Legge - 14/01/1994 - n. 20 art. 1 - Azione di responsabilità 1 .

Daniele Giannini

Azione di responsabilità1.

 

1. La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. La prova del dolo richiede la dimostrazione della volonta' dell'evento dannoso. In ogni caso e' esclusa la gravita' della colpa quando il fatto dannoso tragga origine dall'emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimita', limitatamente ai profili presi in considerazione nell'esercizio del controllo. La gravita' della colpa e ogni conseguente responsabilita' sono in ogni caso escluse per ogni profilo se il fatto dannoso trae origine da decreti che determinano la cessazione anticipata, per qualsiasi ragione, di rapporti di concessione autostradale, allorche' detti decreti siano stati vistati e registrati dalla Corte dei conti in sede di controllo preventivo di legittimita' svolto su richiesta dell'amministrazione procedente. Il relativo debito si trasmette agli eredi secondo le leggi vigenti nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi2.

1.1. In caso di conclusione di un accordo di conciliazione nel procedimento di mediazione o in sede giudiziale da parte dei rappresentanti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, la responsabilità contabile è limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, consistente nella negligenza inescusabile derivante dalla grave violazione della legge o dal travisamento dei fatti 3.

1- bis . Nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall'amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità 4.

1- ter . Nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole. Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione 5.

1- quater. Se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso6.

1- quinquies. Nel caso in cui al comma 1- quater i soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo sono responsabili solidalmente. La disposizione di cui al presente comma si applica anche per i fatti accertati con sentenza passata in giudicato pronunciata in giudizio pendente alla data di entrata in vigore del decreto-legge 28 giugno 1995, n. 248. In tali casi l'individuazione dei soggetti ai quali non si estende la responsabilità solidale è effettuata in sede di ricorso per revocazione7.

1-sexies. Nel giudizio di responsabilita', l'entita' del danno all'immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilita' illecitamente percepita dal dipendente  8.

1-septies. Nei giudizi di responsabilita' aventi ad oggetto atti o fatti di cui al comma 1-sexies, il sequestro conservativo [di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19] , e' concesso in tutti i casi di fondato timore di attenuazione della garanzia del credito erariale9.

2 . Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta 10.

2- bis . Per i fatti che rientrano nell'ambito di applicazione dell'art. 1, comma 7, del decreto-legge 27 agosto 1993, n. 324, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 ottobre 1993, n. 423, la prescrizione si compie entro cinque anni ai sensi del comma 2 e comunque non prima del 31 dicembre 1996 11.

2- ter . Per i fatti verificatisi anteriormente alla data del 15 novembre 1993 e per i quali stia decorrendo un termine di prescrizione decennale, la prescrizione si compie entro il 31 dicembre 1998, ovvero nel più breve termine dato dal compiersi del decennio 12.

3. Qualora la prescrizione del diritto al risarcimento sia maturata a causa di omissione o ritardo della denuncia del fatto, rispondono del danno erariale i soggetti che hanno omesso o ritardato la denuncia. In tali casi, l'azione è proponibile entro cinque anni dalla data in cui la prescrizione è maturata.

4. La Corte dei conti giudica sulla responsabilità amministrativa degli amministratori e dipendenti pubblici anche quando il danno sia stato cagionato ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza, per i fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge 13.

Inquadramento

L'art. 1 della l. n. 20/1994 rappresenta la norma cardinale in materia di responsabilità amministrativa e di responsabilità contabile.

Introdotta in un contesto storico caratterizzato dallo «scandalo tangentopoli», la norma costituisce un fondamentale tassello di un più ampio disegno legislativo, diretto a riformare la Pubblica amministrazione dall'interno e dall'esterno.

Sicché, proprio nell'ambito delle iniziative normative dirette al miglioramento dell'azione pubblica attraverso gli opportuni interventi ad essa esterni, è risultata prioritaria la necessità di rinvigorire innanzitutto il ruolo della prima Magistratura istituita dopo la proclamazione del Regno d'Italia, per esaltarne le tradizionali funzioni giurisdizionali e di controllo esercitate nei confronti degli operatori pubblici.

È così che, quasi ispirandosi ai valori ed agli ideali che già dall'antica l. n. 800/1862 avevano portato ad attuare il complesso progetto di contabilità pubblica proposto dal Cavour, il Legislatore del 1994 ha scelto di riorganizzare tutte le funzioni attribuite alla Corte dei Conti proprio per reagire ai più gravi fenomeni di cattiva amministrazione emersi dopo la nascita della Repubblica.

Sono due le riforme legislative portate a compimento nel 1994: la l. n. 19/1994 (con cui è stato convertito con modificazioni il d.l. n. 453/1993) e la l. n.20/1994.

È significativo rilevare che le due coeve normative recano la medesima rubrica, essendo entrambe dirette a introdurre «Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei Conti»: ciò costituisce una vivida testimonianza del fatto che esse rientrano (entrambe) nel complessivo progetto riformatore voluto dal Legislatore, interamente diretto a dare lustro alle due tradizionali funzioni intestate alla Corte dei Conti.

In particolare, la l. n. 19/1994 si è fatta carico di istituire organi decentrati della giurisdizione contabile (Procure regionali e Sezioni Giurisdizionali) e di dettare disposizioni per la semplificazione del processo contabile.

La l. n. 20/1994, invece, ha regolamentato la disciplina sostanziale della responsabilità amministrativa e contabile ed ha altresì riformato profondamente la funzione di controllo della Corte dei Conti.

È proprio l'art. 1 della l. n. 20/1994, oggetto del presente commento, ad aver offerto la prima disciplina omogenea della responsabilità amministrativa e della responsabilità contabile, che sul piano qualificatorio vengono assorbite dal concetto unitario di responsabilità amministrativo-contabile o, secondo alcuni Autori, di responsabilità finanziaria.

La norma ha un duplice merito.

In primo luogo, grazie ad essa sono state sostanzialmente sopite le precedenti dispute dottrinarie relative alla «catalogazione» delle due predette forme di responsabilità nel paradigma della responsabilità civile o della responsabilità penale: in virtù delle disposizioni introdotte dall'art. 1 della l. n. 20/1994, infatti, è risultato chiaro che la responsabilità amministrativo-contabile presenta caratteri sostanziali autonomi e peculiari (Corte cost. n. 371/1998), che certamente la emancipano e la differenziano sul piano sostanziale dalla responsabilità civile e dalla responsabilità penale.

Tale autonomia si realizza anche sul piano processuale, giacché il recente Codice di Giustizia Contabile (introdotto dal d.lgs. n. 174/2016) delinea i caratteri del processo contabile in termini del tutto speciali rispetto al processo civile ed a quello penale.

In secondo luogo, all'art. 1 della l. n. 20/1994 va riconosciuto il merito di aver finalmente attuato, a distanza di ben 46 anni dalla Costituzione, quella necessaria interpositio legislatoris che soprattutto con riferimento alla responsabilità amministrativa era stata ripetutamente richiesta dalla Corte Costituzionale per integrare la «tendenziale generalità» della giurisdizione della Corte dei Conti sancita dall'art. 103, comma 2,Cost. (ex multis, Corte cost. n. 773/1988, Corte cost. n. 641/1987, n. 241/1984 e n. 110/1970).

Vi è da notare, però, che la responsabilità amministrativa e la responsabilità contabile, sebbene rappresentino le forme di responsabilità munite di maggiore tradizione storica, non sono le uniche conosciute dall'ordinamento contabile.

Nel tempo, infatti, ad esse si è affiancata anche la responsabilità sanzionatoria, che tuttavia presenta caratteri (sostanziali e processuali) certamente differenti rispetto alle altre due forme di responsabilità.

Anche le funzioni di queste tipologie di responsabilità sono differenti.

La responsabilità amministrativa e la responsabilità contabile, infatti, hanno una chiara funzione recuperatoria/risarcitoria, essendo costruite intorno alla figura del c.d. danno erariale.

La responsabilità sanzionatoria, invece, presenta una spiccata funzione sanzionatoria/punitiva e mira a proteggere quei beni e quei valori della contabilità pubblica di rilievo Costituzionale, come quello del rispetto degli equilibri di bilancio (artt. 81,97 e 119, comma 6, Cost.), del bilancio pubblico in sé (quale bene pubblico primario dello Stato-comunità), della sostenibilità del debito pubblico (art. 97 Cost.), del coordinamento della finanza pubblica e dell'unità economica del Paese, in rapporto anche agli impegni assunti in ambito europeo (art. 117 Cost.).

Essendo quindi evidenti le differenze fra le tre diverse forme di responsabilità, è agevole affermare che, nell'ambito del complessivo ordinamento contabile, la responsabilità amministrativa, la responsabilità contabile e la responsabilità sanzionatoria descrivono il perimetro delle cosiddette «responsabilità erariali», da intendersi quale categoria generale e unificante.

Ebbene, a fronte di un così ricco panorama di funzioni giurisdizionali intestate alla Corte dei Conti, il presente lavoro si propone di analizzare il complesso sistema della responsabilità amministrativa e della responsabilità contabile, che rappresentano quelle due particolari forme di responsabilità che gravano sui soggetti legati alla P.A. da un rapporto di lavoro o di servizio, per il danno cagionato alla stessa o ad un'altra Amministrazione con dolo o colpa grave.

Come si avrà modo di evidenziare, le due predette forme di responsabilità si differenziano tra loro soprattutto in ragione della figura del soggetto «responsabile»: se è vero, infatti, che in entrambi i casi deve trattarsi di un soggetto legato alla P.A. da un rapporto di impiego o di servizio, è altrettanto vero che solo nel caso di responsabilità contabile il soggetto «responsabile» deve essere altresì un agente contabile (con tutto ciò che consegue in merito alla condotta dannosa rimproverabile ed al regime della prova dell'elemento soggettivo).

Lo studio dei caratteri della responsabilità amministrativa e contabile sarà opportunamente preceduto dall'analisi dell'evoluzione della giurisdizione della Corte dei Conti, funzionale ad esaltare il prestigio che a tale Organo Giurisdizionale è stato riconosciuto non solo all'indomani dell'istituzione del Regno d'Italia ma anche con la Costituzione.

In questo percorso espositivo si avrà modo di dimostrare come la funzione giurisdizionale esercitata dal Giudice contabile in materia di responsabilità, lungi dall'impingere il merito dell'azione amministrativa o dal generare il «timore della firma» dei funzionari pubblici, sia in realtà diretta a stimolare indirettamente il comportamento virtuoso degli operatori pubblici ed a ricercare un punto di equilibrio nell'allocazione dei rischi dell'attività amministrativa, determinando quanto rischio dell'attività debba restare a carico dell'apparato pubblico e quanto, viceversa, a carico del dipendente: è per questo motivo, in definitiva, che per i dipendenti e per gli amministratori pubblici la prospettiva della responsabilità amministrativo-contabile costituisce (o, almeno, «dovrebbe costituire») una ragione di stimolo e non di disincentivo, mentre è da respingere con forza l'assunto per il quale la limitazione della responsabilità «rappresenterebbe» un vantaggio per l'efficacia dell'azione amministrativa.

Come ha efficacemente rimacato il Procuratore Generale della Corte dei Conti in occasione dell'Inaugurazione dell'anno giudiziario 2022, infatti, «la giustizia contabile tutela la gestione finanziaria delle risorse pubbliche e, nel più assoluto rispetto delle garanzie difensive e del giusto processo, in conformità ai principi espressi dal Codice di giustizia contabile introdotto nel 2016, interviene soltanto nei casi di acceratte condotte dolose o gravemente colpose causative di pregiudizio alle risorse pubbliche.

È una giustizia sostanzialista, più che formalista: non si è infatti chiamati a rispondere di meri errori, di una disattenzione, di inadempienze formali o per una firma incauta.

La giustizia contabile non è un evento che casualmente incombe sui pubblici amministratori e sui pubblici funzionari; non è un “rischio” per il pubblico funzionario coscienzioso, accorto, rispettoso delle leggi, che tale rischio non deve percepire nemmeno psicologicamente: è invece un rischio concreto e reale e lo deve essere, ed è un bene che lo sia, per il funzionario che coscientemente trascura gravemente i propri doveri, che subordina l'interesse pubblico all'interesse privato o personale, che viola le leggi, che dissipa le risorse della comunità».

La struttura della norma

Nell'originario ordito normativo, l'art. 1 della l. n. 20/1994 è stato concepito con una struttura lineare: attraverso quattro commi di agevole interpretazione, infatti, il Legislatore del '94 ha sancito il carattere «personale» della responsabilità amministrativa e contabile (comma 1), ha determinato il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno (commi 2 e 3) ed ha infine individuato la latitudine del sindacato della Corte dei Conti, estendendolo sino ai casi di danno erariale procurato ad un'Amministrazione diversa da quella di appartenenza (comma 4).

Dal 1994 a oggi, però, l'art. 1 della l. n. 20/1994 è stato sottoposto a continui rimaneggiamenti, realizzati attraverso interventi normativi ordinari e d'urgenza: all'esito di tali integrazioni legislative, l'interprete si ritrova attualmente al cospetto di una disposizione assai articolata, suddivisa in ben dodici commi.

Al fine di offrire una prima e succinta mappa della norma, i caratteri essenziali della stessa possono essere descritti nei seguenti termini.

I caratteri generali della responsabilità amministrativo-contabile: il comma 1 e le disposizioni ad esso collegate

Il primo comma dell'art. 1 della l. n. 20/1994 si compone di cinque alinea.

Il periodo di esordio custodisce il fulcro della disciplina della responsabilità amministrativo-contabile, stabilendo che «La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali».

Scomponendo i sintagmi del richiamato periodo, si ricavano le seguenti informazioni.

In primo luogo, risulta evidente che il tessuto della norma nasconda nelle sue trame l'acquisita conoscenza del concetto di «responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica».

Si tratta di un concetto invero assai complesso, che ai fini del presente lavoro occorre mettere a fuoco con assoluta priorità.

Da una parte, quindi, è necessario delimitare l'area interna della giurisdizione della Corte dei Conti: allo studio di questo argomento è riservato il successivo paragrafo 3, rubricato «La giurisdizione della Corte dei Conti».

Dall'altra parte (e una volta comprese le materie sulle quali la Corte dei Conti ha giurisdizione), è opportuno analizzare le due forme di responsabilità che ricadono nel fuoco della norma (la responsabilità amministrativa e la responsabilità contabile), senza tuttavia trascurare l'importanza che pure la responsabilità sanzionatoria assume nell'ordinamento contabile: l'argomento verrà approfondito nel paragrafo 4, rubricato «La responsabilità erariale».

In secondo luogo, la richiamata disposizione definisce (questa volta) esplicitamente l'area esterna alla giurisdizione della Corte dei Conti: sancendo «l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali», infatti, il Legislatore ha chiaramente voluto individuare i casi in cui il sindacato del Giudice contabile sconfina (inammissibilmente) nella c.d. riserva di amministrazione, violando il principio della separazione dei poteri e generando così un caso di «eccesso di potere giurisdizionale» del giudice contabile, censurabile innanzi alla Corte di Cassazione exartt. 111, ultimo comma, Cost. e 207 c.g.c.: all'analisi di questo tema è dedicato il paragrafo 5, rubricato «L'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali».

In terzo luogo, il primo alinea dell'art. 1 dipinge il carattere principale della responsabilità amministrativa e contabile, vale a dire la «personalità».

L'argomento va opportunamente studiato in considerazione di quanto dispone l'ultimo alinea dello stesso art. 1, per il quale «il relativo debito si trasmette agli eredi secondo le leggi vigenti nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi».

Al contempo, al principio della personalità della responsabilità amministrativa e contabile sono connesse le regole descritte dai commi 1-ter, 1-quater e 1-quinquies dello stesso art. 1.

Le richiamate disposizioni prevedono espressamente quanto segue.

Ai sensi del comma 1-ter, «Nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole. Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione».

Il successivo comma 1-quater sancisce che, «Se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso».

Ai sensi del comma 1-quinquies, infine, «Nel caso di cui al comma 1-quater i soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo sono responsabili solidalmente. La disposizione di cui al presente comma si applica anche per i fatti accertati con sentenza passata in giudicato pronunciata in giudizio pendente alla data di entrata in vigore del d.l. 28 giugno 1995, n. 248. In tali casi l'individuazione dei soggetti ai quali non si estende la responsabilità solidale è effettuata in sede di ricorso per revocazione».

All'analisi del carattere della personalità (e dei suoi richiamati corollari) è dedicato il paragrafo 6, rubricato «I caratteri della responsabilità amministrativo-contabile».

In quarto ed ultimo luogo, il primo alinea dell'art. 1 definisce l'elemento soggettivo della responsabilità amministrativa e contabile, prevedendo che la stessa responsabilità è limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave.

La disposizione viene integrata dai successivi periodi della norma, introdotti in virtù di interventi normativi d'urgenza, pure di recentissimo conio.

Il riferimento va in particolare alle seguenti disposizioni.

Il secondo alinea del comma 1 stabilisce che «la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso»: tale periodo è stato introdotto dall'art. 21, comma 1, del d.l. n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 120/2020.

Il terzo alinea del comma 1 prevede poi che «in ogni caso è esclusa la gravità della colpa quando il fatto dannoso tragga origine dall'emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità, limitatamente ai profili presi in considerazione nell'esercizio del controllo»: questa disposizione è stata introdotta dall'art. 17, comma 30-quater, lett. a), del d.l. n. 78/2009, convertito con modificazioni dalla l. n. 102/2009.

Il quarto alinea del comma 1 sancisce infine che «la gravità della colpa e ogni conseguente responsabilità sono in ogni caso escluse per ogni profilo se il fatto dannoso trae origine da decreti che determinano la cessazione anticipata, per qualsiasi ragione, di rapporti di concessione autostradale, allorché detti decreti siano stati vistati e registrati dalla Corte dei conti in sede di controllo preventivo di legittimità svolto su richiesta dell'amministrazione procedente»: la richiamata disposizione è stata introdotta dall'art. 4, comma 12-ter, del d.l. n. 32/2019, convertito con modificazioni dalla l. n. 55/2019.

Ebbene, a fronte della consistenza delle disposizioni relative all'elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, si rinvia all'analisi condotta nel paragrafo 7, rubricato «L'elemento soggettivo».

Il danno erariale risarcibile: il comma 1-bis e le disposizioni ad esso collegate

Il comma 1-bis dell'art. 1 della l. n. 20/1994 è dedicato al tema della determinazione del danno erariale risarcibile.

La norma, introdotta dall'art. 3 del d.l. n. 543/1996, convertito con modificazioni dalla in l. n. 639/1996, prevede due fondamentali regole in materia di liquidazione del danno erariale.

In primo luogo, viene introdotta nel sistema della responsabilità erariale la regola civilistica della compensatio lucri cum damno, prevedendone tuttavia gli opportuni adattamenti alla materia contabile.

In secondo luogo, la norma «lascia fermo» lo storico potere del Giudice contabile di ridurre l'addebito contestato dal Procuratore al soggetto convenuto nel giudizio di responsabilità, così ribadendo nel “generale” contesto dell'azione erariale le regole già sancite dall'art. 83, comma 1, del r.d. n. 2440/1923, dall'art. 52, comma 2, del r.d. n. 1214/1934 (c.d. «T.U. delle leggi sulla Corte dei Conti») e dall'art. 19, comma 2, del d.P.R. n. 3/1957 (c.d. «T.U. delle disposizioni concernenti lo Statuto degli impiegati civili dello Stato») che, con disposizioni di analogo tenore, sostanzialmente stabiliscono che la Corte del Conti, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto.

La disciplina della liquidazione del danno erariale risulta ulteriormente arricchita dalle disposizioni recate dai commi 1-sexies e 1-septies della l. n. 20/1994 con riguardo al caso specifico del danno all'immagine della Pubblica Amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato.

In particolare, ai sensi delle richiamate disposizioni (entrambe introdotte dall'art. 1, comma 62, della l. n. 190/2012 – c.d. «legge anticorruzione» –), si prevede che «nel giudizio di responsabilità, l'entità del danno all'immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente» (comma 1–sexies): sicché, in questi casi, a garanzia del pubblico erario è altresì previsto che «il sequestro conservativo è concesso in tutti i casi di fondato timore di attenuazione della garanzia del credito erariale» (comma 1-septies).

In considerazione delle regole complessivamente previste in materia, nel paragrafo 8 verrà analizzata la tematica generale relativa alla liquidazione del danno erariale; nel successivo paragrafo 9, poi, verrà studiata l'applicazione contabile della regola della compensatio lucri cum damno; al paragrafo 10, infine, è affidata l'analisi dei caratteri del potere giurisdizionale di riduzione dell'addebito, per come attribuito in via esclusiva al Giudice contabile.

La prescrizione del diritto al risarcimento del danno erariale: il comma 2 e le disposizioni ad esso collegate

L'art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994 accoglie la disciplina della prescrizione del diritto al risarcimento del danno erariale, stabilendo che il predetto diritto si prescrive «in ogni caso» in cinque anni.

Opportunamente, però, sin dall'originaria versione della norma il Legislatore ha distinto il dies a quo relativo ai casi in cui il fatto dannoso è immediatamente percepito dall'Amministrazione danneggiata (laddove è la «verificazione del fatto dannoso» a determinare l'esordio della prescrizione), dal dies a quo relativo alle ipotesi in cui il danno viene dolosamente occultato (nel qual caso rileva la data della scoperta del danno).

Ulteriore fattispecie presa in carico dal Legislatore è quella relativa al caso in cui la prescrizione del diritto al risarcimento sia maturata a causa di omissione o ritardo della denuncia del fatto: in questo caso, ai sensi del successivo comma 3 dell'art. 1, la responsabilità erariale ricade sui soggetti che hanno omesso o ritardato la denuncia, con l'ulteriore precisazione che contro i predetti soggetti l'azione è proponibile entro cinque anni dalla data in cui la prescrizione è maturata.

