atto, determina la concessione del diritto di superficie. La convenzione deve prevedere: a) il corrispettivo della concessione e le modalità del relativo versamento; b) il corrispettivo delle opere di urbanizzazione da realizzare a cura del Comune, ovvero, qualora tali opere siano eseguite a cura e spese del concessionario, le relative garanzie finanziarie, gli elementi progettuali dei lavori da eseguire e le modalità del controllo sull'esecuzione nonché i criteri e le modalità per il loro trasferimento al Comune; c) le caratteristiche costruttive e tipologiche degli edifici da realizzare; d) i termini di inizio e di ultimazione degli edifici e delle opere di urbanizzazione; e) i criteri per la determinazione e la revisione periodica dei canoni di locazione, nonché per la determinazione del prezzo di cessione degli alloggi, ove questa sia consentita; f) le sanzioni a carico del concessionario per l'inosservanza degli obblighi stabiliti nella convenzione ed i casi di maggior gravità in cui tale inosservanza comporti la decadenza dalla concessione e la conseguente estinzione del diritto di superficie; g) i criteri per la determinazione del corrispettivo in caso di rinnovo della concessione, la cui durata non può essere superiore a quella prevista nell'atto originario. La seconda fattispecie innanzi richiamata è desumibile da quanto disposto al comma 11 dell'art. 35, che, infatti, stabilisce che, oltre che concesse in diritto di superficie, le aree destinate alla costruzione di immobili per l'edilizia economica e popolare possono essere cedute in proprietà a cooperative edilizie e loro consorzi ed ai singoli, con preferenza per i proprietari espropriati ai sensi della l. 865/1971, sempre che costoro possiedano i requisiti previsti dalle vigenti disposizioni per l'assegnazione di alloggi di edilizia agevolata. Proprio contestualmente alla cessione della proprietà dell'area, tra il Comune e il cessionario è stipulata la convenzione innanzi citata, nella forma dell'atto pubblico, con l'osservanza delle disposizioni di cui all'art. 8, l. n. 10/1977 (attualmente, art. 18, T.U. 380/2001), la quale, oltre a quanto fissato da tali prescrizioni, deve prevedere: a) gli elementi progettuali degli edifici da costruire e le modalità del controllo sulla loro costruzione; b) le caratteristiche costruttive e tipologiche degli edifici da costruire; c) i termini di inizio e di ultimazione degli edifici; d) i casi nei quali l'inosservanza degli obblighi previsti dalla convenzione comporta la risoluzione dell'atto di cessione. Com'è evidente, l'art. 35, comma 11, l. n. 865/1971, configura una prelazione a beneficio dei proprietari di aree incluse in un piano di zona per l'edilizia economica e popolare ai soli fini dell'assegnazione in proprietà (e non in superficie) dell'area e non in relazione ad un'area determinata (Cons. St. IV, n. 1545/2003). Peraltro, lo stesso art. 35, l. n. 865/1971, prevede che la prelazione per l'assegnazione delle aree espropriate a favore dei proprietari non presupponga la necessità, in ogni caso, di esperire una procedura concorsuale, essendo i criteri di preferenza tra più domande concorrenti fissati dallo stesso art. 35 (Cons. St. IV, n. 1656/2009). La giurisprudenza ha dichiarato, pertanto, illegittime le deliberazioni comunali concernenti l'assegnazione ad una cooperativa edilizia di un'area espropriata (o comunque da espropriare) giacché compresa nel piano da destinare all'edilizia economica e popolare, ove il proprietario, in violazione dell'implicito disposto dell'art. 35, comma 11, l. n. 865/1971, non sia stato posto in condizione di esercitare la propria situazione giuridica soggettiva di preferenza nell'assegnazione (che si concreta in un interesse legittimo), mediante la possibilità di partecipare al relativo procedimento, avendo il Comune omesso di fornirgli preventivamente – in occasione di tale specifico procedimento – la notizia della scelta fatta e dell'assegnazione prevista (Cons. St. IV, n. 6609/2007; Cons. St. IV, n. 5940/2001). In tema di giurisdizione, i cessionari delle aree assoggettate ad interventi di edilizia economica e popolare sono stati inquadrati nella posizione di concessionari di beni pubblici, soggetti ai poteri del Comune fino alla realizzazione della finalità pubblicistica cui la cessione stessa è diretta (T.A.R. Lazio, Roma II-bis, n. 4223/2009). Ciò provoca la conseguenza che le controversie relative agli atti mediante cui il Comune accerti violazioni della convenzione appartengono alla giurisdizione esclusiva del g.a., rientrando, invece, nella giurisdizione del g.o. le controversie sul rapporto obbligatorio insorgente tra l'ente locale e il successivo proprietario della singola unità immobiliare, che scaturisce dalla convenzione conclusa tra lo stesso Comune e la cooperativa cessionaria dell'area (Cons. St., n. 8059/2006). Lagiurisdizione esclusiva del g.a. discende dall'applicazione tanto dell'art. 11, l. n. 241/1990, che affida al plesso giurisdizionale amministrativo le controversie concernenti gli accordi integrativi e sostitutivi di provvedimenti, che dell'art. 34, d.lgs. 80/1998, che attribuisce al medesimo giudice le controversie in materia di edilizia residenziale pubblica, in quanto espressione dell'uso particolare del territorio che si traduce nell'attività di edificazione o nel suo diniego mediante provvedimenti espressivi di funzione pubblica o moduli convenzionali sostitutivi (Cass. S.U., n. 2063/2003; Cons. St. IV, n. 6358/2007). Questioni applicative.1) Quale natura giuridica è ascrivibile agli accordi ex art. 11, l. n. 241/1990? La natura ascrivibile agli accordi amministrativi costituisce, ormai da tempo, uno degli argomenti maggiormente controversi e dibattuti tanto dalla dottrina che dalla giurisprudenza. Lungi dal costituire un problema squisitamente dogmatico e concettuale, l'individuazione degli elementi di distinzione, pubblicistici o privatistici, degli accordi amministrativi condiziona ineluttabilmente l'identificazione della disciplina applicabile alle fattispecie in esame. 