Da ultimo, in tema di prescrizione rimangono attualmente sullo sfondo le disposizioni recate dai commi 2-bis e 2-ter, entrambi introdotti dall'art. 3, comma 1, lett. c) del d.l. n. 543/1996, convertito con modificazioni dalla l. n. 639/1996.

Con il comma 2-bis, infatti, il Legislatore si è occupato della prescrizione relativa ai fatti di danno imputabili ai responsabili delle Unità Sanitarie Locali, delle Regioni e degli Enti ospedalieri disciolti, stabilendo che in questi casi «la prescrizione si compie entro cinque anni ai sensi del comma 2 e comunque non prima del 31 dicembre 1996».

Il comma 2-ter, invece, prevede che «per i fatti verificatisi anteriormente alla data del 15 novembre 1993 e per i quali stia decorrendo un termine di prescrizione decennale, la prescrizione si compie entro il 31 dicembre 1998, ovvero nel più breve termine dato dal compiersi del decennio».

Per lo studio della disciplina relativa alla prescrizione del diritto al risarcimento del danno erariale si rinvia al successivo paragrafo 11.

Il danno erariale procurato ad una Amministrazione diversa da quella di appartenenza: il comma 4

L'ultima disposizione recata dall'art. 1 della l. n. 20/1994 riguarda il caso del danno erariale procurato dagli amministratori e dai dipendenti pubblici ad una Amministrazione diversa da quella di appartenenza (c.d. danno obliquo).

In relazione a questa ipotesi, il comma 4 dell'art. 1 ha stabilito la giurisdizione della Corte dei Conti, introducendo così una disposizione rivelatasi poi determinante per l'allargamento dell'area della giurisdizione contabile.

Allo studio di questo argomento è dedicato il paragrafo 12.

La giurisdizione della Corte dei Conti

La giurisdizione della Corte dei Conti trova attualmente fondamento nella Costituzione, nonché in altre disposizioni appositamente introdotte dal Legislatore ordinario: tra queste, l'art. 1 della l. n. 20/1994 assume un ruolo di primissimo piano, poiché esso ha per la prima volta attuato la c.d. interpositio legislatoris necessaria per integrare, con specifico riferimento alle due «materie» della responsabilità amministrativa e della responsabilità contabile, la «tendenziale generalità» della giurisdizione della Corte dei Conti sancita dall'art. 103, comma 2, Cost.

Già da quanto innanzi esposto emerge il dato che caratterizza l'argomento oggetto del presente paragrafo: la responsabilità amministrativa e quella contabile rappresentano solo due delle materie sottoposte alla giurisdizione della Corte dei Conti, giacché essa si estende, in via generale, a tutte le materie della contabilità pubblica.

Svolta questa premessa, si rende adesso opportuna una precisazione metodologica.

I caratteri fondamentali della responsabilità amministrativa e della responsabilità contabile (entrambe disciplinate dall'art. 1 della l. n. 20/1994) saranno approfonditi nel successivo paragrafo 4, rubricato «La responsabilità erariale».

In questa sede, invece, verrà studiata l'estensione dell'area riservata alla giurisdizione della Corte dei Conti, seguendo un percorso espositivo articolato nei seguenti passaggi.

In primo luogo, sarà illustrato il panorama normativo su cui, prima della Costituzione, si fondava la giurisdizione del Giudice Contabile.

In secondo luogo, verrà approfondito il contenuto della norma costituzionale che riconosce la giurisdizione della Corte dei Conti, vale a dire l'art. 103, comma 2, Cost..

In terzo luogo, saranno indicate le diverse declinazioni della giurisdizione contabile, tra cui vi rientrano (ovviamente) sia la responsabilità amministrativa che la responsabilità contabile.

La giurisdizione della Corte dei Conti dalla nascita del Regno d'Italia alla Costituzione

La Corte dei Conti rappresenta l'organo giurisdizionale più antico dell'ordinamento nazionale.

Prima della nascita del Regno d'Italia, nei diversi Stati preunitari già si registravano esperienze giurisdizionali e di controllo del Giudice contabile.

All'indomani della nascita dello Stato unitario, è stata poi la l. n. 800/1862 a forgiare la Corte dei Conti come la prima magistratura con competenze di giurisdizione e di controllo estese all'intero territorio nazionale, in attuazione del complesso progetto di contabilità pubblica e di amministrazione centralizzata originariamente proposto dal Cavour.

L'elevato prestigio dell'Istituto si coglie con evidenza nelle parole pronunciate dal Ministro delle Finanze dell'epoca, Quintino Sella, nel suo discorso inaugurale presso la sede della Corte dei Conti a Torino, il 1° ottobre 1862, allorquando fu sottolineato che «la creazione di questa Corte non solo compie la unificazione di un importantissimo ramo della pubblica amministrazione, ma inizia quella unità di legislazione civile che giova ad eguagliare le condizioni dei cittadini, qualunque sia la parte d'Italia ov'ebbero nascimento o tengono dimora»; in questa prospettiva, le funzioni che la nuova Corte dei conti “unitaria” si accingeva a svolgere furono sintetizzate con queste semplici parole: «tutelare la pubblica fortuna, curare l'osservanza delle leggi per parte di chi le debba maggiore riverenza, cioè del potere esecutivo». Come si avrà modo di evidenziare, il pensiero di Quintino Sella esprime ancora oggi il senso della missione svolta dala Corte dei conti che, pure nel mutato quadro ordinamentale e costituzionale, rappresenta e rimane il garante della sana e corretta gestione delle risorse pubbliche, nell'interesse esclusivo della collettività.

Riavvolgendo adesso un nastro lungo oramai 160 anni (tanti, infatti, sono gli anni oramai decorsi dall'istituzione della Corte dei Conti), va sottolineato che la

L. n. 800/1862 descriveva le «attribuzioni» della Corte dei Conti all'art. 10, stabilendo che «la Corte, in conformità della legge e dei regolamenti: fa il riscontro delle spese dello Stato; veglia alla riscossione delle pubbliche entrate; veglia perché la gestione degli agenti dello Stato in denaro o in materia sia assicurata con cauzione o col sindacato di speciali revisori; accerta e confronta i conti dei ministeri col conto generale dell'amministrazione delle finanze prima che siano presentati alle Camere; giudica dei conti che debbono rendere tutti coloro che hanno maneggio di denaro o di altri valori dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni designate dalle leggi».

In base al successivo art. 11, poi, «La Corte liquida le pensioni competenti per legge a carico dello Stato, e in caso di richiamo ne giudica definitivamente in sezioni riunite colle forme prescritte per la sua giurisdizione contenziosa».

Sin dall'inizio dell'esperienza unitaria, quindi, la Corte dei Conti è stata concepita come una magistratura titolare di fondamentali poteri di giurisdizione e di controllo: questa impostazione della magistratura contabile è rimasta inalterata sino ai giorni nostri, arricchendosi progressivamente di contenuti e di competenze.

Sicché è agevole affermare che attualmente le funzioni di giurisdizione e di controllo della Corte dei Conti risultano certamente più estese rispetto al passato, con la precisazione che alle predette funzioni si è di recente aggiunta l'ulteriore funzione «consultiva» attribuita al Giudice contabile (art. 7, comma 8, l. n. 131/2003).

Non è tuttavia questa la sede opportuna per l'analisi di tutte e tre le funzioni ora attribuite alla Corte dei Conti, dovendosi in questa sede focalizzare l'attenzione esclusivamente sull'evoluzione della funzione giurisdizionale.

Muovendo lungo questa direzione, va detto che all'inizio la predetta funzione giurisdizionale è risultata riferita soltanto ai «giudizi sui conti», alla «responsabilità contabile» ed alla materia delle pensioni; successiva, invece, è stata l'estensione della giurisdizione contabile alla responsabilità amministrativa.

Segue: la giurisdizione contabile nella materia pensionistica

Per ragioni di ordine sistematico, si ritiene opportuno tratteggiare con priorità l'evoluzione del giudizio in materia di pensioni, evidenziando che, subito dopo l'art. 11 della l. n. 800/1862, l'art. 12 della l. n. 2248/1895, all. E (dettato «Per l'unificazione amministrativa del Regno d'Italia – Legge sul contenzioso amministrativo») ha stabilito che «Colla presente legge non viene fatta innovazione [...] alla giurisdizione della Corte dei conti [...] in materia di contabilità e di pensioni [...]».

Sicché, in seguito, il Legislatore ha provveduto nel primo dopoguerra a offrire una migliore sistemazione processuale e sostanziale della materia.

Dal punto di vista processuale, infatti, rileva il r.d. n. 1038/1933 («Approvazione del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla corte dei conti»), che al giudizio pensionistico dedica l'intero Capo V del Titolo II (artt. da 71 a 89).

In chiave sostanziale, invece, viene in rilievo il disposto dell'art. 13 del r.d. n.1214/1934 (c.d. «T.U. delle leggi sulla Corte dei Conti»), che ha definitivamente sancito che «La Corte, in conformità delle leggi e dei regolamenti [...] giudica sui ricorsi in materia di pensione in tutto o in parte a carico dello Stato o di altri enti designati dalla legge [...]».

Segue: il giudizio sul conto e la responsabilità contabile

Ricca di maggiori risvolti è stata invece l'evoluzione dei «giudizi sui conti» e della «responsabilità contabile», originariamente concepiti in stretta correlazione tra loro.

Al riguardo, si è già detto che l'art. 10 della l. n. 800/1862 ha incluso il giudizio sui conti nelle generali «attribuzioni» della Corte dei Conti.

Ebbene, il successivo art. 33 (con cui esordisce il Capitolo V della legge, rubricato «Del giudizio sui conti») ha poi ulteriormente specificato le competenze giurisdizionali del Giudice contabile in materia, prevedendo espressamente che «la Corte dei conti giudica con giurisdizione contenziosa dei conti dei tesorieri, dei ricevitori, dei cassieri e degli agenti incaricati di riscuotere, di pagare, di conservare e di maneggiare denaro pubblico, o di tenere in custodia valori e materie di proprietà dello Stato. Giudica pure dei conti dei tesorieri ed agenti di altre pubbliche amministrazioni per quanto le spetti a termini di leggi speciali».

Proprio in relazione ai soggetti individuati nella predetta disposizione, mentre il successivo art. 36 della l. n. 800/1862 ha introdotto la prima forma di “responsabilità sanzionatoria” conosciuta dal nostro ordinamento (l'argomento verrà ripreso nel paragrafo 4.9.), l'art. 40 della medesima legge ha poi disciplinato la prima forma di giudizio di responsabilità contabile, che nella sua primigenia elaborazione costituiva soltanto uno dei due sbocchi del giudizio sul conto: ove la Corte dei Conti avesse accertato il saldo dei conti o un loro bilanciamento in favore dell'agente dell'amministrazione, vi sarebbe invero stato il relativo «discarico»; per il caso opposto, invece, la norma prevedeva che il Giudice contabile avrebbe dovuto liquidare il debito dell'agente e avrebbe poi dovuto pronunciare, all'occorrenza, la condanna al pagamento.

Secondo questo impianto normativo, quindi, la responsabilità contabile risultava strettamente ed esclusivamente connessa all'esito negativo del giudizio sul conto, con la precisazione che, nella prassi, solo raramente quest'ultimo giudizio sfociava in un successivo giudizio di responsabilità ai danni dell'agente contabile.

Questa situazione è tuttavia cambiata con la l. n.5026/1869 (legge «Sulla amministrazione del patrimonio dello Stato e sulla contabilità generale»), con cui è stata istituita la Ragioneria Generale dello Stato.

La legge innanzi citata ha un ruolo di primaria importanza nell'evoluzione della giurisdizione contabile: per un verso, infatti, essa ha ampliato la platea degli «Agenti dell'amministrazione che maneggiano valori dello Stato», a cui è dedicato l'intero Capitolo V della medesima legge (artt. da 58 a 63); per un altro verso, poi, essa ha il merito di aver introdotto il potere del Giudice contabile di ridurre l'addebito erariale, munendo così il predetto Giudice dello strumento necessario per determinare l'equilibrio nell'allocazione dei rischi dell'attività amministrativa (l'argomento verrà approfondito nel successivo paragrafo 10, giacché il potere riduttivo dell'addebito costituisce tuttora una prerogativa esclusiva del Giudice contabile, confermata dall'art. 1, comma 1- bis, della l. n.20/1994).

L'art. 61 della predettal. n.5026/1869 (inserito nel richiamato Capitolo V della legge) offre la migliore sintesi delle novità normative innanzi illustrate giacché, proprio nell'introdurre il predetto potere riduttivo, ha espressamente previsto quanto segue in materia di responsabilità contabile: «Gli Ufficiali pubblici stipendiati dallo Stato, e specialmente quelli ai quali è commessa la ispezione e la verificazione delle casse e dei magazzini, dovranno rispondere dei valori che fossero per colpa loro perduti dallo Stato. La Corte dei conti potrà, secondo le circostanze dei casi, temperare gli effetti della presente disposizione, ponendo a carico di questi Ufficiali una parte soltanto dei valori perduti».

Nella richiamata disposizione si coglie agevolmente l'allargamento dell'area degli agenti contabili e l'introduzione del potere riduttivo del Giudice contabile; al contempo, si riesce anche a percepire l'intento normativo (non esplicitato ma soltanto abbozzato) di allargare l'àmbito della responsabilità a fenomeni di danno erariale non strettamente connessi al diretto maneggio di denaro pubblico: ed è proprio da questo presupposto che è poi scaturita la genesi della c.d. responsabilità amministrativa.

In sostanza, dunque, la l. n. 5026/1869 ha «silenziosamente» creato i presupposti per la nascita di due fenomeni fondamentali per l'ordinamento contabile, che tuttavia hanno poi trovato concreto riconoscimento legale soltanto nel primo dopoguerra, a partire dal r.d.n. 827/1924 e dal r.d.n.2440/1923: da una parte, l'emancipazione dei giudizi di responsabilità contabile dai giudizi sui conti (oggetto del presente paragrafo); dall'altra parte, l'introduzione della responsabilità amministrativa accanto a quella contabile, con conseguente creazione del primo modello unificante di responsabilità amministrativo-contabile (questo argomento verrà opportunamente trattato nel successivo paragrafo).

Ebbene, dovendo trattare in questa sede dei rapporti tra il giudizio sul conto e il giudizio di responsabilità contabile, si rileva che, dopo la l. n. 5026/1869, entrambi i predetti giudizi hanno conosciuto un'evoluzione prima attraverso il r.d. n.2440/1923 («Nuove disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità dello Stato»), poi con il r.d. n.827/1924 («Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato»), poi ancora con il r.d. n.1038/1933 («Approvazione del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla corte dei conti») e infine con il r.d. n.1214/1934 (c.d. «T.U. delle leggi sulla Corte dei Conti»).

Questi quattro passaggi normativi hanno in particolare sancito l'emancipazione del giudizio di responsabilità contabile dal giudizio sui conti.

Per quel che riguarda quest'ultimo giudizio, infatti, la relativa parabola evolutiva si è avuta in particolare con l'art. 74 del r.d. n. 2440/1923, con il Titolo V del r.d. n. 827/1924 (artt. 178–218), con gli artt. da27 a42 del r.d. n. 1038/1933, e con gli artt. da44 a51 del r.d. n. 1214/1934, che hanno perfezionato la disciplina originariamente prevista dall'art. 33 della l. n. 800/1862.

In questo modo, è stato sostanzialmente forgiato il modello su cui è stato poi costruito il «giudizio sui conti» attualmente previsto e disciplinato nella Parte III deld.lgs. n.174/2016 (c.d. «Codice di Giustizia Contabile», d'ora in avanti anche «c.g.c.»), artt. 137-150, in relazione al quale non vi è dubbio che sussista la giurisdizione della Corte dei Conti (art. 1 c.g.c.).

Con riguardo alla graduale emancipazione del giudizio di responsabilità contabile dal giudizio sui conti, invece, si rileva che essa ha trovato riscontro nel r.d. n.2440/1923, che ha ridisegnato il perimetro della predetta forma di responsabilità (art. 81) e, al contempo, ha per la prima volta disciplinato i caratteri della responsabilità amministrativa (artt. 82 e 83): l'argomento verrà opportunamente ripreso nel successivo paragrafo 3.4.

Sono stati tuttavia il r.d. n. 1038/1933 («Approvazione del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla corte dei conti», solo di recente abrogato dall'art. 4, comma 1, lett. a), del Codice di Giustizia Contabile) ed il r.d. n.1214/1934 (c.d. «T.U. delle leggi sulla Corte dei Conti») a sancire inequivocabilmente l'autonomia (sia processuale che sostanziale) del giudizio di responsabilità contabile dal giudizio sui conti.

Il r.d. n.1038/1933, infatti, offre già due segnali che rivelano emblematicamente l'intento del Legislatore di tenere nettamente separata la disciplina processuale dei due giudizi.

Il primo segnale è di tipo sistematico ed è legato al fatto che i due predetti giudizi vengono sì disciplinati nello stesso «Titolo II» della legge ma vengono poi regolamentati in due «Capi» separati: il giudizio sui conti nel Capo I (artt. 27-42) e il giudizio di responsabilità contabile (nonché quello di responsabilità amministrativa, come meglio si dirà in seguito) nel Capo II (artt. 43-51).

Il secondo segnale è di tipo letterale ed è riconducibile al disposto dell'art. 44, che sancisce espressamente che, «Quando con la responsabilità di colui che ha reso il conto giudiziale concorra la responsabilità di altri funzionari non tenuti a presentare il conto, si riunisce il giudizio di conto con quello di responsabilità; ma, se speciali circostanze lo richiedono, si può procedere contro i responsabili del danno anche prima del giudizio di conto».

Nello stesso senso si muove il successivo r.d. n. 1214/1934, il cui art. 54 introduce una disposizione di carattere sostanziale con cui viene espressamente confermato che il giudizio di responsabilità contabile può essere introdotto «anche prima del giudizio sul conto».

Ebbene, le due richiamate disposizioni rivelano in maniera esplicita l'intento del Legislatore di svincolare il giudizio sul conto dal giudizio di responsabilità contabile: invero, rimane sempre fermo il fatto che l'esito negativo del primo comporta l'introduzione del secondo; in più, però, vi è che il giudizio di responsabilità contabile può essere intrapreso «anche prima del giudizio sul conto».

È proprio muovendo da questo presupposto, dunque, che il giudizio di responsabilità contabile ha potuto conoscere un'autonoma evoluzione che, per come si vedrà nel successivo paragrafo, è stata in realtà condivisa con il giudizio di responsabilità amministrativa.

Segue: la responsabilità contabile e la responsabilità amministrativa

Come si è anticipato nel precedente paragrafo, nella l. n.5026/1869 si percepisce il latente intento normativo di allargare l'àmbito della responsabilità a fenomeni di danno erariale non strettamente connessi al diretto maneggio di denaro pubblico: in questo modo, sono stati creati i presupposti per l'introduzione della responsabilità amministrativa accanto a quella contabile.

Sono stati gli interventi normativi del primo dopoguerra, però, a sancire l'esordio della responsabilità amministrativa sul palcoscenico dell'ordinamento contabile.

Non a caso, tale esordio ha coinciso con la formale emancipazione del giudizio di responsabilità contabile dal giudizio sui conti: infatti, nel momento in cui la responsabilità contabile ha acquisito autonomia, essa ha concorso con la responsabilità amministrativa nella creazione di un primo unitario modello di responsabilità amministrativo-contabile.

È al r.d. n. 2440/1923, che va attribuito il merito di aver ridisegnato il perimetro della responsabilità contabile (art. 81) e di aver, soprattutto, disciplinato per la prima volta i caratteri della responsabilità amministrativa (artt. 82 e 83).

Trattandosi di norme tuttora vigenti, vale la pena riferirne il contenuto.

Nel dettaglio, quindi, con riferimento alla responsabilità contabile si rileva che l'art. 81 del r.d. n. 2440/1923 sancisce che «I funzionari amministrativi, incaricati di assumere impegni e di disporre pagamenti, i capi delle ragionerie delle amministrazioni centrali e i funzionari a favore dei quali vengono disposte aperture di credito debbono rispondere dei danni che derivino alla amministrazione per loro colpa o negligenza o per la inosservanza degli obblighi loro demandati nell'esercizio delle funzioni ad essi attribuite [comma 1].

La responsabilità dei funzionari predetti non cessa per effetto della registrazione o dell'applicazione del visto da parte della Corte dei conti sugli atti d'impegno e sui titoli di spesa [comma 2].

Gli ordinatori secondari di spese pagabili in base a ruoli e ogni altro funzionario ordinatore di spese e pagamenti, sono personalmente responsabili dell'esattezza della liquidazione delle spese e dei relativi ordini di pagamento, come pure della regolarità dei documenti e degli atti presentati dai creditori [comma 3].

Gli ufficiali pubblici stipendiati dallo Stato, compresi quelli dell'ordine giudiziario e specialmente quelli a cui è commesso il riscontro e la verificazione delle casse e dei magazzini, debbono rispondere dei valori che fossero per loro colpa o negligenza perduti dallo Stato [comma 4]».

Con riguardo alla responsabilità amministrativa, invece, l'art. 82 del r.d. n. 2440/1923 stabilisce che «l'impiegato che per azione od omissione, anche solo colposa, nell'esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo [comma 1]. Quando l'azione od omissione è dovuta al fatto di più impiegati, ciascuno risponde per la parte che vi ha presa, tenuto conto delle attribuzioni e dei doveri del suo ufficio, tranne che dimostri di aver agito per ordine superiore che era obbligato ad eseguire [comma 2]».

Il successivo art. 83, infine, nel testo attualmente vigente prevede che «I funzionari di cui ai precedenti articoli 81 e 82 sono sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti la quale, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto [comma 1]. I direttori generali e i capi di servizio i quali, nell'esercizio delle loro funzioni, vengano a conoscenza di un fatto, che possa dar luogo a responsabilità, a norma dei precedenti artt. 81 e 82, debbono farne denunzia al procuratore generale presso la Corte dei conti [comma 2]. Quando nel giudizio di responsabilità la Corte dei conti accerti che fu omessa denunzia a carico di personale dipendente, per dolo o colpa grave, può condannare al risarcimento, oltre che gli autori del danno, anche coloro che omisero la denunzia [comma 3]».

Dopo il r.d. n. 2440/1923 la disciplina della responsabilità contabile ed amministrativa ha trovato ulteriore dettaglio nel «Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato» approvato con il r.d. n.827/1924, il cui Capo II del Titolo V tratta proprio «della responsabilità degli agenti contabili e [degli] altri pubblici funzionari», come annuncia la relativa rubrica.

Le disposizioni incluse nel predetto Capo II (artt. da 188 a 196) sono ancora vigenti e contribuiscono a delineare soprattutto il regime della responsabilità contabile, eventualmente contestabile agli «agenti contabili» identificati nel precedente art. 178 del medesimo r.d. n. 827/1924: l'argomento verrà opportunamente trattato nei successivi paragrafi 4.4. e ss..

Dopo gli interventi normativi del 1923 e del 1924, anche la disciplina della responsabilità contabile e della responsabilità amministrativa (come è accaduto per la disciplina relativa ai «giudizi sui conti») ha trovato conferma e specificazione nel r.d. n.1038/1933 («Approvazione del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla corte dei conti»).

Al riguardo, nel precedente paragrafo già si è detto che l'impianto di questo testo legislativo rivela emblematicamente l'intento del Legislatore di tenere nettamente separata la disciplina processuale dei giudizi sui conti da quella dedicata ai due giudizi di responsabilità.

Entrambi i giudizi, infatti, vengono regolamentati nel Titolo II della legge; tuttavia, ad ognuno di essi viene dedicato un autonomo «Capo»: il Capo I è invero rubricato «Del giudizio sui conti» (artt. 27-42), mentre il Capo II è rubricato «Del giudizio di responsabilità» (artt. 43-51).

In questo contesto, alla responsabilità contabile ed a quella amministrativa viene dedicata una disciplina processuale unitaria, fondata su un sistema che rappresenta l'antenato dell'attuale processo contabile regolato dal Codice di Giustizia Contabile.

Ricca di maggiori risvolti sostanziali è invece la successiva disciplina recata dal r.d. n. 1214/1934 (c.d. «T.U. delle leggi sulla Corte dei Conti»), che agli artt. da 52 a 55 ha contribuito a perfezionare i caratteri sia della responsabilità amministrativa che di quella contabile.

Poiché anche le predette norme risultano attualmente vigenti, è opportuno riportarne il contenuto, premettendo che già l'art. 13 dello stesso r.d. n. 1214/1934, tra le varie attribuzioni intestate alla Corte dei conti, prevede che essa «giudica sulle responsabilità per danni arrecati all'erario da pubblici funzionari, retribuiti dallo Stato, nell'esercizio delle loro funzioni».

Ebbene, in tema di responsabilità il r.d. n. 1214/1934 ha altresì introdotto le seguenti specifiche disposizioni.

Con riguardo alla responsabilità amministrativa, l'art. 52 del r.d. n. 1214/1934 stabilisce che «I funzionari, impiegati ed agenti, civili e militari, compresi quelli dell'ordine giudiziario e quelli retribuiti da Amministrazioni, Aziende e Gestioni statali ad ordinamento autonomo, che nell'esercizio delle loro funzioni, per azione od omissione imputabili anche a sola colpa o negligenza, cagionino danno allo Stato o od altra Amministrazione dalla quale dipendono, sono sottoposti alla giurisdizione della Corte nei casi e modi previsti dalla legge sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato e da leggi speciali [comma 1]. La Corte, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto [comma 2]».

Ai sensi del successivo art. 53, poi, «I direttori generali e i capi di servizio, i quali, nell'esercizio delle loro funzioni, vengono a conoscenza di un fatto, che possa dar luogo a responsabilità, a norma del precedente articolo, debbono farne denunzia al procuratore generale presso la Corte dei conti [comma 1]. La denunzia deve essere immediata [comma 2]. Quando nel giudizio di responsabilità la Corte accerti che, per dolo o colpa grave fu omessa la denunzia, a carico di personale dipendente, può condannare al risarcimento, oltre gli autori del danno, anche coloro che omisero la denunzia [comma 3]».

Con riguardo alla «responsabilità contabile», invece, l'art. 54 del r.d. n. 1214/1934 (disposizione già richiamata nel precedente paragrafo a testimonianza dell'emancipazione del giudizio di responsabilità contabile dal giudizio sui conti) prevede in un unico comma che, «Nei casi di deficienza accertata dall'amministrazione o di danni arrecati all'Erario per fatto o per omissione, imputabili a colpa o negligenza dei contabili e dei funzionari od agenti contemplati dalla legge sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato, la Corte può pronunziarsi tanto contro di essi quanto contro i loro fidejussori o cauzionanti, anche prima del giudizio sul conto».

In ordine allo stesso argomento, poi, il successivo art. 55 (per come di recente modificato in ragione dell'introduzione dell'euro) sancisce conclusivamente che, «Quando dall'esame dei conti sottoposti al giudizio della Corte emergano addebiti d'importo non superiore a euro 2.582,28 il presidente della competente Sezione giurisdizionale o un consigliere da lui delegato, sentito il pubblico ministero sull'importo dell'addebito, possono determinare la somma da pagare all'Erario, salvo il giudizio della Corte nel caso di mancata accettazione da parte del contabile [comma 1]. Tale disposizione si applica anche nei giudizi di responsabilità, purché il valore della causa non ecceda la detta somma [comma 2]».

Segue: una sintesi dell'evoluzione della giurisdizione contabile prima della Costituzione

All'esito dell'analisi sin qui condotta, si può agevolmente affermare che la giurisdizione della Corte dei Conti era ben radicata nell'ordinamento nazionale assai prima dell'emanazione della Costituzione.

Sin dall'inizio, infatti, la l. n. 800/1862 ha riservato alla predetta giurisdizione i giudizi sui conti, la responsabilità contabile e la materia delle pensioni.

Nel primo dopoguerra, poi, il r.d. n. 2440/1923 ha introdotto anche la c.d. responsabilità amministrativa, attribuendo al Giudice contabile la relativa giurisdizione (artt. 82 e 83).

Per come si è visto, le predette materie fondamentali della giurisdizione della Corte dei Conti hanno poi trovato apposita sistemazione sul piano processuale e sostanziale.

Dal punto di vista processuale rilevano le disposizioni introdotte dal r.d. n.1038/1933 («Approvazione del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla corte dei conti»), solo di recente abrogato dall'art. 4, comma 1, lett. a), del Codice di Giustizia Contabile.

Per ciò che concerne l'aspetto sostanziale, invece, vengono in rilievo le disposizioni (tuttora vigenti) recate dal r.d. n.1214/1934 (c.d. «T.U. delle leggi sulla Corte dei Conti»).

A chiusura dell'analisi dell'evoluzione della giurisdizione contabile prima della Costituzione, non si può rinunciare ad evidenziare che, nello stesso periodo, il r.d. n.383/1934 (c.d. «T.U. della legge comunale e provinciale») ha introdotto una disciplina particolare con riferimento alla responsabilità degli amministratori e dei dipendenti degli enti locali, che nei fatti finiva per ridurre notevolmente la giurisdizione della Corte dei Conti.

In particolare, per le ipotesi di responsabilità contabile si prevedeva in questi casi la giurisdizione in primo grado dei Consigli di Prefettura e in appello della Corte dei Conti (art. 260), con una disposizione poi confermata dall'art. 13 del r.d. n. 1214/1934.

Con riferimento ai casi di responsabilità per danno generico, invece, si prevedeva la giurisdizione del Giudice Ordinario (art. 265).

Ebbene, sulla disciplina innanzi richiamata si è dapprima abbattuta la scure della Corte Costituzionale, che con sentenza n.55/1966 ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 260 del r.d. n. 383/1934 per contrasto con il principio di imparzialità del giudice.

Per questa via, è stata sancita la sostanziale abolizione della competenza dei Consigli di Prefettura in materia, sull'assunto che «il giudizio di responsabilità contabile nei confronti degli amministratori degli enti locali, e di coloro che maneggiano i fondi degli enti stessi, è uno strumento essenziale e indispensabile a garanzia della legalità nella gestione finanziaria di tali enti. Essendo peraltro in grado di colpire nella personalità e nel patrimonio gli agenti di questi ultimi, e (quel che è più importante) i loro amministratori – e, tra questi, in particolare, gli amministratori degli enti territoriali, liberamente scelti dalle rispettive comunità –, la giurisdizione in esame, qualora non venga esercitata in condizioni di assoluta indipendenza e imparzialità, rischia di ripercuotersi in modo pregiudizievole sul regime delle autonomie. Ciò è tanto più manifesto in relazione agli amministratori degli enti territoriali, dato che la dichiarazione di responsabilità si risolve, per essi, in ragione di ineleggibilità (art. 15, n. 8, del T.U. n. 570/1960, sulle elezioni comunali, e art. 8, secondo comma, della l. n. 122/1951, sulle elezioni provinciali), e che gli amministratori che ricoprono la carica di sindaco (o, rispettivamente, di presidente della Giunta provinciale) o di assessore, quando nei loro confronti sia pendente il giudizio contabile, possono essere sospesi dalla carica fino all'esito del giudizio (ultimo comma del citato art. 15). È palese pertanto il pericolo che un organo di giurisdizione contabile composto di funzionari in posizione di stretta dipendenza dall'autorità governativa può rappresentare per le autonomie locali» (Corte cost. n. 55/1966).

Successivamente, il sistema delineato dal r.d. n. 383/1934 è stato definitivamente abrogato dalla l. n. 142/1990.

La giurisdizione della Corte dei Conti nella Costituzione

Il nuovo assetto costituzionale ha confermato il ruolo di primissimo piano ricoperto dalla Corte dei Conti, sia quale organo di controllo che di giurisdizione.

Dai lavori preparatori che hanno preceduto l'emanazione della Costituzione emerge che la Corte dei Conti (unitamente al Consiglio di Stato) è andata esente dal disfavore manifestato dagli Autori della Carta Fondamentale nei confronti delle giurisdizioni speciali.

In merito alla funzione di controllo, infatti, alla pagina 184 dello storico scritto che espone i «Lavori preparatori» della Costituzione si leggono le seguenti argomentazioni: «Nessun dubbio vi fu circa la necessità di rendere la Corte dei Conti costituzionalmente rilevante in quanto essa – osservarono gli On. Mortati, Einaudi e Perassi – è un organo ausiliario del Parlamento nella importante funzione da questo esercitata per il controllo finanziario. Si sottolineò che la Corte dei Conti corrisponde con il Parlamento in due momenti: inviando alle Camere la relazione e il rendiconto generale della spesa alla chiusura del bilancio consuntivo, e trasmettendo alle stesse i decreti registrati con riserva. Ci si augurò, anzi, che questo controllo esercitato dalla Corte divenisse più rigido nel suo duplice aspetto di annullamento di atti illegittimi e di preventiva notifica alle amministrazioni dello Stato di quegli atti che potessero essere contrari alla legge».

Sulla base di questi presupposti, l'art. 100 dellaCostituzione reca le seguenti disposizioni: «La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito» (comma 2). «La legge assicura l'indipendenza dei due Istituti e dei loro componenti di fronte al Governo» (comma 3).

Con riguardo alla funzione giurisdizionale della Corte dei Conti, invece, alle pagine 193 e 194 dello storico scritto che illustra i «Lavori preparatori» della Costituzione si leggono le seguenti considerazioni del Presidente della Commissione, on. Ruini: «Vogliamo andare verso la unicità di giurisdizione, ma lo spirito di concretezza che ci deve animare, per far sì che la nostra riforma sia attuabile e non susciti turbamenti ed inconvenienti, deve tenere conto di una effettiva realtà: che esistono due organi che hanno funzioni giurisdizionali, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, e non potrebbero sopprimersi tali loro funzioni senza perturbare e creare difficoltà al funzionamento della giustizia, nell'interesse dei cittadini. [...]. Credo che non si debba decampare dalla linea generale dell'unicità, con due limiti: la sostituzione di sezioni specializzate, e la conservazione di organi speciali di giurisdizione amministrativa, il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti, che hanno una funzione storica ed una funzione propria che fu conquistata, si noti, non sottraendo la propria competenza alla magistratura ordinaria, ma conquistando nuovi campi di diritto e di libertà ai cittadini. [...]. Quanto alla Corte dei conti, il nucleo e la fonte delle sue funzioni giurisdizionali sono le questioni attinenti alla contabilità pubblica: cui si ha da aggiungere, e così fa l'articolo, le materie che la legge stabilisce per la connessione alla competenza speciale della Corte dei conti».

È sulla spinta di questi ideali che l'art. 103, comma 2, dellaCostituzione ha previsto espressamente quanto segue: «La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge».

Su questa disposizione costituzionale occorre adesso soffermare l'attenzione, dovendosi limitare il presente lavoro allo studio della funzione giurisdizionale del Giudice contabile.

Sono due le principali questioni che solleva l'art. 103, comma 2, Cost.

La prima riguarda la delimitazione del concetto di «materie di contabilità pubblica», (concetto che, per inciso, attualmente ricorre anche nell'art. 1 della l. n. 20/1994 e nell'art. 1 del Codice di Giustizia Contabile).

La seconda afferisce al compito, devoluto al Legislatore ordinario, di completare il precetto costituzionale.

Muovendo dall'esame della prima questione, si rileva che dall'analisi dell'art. 103, comma 2, Cost., emergono subito due dati:

a) per descrivere l'area della giurisdizione della Corte dei Conti, la norma costituzionale ha fatto ricorso ad un «macroconcetto», qual è quello di «materie di contabilità pubblica»;

b) per delimitare la giurisdizione del Giudice contabile, la Costituzione ha utilizzato un criterio fondato sulle «materie».

Analogo approccio ha avuto il Legislatore Costituzionale nei riguardi del Giudice amministrativo.

Come nel caso sub a), infatti, l'area della giurisdizione del G.A. è stata delimitata attraverso il «macroconcetto» di «interesse legittimo»: ai sensi dell'art. 103, comma 1, Cost., infatti, al Giudice amministrativo è stata attribuita la «giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi»; sicché, in sostanza, il criterio di riparto della giurisdizione tra Giudice ordinario e Giudice amministrativo è risultato fondato sulla causa petendi e, più in particolare, è stato sancito che la tutela dei diritti soggettivi spetta di regola al G.O., mentre quella degli interessi legittimi al G.A.

Come nel caso sub b), poi, l'art. 103, comma 1, Cost., nella sua ultima parte, ha previsto che il Giudice amministrativo ha «giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione [...], in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi»: è in questo modo, dunque, che è stato costituzionalizzato il sistema della giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo.

Ebbene, il tema da ultimo rappresentato, legato all'utilizzo del criterio fondato sulle «materie» per la delimitazione della giurisdizione contabile (al pari di quanto avviene per la giurisdizione esclusiva del G.A.), conduce verso lo studio di due soluzioni opposte: da una parte, la giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti; dall'altra parte, il sistema del c.d. «doppio binario» (contabile e civile) in materia di responsabilità.

Detto diversamente, il quesito che si pone è il seguente: (anche) alla Corte dei Conti è attribuita una giurisdizione esclusiva, estesa in particolare alle “materie della contabilità pubblica”?

La complessità della questione appena esposta consiglia una sua autonoma trattazione nel paragrafo dedicato alle «Questioni applicative»: come si dirà, è solo in relazione alla responsabilità amministrativa che tuttora rimane aperto il problema della giurisdizione esclusiva del Giudice contabile, dovendosi viceversa ritenere che alcun dubbio vi sia in merito alla effettiva sussistenza della predetta giurisdizione esclusiva in relazione a tutte le altre materie rientranti nella competenza giurisdizionale della Corte dei Conti.

In questa sede, invece, verrà approfondito esclusivamente il tema legato al «macroconcetto» di «materie di contabilità pubblica» (argomento sub a).

Sul punto già si è detto che il Legislatore costituzionale ha utilizzato uno stile dispositivo simile a quello sperimentato nel primo comma dell'art. 103 relativamente alla giurisdizione amministrativa sugli interessi legittimi.

In entrambi i casi, quindi, il Legislatore Costituzionale ha demandato al Legislatore ordinario ed agli interpreti il compito di definire i confini dei «macroconcetti» proposti nella Carta Fondamentale: con riguardo alla giurisdizione contabile, l'«incarico chiarificatorio» ha avuto ad oggetto il significato della locuzione «materie di contabilità pubblica»; con riferimento alla giurisdizione amministrativa, invece, è emersa la necessità di comprendere quando, in concreto, vi sia lesione degli interessi legittimi (con il conseguente radicamento della giurisdizione in capo al Giudice amministrativo) e quando, viceversa, vi sia lesione dei diritti soggettivi (attribuiti alla cognizione del Giudice ordinario), in disparte l'ulteriore tema (a cui si è già fatto cenno) relativo alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo.

A questo punto vi è da notare che la questione relativa al riparto della giurisdizione tra Giudice ordinario e Giudice amministrativo è stata subito risolta in sede interpretativa: è noto infatti che, già con la storica «sentenza Ferrari» del 1949, le Sezioni Unite della Cassazione hanno a tale riguardo elaborato la dicotomia «carenza di potere» – «cattivo uso del potere», affermando in particolare che se il cittadino nega che il potere sia conferito all'autorità amministrativa, la competenza a conoscere di tale controversia spetta al giudice ordinario, «perché si tratta di accertare se il diritto sia tale anche di fronte alla pubblica amministrazione»; «se, invece, la controversia abbia per suo oggetto l'esercizio, che si pretende scorretto, del potere discrezionale conferito, sotto l'aspetto della competenza, della forma o del contenuto, specie in relazione all'eccesso di potere in tutte le sue manifestazioni, la competenza a conoscere è del giudice amministrativo». Il criterio elaborato nei suddetti termini dalle Sezioni Unite della Cassazione conserva tuttora validità: sicché esso viene ancora costantemente rispettato in sede interpretativa.

Più lenta ed elaborata è stata invece la soluzione della questione inerente la giurisdizione contabile che, come si vedrà, ha interessato principalmente la Corte costituzionale ed il Legislatore ordinario.

I copiosi pronunciamenti della Consulta registrati in materia vanno opportunamente distinti in due fasi.

In un primo momento, infatti, le sentenze della Corte Costituzionale hanno riguardato quelle disposizioni dirette a devolvere le «materie della contabilità pubblica» alla cognizione di «giudici speciali» diversi dalla Corte dei Conti: in questi casi, l'approccio della Corte Costituzionale alla questione in argomento si è rivelato alquanto «prudente».

In un secondo momento, invece, le pronunce della Consulta hanno avuto ad oggetto talune norme introdotte dal Legislatore ordinario al fine di devolvere alcune «materie della contabilità pubblica» alla cognizione del Giudice ordinario: in relazione a queste fattispecie, la Corte ha affrontato il tema relativo alle «materie della contabilità pubblica» in maniera decisamente più incisiva.

Al fine di spiegare l'evoluzione della giurisprudenza costituzionale innanzi segnalata, si rileva quanto segue.

Rientrano nella prima fase le sentenze della Corte Costituzionale n. 17/1965 e n. 55/1966, entrambe relative alla legittimità costituzionale delle disposizioni del r.d. n.383/1934 (c.d. «T.U. della legge comunale e provinciale») dirette a devolvere ai Consigli di Prefettura la cognizione delle questioni inerenti la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti degli enti locali.

Sul punto, già nel precedente paragrafo si è detto che con la sentenzan. 55/1966 la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 260 del r.d. n. 383/1934 per contrasto con il principio di imparzialità del giudice: nell'occasione, infatti, la Consulta ha preliminarmente precisato che «la necessità che le giurisdizioni speciali siano sottoposte a «revisione» ai sensi della VI disposizione transitoria della Costituzione, non importa che prima della «revisione» esse possano continuare a vivere così come sono, anche quando la loro struttura e il loro modo di operare contrasti coi precetti dettati dalla Costituzione per la giurisdizione in generale, e perciò validi per qualsiasi tipo di giurisdizione»; sicché, in sostanza, è stato evidenziato che «i Consigli di prefettura in tanto avrebbero potuto continuare a esercitare legittimamente la propria giurisdizione fino al momento della «revisione», in quanto la loro composizione e il loro funzionamento non apparisse in alcun modo in contrasto coi precetti dettati dalla Costituzione per l'esercizio stesso» (Corte cost. n. 55/1966).

Ciò posto, in questa sede si vuole tuttavia focalizzare l'attenzione soprattutto sul «prudente» approccio manifestato nell'occasione dalla Consulta in relazione alla questione relativa alle «materie di contabilità pubblica».

Invero, al riguardo la Corte ha affermato che «la materia delle controversie relative alla «contabilità pubblica» è di quelle il cui ambito non si riesce a definire – tanto per ciò che riguarda l'oggetto, quanto per ciò che riguarda i soggetti – se non in base a puntuali specificazioni legislative» (Corte cost. n. 17/1965).