2) Segue: Gli accordi amministrativi hanno natura privatistica? Una prima tesi (Montedoro), muovendo dal presupposto che il diritto privato è diritto comune e, in quanto tale, applicabile a tutti i rapporti giuridici, configura gli accordi amministrativi come contratti di diritto comune che si differenziano dai contratti civilistici non per la natura giuridica quanto per l'oggetto pubblico. L'amministrazione, quindi, addiverrebbe alla conclusione dell'accordo mediante l'ordinario esercizio di autonomia negoziale privatistica, seppur con taluni profili di specialità, senza procedere alla spendita di un potere pubblico. I fautori della tesi in commento giungono a tale conclusione sulla scorta dell'esame di una serie di elementi: il dato terminologico utilizzato per definire l'istituto (il termine «accordo» utilizzato nel testo normativo è il medesimo che è utilizzato per qualificare la nozione di contratto – art. 1321 c.c. – ed individuarne i requisiti – art. 1325, comma 1, n. 1, c.c.); il generale richiamo ai «principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti», adoperato dal secondo comma dell'art. 11; la configurazione degli accordi amministrativi quali contratti di diritto comune in quanto fusione delle volontà dei contraenti pubblico e privato in un «autoregolamento unitario», non inficiato dalla natura eterogenea delle volontà medesime (V. Mengoli, 17). Secondo taluni autori, la tesi privatistica sarebbe poi avallata da due ulteriori indici interpretativi: il valore generale da attribuire al comma 1-bis dell'art. 1, l. n. 241/1990, in merito all'applicabilità delle «norme di diritto privato» a tutta l'attività della p.a. non connotata dall'esercizio di un potere autoritativo (comprendendo in essa, pertanto, gli accordi di cui all'art. 11); l'inserimento della determinazione preventiva dell'organo competente per l'adozione del provvedimento, di cui al comma 4-bis dell'art. 11, riecheggiante la procedura ad evidenza pubblica che prelude la stipulazione del contratto di diritto privato. Anche una parte della giurisprudenza delle magistrature superiori ha,soprattutto in periodo risalente, optato per la tesi privatistica: essa, partendo da un orientamento teso ad inquadrare gli accordi di cui all'art. 11, l. n. 241/1990, quali «strumenti paritetici di tipo negoziale » (Cass. S.U., n. 4572/1992; Cass.S.U., n. 7773/1992) e riconoscendo equivalente l'attività amministrativa di diritto pubblico e di diritto privato (Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., n. 35/1997), stante la considerazione di quest'ultimo quale «neutro strumento organizzatorio» (Cons. St. VI, n. 2636/2002), ha ritenuto che con gli accordi amministrativi venissero integrate vere e proprie fattispecie contrattuali (Cons. St. V, n. 1447/2006), assimilabili ai contratti civilistici, improntando tale conclusione sulla costruzione della figura del «contratto ad oggetto pubblico» (Cons. St. V, n. 1327/2000). 3) Segue: Quali sono le conseguenze applicative e disciplinatorie della natura privatistica degli accordi amministrativi? Dall'affermazione della natura privatistica degli accordi amministrativi consegue l'assoggettamento di siffatte fattispecie al regime dettato dal codice civile in materia di obbligazioni e contratti. Ne deriva che la p.a., parimenti a qualsiasi contraente privato, può far valer un'illegittimità dell'accordo di matrice civilistica innanzi all'autorità giudiziaria competente ex art. 11, comma 5, l. n. 241/1990. Resta salva, peraltro, la possibilità di pervenire al medesimo risultato annullando la determinazione preventiva alla stipulazione del modulo consensuale, con la conseguente caducazione dell'accordo, in ossequio al principio dell'invalidità derivata. In riferimento alla patologia degli accordi, deve specificarsi, peraltro, che, coerentemente alla tesi relativa alla natura privatistica degli stessi, sono da ritenersi applicabili, in luogo di quelle pubblicistiche di cui agli artt. 21-septies e 21-octies, le regole civilistiche in tema di nullità, annullamento, rescissione. Inoltre, la violazione degli obblighi contenuti nell'accordo, implica l'azionabilità dei rimedi giudiziali di esatto adempimento e di risoluzione per inadempimento (T.A.R. Lombardia, II, 19 aprile 2021, n. 974; T.A.R. Toscana, I, 26 febbraio 2020, n. 257; Cons. St. IV, 4 maggio 2010, n. 2568; Cons. St. IV, 16 gennaio 2008, n. 74. Sull'exceptio inadimpleti contractus, ex art. 1460 c.c. vedi T.A.R. Toscana, III, 7 aprile 2006, n. 1146). In particolare, il rimedio dell'esatto adempimento sembra perorabile anche in caso di mancato adempimento di obblighi relativi ad attività pubblicistiche, posto che l'ostacolo della non ammissibilità di sentenze di condanna ad un facere specifico non sembra opponibile ove l'attività sia vincolata in base ad obblighi nascenti da atti di autonomia negoziale privatistica. La cogenza del contratto, infatti, determina che, laddove la p.a. non eserciti il diritto di recesso, posta su un piano di equiordinazione