Più incisivo – come si è accennato – è stato l'intervento della Consulta allorquando, nella seconda fase dell'evoluzione innanzi tratteggiata, sono state sottoposte al suo sindacato talune norme introdotte dal Legislatore al fine di devolvere alcune «materie della contabilità pubblica» alla cognizione del Giudice ordinario.

Il riferimento va soprattutto alla sentenza n. 641/1987, in cui il sindacato di legittimità costituzionale si è soffermato sulla l. n. 349/1986, istitutiva del Ministero per l'Ambiente, la quale all'art. 18 ha demandato i giudizi per il risarcimento dei danni alla competenza del giudice ordinario.

Nell'occasione, la Consulta ha raccolto l'eredità dei precedenti pronunciamenti costituzionali per evidenziare i quattro seguenti principi fondamentali:

a) la giurisdizione sulle materie di contabilità pubblica «va intesa nel senso tradizionalmente accolto dalla giurisprudenza e dalla legislazione, cioè come comprensiva sia dei giudizi di conto che di responsabilità a carico degli impiegati e degli agenti contabili dello Stato e degli enti pubblici non economici che hanno il maneggio del pubblico denaro»;

b) «la materia di contabilità pubblica non è definibile oggettivamente ma occorrono apposite qualificazioni legislative e puntuali specificazioni non solo rispetto all'oggetto ma anche rispetto ai soggetti»;

c) la predetta materia appare in ogni caso «sufficientemente individuata nell'elemento soggettivo che attiene alla natura pubblica dell'ente (Stato, Regioni, altri enti locali e amministrazione pubblica in genere) e nell'elemento oggettivo che riguarda la qualificazione pubblica del denaro e del bene oggetto della gestione»;

d) la giurisdizione della Corte dei Conti, nelle dette materie di contabilità pubblica, «è solo tendenzialmente generale (tanto che nell'ordinamento precostituzionale la si qualificava giurisdizione speciale) e sono possibili deroghe con apposite disposizioni legislative, specie nella materia della responsabilità amministrativa non di gestione»: pertanto, «proprio in applicazione dell'art. 103, secondo comma, Cost., e nei limiti ad esso imposti, spetta al legislatore la determinazione della sfera di giurisdizione dei giudici (ordinario, amministrativo, contabile, militare ecc...). E nella interpositio del legislatore deve individuarsi il limite funzionale delle attribuzioni giudicanti della Corte dei Conti».

Sulla base di questi presupposti concettuali, la Corte Costituzionale ha nella fattispecie affermato conclusivamente che «la scelta a favore del giudice ordinario operata dal legislatore con il secondo comma dell'art. 18 della l. n. 349/1986, risulta conforme al precetto costituzionale (art. 103, comma 2, Cost.)», giacché «il legislatore può scegliere sanzioni più idonee alla salvaguardia dei pubblici interessi nelle varie materie ed effettuare altresì la conformazione tipologica delle responsabilità» (Corte cost. n. 641/1987).

Alla luce delle argomentazioni complessivamente sostenute dalla Consulta nel procedimento evolutivo bifasico prima tratteggiato, è adesso possibile riassumerne in tre passaggi le conclusioni raggiunte in ordine al tema relativo alle «materie di contabilità pubblica».

In primo luogo, nel disegno del Legislatore costituzionale, per come interpretato dalla Consulta, risulta che la Corte dei conti è il giudice naturale delle controversie nelle «materie» di contabilità pubblica.

In secondo luogo, la materia della contabilità pubblica, di per sé suscettibile di evoluzione, non è definibile oggettivamente.

In terzo luogo, il dettato costituzionale di cui all'art. 103, comma 2, Cost., ha ereditato dalla precedente esperienza normativa ed interpretativa i presupposti per definire almeno nelle linee «essenziali» i due elementi sulla base dei quali si determina l'ambito di cognizione del Giudice contabile nelle materie di contabilità pubblica: l'elemento oggettivo, che riguarda la qualificazione pubblica del denaro e del bene oggetto della gestione, e l'elemento soggettivo, dato dalla natura pubblica dell'ente (Stato, Regioni, altri enti locali e amministrazione pubblica in genere).

Una volta accertato il significato del concetto di «materie di contabilità pubblica» contenuto nell'art. 103, comma 2, Cost., si può passare all'esame della seconda questione innanzi prospettata, al fine di verificare, quindi, se la norma costituzionale abbia valore immediatamente precettivo, o meno.

Al prospettato quesito la Corte Costituzionale ha offerto una risposta costantemente negativa.

Secondo la Consulta, infatti, la giurisdizione della Corte dei Conti nelle «materie di contabilità pubblica» è «tendenzialmente generale» e la sua portata espansiva incontra il «limite funzionale» della «interpositio» del legislatore (Corte cost. n. 773/1988).

Detto diversamente, quindi, l'art. 103, comma 2, Cost. sancisce la «tendenziale» e non assoluta generalità della giurisdizione contabile. Sicché, a parere della Corte costituzionale, ben può accadere che il Legislatore ordinario decida di devolvere talune «materie di contabilità pubblica» alla cognizione del giudice ordinario nei casi in cui risultino lesi diritti soggettivi: in questi casi, dunque, la norma ordinaria non rivelerebbe alcun profilo di illegittimità costituzionale, rispondendo anzi ad un disegno normativo effettivamente concesso dalla Costituzione.

L'art. 103, comma 2, Cost., dunque, non ha un valore immediatamente precettivo: per tale ragione, fermi restando i casi già espressamente o istituzionalmente ricompresi nella giurisdizione contabile, ai fini della concreta attribuzione alla Corte dei Conti della cognizione di specifiche materie di contabilità pubblica occorre, pro futuro, l'opportuna interpositio legislatoris.

L'interpositio del Legislatore può rivelarsi tuttavia non necessaria soltanto al ricorrere di due condizioni: a) che sussista il requisito della «identità oggettiva di materia»; b) che non siano di ostacolo i limiti segnati da altre norme e principi costituzionali, la cui compiuta attuazione può richiedere o suggerire una disciplina diversa.

In presenza di queste due condizioni, quindi, per i casi non ancora coperti da apposita disciplina normativa la potenzialità espansiva della giurisdizione della Corte dei Conti può ritenersi ex se operante.

In questa prospettiva la Corte Costituzionale, raccogliendo l'eredità di tutte le proprie precedenti pronunce, ha spiegato che «la necessità di apposite «valutazioni e deliberazioni» rientranti nella discrezionalità del legislatore (Corte cost. n. 102/1977), discende dal fatto che le questioni sul riparto della giurisdizione involgono scelte in ordine a diversi regimi della responsabilità e del giudizio, tali da «comportare effetti diversi nei riguardi tanto dei responsabili che dei soggetti danneggiati»: sicché soltanto al potere legislativo «può spettare di valutare se e quali siano le soluzioni più idonee alla salvaguardia dei pubblici interessi insiti nella materia de qua» (Corte cost. n. 189/1984). L'esigenza di apposite previsioni legislative, d'altra parte, discende sia dal fatto che – al di là degli aspetti formali (natura pubblica dell'ente e dell'oggetto della gestione) – la materia della contabilità pubblica, di per sé suscettibile di evoluzione, «non è definibile oggettivamente» (Corte cost. n. 641/1987; cfr. anche la Corte cost. n. 17/1965), sia dall'incidenza che sulle valutazioni del legislatore possono avere altri fattori, quali il nesso esistente tra regime dei controlli sugli enti e regime della responsabilità dei funzionari ovvero la configurazione positiva degli organi chiamati a valutare quest'ultima (cfr., per la C. conti n. 230/1987). Avuto riguardo a tutto ciò, ben si comprende che la «tendenziale generalità» della giurisdizione della Corte dei Conti, al di dei casi già in essa espressamente o istituzionalmente ricompresi, necessita normalmente di apposite previsioni legislative e non può sortire un effetto invalidante di norme che facciano ricadere la materia nell'ambito della generale giurisdizione del giudice ordinario; e che, inoltre, la sua potenzialità espansiva può ritenersi operante ex se, nelle ipotesi di carenza di disciplina, solo se sussista il requisito della «identità oggettiva di materia» – da intendersi alla stregua di quanto già detto – e non siano di ostacolo «i limiti segnati da altre norme e principi costituzionali» (sent. n. 129/1981), la cui compiuta attuazione può richiedere o suggerire una disciplina diversa» (Corte cost. n. 773/1988)

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La giurisdizione della Corte dei Conti dopo la Costituzione e sino ai giorni nostri

A distanza di 46 anni dalla Costituzione, con specifico riferimento alla «responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica», il necessario processo di interpositio legislatoris ha preso inizio con l'art. 1 della l. n.20/1994, stimolato dall'esigenza di approntare le opportune misure normative idonee ad arginare il deplorevole fenomeno di «tangentopoli».

Il suddetto processo normativo è stato poi completato dal Codice di Giustizia Contabile, che in maniera chiara e definitiva individua l'area della giurisdizione della Corte dei Conti, col fine di innalzare il livello della tutela delle ragioni dell'erario soprattutto avverso i fenomeni di corruzione e di spreco.

Attraverso il richiamo delle disposizioni recate dal Codice di Giustizia Contabile, quindi, è oggi possibile accedere ad un'esaustiva ricognizione di tutte le materie devolute alla giurisdizione del Giudice contabile.

È proprio la norma di esordio del Codice a delimitare l'area della giurisdizione contabile.

Ai sensi dell'art. 1, comma 1, c.g.c., infatti, «La Corte dei conti ha giurisdizione nei giudizi di conto, di responsabilità amministrativa per danno all'erario e negli altri giudizi in materia di contabilità pubblica»: in questo modo, il Legislatore del 2016 ha innanzitutto ribadito l'affermazione della giurisdizione della Corte dei Conti in relazione ai giudizi di responsabilità amministrativa per danno all'erario, in linea con la precedente previsione di cui all'art. 1 della l. n. 20/1994; in aggiunta, è stata altresì confermata la storica giurisdizione del Giudice contabile nei giudizi di conto.

Il successivo comma 2, poi, prevede che sono devoluti alla giurisdizione della Corte dei conti i giudizi in materia pensionistica, i giudizi aventi per oggetto l'irrogazione di sanzioni pecuniarie e gli altri giudizi nelle materie specificate dalla legge.

Anche attraverso tale disposizione, quindi, il Legislatore ha confermato la storica giurisdizione della Corte dei Conti in materia pensionistica, arrivando poi inevitabilmente ad aggiungere nell'alveo della predetta giurisdizione anche i giudizi aventi per oggetto l'irrogazione di sanzioni pecuniarie, che per vero sono stati sin dall'inizio concepiti come «un abito su misura» per il Giudice contabile.

Il quadro normativo delle competenze giurisdizionali della Corte dei Conti è poi completato da due ulteriori disposizioni.

La prima è rappresentata dall'art. 11, comma 6, c.g.c., che attribuisce alle Sezioni Riunite in speciale composizione, nell'esercizio della propria giurisdizione esclusiva in tema di contabilità pubblica, la competenza a decidere in unico grado sui giudizi: a) in materia di piani di riequilibrio degli enti territoriali e ammissione al Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali; b) in materia di ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall'ISTAT; c) in materia di certificazione dei costi dell'accordo di lavoro presso le fondazioni lirico-sinfoniche; d) in materia di rendiconti dei gruppi consiliari dei consigli regionali; e) nelle materie di contabilità pubblica, nel caso di impugnazioni conseguenti alle deliberazioni delle sezioni regionali di controllo; f) nelle materie ulteriori, ad esse attribuite dalla legge.

A tale proposito giova evidenziare che, attraverso la prescritta speciale composizione, si realizza in seno alle Sezioni Riunite la sintesi delle diverse funzioni della Corte dei Conti, quella giurisdizionale e quella di controllo, esplicitandosi in questo modo l'unitarietà dell'Istituto.

La seconda disposizione che in questa sede merita richiamare è l'art. 73 c.g.c., rubricato «Mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale e altre azioni», in base al quale «Il pubblico ministero, al fine di realizzare la tutela dei crediti erariali, può esercitare tutte le azioni a tutela delle ragioni del creditore previste dalla procedura civile, ivi compresi i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale di cui al libro VI, Titolo III, Capo V, del codice civile»: sicché, in base all'espresso dato normativo, è anche in relazione alle relative azioni processuali che si estende la giurisdizione contabile giacché, come si legge nella Relazione illustrativa che accede al Codice di Giustizia Contabile, esso «racchiude le disposizioni processuali di tutte le tipologie dei giudizi che si svolgono davanti alla Corte dei Conti».

Ebbene, le disposizioni innanzi richiamate consentono senza dubbio di comprendere quali siano, in concreto, le «materie di contabilità pubblica» devolute alla giurisdizione della Corte dei Conti, secondo l'originario progetto dei Costituenti.

In aggiunta, l'esercitata interpositio legislatoris di cui al d.lgs. n. 174/2016 non lascia alcun dubbio circa l'affermata sussistenza della giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti (e, in particolare, delle Sezioni Riunite in speciale composizione) nelle sei materie indicate dall'art. 11, comma 6, c.g.c.

Tuttavia, rimane ancora oggi aperta una questione di assoluto rilevo, relativa alla possibilità di riconoscere in capo alla Corte dei Conti la giurisdizione esclusiva anche nelle ulteriori materie di contabilità pubblica indicate dall'art. 1 c.g.c. (a cui sono peraltro connesse quelle enunciate dall'art. 73 c.g.c.).

Al prospettato quesito deve darsi una duplice risposta.

Invero, alcun dubbio sussiste in merito al fatto che alla Corte dei Conti sia devoluta la giurisdizione esclusiva nei giudizi di conto, nei giudizi di responsabilità contabile e nei giudizi aventi per oggetto l'irrogazione di sanzioni pecuniarie, trattandosi di giudizi «ontologicamente» concepiti come devoluti alla cognizione esclusiva del Giudice contabile.

Medesimo discorso vale per il giudizio in materia pensionistica, che abbraccia tutte le questioni relative al sorgere ed al modificarsi del diritto al trattamento di quiescenza ed alla quantificazione di esso, estendendosi altresì alle ulteriori problematiche connesse, quali il riscatto dei periodi di servizio e la ricongiunzione dei periodi assicurativi (Cass. S.U., n. 4623/1989), il riscatto degli anni del corso di laurea ed il ricongiungimento di tale periodo ai fini del trattamento pensionistico (Cass. S.U., n. 11869/2016), gli assegni accessori (Cass. S.U., n. 662/1989), il riconoscimento, anche in via autonoma, del diritto agli interessi e alla rivalutazione monetaria per tardato pagamento di ratei pensionistici (Cass. S.U., n. 573/2003), il recupero di somme indebitamente corrisposte erogate dalle p.a. (Cass. S.U., n. 3733/1994), l'accertamento delle somme necessarie, quali contributi volontari, per ottenere la pensione e la consequenziale domanda di ripetizione degli importi versati in eccedenza rispetto al dovuto (Cass. S.U., n. 26252/2018), il ricalcolo della pensione per effetto del riconoscimento del diritto alla perequazione automatica (Cass. S.U., n. 29395/2018), l'accertamento dell'invalidità (in misura superiore al 74 per cento) finalizzato ad ottenere il beneficio di due mesi di contribuzione figurativa utile ai fini del diritto alla pensione e dell'anzianità contributiva (Cass. S.U., n. 12903/2021).

Dal novero delle materie che si è innanzi proposto rimane esclusa soltanto la responsabilità amministrativa.

Ed effettivamente, è solo per questa forma di responsabilità che attualmente si pone il problema se sussista la giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti, o meno.

Ebbene, poiché la soluzione del predetto problema presuppone l'analisi di questo specifico istituto, si ritiene opportuno rimandare lo studio dell'argomento al paragrafo dedicato alle «Questioni applicative».

La responsabilità erariale

Il presente lavoro ha preso le mosse dall'analisi del primo periodo dell'art. 1 della l. n. 20/1994, che dà per acquisita la conoscenza del fondamentale concetto di «responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica».

Il predetto concetto – come si è detto – va scomposto in due parti: da una parte la «responsabilità»; dall'altra parte la «giurisdizione».

Nel precedente paragrafo è stato delineato il perimetro della giurisdizione della Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica, sull'assunto che la trattazione del tema della giurisdizione sia prioritaria rispetto all'analisi della responsabilità: è invero intuitivo che, solo dopo aver compreso quali siano – in generale – le materie di contabilità pubblica che l'art. 103, comma 2, Cost., devolve alla giurisdizione della Corte dei Conti, sia poi possibile studiare «quella particolare materia» rappresentata dalla «responsabilità».

Ebbene, è giunto adesso il momento propizio per studiare il significato del concetto di «responsabilità» utilizzato dal richiamato art. 1 della l. n. 20/1994.

Già si è detto che la norma va riferita esclusivamente alla responsabilità amministrativa ed alla responsabilità contabile, che hanno costituito le prime forme di responsabilità erariale, introdotte dal Legislatore ben prima della Costituzione.

Tra la categoria generale della responsabilità erariale e le figure particolari della responsabilità amministrativa e della responsabilità contabile vi è dunque un rapporto genus-species.

A livello qualificatorio, poi, le due predette forme particolari di responsabilità risultano unificate dal concetto di responsabilità amministrativo-contabile, costantemente utilizzato in sede interpretativa.

Al di là delle formali etichette, però, è all'art. 1 della l. n. 20/1994 che va per vero attribuito il merito di aver agevolato l'individuazione dei fattori comuni alle due predette forme di responsabilità.

Sicché, proprio alla luce della disciplina recata dalla predetta disposizione è possibile definire la responsabilità amministrativo-contabile come quel particolare tipo di responsabilità erariale che grava sul soggetto legato alla P.A. da un rapporto di impiego o di servizio, per il danno cagionato alla stessa Amministrazione con dolo o colpa grave.

Quella innanzi proposta costituisce quindi una nozione valida sia per la responsabilità amministrativa che per quella contabile, giacché per entrambe occorrono i seguenti presupposti: a) la condotta (attiva o omissiva) del soggetto legato alla P.A. da un rapporto di lavoro o di servizio; b) il danno erariale; c) il nesso causale tra la condotta e il danno; d) l'elemento psicologico, rappresentato dal dolo o dalla colpa grave.

La differenza principale tra le due predette forme di responsabilità riguarda invece la figura del soggetto «responsabile», da cui conseguono le ulteriori differenze determinate, in primo luogo, dalla condotta dannosa rimproverabile e, in secondo luogo, dal regime della prova dell'elemento soggettivo.

Se è vero, infatti, che in entrambi i casi il soggetto «responsabile» è legato alla P.A. da un rapporto di impego o di servizio, solo nel caso di responsabilità contabile egli deve essere altresì un agente contabile che, nell'esercizio di questa specifica funzione, abbia cagionato un danno all'Amministrazione.

Detto diversamente, la responsabilità contabile è rimproverabile esclusivamente agli agenti contabili che abbiano cagionato un danno erariale nell'esercizio della loro funzione.

Da ultimo, si precisa che il sistema generale delle responsabilità erariali è completato dalla c.d. responsabilità sanzionatoria.

Come si dirà meglio infra, però, la responsabilità sanzionatoria presenta caratteri differenti rispetto a quelli previsti dall'art. 1 della l. n. 20/1994 (soprattutto perché essa ontologicamente prescinde dal danno erariale): pertanto, la definizione innanzi proposta non vale per questo tipo di responsabilità.

La responsabilità amministrativa

La responsabilità amministrativa rappresenta quella particolare tipologia di responsabilità amministrativa rimproverabile al soggetto (pubblico o privato) legato alla P.A. da un rapporto di impiego o di servizio il quale, senza svolgere la funzione di «agente contabile», cagiona con dolo o colpa grave un danno (patrimoniale e non patrimoniale) alla stessa o ad un'altra Amministrazione.

La dinamica dell'illecito è quella già illustrata nel precedente paragrafo e si fonda perciò sui quattro seguenti presupposti: condotta, danno, nesso causale ed elemento psicologico.

Tra questi, solo il nesso causale presenta caratteri comuni alle altre forme di responsabilità conosciute dall'ordinamento e necessita perciò di un accertamento fondato sulle regole tipiche della causalità.

Viceversa, gli elementi che realmente caratterizzano questo tipo di responsabilità sono gli altri tre, vale a dire: a) la condotta, che deve risultare connessa al rapporto di impego o di servizio intercorso tra il responsabile e l'Amministrazione; b) il danno, che deve necessariamente essere «erariale»; c) l'elemento psicologico, che può essere rappresentato soltanto dal dolo o dalla colpa grave (con esclusione, dunque, della colpa lieve).

Lo studio di quest'ultimo elemento va opportunamente rinviato al successivo paragrafo 7 poiché, come si vedrà, l'elemento psicologico è stato così fortemente inciso da recenti interventi normativi da meritare un'apposita trattazione.

In questa sede, invece, verranno approfonditi i caratteri della condotta connessa al rapporto di impiego o di servizio e del danno erariale.

Si tratta di due elementi strettamente correlati, giacché non può esservi danno «erariale» senza «rapporto di impiego o di servizio»: pertanto, ove il medesimo danno venga causato da un cittadino che non ha alcun rapporto di impiego o di servizio con l'Amministrazione, l'ipotesi di responsabilità che verrebbe in rilevo sarebbe quella «civile» e non quella «amministrativa».

A tale specifico riguardo, quindi, attenta dottrina (Longavita, 9) ha opportunamente evidenziato che il rapporto di impiego o di servizio costituisce l'elemento idoneo a collocare l'illecito derivante da responsabilità amministrativa nel novero degli illeciti «propri», ossia tra gli illeciti che possono essere commessi solo da persone che rivestono una particolare posizione (quale è quella, appunto, di titolare di un rapporto di impiego o di servizio con l'Amministrazione).