con il privato, non può rivedere o caducare unilateralmente l'accordo, dovendo a tal fine dedursi il vizio che ne comporti la nullità o l'annullabilità innanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva (T.A.R. Lazio, Roma II-ter, n. 1654/2006; T.A.R. Lombardia, Milano III, n. 3067/2006). L'adesione alla tesi privatistica consente di ritenere applicabile, da parte del privato, il rimedio dell'esecuzione in forma specifica di cui all'art. 2932 c.c., laddove la p.a. violi l'obbligo di emanare l'accordo o il provvedimento. Ciò sebbene non possa non rilevarsi che anche parte della giurisprudenza propendente per la natura pubblicistica degli accordi considera ammissibile siffatto strumento di tutela, richiamandosi all'applicazione dei principi generali n materia di obbligazioni e contratti (T.A.R. Campania II, n. 5167/2020; T.A.R. Lombardia, Brescia II, n. 860/2009). La tesi sulla qualificazione privatistica degli accordi amministrativi, infine, fornisce una chiave di lettura negoziale anche della clausola di salvaguardia dei diritti dei terzi prevista dall'art. 11. La formula, che richiama le clausole inserite nei provvedimenti edilizi (i permessi di costruire), va letta nel senso che tali accordi non possono essere direttamente lesivi della sfera dei terzi, in ossequio al principio di relatività dei contratti ai sensi dell'art. 1372 c.c. La violazione dell'art. 11, quindi, al pari della violazione dell'art. 1372 c.c., non pone un problema di invalidità ma di mera inefficacia dell'accordo inter alios, ove si tratti di accordo sostitutivo. In caso di accordo integrativo, invece, viene in rilievo la nullità, per difetto di attribuzione, ex art. 21-septies, l. n. 241/1990, del provvedimento che recepisca l'accordo inefficace. Per i sostenitori della tesi in commento, inoltre, il richiamo ai principi civilistici implica l'applicabilità delle disposizioni codicistiche in materia di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta e di reductio ad aequitatem, exartt. 1467 e 1468 c.c. (Mengoli, 193) nonché della disciplina relativa alla nullità virtuale, di cui all'art. 1418 ss. c.c., speculare alla violazione di legge, che tuttavia soccombe rispetto alla prima (Cons. St. V, n. 6281/2002). Parte della dottrina aderente alla tesi sulla natura privatistica degli accordi, inoltre, esclude l'applicabilità della disciplina in materia di annullabilità per errore della p.a., argomentando tale orientamento sulla base della necessità di comprimere il potere di indagine del g.a. sull'errore invocato dalla stessa p.a. e sulla connessa facoltà del privato di contestarne la non riconoscibilità, ciò attenendo alla discrezionalità amministrativa relativa a valutazioni di funzionalizzazione pubblica. Pur tuttavia, l'indirizzo esegetico privatistico, ritiene che la disciplina sull'annullabilità dell'accordo per errore sia applicabile, al pari degli altri vizi del consenso (violenza e dolo), quale difetto nel procedimento di formazione della volontà della p.a., nel caso di assenza, inesistenza o invalidità della determinazione preventiva alla stipulazione dell'accordo, prevista al comma 4-bis dell'art. 11. 4) Gli accordi amministrativi hanno natura pubblicistica? L'opposta tesi, invece, attribuisce agli accordi amministrativi una natura pubblicistica (Sticchi Damiani, 62-73; Fracchia; Scoca in Aa.Vv., 37; Cangelli, 57; D'Angiolillo, 97; in giurisprudenza cfr., ex multis, Cons. St. V, n. 5710/2000), essendo imperniata sull'assunto in base a cui lo schema di siffatti accordi si fonda sui princìpi della esplicabilità del potere amministrativo mediante atti consensuali, della vincolatività dell'accordo, della prevalenza della parte pubblica (rectius, l'amministrazione) e della recedibilità della p.a. in caso di sopravvenuti motivi di pubblico interesse. Tale impostazione sarebbe corroborata dalla stessa disciplina dettata dall'art. 11: l'affermazione della «sostituibilità» del provvedimento finale con l'accordo, non può che implicare la natura equivalente tra i due atti; peraltro, a tale conclusione deve giungersi anche in riferimento agli accordi integrativi, i quali, tendendo a determinare il contenuto dell'emanando provvedimento, non possono che partecipare della sua stessa natura, posto che l'autonomia negoziale privatistica non può veicolare ed incidere sull'esercizio successivo del potere pubblico. Non sembra, infatti, che gli accordi amministrativi, conclusi sul presupposto dell'esistenza del provvedimento che integrano o sostituiscono, possano essere rispondenti ad un principio di atipicità, che, diversamente, è una qualità distintiva dell'autonomia negoziale privatistica, ex art. 1322, comma 2, c.c. La negazione della natura contrattuale della figura in esame, a fronte di un affermato carattere pubblicistico, è stata, inoltre, sostenuta sulla base di una serie di indicatori: l'uso del termine «accordo» nella «legge sul procedimento» anziché del termine conosciuto di «contratto di diritto pubblico»; la ritenuta necessità di una disposizione specifica per l'applicabilità della normativa privatistica; la limitazione dell'applicazione della disciplina contrattuale ai soli princìpi e solo «in quanto compatibili» e «ove non diversamente previsto»; il carattere neutro del richiamo al codice civile in materia di contratti; la diversa strutturazione del carattere della patrimonialità delle prestazioni dedotte; l'assenza della parità tra i contraenti; la forma scritta ad substantiam per l'accordo (laddove in ambito negoziale vige il principio della