Tuttavia, occorre qui ribadire ciò che già si è anticipato nel primo paragrafo, e cioè che nel caso di responsabilità amministrativa difettano in capo al soggetto responsabile i requisiti tipici dell'agente contabile: sicché è proprio questo dato che consente di distinguere questa forma di responsabilità da quella denominata responsabilità contabile.

Ciò detto, occorre evidenziare che l'evoluzione della responsabilità amministrativa è stata alimentata dalla progressiva espansione del significato attribuito al concetto di rapporto di servizio e di danno erariale: nel corso del tempo, infatti, questi due concetti hanno conosciuto specifici percorsi evolutivi, indipendenti l'uno dall'altro, all'esito dei quali è risultato allargato, a monte, l'intero perimetro della responsabilità amministrativa.

Si tratta a questo punto di analizzare i caratteri salienti dei predetti percorsi evolutivi, che verranno perciò illustrati nei successivi paragrafi.

Il rapporto di servizio

Il rapporto di impiego e il rapporto di servizio legano, a monte, l'Amministrazione e l'autore di quella condotta che, a valle, produce un danno erariale.

Affinché vi sia responsabilità amministrativa, dunque, è necessario accertare innanzitutto che la condotta del soggetto responsabile sia stata posta in essere nell'ambito del rapporto di impiego o di servizio che lo lega all'Amministrazione e che essa abbia trovato proprio nell'espletamento dell'impiego o del servizio l'occasione necessaria per la sua verificazione (c.d. vincolo di occasionalità necessaria).

Vi è da notare, però, che originariamente era solo il rapporto di impiego (o di lavoro) alle dipendenze della P.A. a costituire il presupposto della responsabilità amministrativa.

In altri termini, secondo la tradizionale impostazione normativa e interpretativa, i soggetti esposti alla responsabilità amministrativa erano solo quelli legati all'Amministrazione da un rapporto di impiego (o di lavoro).

Successivamente, però, si è affermata in sede interpretativa anche la nozione di “rapporto di servizio”, con il fine di aprire il sistema della responsabilità amministrativa anche ai soggetti privati slegati da un rapporto di impiego (o di lavoro) alle dipendentenze dell'Amministrazione.

Il principale fattore che ha determinato questa evoluzione è rappresentato dal mutamento dei caratteri dell'azione pubblica in nome delle esigenze del mercato e, più in generale, dell'economia: sicché, per un verso, rileva la circostanza che l'Amministrazione abbia fatto sempre più frequentemente ricorso a moduli privatistici per il soddisfacimento dell'interesse pubblico, secondo un sistema affermatosi prima nella prassi e successivamente in sede normativa (art. 1, commi 1-bis e 1-ter, l. n. 241/1990, introdotti con l. n. 15/2005); per un altro verso, rileva il fatto che la Pubblica Amministrazione, utilizzando risorse economiche provenienti dal bilancio pubblico, ha nel tempo coinvolto sempre di più i privati nella struttura organizzativa dell'ente o nelle iniziative funzionali al perseguimento degli interessi pubblici.

Da questa modifica dell'azione pubblicistica, allora, è scaturito un allargamento delle «materie della contabilità pubblica» che l'art. 103, comma 2, Cost., riserva alla giurisdizione contabile: ciò perché, in sostanza, è rientrato nel concetto di contabilità pubblica non più soltanto il danno erariale cagionato dalla violazione degli obblighi di lavoro da parte dei dipendenti pubblici, ma anche il danno procurato alle casse pubbliche in conseguenza dell'inclusione dei soggetti privati nelle trame delle iniziative sottese al perseguimento dell'interesse pubblico.

È così dunque che, in omaggio al principio della unitarietà della finanza pubblica, nella seconda metà del secolo scorso la giurisprudenza della Corte dei Conti (prima) e quella delle Sezioni Unite della Cassazione (poi) hanno iniziato ad affermare la sussistenza della giurisdizione contabile al di là dei casi di rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione, sull'assunto che il «rapporto di servizio» costituisce un elemento in grado di mutare in senso pubblicistico il ruolo dell' extraneus che, proprio in forza di tale rapporto, venga ad inserirsi (anche solo temporaneamente) nella struttura organizzativa dell'ente, nel cui ambito giunga ad operare in forza di un legame sostanzialmente equiparabile a quello dell'appartenenza organica.

Non vi è dubbio che su questa impostazione abbia influito anche la contemporanea valorizzazione della responsabilità contabile dei cc.dd. «agenti contabili di fatto»: come si dirà meglio nel successivo paragrafo 4.5., infatti, già dal 1924 il Legislatore aveva esteso l'ambito della responsabilità contabile non solo ai «contabili di diritto» ma anche ai contabili di fatto, qualificati espressamente come i soggetti che si ingeriscono senza legale autorizzazione negli incarichi attribuiti ai contabili di diritto.

Sicché, questo approccio normativo di tipo «sostanziale» alla materia della responsabilità contabile ha certamente influito anche sul parallelo approccio «sostanziale» riservato alla nozione di rapporto di servizio, che in questo modo ha dunque potuto allargare i propri confini.

Si è trattato invero di un allargamento «progressivo», che ha preso consistenza man mano che le «nuove fattispecie» di danno erariale sono state portate alla cognizione della Corte dei Conti e delle Sezioni Unite della Cassazione, investite delle questioni ex art. 111, ultimo comma, Cost..

Dall'analisi della giurisprudenza affermatasi in argomento, peraltro, si evince che l'allargamento del concetto di rapporto di servizio ha seguito sostanzialmente due binari interpretativi.

Il primo è stato quello diretto alla valorizzazione del fenomeno dell'inserimento del privato nei moduli organizzativi di matrice pubblicistica, da cui è stata fatta discendere l'assunzione, da parte dello stesso privato, di particolari vincoli ed obblighi diretti ad assicurare il buon andamento dell'attività affidata e la rispondenza di essa alle esigenze generali cui è preordinata.

Il secondo è stato invece quello che ha portato ad includere nel concetto di rapporto di servizio i soggetti privati percettori di contribuzioni pubbliche, laddove il fattore determinante per questa nuova (e più estesa) concezione di rapporto di servizio è stato rappresentato dallo scopo perseguito con la contribuzione pubblica.

È testimone del primo approccio interpretativo la sentenza Cass. S.U., n. 2668/1993, dove si legge che «è giurisprudenza ferma di questa Corte che la giurisdizione della Corte dei Conti in materia di responsabilità per danno cagionato allo Stato ed agli Enti pubblici non economici da appartenenti alla Pubblica Amministrazione nell'esercizio delle loro funzioni (artt. 83 r.d. n. 2440/1923 e 52 r.d. n. 1214/1934) comprende non solo le ipotesi di responsabilità patrimoniale per danni derivanti da rapporto di pubblico impiego, ma anche quelle inerenti ad un rapporto di semplice servizio, rapporto quest'ultimo che ricorre quando un soggetto venga comunque investito dello svolgimento in modo continuativo di una determinata attività in favore della Pubblica amministrazione con inserimento in moduli organizzativi di essa e con assunzione di particolari vincoli ed obblighi diretti ad assicurare il buon andamento dell'attività affidata e la rispondenza di essa alle esigenze generali cui è preordinata» (cfr. Cass. n. 5184/1979; Cass. n. 6177/1983; Cass. n. 6329/1985; Cass. n. 2611/1990).

Questa impostazione interpretativa è rimasta inalterata nelle conclusioni sino ai nostri giorni, mentre si sono raffinate nel tempo le sue ragioni fondanti.

A dimostrazione dell'assunto si richiama la recente sentenzan. 2157/2021 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con cui è stato proposto un decalogo dei requisiti di quel «rapporto di servizio» idoneo ad includere i soggetti estranei all'Amministrazione nei moduli organizzativi di matrice pubblicistica.

Sono stati quattro i requisiti del «rapporto di servizio» all'uopo individuati.

In primo luogo, l'attribuzione al soggetto privato esterno dell'incarico di svolgere, nell'interesse e con le risorse della P.A., un'attività o un servizio pubblico in sua vece e con suo inserimento nell'apparato organizzativo della stessa.

In secondo luogo, l'idoneità della relazione instauratasi tra privato ed ente pubblico a rendere il primo compartecipe dell'operato del secondo, così da assumere la veste di vero e proprio agente dell'amministrazione, come tale tenuto ad osservare particolari vincoli ed obblighi funzionali ad assicurare il perseguimento delle esigenze generali cui l'attività amministrativa dell'ente, nel suo complesso, è preordinata.

In terzo luogo, l'irrilevanza del titolo della gestione dell'attività pubblica di cui il privato risulti investito, potendo questo titolo essere costituito tanto da un formale rapporto di pubblico impiego o di servizio, quanto da una concessione amministrativa o anche da un contratto di diritto privato; così come anche mancare del tutto, con l'instaurazione di un rapporto non formalizzato e puramente di fatto.

In quarto luogo, la conseguente ininfluenza della circostanza che le concrete modalità di svolgimento del servizio rispondano a quelle rientranti negli schemi generali previsti e disciplinati dalla legge per un determinato tipo di rapporto, oppure in tutto o in parte se ne discostino.

Sulla base dei quattro presupposti innanzi individuati, nella fattispecie scrutinata dalle Sezioni Unite in occasione della richiamata sentenza Cass. S.U., n. 2157/2021 è stata esclusa la sussistenza di un rapporto di servizio tra la Banca d'affari Morgan Stanley e il Ministero dell'Economia e delle Finanze in relazione alla stipulazione, rinegoziazione, ristrutturazione ed anticipata chiusura di alcuni contratti in prodotti finanziari derivati sottoscritti dallo Stato Italiano a copertura di rischi di interesse e di cambio su titoli del debito pubblico nazionale, via via emessi in valuta domestica ed estera: ciò sull'assunto della mancanza dell'elemento caratteristico del rapporto di servizio, rappresentato dall'investitura della Banca di una funzione pubblicistica, comportante il suo inserimento nella struttura organizzativa del Ministero con effetto sostanzialmente sostitutivo delle valutazioni e delle decisioni di quest'ultimo in ordine alle scelte di gestione del debito pubblico e di negoziazione di contratti in strumenti di finanza derivata.

Il secondo binario lungo il quale, come anticipato, si è mosso l'allargamento del perimetro del concetto di rapporto di servizio è stato quello che ha coinvolto i soggetti privati percettori di contribuzioni pubbliche, laddove il fattore determinante per il predetto allargamento è stato rinvenuto negli scopi perseguiti con la contribuzione pubblica.

In questo senso, in sede interpretativa si è radicato il convincimento lucidamente espresso dalla sentenzan. 10094/2014 delle Sezioni Unite della Corte diCassazione che, richiamando i propri precedenti pronunciamenti (sentenze Cass. S.U., n. 23257/2014, Cass.S.U., n. 11229/2014; Cass.S.U., n. 26034/2013 e Cass.S.U., n. 1774/2013), ha affermato che «ai fini del riconoscimento della giurisdizione della Corte dei conti per responsabilità amministrativa, deve aversi riguardo, non alla qualità del soggetto che gestisce il denaro pubblico (che ben può essere un soggetto di diritto privato, destinatario della contribuzione), bensì alla natura del danno ed alla portata degli scopi perseguiti con la contribuzione stessa. Ne consegue che qualora l'amministratore di un ente, anche avente natura privata, cui siano erogati contributi pubblici, per effetto di sue scelte omissive o commissive incida negativamente sul modo d'essere del programma imposto dalla pubblica amministrazione alla cui realizzazione è chiamato a partecipare con l'atto di concessione del contributo, in tal modo determinando uno sviamento dalle finalità perseguite, egli provoca un danno per l'ente pubblico, e di tal danno deve rispondere davanti al giudice contabile. La responsabilità contabile, infatti, si radica sul presupposto dell'esistenza di una relazione funzionale tra l'autore dell'illecito causativo di danno patrimoniale e l'ente pubblico che subisce il danno medesimo: e tale relazione è configurabile non solo in presenza di un rapporto organico (c.d. rapporto di impiego), ma anche quando sia ravvisabile comunque un rapporto di servizio in senso lato, in quanto il soggetto, pur se estraneo alla pubblica amministrazione, venga investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una data attività della pubblica amministrazione. Più in particolare, qualora il soggetto giuridico fruitore dei fondi pubblici sia un ente privato, la responsabilità erariale attinge anche coloro che con detto ente abbiano intrattenuto un rapporto organico, ove dai comportamenti da loro tenuti sia derivata la distrazione dei fondi dal fine pubblico cui erano destinati, giacché il parametro di riferimento della responsabilità erariale (e, quindi, della giurisdizione contabile) è rappresentato dalla provenienza dal bilancio pubblico dei fondi erogati e dal dovere facente capo a tutti i soggetti che tali fondi amministrano di assicurarne l'utilizzo per i fini cui gli stessi sono destinati».

I principi ermeneutici espressi in tal senso dalle Sezioni Unite conservano tuttora validità e vengono perciò costantemente richiamati dalla recente giurisprudenza.

A dimostrazione dell'assunto, si sottolinea che proprio sulla base dei predetti principi la giurisprudenza contabile ha da ultimo escluso che sussista un rapporto di servizio (e, conseguentemente, la giurisdizione della Corte dei Conti) tra il soggetto privato percettore del reddito di cittadinanza e l'Amministrazione statale.

In particolare la Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale Campania (ex multis, C. conti, sez. Campania, n. 336/2021), ha negato a più riprese che nella fattispecie sussista un rapporto di servizio, sull'assunto per cui il reddito di cittadinanza costituisce un beneficio assistenziale in favore del solo percettore privato che, come tale, si colloca nell'ambito di un complesso disegno normativo diretto al contrasto alla povertà, exartt. 2 e 38 Cost.

In questo senso, è stato evidenziato che «la finalità di contrasto alla povertà e di politica attiva del lavoro è perseguita non attraverso la concessione di un contributo finalizzato al fine di far gestire al beneficiario risorse pubbliche ponendo in essere attività pubblicistiche in vece della pubblica amministrazione (e quindi attraverso la traduzione delle finalità politiche sottese alla normativa in esame in un vincolo giuridico/funzionale in capo al beneficiario del contributo), ma attraverso la previsione di molteplici interventi e servizi sociali di contrasto alla povertà».

Per questa via, è stato sottolineato che il reddito di cittadinanza costituisce un contributo che «risponde a una finalità assistenziale attraverso vantaggi che riguardano in via diretta il solo beneficiario, in quanto gli interessi pubblici perseguiti dalla normativa in esame non si traducono in un vincolo giuridico di funzionalizzazione del contributo (il che renderebbe il soggetto compartecipe di un programma pubblicistico idoneo a radicare la giurisdizione di questa Corte), tantomeno nell'inserimento funzionale e con carattere di continuità nell'apparato organizzativo dell'amministrazione e nella gestione di risorse pubbliche, con l'attribuzione di compiti specifici da esercitare per conto della p.a. nell'ambito di un pubblico interesse affidato dalla legge a quest'ultima».

Sicché, esclusa nella fattispecie la sussistenza di un rapporto di servizio (e quindi, la giurisdizione della Corte di Conti in relazione alla posizione dei privati percettori del reddito di cittadinanza), il Giudice contabile ha fatto notare che la questione relativa all'indebito percepimento del reddito di cittadinanza può comunque giungere alla propria cognizione sotto un diverso profilo, questa volta afferente alla responsabilità dei dirigenti e dei funzionari dell'Amministrazione che non si attivino per il recupero del contributo indebitamente concesso, causandone la perdita.

Da ultimo, merita segnalare in questo contesto l'importanza del recente pronunciamento delle Sezioni Unite della Cassazione, che in tema di illegittima percezione di incentivi per impianti fotovoltaici hanno chiarito che, «ai fini dell'astratta configurabilità di un danno erariale con conseguente radicamento della giurisdizione contabile, non è indispensabile un utilizzo diverso della risorsa rispetto alla sua preordinata destinazione, ma è sufficiente che il beneficiario l'abbia illegittimamente percepita» (Cass. S.U., n. 3100/2022).

In chiusura del presente paragrafo, è lecito evidenziare che dall'evoluzione del concetto di rapporto di servizio innanzi tratteggiata si ricava conclusivamente il seguente insegnamento: affinché un soggetto estraneo all'Amministrazione possa dirsi coinvolto in un rapporto di servizio con la stessa Amministrazione, è necessario accertare, volta per volta, che il privato sia effettivamente investito di una funzione pubblica o che sia pubblicistico lo scopo del contributo erogato in favore del privato.

Il danno erariale

Il danno erariale è quella particolare tipologia di danno procurato all'Amministrazione dal soggetto ad essa legato da un rapporto di impiego o di servizio.

Al pari del concetto di rapporto di servizio, pure il concetto di danno erariale ha conosciuto nel tempo un'evoluzione idonea ad allargare il perimetro della responsabilità amministrativa.

L'evoluzione del concetto di danno erariale, però, è stata proiettata verso due direzioni differenti.

La prima forma di evoluzione ha determinato l'emersione di nuove fattispecie di danno erariale in conseguenza di quel mutamento dell'azione pubblica già descritto nel precedente paragrafo.

La seconda forma di evoluzione, invece, ha interessato la natura stessa del danno erariale, che originariamente è stato concepito come danno meramente patrimoniale e successivamente ha assunto la forma anche di danno non patrimoniale, sub specie di danno all'immagine: ciò in ragione dell'avvertita consapevolezza che taluni fatti di cattiva amministrazione (e, in particolare, talune fattispecie di rilievo penale) incidono negativamente sul prestigio dell'Amministrazione, determinando così una lesione della sua immagine.

Ebbene, con riguardo alla prima forma di evoluzione va evidenziato che, originariamente, il danno erariale è stato ricondotto esclusivamente alle condotte dei dipendenti pubblici.

Il coinvolgimento dei soggetti privati nelle iniziative pubblicistiche ha tuttavia determinato inevitabilmente l'enucleazione di nuove fattispecie di danno erariale.

Tali danni erariali di nuova generazione sono emersi principalmente in relazione al fenomeno delle cc.dd. società partecipate e delle società in house.

Emblematico, infatti, è il caso del danno erariale ricondotto alla lesione della quota societaria appartenente all'Amministrazione nella sua veste di socia di una società partecipata.

Con riguardo a tale fattispecie, la giurisprudenza ha di recente affermato la sussistenza della giurisdizione contabile in relazione al danno erariale cagionato da chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio (omettendo di esercitare le azioni di responsabilità alle quali egli sia direttamente legittimato in relazione agli atti di mala gestio imputabili agli amministratori o agli organi di controllo della società partecipata), così pregiudicando il valore della partecipazione pubblicistica (ex multis, Cass. S.U., n. 26283/2013 e Cass.S.U., n. 15942/2014).

Questa impostazione interpretativa è stata attentamente considerata dal Legislatore, che al momento dell'introduzione del d.lgs. n. 175/2016 (Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica) ha assorbito il predetto orientamento ermeneutico nell'art. 12, rubricato «Responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti degli organi delle società partecipate».

In particolare, se è vero che il primo periodo del comma 1 della disposizione stabilisce che «I componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali», è altrettanto vero che il secondo alinea dello stesso comma 1 prevede che «È devoluta alla Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, la giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale di cui al comma 2».

Sicché, a chiarimento di ogni dubbio, il comma 2 dell'art. 12 offre una formale investitura a questa nuova tipologia di danno erariale, sancendo espressamente che «costituisce danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subìto dagli enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell'esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione».

L'attuale giurisprudenza si muove esattamente nel solco tracciato dal Legislatore, sottolineando che, ai fini della risarcibilità di questa particolare tipologia di danno erariale, la Procura contabile deve dimostrare che si è determinato un pregiudizio al valore della partecipazione societaria proprio in conseguenza del comportamento omissivo di coloro che rappresentano la parte pubblica all'interno della società partecipata (Cass. S.U., n. 17188/2018).

Si tratta in ogni caso di una soluzione (interpretativa prima e normativa poi) fortemente criticata dalla dottrina, in quanto giudicata sostanzialmente insufficiente a garantire l'adeguata tutela dell'erario pubblico.

È stato infatti evidenziato che il quadro complessivo che attualmente raffigura il perimetro della giurisdizione della Corte dei Conti su amministratori, soci e organi di controllo di società a partecipazione pubblica, «frutto del combinato-disposto di fonti legislative e interventi interpretativi delle sezioni unite della Cassazione (oggi avallati dal sopravvenuto art. 12 del d.lgs. n. 175/2016 [...]), è, senza inutili giri di parole, desolante ed espressivo di un disegno scientemente (per il legislatore) e incoscientemente (per la Cassazione) teso a depotenziare la sfera d'azione della Corte dei conti in uno dei settori, quello della mala gestio di amministratori e dipendenti nelle società a partecipazione pubblica, in cui comportamenti poco virtuosi o illeciti sono frequenti ed in crescita per vari motivi, tra i quali la assenza di adeguati controlli esterni e imparziali e la possibile (colposa o dolosa) inerzia della compagine sociale, spesso incapace di cogliere profili di illegalità dei vertici gestionali o non interessata a perseguirli con le pur esistenti azioni civilistiche. Difatti, mentre l'azione civile (actio pro socio o pro societate) è volontaria e non coartata, l'azione della Procura contabile è officiosa ed obbligatoria: devolvere al socio l'azione per danni arrecati da amministratori significa «confidare» nella sua (non sempre riscontrabile) volontà di attivarsi in sede civile (fermo restando che la mancata attivazione, ove accertata da organi di controllo interni, se realmente «terzi», origina una responsabilità erariale da segnalare doverosamente alla Corte ex art. 1, comma 3, l. n. 20/1994 ed ex art. 52, d.lgs. n. 174/2016)» (Tenore, 131 e 132).

A dispetto del limitato raggio di azione concesso alla Procura Contabile in relazione alle società partecipate, è risultato ben più esteso il perimetro dell'avanguardista danno erariale legato alla condotta degli organi delle società in house, per tali intendendosi quelle società costituite da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente tali enti sono soci, che statutariamente esplicano la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione è per statuto assoggettata ad un controllo analogo a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici.

Ebbene, in relazione a questa tipologia di danno di nuova generazione il recente orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione (ex multis, Cass. S.U., n. 26283/2013) è nel senso che gli organi sociali sono direttamente esposti all'azione di responsabilità amministrativa nel caso di eventuale danno procurato al patrimonio della società in house.

L'assunto per il quale è «erariale» il danno al patrimonio subìto dalla società in house, si fonda sull'idea che le società in house hanno solo la forma esteriore di «società», ma costituiscono in realtà delle articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano: non si tratta, quindi, di soggetti giuridici esterni all'Ente pubblico e da esso autonomi.

Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un mero munus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società.

Invero essi, essendo preposti ad una struttura corrispondente ad un'articolazione interna alla stessa pubblica amministrazione, sono a questa personalmente legati da un vero e proprio rapporto di servizio, non diversamente da quanto accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall'ente pubblico.

Pertanto, se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l'ente pubblico partecipante e la società in house che ad esso fa capo, è giocoforza concludere che anche la distinzione tra il patrimonio dell'ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità. Dal che discende che, in questo caso, il danno eventualmente inferto al patrimonio della società da atti illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza imputabile agli organi di controllo, è arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all'ente pubblico: è quindi un danno erariale, che come tale giustifica l'attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione sulla relativa azione di responsabilità.

Pure di questa nuova tipologia di danno erariale il Legislatore ha sancito la formale investitura.

La norma di riferimento è sempre l'art. 12 del d.lgs. n.175/2016 che, con riguardo a questa fattispecie, al primo comma stabilisce che resta «salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house».

Ebbene, all'esito dell'evoluzione sin qui tratteggiata risulta evidente come il danno erariale, originariamente ricondotto alla violazione degli obblighi di servizio posti a carico dei dipendenti pubblici, è rimasto nel tempo coinvolto nelle nuove dinamiche conseguenti all'allargamento dell'azione pubblica: da ciò è in sostanza scaturita la nascita di nuove fattispecie di danno erariale, che hanno raggiunto pure quelle particolari figure societarie strettamente connesse alle nuove manifestazioni del potere pubblicistico.

La parabola evolutiva del danno erariale, però, non si è limitata soltanto a questo.

Di fondamentale rilievo, infatti, è risultata la mutazione genetica della natura del danno erariale che, se in origine è stato concepito esclusivamente come meramente patrimoniale, è stato poi percepito nella sua dimensione anche non patrimoniale, sub specie di danno all'immagine.

Il passaggio da una dimensione all'altra non è stato tuttavia immediato.

In principio, infatti, per la giurisprudenza è stato necessario cogliere preliminarmente che il danno erariale non consiste soltanto in una diminuzione patrimoniale, potendo invero comprendere anche i maggiori costi che la P.A. è eventualmente chiamata a sopportare.

Muovendo verso questa direzione, nelle prime teorizzazioni del danno all'immagine le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato la risarcibilità del danno conseguente alla grave perdita di prestigio ed al grave detrimento dell'immagine e della personalità pubblica dello Stato, giudicato non correlato ad una diminuzione patrimoniale diretta ma pur sempre suscettibile di una valutazione patrimoniale sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso (Cass., S.U., n. 5668/1997).

Tuttavia, all'esito di una lunga e complessa evoluzione che ha più volte richiesto l'esercizio della funzione nomofilattica da parte delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti (C. conti, S.R., n. 10/2003, n. 1/2011 e n. 8/2015), la giurisprudenza contabile è riuscita a mutare la prospettiva originariamente seguita dalle Sezioni Unite della Cassazione.

In aggiunta, il danno all'immagine è stato pure liberato da quell'imbrigliamento interpretativo che dapprima lo aveva coinvolto nelle dispute ermeneutiche relative ai rapporti tra il «danno patrimoniale» ex art. 2043 c.c. e il «danno non patrimoniale» ex art. 2059 c.c., e che successivamente lo aveva assorbito pure nel vortice delle diverse qualificazioni del danno non patrimoniale, generando il dubbio se esso fosse un «danno morale» o un «danno esistenziale» (che, per vero, in origine costituiva una figura ricondotta nell'alveo del danno patrimoniale ex art. 2043 c.c.: cfr. C. conti, S.R., n. 10/2003).

Ebbene, all'esito della cennata evoluzione, la giurisprudenza contabile afferma adesso unanimemente che il danno all'immagine non si identifica o non si verifica soltanto quando, per porvi riparo, l'amministrazione pubblica sostiene delle spese, atteso che tale genere di pregiudizio si configura e si concreta anche nel caso in cui la rottura di quella aspettativa di legalità, imparzialità e correttezza che il cittadino e gli appartenenti all'Ente pubblico si attendono dall'apparato, viene spezzata dall'illecito comportamento dei suoi agenti (ex multis, C. conti, sez. giur. Piemonte, n. 216/2021).

Sulla base di questa impostazione, quindi, si precisa che il danno all'immagine dell'Amministrazione e gli esborsi sostenuti per il ripristino della stessa si pongono su piani ben distinti: il primo, infatti, rappresenta la lesione di un bene tutelato in via diretta ed immediata dall'ordinamento giuridico; i secondi, invece, rilevano sul piano meramente probatorio, costituendo soltanto uno dei mezzi di prova utilizzabili dall'Ufficio Requirente a sostegno della domanda di risarcimento.

In tale ottica si sottolinea che, d'altra parte, laddove si richiedesse ai fini della configurabilità di tale tipo di pregiudizio la prova della spesa effettiva sopportata dall'Ente pubblico, si perverrebbe alla situazione paradossale per cui l'Amministrazione sprovvista di adeguati fondi in bilancio da utilizzare nell'assunzione di idonee iniziative volte al ripristino del bene immagine, non potrebbe conseguire il risarcimento del nocumento sofferto, non essendo in condizione di offrire la prova degli esborsi sostenuti; in ogni caso, quale ulteriore elemento dirimente, un eventuale costo suppletivo potrebbe essere sostenuto dall'Ente danneggiato soltanto dopo l'introito del risarcimento del pregiudizio patito, e non certo prima del pagamento della somma, correlata alla lesione del diritto all'immagine dell'Amministrazione, da parte del convenuto condannato.

È sulla base di questi elementi, quindi, che il danno all'immagine ha contribuito ad estendere l'area del «danno erariale risarcibile» sino alla sfera del danno non patrimoniale.

Al cospetto di questo mutamento genetico del danno erariale e, soprattutto, in relazione all'identificazione dei caratteri del danno all'immagine, il Legislatore non è assolutamente rimasto inerte.

Infatti, a partire dall'art. 7 della l. n. 97/2001 («Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche»), infatti, il Legislatore si è ripetutamente preoccupato di individuare i presupposti ed i limiti del risarcimento del danno all'immagine della Pubblica amministrazione.

Le numerose disposizioni normative che hanno regolamentato la materia sono state poi accompagnate da una grande quantità di pronunce giurisdizionali, da parte della Corte Costituzionale, delle Sezioni Unite della Cassazione e della Corte dei Conti.

Non è tuttavia questa la sede opportuna per analizzare l'evoluzione normativa ed interpretativa del danno all'immagine, giacché qui rileva esclusivamente il fatto che, proprio grazie all'elaborazione della figura del danno all'immagine, il danno erariale ha mutato la sua natura e, per l'effetto, da danno «esclusivamente» patrimoniale è divenuto un danno «anche» non patrimoniale.

La definitiva consacrazione della risarcibilità del danno erariale non patrimoniale è poi avvenuta in virtù del già richiamato art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 175/2016 («Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica») che, in tema di «Responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti degli organi delle società partecipate», ha espressamente stabilito che «Costituisce danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subìto dagli enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell'esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione».

In questo modo, è risultato dunque evidente l'allargamento dell'intero perimetro della responsabilità amministrativa: creata una crepa, si è infine rotto l'argine e la categoria del danno erariale non patrimoniale è stata ripetutamente utilizzata dalla giurisprudenza contabile per forgiare nuove figure di danno erariale, tra le quali si ricorda esemplificativamente quella del danno alla concorrenza.

La responsabilità contabile

Nel paragrafo dedicato alla giurisdizione (v. supra) è stata illustrata l'evoluzione del giudizio di responsabilità contabile, specificando che esso è stato introdotto prima del giudizio di responsabilità amministrativa.

È stato altresì evidenziato che, pur essendo stato originariamente concepito in stretta correlazione col giudizio sui conti, nel primo dopoguerra il giudizio di responsabilità contabile è stato emancipato dal giudizio di conto e ad esso è stato affiancato il giudizio di responsabilità amministrativa: in questo modo sono stati dunque creati i presupposti per l'emersione del modello unitario della responsabilità amministrativo-contabile, attualmente accolto dall'art. 1 della l. n. 20/1994.

In entrambi i casi, infatti, si intende stigmatizzare la condotta del soggetto che, legato alla P.A. da un rapporto di impiego o di servizio, cagioni un danno alla stessa Amministrazione con dolo o colpa grave.

Come ha più volte evidenziato la Corte Costituzionale, quindi, la responsabilità contabile, «a prescindere dalla specificità delle obbligazioni che incombono su coloro che hanno maneggio di beni e valori di pubblica pertinenza, si modella [...] sullo stesso paradigma che caratterizza la c.d. responsabilità amministrativa» (Corte cost. n. 371/1998).

Tuttavia, come è stato già anticipato nel precedente paragrafo 4, ciò che distingue la responsabilità contabile dalla responsabilità amministrativa è determinato principalmente dalla figura del soggetto «responsabile», che nella prima deve essere un agente contabile: da ciò poi derivano le ulteriori differenze legate alla condotta dannosa rimproverabile ed al regime della prova dell'elemento soggettivo.

All'analisi di questi tre elementi sono dunque dedicati i successivi paragrafi, con la precisazione che, oltre alle indicate differenze rispetto alla responsabilità amministrativa, non ve ne sono ulteriori.

Si tratta di un aspetto che vale la pena di precisare, visto che in passato si è per vero dubitato dell'applicabilità alla responsabilità contabile di tutte le regole previste dall'art. 1 della l. n. 20/1994.

Tra queste, è l'applicazione del potere riduttivo del giudice (art. 1, comma 1-bis) ad aver generato i maggiori dubbi interpretativi.

La recente giurisprudenza, però, sembra tuttavia definitivamente orientata a riconoscere che anche nel giudizio di responsabilità contabile possa riconoscersi al Giudice il richiamato potere di riduzione dell'addebito (C. conti, sez. giur. Piemonte, n. 45/2017), al pari di tutte le altre regole prescritte dall'art. 1 della l. n. 20/1994.

Gli agenti contabili

La figura dell'agente contabile è stata identificata dal Legislatore già all'indomani della proclamazione del Regno d'Italia, allorquando sono stati delineati i caratteri del «giudizio sul conto» e del correlato «giudizio di responsabilità contabile».

Originariamente, la qualifica di agente contabile è stata sostanzialmente ricondotta all'attività di maneggio di denaro pubblico e di custodia di valori e materie di pubblica proprietà.

Nel tempo, però, il Legislatore ha progressivamente arricchito la categoria degli agenti contabili, delineando così un percorso normativo in cui si possono distinguere almeno quattro fasi.

La prima fase è riconducibile alla prima normativa dettata in materia di «giudizio sui conti», vale a dire la l. n. 800/1862.

Si è già detto che il Legislatore ha dedicato al giudizio sui conti l'intero Capitolo V della l. n. 800/1862 (appunto rubricato «Del giudizio sui conti»).

Ebbene, proprio la norma di esordio del predetto Capitolo V (vale a dire l'art. 33) ha offerto una prima delimitazione della categoria degli agenti contabili, identificati nei tesorieri, nei ricevitori, nei cassieri e negli agenti incaricati di riscuotere, di pagare, di conservare e di maneggiare denaro pubblico, o di tenere in custodia valori e materie di proprietà dello Stato o di altre pubbliche amministrazioni.

In questo modo il Legislatore ha collegato la qualifica di agente contabile non soltanto all'attività di maneggio di denaro pubblico ma anche all'attività di custodia di valori e materie di pubblica proprietà: questa impostazione «binaria» – lo si anticipa – è stata mantenuta sino ai giorni nostri.

La seconda fase è invece riconducibile alla l. n.5026/1869, con la quale la nozione di agente contabile è stata estesa anche ai cc.dd. «soggetti verificatori», in relazione ai quali è stato forgiato il potere riduttivo del Giudice contabile per i casi di riscontrata responsabilità contabile.

In questo modo, il Capitolo V della predetta l. n. 5026/1869 ha incluso nel novero degli «Agenti dell'amministrazione che maneggiano valori dello Stato» (a cui il suddetto Capitolo V risulta interamente dedicato) non solo «Gli Agenti dell'amministrazione, che sono incaricati delle riscossioni e dei pagamenti, o che ricevono somme dovute allo Stato, o altre, delle quali lo Stato diventa debitore, o hanno maneggio qualsiasi di pubblico danaro, ovvero debito di materia, ed anche coloro che si ingeriscono senza legale autorizzazione negl'incarichi attribuiti ai detti Agenti» (art. 58) ma anche «Gli Ufficiali pubblici stipendiati dallo Stato [...] ai quali è commesso il riscontro e la verificazione delle casse e dei magazzini» (art. 61).

Per effetto del richiamato intervento normativo, quindi, la nozione di agente contabile è risultata riferita anche ai soggetti che non hanno il «diretto» maneggio di denaro pubblico o la «diretta» custodia di valori e materie di pubblica proprietà ma che, ciò nonostante, siano titolari di appositi poteri di riscontro e di verificazione.

La terza fase è invece da collocare storicamente nel primo dopoguerra, allorquando il Legislatore ha enucleato una nozione unitaria (e innovativa) di agente contabile (valida sia per i giudizi di conto che per i giudizi di responsabilità contabile), enunciandola dapprima nell'art. 178 del r.d. n.827/1924 («Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato») e poi nell'art. 44 del r.d. n.1214/1934.

In particolare, l'art. 178 del r.d. n.827/1924 ha stabilito espressamente che «Sotto la denominazione di agenti contabili dell'amministrazione si comprendono: a ) gli agenti che con qualsiasi titolo sono incaricati, a norma delle disposizioni organiche di ciascuna amministrazione di riscuotere le varie entrate dello Stato e di versarne le somme nelle casse del tesoro; b ) i tesorieri che ricevono nelle loro casse le somme dovute allo Stato, o le altre delle quali questo diventa debitore, eseguiscono i pagamenti delle spese per conto dello Stato, e disimpegnano tutti quegli altri servizi speciali che sono loro affidati dal ministro delle finanze o dal direttore generale del tesoro; c ) tutti coloro che, individualmente ovvero collegialmente, come facenti parte di consigli di amministrazione per i servizi della guerra e della marina e simili, hanno maneggio qualsiasi di pubblico danaro, o sono consegnatari di generi, oggetti e materie appartenenti allo Stato; d ) gli impiegati di qualsiasi amministrazione dello Stato cui sia dato speciale incarico di fare esazioni di entrate di qualunque natura e provenienza; e ) tutti coloro che, anche senza legale autorizzazione, prendono ingerenza negli incarichi attribuiti agli agenti anzidetti e riscuotono somme di spettanza dello Stato».

Il successivo art. 188, poi, ha ulteriormente disposto che «Gli agenti indicati nell'art. 178 del presente regolamento, oltre che della loro gestione personale, rispondono altresì dell'operato dei cassieri, impiegati o commessi di cui si valgono nel proprio ufficio, anche se la loro assunzione sia stata approvata dalle autorità competenti. Tale responsabilità non varia né diminuisce per la vigilanza, pel sindacato o pel riscontro che venisse esercitato da altri funzionari sulla gestione dei detti agenti».

In maniera più sintetica, invece, l'art. 44 del r.d. n.1214/1934 ha chiarito che gli agenti contabili tenuti a rendere i conti sui quali la Corte dei Conti è chiamata a giudicare «con giurisdizione contenziosa» sono i tesorieri, i ricevitori, i cassieri e gli agenti incaricati di riscuotere, di pagare, di conservare e di maneggiare denaro pubblico o di tenere in custodia valori e materie di proprietà dello Stato, nonché coloro che si ingeriscono anche senza legale autorizzazione negli incarichi attribuiti ai detti agenti, con la specificazione contenuta nel comma 2 della stessa disposizione per la quale «La Corte giudica pure sui conti dei tesorieri ed agenti di altre pubbliche amministrazioni per quanto le spetti a termini di leggi speciali».

Ciò che caratterizza gli interventi normativi avutisi in materia nel primo dopoguerra può essere sinteticamente rappresentato nei seguenti termini.

In primo luogo, è evidente che il Legislatore ha offerto una puntuale identificazione della figura dell'agente contabile, attraverso disposizioni che tuttora costituiscono una guida in sede interpretativa.

In secondo luogo, è risultata fondamentale l'inclusione nella categoria degli agenti contabili non solo dei cc.dd. «contabili di diritto» ma anche (e soprattutto) dei cc.dd. «contabili di fatto»: i contabili di diritto sono stati identificati nei tesorieri, nei ricevitori, nei cassieri e negli agenti che ricevono direttamente dall'Amministrazione l'incarico di riscuotere, di pagare, di conservare e di maneggiare denaro pubblico o di tenere in custodia valori e materie di proprietà dello Stato; i contabili di fatto, invece, sono stati qualificati come i soggetti che si ingeriscono anche senza legale autorizzazione negli incarichi attribuiti ai contabili di diritto.

Proprio l'inclusione dei contabili di fatto nella categoria generale degli agenti contabili è risultata determinante per il successivo percorso evolutivo della responsabilità contabile.

Ciò perché la predetta inclusione ha rivelato come il Legislatore abbia sicuramente scelto, sin dal 1924, un approccio di tipo «sostanziale» alla materia, che si è poi ben conciliato con l'espansione del concetto di «rapporto di servizio», ugualmente ispirata da logiche sostanzialistiche (la questione è stata già evidenziata nel precedente paragrafo 4.2).

La successiva evoluzione normativa ed interpretativa della responsabilità contabile, infatti, è proseguita proprio lungo questi binari.

Invero, in chiave normativa risulta che il Legislatore nazionale abbia sempre confermato l'impostazione fondata sulla dicotomia dei contabili di diritto e di fatto: a titolo esemplificativo, si richiama l'art. 93, comma 2, del d.lgs. n.267/2000 (c.d. TUEL), nonché il punto 4.2. del «Principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria», Allegato n. 4/2 al d.lgs. n.118/2011 (recante «Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni degli Enti locali e dei loro organismi»).

Dal punto di vista interpretativo, invece, rileva soprattutto il fatto che proprio l'emersione della figura dei contabili di fatto (unitamente – come detto – all'evoluzione del concetto di «rapporto di servizio») ha comportato l'assorbimento (anche) dei soggetti privati nella categoria generale degli agenti contabili, sebbene essi siano del tutto estranei alla sfera pubblica (si pensi agli agenti della riscossione ed agli albergatori, di cui si tratterà nel prosieguo).

In questo senso, infatti, la giurisprudenza ha affermato che il regime privatistico del soggetto non comporta in via automatica che lo stesso non possa essere considerato agente contabile, giacché gli «elementi essenziali e sufficienti perché un soggetto rivesta la qualifica di agente contabile [...] sono soltanto il carattere pubblico dell'ente per il quale tale soggetto agisca e del denaro o del bene oggetto della sua gestione, mentre resta irrilevante [...] il titolo in base al quale la gestione è svolta, che può consistere in un rapporto di pubblico impiego o di servizio, in una concessione amministrativa, in un contratto e perfino mancare del tutto, potendo il relativo rapporto modellarsi indifferentemente secondo gli schemi generali, previsti e disciplinati dalla legge, ovvero discostarsene in tutto od in parte» (Cass. S.U., n. 13330/2010).

In senso maggiormente esplicativo, è stato rilevato che «la qualità di agente contabile è assolutamente indipendente dal titolo giuridico in forza del quale il soggetto – pubblico o privato – ha maneggio del pubblico danaro, giacché tale titolo può consistere in un atto amministrativo, in un contratto, o addirittura mancare del tutto. Essenziale è, invece, che in relazione al maneggio del danaro sia costituita una relazione tra ente di pertinenza ed altro soggetto, a seguito della quale la percezione del danaro avvenga, in base a un titolo di diritto pubblico o privato, in funzione della pertinenza di tale danaro all'ente pubblico e secondo uno schema procedimentale di tipo contabile. Tale nozione allargata di agente contabile, la quale ricomprende anche i soggetti che abbiano di fatto maneggio di denaro pubblico, è in perfetta armonia con l'art. 103Cost., la cui forza espansiva deve considerarsi vero e proprio principio regolatore della materia» (Cass. S.U., n. 12367/2001).

Facendo governo dei suddetti principi, con sentenza n. 22/2016/QM le Sezioni Riunite in sede Giurisdizionale della Corte dei Conti hanno sostenuto che «i soggetti operanti presso le strutture ricettive, ove incaricati – sulla base dei regolamenti comunali previsti dall'art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 23/2011 – della riscossione e poi del riversamento nelle casse comunali dell'imposta di soggiorno corrisposta da coloro che alloggiano in dette strutture, assumono la funzione di agenti contabili».