libertà di forma). Tale ricostruzione pubblicistica è stata integrata con ulteriori indici disvelatori: il riferimento al «perseguimento del pubblico interesse» e al «contenuto discrezionale del provvedimento» (comma 1 dell'art. 11); l'assoggettamento dell'accordo sostitutivo agli stessi controlli ai quali sarebbe sottoposto il provvedimento di cui esso stesso tiene luogo (comma 3 dell'art. 11); la disciplina del recesso di cui al comma 4 dell'art. 11, molto più simile a quella dettata per la revoca dei provvedimenti, ex art. 21-quinquies e 21-sexies, in palese contraddizione del principio civilistico pacta sunt servanda, ex art. 1372 c.c.; l'ancoraggio della determinazione preventiva ai princìpi costituzionali di imparzialità e di buon andamento (comma 4-bis dell'art. 11), riferibili più all'attività amministrativa di diritto pubblico che a quella privatistica; la previsione della giurisdizione esclusiva del G.A. in materia di accordi, con la necessaria conoscibilità da parte di tale giudice di attività che implicano l'esercizio di un pubblico potere. La più recente elaborazione pretoria, disconoscendo recisamente una parità alle parti dell'accordo e, consequenzialmente, una equiparazione dell'accordo al contratto, rimarca il carattere di autorità e, dunque, la prevalenza assoluta del potere pubblicistico funzionalizzato della p.a. (T.A.R. Veneto, II, 26 novembre 2020, n. 1136; T.A.R. Umbria, I, 15 gennaio 2020, n. 27; Cons. St. IV, 12 luglio 2018, n. 421; Cass.S.U., 1 luglio 2009, n. 15288; Cons. St. IV, 31 marzo 2009, n. 1898; Cons. St. V, 26 novembre 2008, n. 5845; Cons. St. V, 8 ottobre 2008, n. 4952; T.A.R. Puglia, Bari II, 17 febbraio 2005, n. 592). Aspetto, quest'ultimo, che risulta ben colto dalle sentenze Corte cost. n. 204/2004 e Corte cost. n. 191/2006, nelle quali si riconosce testualmente che, facendo ricorso agli accordi, «la pubblica amministrazione agisce come autorità» e non come privato e che la facoltà di stipulare accordi, ex articolo 11, «presuppone l'esistenza del potere autoritativo», con ciò chiaramente intendendo per potere autoritativo qualunque espressione di potere discrezionale amministrativo. Vi è, infine, chi sostiene una tesi ibrida, invero minoritaria, che considera gli accordi amministrativi come appartenenti a un tertium genus posto al confine tra il contratto e il provvedimento, alla stregua di «provvedimenti concordati», attraverso l'estrinsecazione consensuale del potere amministrativo, rispetto ai quali la disciplina privatistica è di rilevanza secondaria. 5) Quali sono le conseguenze applicative e disciplinatorie della natura pubblicistica degli accordi amministrativi? L'accoglimento della tesi pubblicistica determina differenti conseguenze in merito alla disciplina applicabile agli accordi amministrativi. Il potere di recesso unilaterale riconosciuto esclusivamente alla p.a., ai sensi dell'art. 11, comma 4, è considerato alla stregua di una forma tipica di revoca pubblicistica, non potendosi escludere che l'amministrazione possa incidere sull'accordo avvalendosi degli altri strumenti previsti dal nostro ordinamento. La patologia degli accordi, inoltre, è disciplinata dal regime pubblicistico di cui agli artt. 21-septies e 21-octies della «legge sul procedimento», con la conseguenza che la violazione di norme imperative non produce la nullità dell'atto ma la mera annullabilità per violazione di legge (cfr. sub. artt. 21-septies e 21-octies. Sul tema vedi Cass. S.U., n. 21928/2008). A tale affermazione potrebbe obiettarsi affermando che la matrice consensuale dell'accordo e la previsione «esclusiva» del recesso impedirebbero l'annullamento ex art. 21-nonies, lasciando spazio soltanto al mutuo dissenso, in coerenza con il principio del contrarius actus, restando, in ogni caso, ferma la ricorribilità all'autorità giudiziaria (Cons. St. VI, n. 1023/2006; contra Cass.S.U., n. 5179/2004). Secondo la tesi in commento, appare, tuttavia, preferibile ritenere, in ossequio alla funzionalizzazione pubblicistica dell'accordo, che la p.a., anche in seguito alla stipulazione del modulo consensuale, resti titolare di un potere pubblicistico a fronte del quale il privato rimarrebbe in una posizione di interesse legittimo. In particolare, in caso di esercizio di un potere autoritativo in senso opposto, si verificherebbe un affievolimento del diritto soggettivo del privato al rispetto dell'impegno assunto attraverso il modulo consensuale, in ossequio all'insegnamento classico in tema di possibilità di affievolimento dei diritti soggettivi conferiti al privato per effetto di provvedimenti amministrativi unilaterali. In sostanza, pur disponendo del potere di recedere, la p.a. potrebbe esercitare anche il generale potere di autotutela mediante l'annullamento della determinazione preventiva alla stipulazione dell'accordo, sempre che ne giudichi l'illegittimità senza procedere alla necessaria impugnazione dell'accordo innanzi al g.a. (Cass. S.U., n. 21928/2008). La mancata adozione di un provvedimento amministrativo, avente il contenuto predeterminato mediante un precedente accordo integrativo, non è coercibile attraverso la proposizione di un'azione di esatto adempimento: diversamente, il privato può ricorrere al g.a. per l'azione di annullamento del provvedimento difforme per eccesso di potere. A giudizio dei fautori della qualificazione pubblicistica dell'accordo, va, inoltre, categoricamente escluso che il privato possa adottare lo strumento di cui all'art. 2932 c.c. al fine di ottenere l'esecuzione in forma specifica dell'accordo stesso, atteso che tale rimedio è incompatibile con un facere pubblicistico a fronte del quale il privato può vantare un mero interesse legittimo. L'art. 2932 c.c., invero, può essere applicabile alla sequenza contratto preliminare-contratto definitivo e non già alla progressione, ontologicamente differente, tra accordo integrativo e prevedimento definitivo, tanto più che la coazione in forma specifica all'emanazione del provvedimento implicherebbe, di fatto, l'equiparazione tra accordo integrativo e sostitutivo. Pertanto, l'unico rimedio utilizzabile in tali evenienze è costituito dal ricorso avverso il silenzio ai sensi degli artt. 2, l. n. 241/1990, e art. 31 c.p.a. L'inosservanza dell'obbligo di non arrecare pregiudizio ai diritti dei terzi, statuita al comma 1 dell'art. 11, costituisce una violazione di legge avverso la quale il privato può reagire mediante l'impugnazione del provvedimento entro l'ordinario termine decadenziale, ovvero, con la declaratoria di nullità dell'accordo per difetto assoluto di attribuzione, qualora si ritenga che il divieto in questione costituisca un presupposto di esistenza del potere. In relazione all'individuazione delle disposizioni civilistiche utilizzabili per la disciplina delle fattispecie consensuali in esame, ai sensi di quanto stabilito al comma 2 dell'art. 11, deve escludersi, per le ragioni sin qui evidenziate, l'applicabilità delle norme sulla patologia, in materia di autotutela privatistica e di inadempimento, inconciliabili con l'esercizio del potere pubblicistico da parte della p.a. Sulla scorta di tale considerazione, invece, sono da ritenersi applicabili le norme civilistiche estranee al profilo del potere, relative alla formazione, alla regolazione ed all'interpretazione della volontà consensuale. Trovano, pertanto, applicazione gli artt. 1326 e ss. c.c., in materia di proposta, gli artt. 1327 e 1333 c.c., la disciplina in tema di interpretazione del contratto, le norme civilistiche concernenti gli elementi accidentali, quelle relative alla correttezza nell'esecuzione e le relative conseguenze sul piano risarcitorio, in relazione alla buona fede ed alla diligenza nell'adempimento delle obbligazioni, ex artt. 1175 e 1776, anche ai fini dell'affermazione della responsabilità precontrattuale, ex art. 1336 c.c. Sono, inoltre, applicabili l'art. 1223 e ss. c.c., sulla quantificazione del danno da inadempimento, l'art. 1460 e l'art. 1461 c.c., in merito alla risoluzione per inadempimento e di autotutela privata. La giurisprudenza (Cons. St. VI, n. 3490/2004) ha, inoltre, considerato applicabile ad un accordo amministrativo l'art. 1384 c.c. in materia di riduzione di una penale eccessiva, in quanto la sproporzione della penale non determina l'illegittimità dell'accordo ma l'inesigibilità della pattuizione medesima sul piano esecutivo. L'elaborazione pretoria, infine, è giunta ad analoghe conclusioni in materia di clausole vessatorie, ex art. 1341 c.c. (T.A.R. Puglia, Bari I, n. 2790/2003). La qualificazione privatistica ovvero pubblicistica degli accordi amministrativi determina conclusioni di diverso tenore anche a proposito della tutela giurisdizionale. Nel sistema pubblicistico, invero, è previsto un controllo giurisdizionale di minore intensità: infatti, una volta riconosciuto che la p.a. resta titolare di un potere discrezionale in ordine alle sorti dell'accordo, il sindacato del g.a. è limitato, secondo gli schemi della giurisdizione classica afferente al controllo di legittimità, alla verifica estrinseca del ragionevole esercizio del potere predetto. Di qui, pertanto, l'insindacabilità delle valutazioni discrezionali che, impingendo nel merito delle scelte amministrative, restano riservate alla p.a. e, ove ragionevoli, insuscettibili di censura. Per converso, la tesi di conio privatistico riconosce una più intensa tutela al privato, in quanto esclude la permanenza di un potere discrezionale in capo alla p.a. dal momento in cui essa ha assunto gli impegni di origine consensuale. Sul piano della tutela risarcitoria, le distanze tra le due tesi, tuttavia, hanno trovato un avvicinamento in virtù dell'avvenuto superamento del «tabù» relativo all'irrisarcibilità dell'interesse legittimo (Cass. S.U. , n. 500/1999 e art. 30, c.p.a.). In passato, secondo la ricostruzione pubblicistica, non era riconoscibile alcuna tutela risarcitoria qualora si statuisse l'illegittimità del provvedimento per mancato rispetto dell'accordo (o ancora per silenzio nell'attuazione dell'accordo o, infine, per rottura delle trattative in una sfera pubblicistica). Attualmente, invece, la tutela risarcitoria è accordabile anche a fronte della lesione dell'interesse legittimo per effetto di un provvedimento emesso illegittimamente giacché violativo dell'accordo (ovvero da un'inerzia nella relativa attuazione). Del pari, l'ammissione, ai sensi della l. n. 15/2005 e della l.n. 80/2005, di un sindacato sulla fondatezza della pretesa sostanziale in caso di atti vincolati (per il cui approfondito esame v. subart. 2, l. n. 241/1990) pare preludere l'esperibilità di un'azione di esatto adempimento anche a salvaguardia degli interessi legittimi. Di conseguenza, laddove si acconsenta a qualificare quali «atti vincolati» anche quelli mediante cui la p.a. abbia assunto impegni in via consensuale, sembra assumere maggiore consistenza la riconoscibilità al privato della titolarità di un'azione di esatto adempimento, al fine di ottenere dal giudice una pronuncia che obblighi l'amministrazione, rimasta inerte ovvero responsabile per aver emesso un atto infedele rispetto al contenuto dell'accordo, ad adottare il provvedimento pattuito. Per le medesime motivazioni, qualora l'atto adottato non sia formalmente o procedimentalmente corretto, ma fedele risultato di un vincolo assunto consensualmente, va escluso l'annullamento ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241/1990. 