Sul punto occorre per completezza evidenziare che, in questa specifica materia, è di recente intervenuto l'art. 180, comma 3, del d.l. n. 34/2020, convertito nella l. n. 77/2020, per effetto del quale il responsabile della struttura ricettiva è stato individuato quale «responsabile d'imposta»: di conseguenza, secondo una parte della giurisprudenza contabile, esso non è più qualificabile come «agente contabile» (C. conti, sez. giur. Lombardia, n. 159/2021 e C. conti n. 6/2022); secondo un opposto orientamento, invece, continua a sussistere in questa materia la competenza a decidere della Corte dei Conti, giacché il gestore della struttura ricettiva deve essere (tuttora) qualificato come “agente contabile” (C. conti, Emila Romagna, n. 325/2021; C. conti, Liguria, n. 27/2022)

La quarta ed ultima fase dell'evoluzione della figura di agente contabile è riconducibile al recente Codice di Giustizia Contabile, che per vero non fornisce una definizione di agente contabile, né in materia opera alcuna nuova ricognizione: sebbene, dunque, rimangano valide le definizioni e le ricognizioni precedentemente svolte dal Legislatore, tuttavia il Codice innova questa materia disponendo l'istituzione dell'«Anagrafe degli agenti contabili».

A tale riguardo, infatti, l'art. 138 c.g.c. stabilisce al comma 1 che «Le amministrazioni comunicano alla sezione giurisdizionale territorialmente competente i dati identificativi relativi ai soggetti nominati agenti contabili e tenuti alla resa di conto giudiziale»; al comma 2, poi, prevede che «Presso la Corte dei conti è istituita e tenuta in apposito sistema informativo una anagrafe degli agenti contabili, nella quale confluiscono i dati costantemente comunicati dalle amministrazioni e le variazioni che intervengono con riferimento a ciascun agente e a ciascuna gestione».

La condotta dannosa rimproverabile all'agente contabile

Nel precedente paragrafo 4.5. è stato evidenziato che il carattere specializzante della responsabilità contabile rispetto a quella amministrativa è determinato principalmente dalla figura del soggetto «responsabile», che deve essere un agente contabile (di cui nel precedente paragrafo sono stati illustrati i caratteri).

È stato altresì sottolineato che, proprio insistendo sulla figura dell'agente contabile, la responsabilità contabile si differenzia ulteriormente da quella amministrativa in ragione della tipologia di condotta dannosa rimproverabile, nonché per il regime della prova dell'elemento soggettivo.

Ebbene, focalizzando in questa sede l'attenzione sulla condotta dannosa rimproverabile all'agente contabile, si sottolinea che essa è inevitabilmente connessa con gli obblighi ad esso imposti.

Pertanto, se è vero che sull'agente contabile incombe l'obbligo di riscuotere, di pagare, di conservare e di maneggiare denaro pubblico o di tenere in custodia valori e materie di proprietà pubblica, è altrettanto vero che è proprio l'inadempimento dei predetti obblighi a generare un'ipotesi di responsabilità contabile.

A fronte del predetto dato inconfutabile, si registrano in giurisprudenza e in dottrina diversi tentativi di inquadramento dogmatico della materia.

Sul punto, infatti, la giurisprudenza ha talvolta qualificato riassuntivamente il predetto obbligo incombente sull'agente contabile alla stregua di «obbligo di restituzione» (C. conti, sez. giur. Abruzzo, n. 29/2017).

Sviluppando le stesse argomentazioni, la dottrina ha parlato al riguardo di responsabilità ex recepto (Tenore, 53).

In altre occasioni, invece, la giurisprudenza ha evidenziato che gli obblighi dell'agente contabile di conservare, di vigilare e di restituire integralmente quanto avuto in carico hanno una particolare intensità e sono connessi ad una posizione di garanzia qualificata che comporta per il consegnatario un particolare «dovere di protezione» (C. conti, sez. giur. Sicilia, n. 425/2017; C. conti, sez. I App., n. 216/2008).

In senso ancor più approfondito, la dottrina ha infine evidenziato che gli obblighi dell'agente contabile sono assimilabili a quelli che gravano sul «depositario» in virtù del contratto di deposito, disciplinato dagli artt. 1766-1782 c.c.: in questo senso, è stato osservato che «Il deposito, come «contratto col quale una parte riceve dall'altra una cosa mobile con l'obbligo di custodirla e di restituirla» (ex art. 1766 c.c.), comporta che chi riceve danaro o altro bene pubblico, in forza di uno specifico dovere di servizio, è tenuto a custodirlo e a restituirlo nella stessa entità in cui l'ha ricevuto. La perdita e/o la sottrazione dei beni ricevuti in deposito, comportano per ciò stesso una responsabilità del depositario, a meno che egli non dimostri di avere usato, «nella custodia», la «diligenza del buon padre di famiglia» (ex art. 1768 c.c.), ovvero che, in caso di sottrazione, essa sia dipesa da «un fatto a lui non imputabile», sempreché abbia «immediatamente denunciato al depositante [tale] fatto» (ex art. 1780 c.c.). Nella responsabilità contabile, al pari della responsabilità del deposito, il «contabile» riceve soldi o beni, con il dovere di restituirli nel loro ammontare ad una certa data» (Longavita, 15).

La prova dell'elemento soggettivo nella responsabilità contabile

Ulteriore caratteristica peculiare del giudizio di responsabilità contabile attiene al regime della prova dell'elemento soggettivo.

In premessa, è utile sottolineare la necessità che, ai fini del predetto giudizio di responsabilità, la condotta dell'agente contabile risulti caratterizzata dal dolo o, almeno, dalla colpa grave.

Deve ritenersi alquanto isolato, perciò, quell'orientamento interpretativo per il quale, «vertendosi in materia di responsabilità contabile, che si concreta in un obbligo di restituzione [...] si prescinde dalla sussistenza o meno dell'elemento soggettivo in capo all'agente contabile», giacché «la limitazione della responsabilità amministrativa ai fatti ed omissioni commessi con dolo o colpa grave non è applicabile alla responsabilità contabile, in relazione alla diversa natura delle due forme di responsabilità ed alla reciproca autonomia di esse» (C. conti, sez. giur. Trentino Alto Adige, Trento, n. 7/2016).

Assolutamente prevalente, invece, è la tesi giurisprudenziale per la quale – come si è prima anticipato – la responsabilità contabile (al pari della responsabilità amministrativa) presuppone il dolo o, almeno, la colpa grave dell'agente contabile.

L'autentica differenza tra le due forme di responsabilità attiene piuttosto al regime della prova del dolo o della colpa grave.

Secondo l'indirizzo ermeneutico prevalente, nella fattispecie opera una vera e propria presunzione di colpevolezza, per la quale già la mera deficienza numerica o qualitativa dei beni o valori custoditi o gestiti comporta la responsabilità dell'agente contabile; sicché, al fine di dimostrare la responsabilità contabile di quest'ultimo, incombe sul Procuratore contabile esclusivamente l'onere di provare i fatti costitutivi della pretesa dedotta in giudizio, e cioè l'esistenza del rapporto dal quale deriva originariamente sul convenuto l'obbligo di adempiere le prestazioni a lui imposte nella qualità di agente contabile ed il fatto della non corrispondenza della prestazione concretamente effettuata rispetto a quella cui il convenuto medesimo era obbligato.

Una volta che l'attore (il Procuratore contabile) abbia assolto il suo onere probatorio nei termini sopra detti, poi, spetta invece all'agente contabile dimostrare che la perdita riscontrata non sia a lui imputabile, bensì dipenda da causa di forza maggiore.

Pertanto, quando all'esito del giudizio risulti accertata la violazione degli obblighi di servizio senza che sussista alcuna ragionevole giustificazione o circostanza impeditiva, deve ritenersi provata la condotta inadempiente gravemente colposa o dolosa dell'agente contabile (C. conti, sez. I App., n. 379/2004).

Secondo un opposto (e minoritario) orientamento dottrinario, invece, nella responsabilità contabile non è rinvenibile alcuna presunzione della colpevolezza, poiché incombe sempre sul Procuratore contabile l'onere di dimostrare la condotta dolosa o gravemente colposa dell'agente contabile (Morgante, 456).

Le funzioni della responsabilità amministrativo-contabile

All'esito della trattazione sin qui condotta è possibile mettere a fuoco la funzione della responsabilità amministrativo-contabile.

Si è già detto che questa particolare tipologia di responsabilità è strettamente collegata al danno erariale: sicché, ove esso manchi, non potrà certamente discutersi di responsabilità amministrativo-contabile.

Da tanto consegue che la predetta responsabilità ha una funzione certamente risarcitoria–riparatoria.

Accanto a tale funzione, però, non vi è dubbio che emerga altresì un ulteriore scopo della responsabilità amministrativo-contabile, determinato dalla valorizzazione del suo obiettivo di ricercare un punto di equilibrio nell'allocazione dei rischi dell'attività amministrativa, determinando quanto rischio dell'attività debba restare a carico dell'apparato pubblico e quanto, viceversa, a carico del dipendente (Corte cost. n. 371/1988): inquadrata in questa prospettiva, è evidente che la predetta responsabilità assolva anche la funzione di incentivare i comportamenti virtuosi degli operatori pubblici e, al contempo, la funzione di dissuadere dal tenere condotte dannose per l'erario (funzione deterrente).

Dopo aver valorizzato le funzioni della responsabilità amministrativo-contabile si rileva che, data la genericità dei comportamenti dannosi e data altresì l'impossibilità di quantificare preventivamente il danno erariale, tale responsabilità è altresì atipica, configurandosi in concreto soltanto quando vi sia un danno erariale risarcibile, economicamente valutabile, attuale e concreto, sofferto dall'amministrazione pubblica, sempreché il comportamento omissivo o commissivo del soggetto (o dei soggetti) a cui il danno è ricollegabile sia connotato dall'elemento psicologico del dolo o della colpa grave.

A fronte dell'inevitabile atipicità degli illeciti rientranti nell'alveo della responsabilità amministrativo-contabile (e salvo ciò che si dirà nel successivo paragrafo 4.10), è stata la giurisprudenza contabile a preoccuparsi di cogliere i caratteri comuni a talune fattispecie, enucleando così apposite categorie di danno erariale.

Non è questa la sede opportuna per l'analisi delle singole ipotesi di responsabilità erariale individuate in sede ermeneutica.

Sicché in questa sede ci si limita solo ad indicarne le più significative richiamando, oltre alla fattispecie del danno all'immagine (già considerata nel precedente paragrafo 4.3), anche le ulteriori ipotesi di danno da disservizio, da tangente, da illegittimo conferimento di incarichi, da illecita percezione di finanziamenti pubblici, da perdita di chance e il danno alla concorrenza.

La responsabilità sanzionatoria

Nel corso della presente trattazione è stato più volte affermato che la responsabilità sanzionatoria non rientra nel fuoco della disciplina dedicata dall'art. 1 della l. n. 20/1994 alla responsabilità amministrativo-contabile.

In questa sede si intende spiegare le ragioni della riportata affermazione, avendo cura di illustrare il motivo per cui l'istituto in esame ha contribuito ad aggiungere la funzione sanzionatoria–punitiva nel generale sistema delle responsabilità erariali, originariamente votato ad una funzione risarcitoria-riparatoria e deterrente riconducibile alla responsabilità amministrativo-contabile.

La prima forma di responsabilità sanzionatoria conosciuta dall'ordinamento contabile risale all'art. 36 della l. n. 800/1862 che, con una disposizione successivamente ripresa e dettagliata dall'art. 46, comma 1, del r.d. n. 1214/1934 (norma tuttora vigente), sostanzialmente individuava una sanzione a carico dell'agente contabile responsabile della mancata resa del conto.

È solo nel corso degli ultimi anni, però, che la responsabilità sanzionatoria è stata «ricondotta a sistema», sia dal punto di vista sostanziale (laddove, come si vedrà, attraverso numerose disposizioni il Legislatore si è fatto carico di individuare tutti gli elementi necessari per affermare la sussistenza della predetta responsabilità sanzionatoria), sia dal punto di vista processuale (giacché il novello Codice di Giustizia Contabile, agli artt. da 133 a 136, ha appositamente disciplinato il «Rito relativo a fattispecie di responsabilità sanzionatoria pecuniaria»).

Questa evoluzione in chiave sanzionatoria del generale sistema della responsabilità erariale è giustificabile in ragione dell'avvertita esigenza di innalzare il livello di protezione di quei beni e di quei valori della contabilità pubblica di recente elevati al rango di beni–valori di rilievo costituzionale, come quello del rispetto degli equilibri di bilancio (artt. 81,97 e 119, comma 6, Cost.), del bilancio pubblico in sé (quale bene pubblico primario dello Stato–comunità: Corte cost. n. 51/2019), della sostenibilità del debito pubblico (art. 97 Cost.) e del coordinamento della finanza pubblica e dell'unità economica del Paese, in rapporto anche agli impegni assunti in ambito europeo (art. 117 Cost.).

Si tratta di «beni-valori» esaltati dalle modifiche apportate alla Carta Fondamentale con le leggi costituzionali n. 3/2001 e n. 1/2012, per la cui salvaguardia il Legislatore ha avvertito la necessità di approntare un adeguato sistema normativo emancipato dalla concreta verificazione di un danno erariale.

A tale riguardo, secondo la dottrina, «parafrasando il diritto penale, può dirsi che la responsabilità erariale sanzionatoria si esprime con «illeciti di pericolo», e quindi di «condotta», ossia con forme di tutela avanzata dei beni-valori coessenziali al sistema giuscontabile pubblico, laddove la responsabilità erariale risarcitoria si esprime invece con «illeciti consumati», e dunque di «evento» (il danno) e richiedono, per il loro realizzarsi, una diminuzione del patrimonio pubblico concreta ed attuale, da reintegrare» (Longavita, 12).

Nello stesso senso, le Sezioni Riunite della Corte dei Conti, nell'esercizio della funzione nomofilattica ad esse attribuita, hanno spiegato che la potenziale lesione dei beni-valore di matrice costituzionale «prescinde dal verificarsi di un «danno» risarcibile in senso proprio; peraltro, i due profili (quello sanzionatorio e quello risarcitorio), pur restando divisi, possono tuttavia coesistere, qualora, in conseguenza della violazione del vincolo costituzionale, venga a verificarsi per l'amministrazione pubblica anche un danno patrimonialmente valutabile. Mentre, infatti, la responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio di cui solitamente conosce la Corte è finalizzata al risarcimento del danno patrimoniale subìto dall'amministrazione pubblica in relazione alla violazione di obblighi di servizio, [la lesione dei beni-valori di rango costituzionale] viene sanzionata a prescindere dalla produzione di un danno, avendo il legislatore ritenuto meritevole di particolare protezione [i beni-valori fondamentali della contabilità pubblica] anche quando la loro violazione non comporti un danno attuale e concreto valutabile economicamente, ma soltanto il pericolo di disequilibri che incidano negativamente sulla stabilità della finanza pubblica nel suo complesso. [...]. In considerazione di ciò, questo particolare tipo di responsabilità sanzionatoria – al contrario della responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio, che non può sussistere se non in presenza di un danno risarcibile – non implica necessariamente la sussistenza di un danno patrimoniale, in quanto, essendo di tipo sanzionatorio e non risarcitorio, può sussistere pur allorquando non si sia verificato alcun danno patrimonialmente rilevante per le finanze dell'ente di appartenenza dell'amministratore o del dipendente pubblico che abbia violato il precetto previsto dalla legge, e a cui la legge stessa riconnette l'applicazione di una sanzione. Ciò è a dire che, ai fini della sussistenza della responsabilità di tipo sanzionatorio non occorre, da parte del giudice, verificare la sussistenza di un danno ingiusto risarcibile, non essendo, appunto, una forma di responsabilità per danno, ma è necessario che si accerti la mera violazione del precetto previsto dalla legge, oltre, ovviamente, l'elemento psicologico. È evidente, peraltro, che, ove quella stessa condotta illecita dovesse cagionare un danno patrimoniale, economicamente valutabile, la fattispecie comporterebbe altresì la responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio, che – come è noto – è configurata dal legislatore mediante il ricorso ad una clausola generale, secondo cui la responsabilità discende dall'aver cagionato un danno patrimoniale all'amministrazione pubblica, in violazione degli obblighi di servizio e con comportamenti omissivi o commissivi connotati dall'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave» (C. conti, S.R., n. 12/2007).

Una volta spiegate l'origine e la ratio della responsabilità sanzionatoria, va detto che essa, a differenza della responsabilità amministrativo–contabile (che, per come si è detto, è certamente «atipica», salvo ciò che si dirà nel successivo paragrafo 4.10), non può essere generica ma deve essere tipizzata (principio di tipicità).

A questo punto occorre risolvere due quesiti: il primo riguarda l'astratta ammissibilità, nell'ordinamento contabile, di queste forme tipiche di responsabilità sanzionatoria; il secondo, presupponendo la soluzione positiva del precedente quesito, attiene più specificamente al fondamento costituzionale di questa forma di responsabilità.

In ordine al primo tema, occorre innanzitutto tornare ad evidenziare l'aspetto teorico–ricostruttivo da cui è partita l'analisi condotta in questo paragrafo: l'introduzione di fattispecie di responsabilità sanzionatoria non vale a «convertire» o a «mutare» la funzione riconosciuta, in generale, alla responsabilità erariale.

Invero, le particolari fattispecie di responsabilità sanzionatoria introdotte dal Legislatore inducono a ritenere che, nel generale sistema delle responsabilità erariali, la responsabilità amministrativo-contabile continui a conservare la propria tradizionale funzione riparatoria-risarcitoria, mentre la responsabilità sanzionatoria assolva ad una funzione sanzionatoria-punitiva: entrambe le predette funzioni, peraltro, ben si conciliano con la (comune) funzione deterrente.

Le due fattispecie di responsabilità, peraltro, possono ovviamente coesistere, essendo ciò appositamente prescritto dal Codice di Giustizia contabile che, al momento di disciplinare il «giudizio per l'applicazione di sanzioni pecuniarie» di cui all'art. 133 c.g.c., esordisce espressamente chiarendo che la responsabilità sanzionatoria «lascia ferma» la responsabilità amministrativo-contabile.

Ciò posto, con specifico riferimento all'astratta ammissibilità delle fattispecie di responsabilità sanzionatoria nell'ordinamento contabile, la giurisprudenza ha spiegato che, «alla luce dell'ordinamento vigente, la responsabilità sanzionatoria è sicuramente compatibile, nel generale sistema delle responsabilità devolute alla cognizione della Corte dei conti, con la stessa responsabilità amministrativo-contabile di tipo risarcitorio. In proposito giova considerare, infatti, che l'art. 103, comma 2, dellaCostituzione, nel prevedere e disciplinare la giurisdizione della Corte dei conti prevede espressamente che «la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge», così attribuendo alla giurisdizione del giudice contabile non solo, in via generale, la responsabilità amministrativa per danno, e quindi di tipo risarcitorio, generica, nel senso di responsabilità non tipizzata, che trova comunque la sua fonte «nelle materie di contabilità pubblica» (prima parte della disposizione di cui all'art. 103, comma 2, Cost.), ma anche, in via speciale, le altre fattispecie di responsabilità di tipo non risarcitorio, quali possono essere, appunto, le fattispecie di responsabilità sanzionatoria, che trovano la loro fonte e la loro previsione, a livello costituzionale, «nelle altre [materie] specificate dalla legge» (seconda parte della disposizione di cui all'art. 103, comma 2, Cost.), o addirittura nella stessa prima parte della stessa disposizione costituzionale, disciplinando essa comunque un istituto – come quello del divieto di indebitamento – sicuramente rientrante «nelle materie di contabilità pubblica» (C. conti, S.R., n. 12/2007).

Secondo la prospettiva offerta dalla Corte Costituzionale, invece, l'introduzione di disposizioni regolanti fattispecie di responsabilità sanzionatoria trova fondamento già nella potestà legislativa dello Stato di dare attuazione a quelle norme della Carta Fondamentale dirette a tutelare i beni-valori della contabilità pubblica di rango costituzionale: proprio sulla base di questa impostazione, dunque, la Consulta ha spiegato la legittimità costituzionale di quelle previsioni normative che contemplino una condanna da parte della Corte dei Conti ad una sanzione pecuniaria per gli amministratori degli enti locali, «che trovano il proprio fondamento nella potestà legislativa dello Stato di dare attuazione al sesto comma dell'art. 119 Cost., dal momento che configura esclusivamente alcune sanzioni per comportamenti confliggenti con il divieto affermato nella disposizione costituzionale» (Corte cost. n. 320/2004).

In relazione al secondo dei quesiti innanzi prospettati, relativo al fondamento costituzionale della responsabilità sanzionatoria, occorre invece dare atto della presenza di un contrasto interpretativo.

Secondo un primo indirizzo, infatti, le fattispecie di responsabilità sanzionatoria devono corrispondere ai parametri costituzionali di cui all'art. 25Cost., e cioè, al principio di stretta legalità, nelle molteplici accezioni della tipicità, della tassatività (nel senso che le fattispecie legali non sono suscettibili di interpretazione analogica), della determinatezza, e della specificità (nel senso che la legge deve molto puntualmente indicare ogni elemento dell'intera fattispecie sanzionatoria, e cioè, sia con riferimento al precetto che alla sanzione) (C. conti, S.R., n. 12/2007).

Secondo un diverso orientamento, invece, la responsabilità erariale sanzionatoria, in quanto ancorata a specifiche fattispecie di illecito, previste e definite in ogni loro aspetto (oggettivo e soggettivo), con sufficiente indicazione anche della misura punitiva, va ricondotta alla fondamentale regola di garanzia, per la quale «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge», ex art. 23Cost. (C. conti, sez. giur. Umbria, n. 87/2008).