6) Quali conseguenze sull'accordo implica l'omissione, ovvero l'illegittimità della determinazione preventiva di cui al comma 4-bis dell'art. 11? L'assenza, l'inesistenza o l'invalidità della determinazione preventiva alla stipulazione dell'accordo si riverberano sulla validità dell'accordo, sebbene l'esatta identificazione del difetto invalidante differisce in rapporto alla qualificazione giuridica ascrivibile al modulo consensuale. Invero, i teorici della natura privatistica della fattispecie in esame ritengono che il vizio in questione debba essere ricostruito alla stregua delle categorie civilistiche: vengono in evidenza, dunque, i medesimi stati patologici che sono attribuibili al contratto. Più specificamente, potrebbe configurarsi il vizio di nullità per contrarietà a norme imperative di cui all'art. 1418 c.c., e di annullabilità per difetto nel procedimento di formazione della volontà della p.a., ai sensi di quanto statuiscono l'art. 1425 c.c., in materia di incapacità delle parti, ovvero l'art. 1427 c.c., in caso di presenza di vizi nel consenso, ossia errore, violenza o dolo. L'approvazione della tesi che attribuisce un'essenza pubblicistica all'accordo, invece, implica il riconoscimento della nullità dello stesso, ex art. 21-septies, l. n. 241/1990, laddove si consideri la determinazione preventiva quale elemento essenziale, ovvero l'annullabilità per violazione di legge, ex art. 21-octies, l. n. 241/1990. La giurisprudenza, tuttavia, pur affermando che gli accordi sostitutivi «per la loro natura, non possono essere equiparati tout court ai contratti», ha tenuto a specificare che il regime delle invalidità degli accordi deve essere ricostruito «sulla base della gradualità delle sanzioni propria delle previsioni contenute negli articoli da 1418 a 1446 del codice civile», motivando tale assunto sulla base dell'applicazione, in quanto compatibile, dei principi della disciplina codicistica. Vale, cioé, per gli accordi «una regolamentazione non difforme da quella contenuta nel codice civile relativamente ai contratti così che, in subiecta materia, deve ritenersi sussistente un pieno parallelismo con le fattispecie di nullità ed annullabilità e delle diverse cause che presiedono la loro sussistenza» (Cons. St., n. 5845/2008). La ricostruzione della natura giuridica dell'accordo influisce anche sul riconoscimento degli effetti conseguenti alla mancata impugnazione del provvedimento preliminare viziato, poi trasfuso nel modulo consensuale, entro i termini decadenziali. Gli assertori della tesi privatistica osservano, al riguardo, che la tutela della parte interessata possa essere assicurata soltanto qualora il vizio di legittimità, di cui è ritenuta colpita la determinazione, sia suscettibile di convertirsi in un'autonoma ipotesi di nullità dell'accordo. L'orientamento privatistico, tuttavia, è oggetto di serrata critica da parte dei sostenitori della teoria pubblicistica, i quali affermano il principio afferente al rapido consolidamento delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, protetto da inoppugnabilità. Per l'effetto, secondo tale indirizzo deve negarsi l'ammissibilità di un'autonoma azione impugnatoria dell'accordo per i vizi, propri della determinazione preventiva, passibili di conversione in autonome cause di invalidità dell'accordo stesso. La parte interessata, pertanto, deve agire entro il termine di decadenza, non potendosi avvalere del termine più lungo previsto per la proposizione della domanda di annullamento o, nel caso di nullità, di un'azione di accertamento imprescrittibile. 7) Quale natura giuridica è ascrivibile all'indennizzo in caso di recesso della p.a. dall'accordo e secondo quali modalità esso va quantificato? L'esatta individuazione della natura dell'indennizzo riconoscibile al privato in caso di recesso unilaterale dall'accordo da parte della p.a. ha generato ulteriori perplessità. Secondo una prima tesi (Mastrocola, in Franchini, Lucca, Tessaro, 751), la fattispecie formatasi con il recesso, ex art. 11, comma 4, l. n. 241/1990, concreterebbe un'ipotesi tipica di responsabilità da atto lecito. I sostenitori di tale tesi concentrano l'analisi esegetica sulla scelta legislativa di ricorrere all'istituto dell'indennizzo, da intendersi quale «serio ristoro» ma non già quale corrispettivo per la perdita subita e per il mancato guadagno. Non potrebbe farsi riferimento, invece, al diverso istituto del risarcimento, idoneo a soddisfare integralmente il privato per il pregiudizio subìto in seguito ad un danno ingiusto. L'opposto orientamento (Corso, Teresi, in Franchini, Lucca, Tessaro, 752) ritiene che l'indennizzo abbia una funzione di ristoro patrimoniale in ragione del richiamo generale ai principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti, operato al comma 2 dell'art. 11. Per dovere di completezza va anche rilevata l'esistenza di un'ulteriore tesi, di fatto recessiva, a mente della quale l'indennizzo presidierebbe una responsabilità precontrattuale oggettiva, con funzione di bilanciamento e di allocazione degli oneri conseguenti all'esercizio del potere di recesso. L'adesione ad una delle due impostazioni teoriche testé illustrate non è priva di notevoli conseguenze applicative, incidendo sulla determinazione della somma da corrispondersi al privato. L'associarsi alla prima tesi, invero, comporta l'esclusione del lucro cessante dal calcolo dell'emolumento in questione, dovendo, invece, la p.a. tenere indenne il privato esclusivamente dal danno emergente subìto in seguito alla caducazione dell'accordo. La condivisione del contrario avviso, espresso dai sostenitori del secondo orientamento, invece, determina l'inclusione del lucro cessante nella liquidazione indennitaria, commisurando tale mancato guadagno in rapporto alle aspettative del privato rimaste inevase, in ragione della natura sostanzialmente risarcitoria dell'indennizzo. 8) Quale rapporto intercorre tra l'art. 1, comma 1-bis, e l'art. 11 l. n. 241/1990? Come già rilevato, la novella apportata con la l. n. 15/2005 ha integrato l'art. 1 della «legge sul procedimento» con il comma 1-bis, disponendo che «la pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente». La parte della dottrina che riconosce una natura privatistica agli accordi amministrativi ha salutato tale innovazione come l'espresso riconoscimento, da parte del legislatore, della qualificazione giuridica di tipo negoziale-privatistico dei moduli in commento, rapportando il contenuto di tale più recente disposizione al preesistente paradigma consensuale contemplato dall'art. 11, l. n. 241/1990. Al riguardo, tuttavia, occorre svolgere alcune considerazioni. Innanzitutto, va evidenziato che la disposizione di cui al comma 1 -bis è, come puntualizzato, parte dell'art. 1, l. n. 241/1990, dedicato ai princìpi generali dell'attività amministrativa, e che, come anche considerato dalla Corte cost. n. 204/2004 (in ciò confermata dalla sent. Corte cost. n. 191/2006), l'azione della p.a. può essere esercitata sia mediante atti unilaterali, espressione più tipica di autoritatività (rectius provvedimenti), sia mediante atti consensuali (rectius accordi), essendo, comunque, entrambi afferenti all'esercizio di una funzione amministrativa da parte dell'amministrazione. Dunque, proprio nelle statuizioni sopra richiamate, è stato chiaramente riconosciuto che, avvalendosi degli accordi, «la pubblica amministrazione agisce come autorità» e non come privato e che la facoltà di stipulare accordi, ex art. 11, presuppone l'esistenza del potere autoritativo, volto alla concretizzazione del pubblico interesse. L' agere dell'amministrazione mediante modelli meramente privatistici rimane, dunque, circoscritta a tutti i casi di assoluta carenza del potere autoritativo, pur nella costante propensione al soddisfacimento dell'interesse pubblico. Infatti, come anche la giurisprudenza ha tenuto a precisare, «dal combinato disposto dei commi 1 e 1-bis dell'articolo 1 l. n. 241/1990 si desume che anche l'attività amministrativa di diritto privato è funzionalizzata al pubblico interesse, con la conseguenza che l'utilizzo di strumenti privati da parte della pubblica amministrazione risulta subordinato allo specifico interesse pubblico che la stessa deve perseguire» (T.A.R. Veneto, II, 26 febbraio 2007, n. 515). Lo stesso Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria aveva già stigmatizzato che ogni attività dell'amministrazione, anche quando le leggi amministrative consentono l'utilizzo di istituti del diritto privato, è vincolata all'interesse pubblico, in quanto deve tendere alla sua cura concreta, mediante atti e comportamenti in ogni caso finalizzati al perseguimento dell'interesse generale (Cons. St., Ad. plen., n. 4/1999). Dal suo canto, la dottrina ha fatto risaltare come il potere esercitato dall'amministrazione, funzionalizzato alla realizzazione del pubblico interesse, non possa avere un puro connotato privatistico e, pertanto, non possa qualificarsi come manifestazione di autonomia negoziale privatistica. L'autonomia negoziale privatistica, invero, è ritenuta esplicabile soltanto qualora manchi l'esercizio di una potestà «discrezionalmente orientata» al compimento del pubblico interesse: esclusivamente in tal caso la p.a. può agire secondo il diritto privato, atteso che le situazioni intercorrenti tra l'agire libero secondo il diritto comune ed il perseguimento vincolato di un fine pubblico sono reciprocamente incompatibili (D'Angiolillo, 78). Alla luce di quanto evidenziato, la riforma propugnata con il comma 1- bis dell'art. 1 della «legge sul procedimento amministrativo», si sostanzia, in realtà, nell'utilizzabilità degli schemi offerti dal diritto privato in mancanza di esercizio di un potere autoritativo. Non può rimarcarsi, ancora, che, nella visione del legislatore, la p.a. può scegliere di adottare gli strumenti privatistici, in carenza di un disposto legislativo contrario e sempre che non si ponga un problema di equiordinazione tra la tutela pubblicistica e quella assicurata dalle regole ordinarie del diritto privato. La possibilità di agire secondo le norme del diritto privato è, dunque, espressamente subordinata dal comma 1-bis dell'art. 1 alla condizione che «la legge non disponga diversamente». Ma, a ben vedere, un regime differenziato, rispetto a quello stabilito per l'attività non autoritativa della pubblica amministrazione dal comma 1-bis dell'art. 1, l. n. 241/1990, è espressamente fissato proprio per gli accordi regolati ad hoc dall'art. 11 della predetta legge. Ciò dimostra l'ineludibile difformità delle situazioni giuridiche in questione: per tale ragione, non è possibile ritenere sussistente la potestà di agire secondo le norme del diritto privato laddove una norma specifica (l'art. 11) «dispone diversamente», prevedendo specificatamente una determinata fattispecie di atto tipizzato (Sticchi Damiani in Sandulli, Trotta, 30). A tal proposito, la stessa giurisprudenza ha messo in evidenza che «l'azione autoritativa non è stata rimpiazzata dal principio del favor per il contratto, ma, nel testo della legge, provvedimento e contratto sono posti sullo stesso piano quali esiti del procedimento partecipato; tuttavia l'atto autoritativo non è più il solo strumento della cura degli interessi pubblici, essenziale è il fine pubblico, fungibili sono gli strumenti con cui perseguirlo» (T.A.R. Lazio, Roma II-ter, n. 1677/2006). Il comma 1- bis , di conseguenza, non postula la ordinarietà dell'applicazione del diritto privato all'attività della p.a. e non sconvolge il principio di specialità del diritto amministrativo. In tale quadro, appare chiaro che la portata effettiva di tale norma non genera altra conseguenza che quella di permettere l'utilizzo dei dispositivi privatistici quando e se possibile rimpiazzarli agli strumenti correlati all'esercizio dell'autoritatività, tenuto conto, però, che a tale ultimo contesto dogmatico appartengono anche gli accordi amministrativi, configurandosi come piena estrinsecazione del potere autoritativo della p.a. (Travi, in Sandulli, Trotta, 21-22). 9) La convenzione urbanistica può prevedere oneri contributivi ulteriori rispetto a quelli di legge? Positiva la riposta di Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 2023, n. 2996 , secondo cui la previsione di oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, in quanto espressione dell'autonomia privata, non inficia le convenzioni urbanistiche in termini di nullità per contrasto con le norme imperative. Questo in ragione del fatto che, da un lato, difetta nell'ordinamento una norma generale che impedisca, in sede di convenzione urbanistica, la libera erogazione di ulteriori contribuzioni rispetto a quelle fissate dalla legge, integranti, come tali, il minimo legale; dall'altro, la causa della convenzione urbanistica, ovvero l'interesse che l'operazione contrattuale è teleologicamente diretta a soddisfare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale del negozio, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato che della pubblica amministrazione. In virtù del principio di autoresponsabilità, una volta assunto, in chiave convenzionale, l'impegno a corrispondere il relativo importo, lo stesso è giuridicamente dovuto, non ravvisandosi alcun contrasto con norme imperative. Nella fattispecie, il Consiglio di Stato ha osservato come l'utilità che l'appellante ha ricevuto dall'operazione riguardata nel suo complesso, anche attraverso la cessione onerosa a terzi del diritto di costruire il complesso immobiliare concesso dall'amministrazione, ben giustifichi gli impegni assunti dalla società in sede convenzionale). La convenzione urbanistica può prevedere oneri contributivi ulteriori rispetto a quelli di legge? Positiva la riposta di Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 2023, n. 2996 , secondo cui la previsione di oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, in quanto espressione dell'autonomia privata, non inficia le convenzioni urbanistiche in termini di nullità per contrasto con le norme imperative. Questo in ragione del fatto che, da un lato, difetta nell'ordinamento una norma generale che impedisca, in sede di convenzione urbanistica, la libera erogazione di ulteriori contribuzioni rispetto a quelle fissate dalla legge, integranti, come tali, il minimo legale; dall'altro, la causa della convenzione urbanistica, ovvero l'interesse che l'operazione contrattuale è teleologicamente diretta a soddisfare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale del negozio, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato che della pubblica amministrazione. In virtù del principio di autoresponsabilità, una volta assunto, in chiave convenzionale, l'impegno a corrispondere il relativo importo, lo stesso è giuridicamente dovuto, non ravvisandosi alcun contrasto con norme imperative. Nella fattispecie, il Consiglio di Stato ha osservato come l'utilità che l'appellante ha ricevuto dall'operazione riguardata nel suo complesso, anche attraverso la cessione onerosa a terzi del diritto di costruire il complesso immobiliare concesso dall'amministrazione, ben giustifichi gli impegni assunti dalla società in sede convenzionale). Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. II, 8 giugno 2021 n. 4376; Cons. Stato sez. IV, 1 ottobre 2019, n. 6561. Edilizia e urbanistica - Convenzione edilizia – Accordi sostitutivi e integrativi – Nullità parziale – Annullabilità parziale La declaratoria di nullità parziale comporta la nullità dell'intera convenzione urbanistica, ove risulti che le parti non l'avrebbero conclusa senza quella parte del suo contenuto viziata da nullità, con l'inevitabile conseguenza per cui viene meno la regolarità edilizia dell'intervento di recupero, perciò solo, abusivo. Analogo discorso vale per l'annullabilità parziale del contratto, per errore nel processo formativo della volontà decisoria finale, atteso che l'applicazione analogica dell'art. 1419 c.c. in materia di nullità parziale, contempla un effetto espansivo del vizio all'intero contratto, allorchè risulti l'essenzialità delle clausole contrattuali in relazione alla complessiva dinamica causale. 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