Dopo aver illustrato le origini, la ratio e il fondamento delle ipotesi di responsabilità sanzionatoria, è adesso possibile analizzarne gli aspetti caratterizzanti che, come più volte affermato nel corso di questo lavoro, portano ad escludere l'applicazione delle regole fissate dall'art. 1 della l. n. 20/1994.

Invero, nelle fattispecie di responsabilità sanzionatoria è il Legislatore ad individuare direttamente il comportamento costituente illecito, la tipologia della punizione o la precisa entità del pagamento dovuto (sia pure, talora, fissato tra un minimo e un massimo): sicché, in difetto di una specifica previsione normativa, non potrebbe porsi a carico dell'agente alcuna sanzione (principio di tipicità), potendo al più sussistere, in presenza dei necessari presupposti, un'ipotesi di danno erariale riconducibile al generale paradigma della responsabilità amministrativa.

Nei casi di responsabilità sanzionatoria, quindi, è il Legislatore che fissa i principali elementi necessari per assoggettare a sanzione la condotta illecita dell'agente: l'accertamento della concreta sussistenza dei predetti elementi è poi demandato agli organi della Giustizia contabile (Procuratore contabile e Sezione giurisdizionale), secondo le regole scandite dal Capo III del Titolo V del Codice di Giustizia Contabile (artt. da 133 a 136) in tema di «Rito relativo a fattispecie di responsabilità sanzionatoria pecuniaria».

Non essendo questa la sede per analizzare le regole processuali all'uopo dettate, si ritiene opportuno svolgere soltanto le due seguenti considerazioni.

In primo luogo, si rileva che non sempre il Legislatore si preoccupa di precisare quale sia l'elemento soggettivo che deve caratterizzare la condotta del soggetto responsabile.

In relazione a tali casi, quindi, la prevalente giurisprudenza contabile ricorre alle regole all'uopo dettate dall'art. 1 della l. n. 20/1994, richiedendo perciò l'accertamento del dolo o (almeno) della colpa grave dell'agente (C. conti, sez. giur. Sicilia, Decreto n. 16/2020).

Sono invece minoritarie le tesi interpretative che, da una parte, ritengono che sia in questi casi sufficiente la colpa lieve del soggetto responsabile e, da un'altra parte, affermano che troverebbe qui applicazione la regola della presunzione della colpa, con onere del convenuto di provare l'assenza di gravità della colpa o l'esistenza di esimenti (come l'errore sul precetto non inescusabile, in analogia con quanto avviene per gli altri tipi di sanzioni pecuniarie amministrative e/o tributarie).

In secondo luogo, in relazione alle fattispecie sanzionatorie non risulta nemmeno indicato il termine per l'esercizio della relativa azione di responsabilità.

Anche per risolvere queste lacune normative la giurisprudenza contabile ricorre alle regole all'uopo dettate dall'art. 1 della l. n. 20/1994 che, al comma 2, stabilisce che «Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni» (C. conti, sez. giur. Sicilia, Decreto n. 16/2020).

A tale proposito, però, va precisato che il dies a quo per il decorso del termine di prescrizione coincide non già con il momento della realizzazione del fatto dannoso (che, come si è più volte detto, può pure mancare) ma con la data di consumazione della condotta illecita tipizzata dal legislatore.

Al di là di questi due casi, però, non operano per la responsabilità sanzionatoria le ulteriori regole fissate dall'art. 1 della l. n. 20/1994: ciò perché, come già si è detto, esse sono fondate sulla sicura esistenza di un danno erariale, che viceversa può pure mancare nel caso della responsabilità sanzionatoria.

A dimostrazione dell'incompatibilità tra le regole dettate dall'art. 1 della l. n. 20/1994 e quelle che governano la responsabilità sanzionatoria, si ritiene utile richiamare l'attenzione sulla disciplina prevista dall'art. 134, comma 2, c.g.c., in relazione alla «decisione» del giudizio per l'applicazione di sanzioni pecuniarie, laddove si stabilisce che, «Quando accoglie il ricorso, il giudice emette decreto di condanna al pagamento della sanzione. Nella determinazione della sanzione, si ha riguardo alla gravità della violazione e all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione, o l'attenuazione, delle conseguenze della violazione. Contestualmente alla determinazione della sanzione, il giudice fissa altresì una sanzione in misura ridotta, pari al trenta per cento, per il caso di pagamento immediato della stessa, e assegna al responsabile un termine non inferiore a trenta giorni, per procedere al versamento della somma, indicando l'amministrazione destinataria dei proventi. Con il medesimo decreto, il giudice liquida le spese».

Come è evidente, si tratta di regole assolutamente speciali e, come tali, incompatibili con la disciplina prevista dall'art. 1 della l. n. 20/1994 in tema di determinazione del danno erariale: sicché, a titolo esemplificativo, deve ritenersi inapplicabile alle fattispecie di responsabilità sanzionatoria sia il potere di riduzione dell'addebito che il principio della compensatio lucri cum damno, entrambi previsti dall'art. 1, comma 1-bis, della l. n. 20/1994.

La distinzione tra le fattispecie di responsabilità amministrativa e di responsabilità sanzionatoria.

Nella prassi, non si è rivelato semplice il compito di distinguere i casi di responsabilità amministrativa dai casi di responsabilità sanzionatoria.

Ciò perché, accanto alla tendenza normativa diretta ad introdurre misure eminentemente sanzionatorie, a partire dai primi anni di questo secolo il Legislatore ha altresì emanato molte disposizioni che, senza fissare nuove sanzioni tipizzate, hanno comunque previsto che determinati comportamenti, ritenuti senz'altro illeciti, costituissero automaticamente fonte di responsabilità erariale.

Sicché, per dissipare l'incertezza talvolta generata dal tenore letterale delle norme introdotte dal Legislatore, si è reso necessario l'intervento chiarificatore delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti, nell'esercizio della funzione nomofilattica ad esse attribuita.

Con sentenza n. 12/2011, quindi, le Sezioni Riunite della Corte dei Conti hanno proceduto ad una preliminare ricognizione delle fattispecie di responsabilità di nuovo conio legislativo, per arrivare così a distinguere i due seguenti casi: da una parte le ipotesi «puramente sanzionatorie», ove cioè il Legislatore individua direttamente, oltre al comportamento costituente illecito, la tipologia della punizione o la precisa entità del pagamento dovuto (sia pure, talora, fissato tra un minimo e un massimo), con conseguente impossibilità, per il Giudice del merito, di addebitare al responsabile, una volta individuato, un importo diverso (salve le regole di recente introdotte dall'art. 134, comma 2, c.g.c.); da un'altra parte, le diverse ipotesi in cui la norma di legge si limita a prevedere genericamente la responsabilità amministrativa come conseguenza di determinati comportamenti: in questi casi il Legislatore si limita a prevedere che una data azione o attività «determina responsabilità erariale» (o espressioni simili) ma tuttavia non stabilisce sanzioni precise e inderogabili.

Ebbene, a parere delle Sezioni Riunite queste ultime fattispecie sono da ricondurre al generale sistema della responsabilità amministrativo-contabile, poiché la loro unica peculiarità consiste nella circostanza che la previsione di tale astratta ipotesi di responsabilità, sotto il profilo della esistenza di un illecito, è operata direttamente dal Legislatore: pertanto, per l'interprete non c'è bisogno di verificare l'esistenza o meno di tale profilo nel caso di specie, ferma restando, però, la necessità di dimostrare che in concreto ricorrano tutti gli elementi essenziali per l'addebito di un danno erariale al soggetto agente (ossia che vi sia stato quel comportamento che il Legislatore ha qualificato come illecito e sussistano altresì la colpa grave o il dolo, come pure un conseguente danno erariale e il nesso di causalità tra azione illecita ed evento dannoso).

Alla luce di questi presupposti interpretativi, le Sezioni Riunite hanno concluso nel senso che «per «fattispecie direttamente sanzionate dalla legge» devono intendersi quelle in cui non soltanto è prevista una sanzione pecuniaria come conseguenza dell'accertamento di responsabilità amministrativa, ma in cui la norma definisce altresì l'automatica determinazione del danno, mentre va escluso che possano rientrarvi le ipotesi in cui la legge si limiti a prevedere che una certa fattispecie «determina responsabilità erariale», o espressioni simili» (C. conti, S.R., n. 12/2011).

Una volta chiariti i presupposti per la sicura individuazione delle fattispecie di responsabilità sanzionatoria, se ne propone qui di seguito una succinta e non esaustiva ricognizione, premettendo tuttavia che non è questa la sede opportuna per l'analisi dettagliata delle singole disposizioni.

In questo contesto dunque, si richiamano innanzitutto le ipotesi di responsabilità sanzionatoria previste dal d.lgs. n.267/2000 (TUEL), in relazione alle quali si rinvia alla trattazione contenuta nel paragrafo 6 del commento relativo all'art. 1 del d.lgs. n. 286/1999 in materia di controlli interni: si tratta in particolare delle fattispecie individuate all'art. 148, comma 4, e all'art. 248,commi 5 e 5- bis, d.lgs. n.267/2000 (TUEL).

Tra le ulteriori fattispecie, poi, si segnalano quelle individuate dall'art. 53, comma 7, d.lgs. n.165/2001 (TUPI), dall'art. 30, comma 15, l. n.289/2002 (legge finanziaria 2003), dall'art. 3, comma 59, l. n.244/2007 (legge finanziaria 2008), dall'art. 1, comma 4, d.l. n.35/2013, conv. inl. n. 64/2013, e dall'art. 1, comma 111- ter, l. n.220/2010.

L'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali.

L'art. 1 della l. n. 20/1994 sancisce, per il Giudice contabile, «l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali» della Pubblica amministrazione.

La norma vale a delineare i caratteri di uno dei due limiti «esterni» all'esercizio del potere giurisdizionale del Giudice contabile, individuando in particolare i casi in cui il sindacato del predetto Giudice sconfina (inammissibilmente) nella c.d. riserva di amministrazione violando il principio della separazione dei poteri (in questo caso, giudiziale ed esecutivo): sicché, ove tale sconfinamento si inveri, vi sarebbe un caso di «eccesso di potere giurisdizionale» del giudice contabile, censurabile innanzi alla Corte di Cassazione exartt. 111, comma 8, Cost. e 207 c.g.c.

Rimane sullo sfondo l'ulteriore limite «esterno» posto nei confronti del Giudice contabile, dato dal divieto di invasione della sfera riservata al Legislatore: in ragione di tale divieto, il Giudice contabile (al pari di ogni altro Giudice) non può applicare una disposizione inesistente, creando egli stesso un precetto che, lungi dal costituire un'attività di mera interpretazione della legge (ex art. 12 delle «Disposizioni sulla legge in generale»), costituisce in realtà la manifestazione di un'attività di produzione normativa che certamente non gli compete. Si tratta di un divieto che deriva (anch'esso) dal principio della separazione dei poteri (in questo caso, giudiziale e legislativo), la cui violazione genera un'ipotesi di «eccesso di potere giurisdizionale» del giudice contabile, censurabile innanzi alla Corte di Cassazione: sicché, la sua evidente immanenza nel sistema ordinamentale spiega verosimilmente la ragione per la quale il Legislatore non ha ritenuto necessaria alcuna specificazione al riguardo.

Ciò posto, si tratta adesso di comprendere la dimensione del limite esterno previsto dalla disposizione in commento.

Analizzata nei suoi singoli sintagmi, l'art. 1 della l. n. 20/1994 vale innanzitutto a chiarire che non tutta l'attività della P.A. è sottratta al sindacato del giudice contabile, ma soltanto quella parte che afferisce specificamente al «merito» dell'azione amministrativa: è proprio questa la ragione che ha indotto gli interpreti a distinguere tra l'attività amministrativa che consiste nella scelta fra più comportamenti per il soddisfacimento dell'interesse pubblico (attività non sindacabile dal Giudice contabile) e l'attività amministrativa che invece si concreta nell'applicazione dei principi generali posti a presidio dell'azione pubblica, primi fra tutti l'efficacia e l'economicità (attività suscettibile di sindacato da parte del Giudice contabile).

Letta a contrario, poi, la norma esclude che un analogo limite di insindacabilità sussista per l'attività vincolata e per la c.d. «discrezionalità tecnica» dell'amministrazione.

Pertanto, se nel fuoco dell'eccesso di potere giurisdizionale del giudice contabile rientra esclusivamente il «merito delle scelte discrezionali», occorre a questo punto analizzare attentamente l'ubi consistam – in generale – della discrezionalità dell'Amministrazione, con il fine ultimo di selezionare nell'ambito di essa quella parte inerente al «merito» dell'azione amministrativa.

Come è evidente, lo studio della questione innanzi prospettata si rivela particolarmente complesso non solo perché – come già anticipato in apertura – esso impone di mettere a confronto il sindacato del Giudice contabile con la c.d. riserva di amministrazione e con il principio della separazione dei poteri, ma anche perché è attualmente mutato il proprium del concetto di discrezionalità amministrativa, per effetto di una significativa evoluzione della prassi, fortemente sostenuta a livello normativo.

In estrema sintesi, sono almeno quattro i fattori che spiegano (e al contempo dimostrano) il predetto mutamento del concetto di discrezionalità.

In primo luogo sono mutati gli scenari di riferimento in cui si iscrivono le scelte discrezionali: ciò perché è cambiato il modo di intendere il principio di legalità, in quanto è caduto il monopolio statale/regionale nella produzione delle fonti normative, che sono sempre più europee e sovranazionali. A tale riguardo, peraltro, non va trascurato il fatto che lo stesso Legislatore abbia direttamente sottoposto l'esercizio della discrezionalità amministrativa al rispetto (anche) dei «principi dell'ordinamento comunitario» (art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990), tra i quali si ritiene che rilevi soprattutto il principio di proporzionalità (che impone alla Pubblica amministrazione di compiere la scelta idonea a garantire il perseguimento dell'interesse pubblico attraverso un proporzionato equilibrio tra benefici ottenuti e sacrifici imposti).

In secondo luogo è evidente che molti istituti del diritto amministrativo stiano tuttora subendo delle modifiche in nome delle esigenze del mercato e, più in generale, dell'economia (Pinotti): il riferimento va soprattutto all'allargamento dell'area delle liberalizzazioni che, in nome della c.d. sussidiarietà orizzontale, sono state abbondantemente accolte nell'ordinamento interno (artt. 19 e 20 della l. n. 241/1990), con conseguente riduzione degli spazi di discrezionalità amministrativa, senza tuttavia che ciò abbia comportato una rinuncia all'esercizio di un controllo pubblicistico ex post (art. 19, commi 3 e 4; art. 20, comma 3, della l. n. 241/1990).

In terzo luogo è indubitabile che, nella prassi, la P.A. si sia sempre più proiettata verso la scelta di moduli privatistici per il soddisfacimento dell'interesse pubblico, scegliendo soluzioni che (solo) successivamente hanno ricevuto un apposito avallo normativo (il riferimento è ai commi 1-bis e 1-ter dell'art. 1 della l. n. 241/1990, introdotti con l. n. 15/2005).

In quarto ed ultimo luogo va segnalata quella tendenza interpretativa diretta a restringere l'ambito di operatività di uno dei settori in cui maggiormente si esprime il «merito della discrezionalità amministrativa», vale a dire quello della autotutela amministrativa: da questa tendenza deriva la sottrazione di alcune porzioni dell'agere publicum alla c.d. riserva di amministrazione e la loro contestuale riconduzione nell'ambito dell'attività vincolata, sottoposta al sindacato giurisdizionale pieno.

Si tratta di una tendenza manifestatasi in passato soprattutto nel settore dei contratti pubblici (e in particolare in relazione ai «Pareri di precontenzioso» resi dall'ANAC ai sensi dell'art. 211, comma 1-ter, del d.lgs. n. 50/2016) e nel settore dell'edilizia (laddove quell'indirizzo interpretativo che riteneva doveroso l'annullamento d'ufficio dei titoli edilizi illegittimamente rilasciati ha tuttavia incontrato una ferma smentita nella sentenza Cons. St. Ad. Pl., n. 8/2017).

Peraltro, questa tendenza ha oggi ripreso vigore proprio in materia di responsabilità amministrativa, sospinta da quegli interpreti che ritengono che l'art. 52, comma 6, del d.lgs. n. 174/2016 (Codice della giustizia contabile) abbia introdotto nell'ordinamento contabile la c.d. autotutela doverosa a presidio del contenimento del danno erariale (Pinotti).

Alla luce delle superiori considerazioni, quindi, risulta dimostrato come attualmente il concetto di «merito delle scelte discrezionali» sia di per sé sottoposto ad un mutamento genetico, certamente meritevole di accurato approfondimento.

A tanto deve aggiungersi una riflessione sul ruolo che il Giudice contabile riveste in relazione all'azione discrezionale della Pubblica Amministrazione.

Il Giudice contabile, invero, non è mai il giudice dell'«atto amministrativo» ma del «fatto produttivo di danno erariale»; non è il giudice della «illegittimità del provvedimento» ma della «illiceità della condotta», con la precisazione che anche dagli atti legittimi possono derivare conseguenze dannose (certo più frequentemente riconducibili, comunque, agli atti illegittimi); non è chiamato a tutelare, su impulso di privati, le situazioni soggettive incise dall'esercizio del potere pubblico ma è viceversa chiamato a garantire, su impulso di una parte pubblica (il Procuratore contabile), la salvaguardia dell'interesse alla corretta gestione delle risorse pubbliche.

Pertanto, nel momento in cui il sindacato del giudice contabile si sofferma sull'esercizio del potere discrezionale della P.A., tale sindacato mira ad accertare se davvero l'interesse pubblico sia stato perseguito dall'Amministrazione senza alcuno spreco di denaro pubblico: sicché, pure inquadrandola in questa prospettiva, l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali rivela il suo carattere estremamente critico, ponendosi per l'interprete il compito di selezionare quegli elementi «legalmente idonei» a fondare un eventuale giudizio di responsabilità amministrativa «personale» a carico del funzionario della Pubblica amministrazione.

D'altro canto, il diverso sindacato che il Giudice contabile e quello amministrativo svolgono sulla discrezionalità della P.A. non deve minimamente far credere che nell'ordinamento vi siano «diverse discrezionalità» a seconda del Giudice che su di esse svolge il relativo sindacato: invero, l'istituto della discrezionalità è unitario, sia in relazione al suo esercizio da parte dell'Amministrazione, sia in relazione al sindacato che su di essa viene svolto da parte del giudice. E ciò vale pure se è solo il Giudice amministrativo a poter sindacare il merito dell'attività pubblica (art. 134 c.p.a.).

Descritti nei suddetti termini gli aspetti maggiormente problematici del tema relativo alla insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, è adesso opportuno valutare le soluzioni proposte nel tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

I caratteri generali della discrezionalità amministrativa

Il punto di partenza di questa analisi non può prescindere dalla individuazione dei caratteri generali della discrezionalità amministrativa, da intendersi – in linea generale – come uno dei due moduli di esercizio del potere amministrativo.

Al riguardo, quindi, va innanzitutto chiarito che l'esercizio del potere pubblico incontra sempre il proprio fondamento nella legge (c.d. «principio di legalità»), ancorché – come anticipato – tale principio vada oggi esteso non soltanto alla normativa statale/regionale ma anche a quella eurounitaria.

Il ricondurre l'attività amministrativa (in specie quella discrezionale) al principio di legalità costituisce un'affermazione di grande importanza ai fini del presente lavoro, perché reca con sé l'ulteriore precipitato per il quale sull'azione pubblicistica deve necessariamente essere garantito un sindacato in qualunque sede giurisdizionale, non potendosi viceversa ammettere alcuna riserva di amministrazione.

Proprio in ragione dell'assunto appena affermato, adesso risulta fondamentale rilevare che è duplice l'incidenza che la legge può esercitare sull'azione amministrativa.

In alcuni casi, infatti, la legge determina in modo puntuale il modus agendi dell'Autorità pubblica: in relazione a tali casi, allora, si parla tradizionalmente di «attività vincolata» della Pubblica Amministrazione, poiché il risultato a cui deve tendere l'esercizio del potere pubblico è vincolato alla «scelta» operata a monte dal Legislatore.

In altri casi, invece, la legge si limita ad individuare l'interesse pubblico al cui soddisfacimento è tenuta la P.A., almeno attraverso la pura e semplice attribuzione di competenza ad un organo pubblico: in queste ipotesi sorgono i presupposti per l'esercizio della «attività discrezionale» dell'Autorità pubblica, cui è rimessa la ricerca del modo migliore per il soddisfacimento dell'interesse pubblico positivamente determinato.

Nel dettaglio, la discrezionalità rappresenta la facoltà di scelta fra più comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell'interesse pubblico e per il perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere esercitato (Virga).

La «scelta» in cui si condensa l'esercizio della discrezionalità, peraltro, viene eseguita all'esito di una comparazione di tutti gli interessi collegati, nel senso che l'Autorità amministrativa non può apprezzare l'interesse «primario» che deve curare (che è l'interesse pubblico positivamente individuato) se non comparandolo con tutti gli altri interessi «secondari» (che possono essere pubblici, collettivi e privati), cui il primo è collegato: solo per effetto della ponderazione comparativa di più interessi secondari in ordine ad un interesse primario, dunque, si ritiene possibile conseguire il fine prefissato dal legislatore con il minor sacrificio possibile di tutte le altre posizioni che con esso vengano in qualche modo ad interferire (Giannini M.S.).

Secondo questa impostazione, quindi, sono due i momenti fondamentali che caratterizzano l'attività discrezionale della P.A.: quello del giudizio e quello della scelta (o della volontà).

Il momento del giudizio si concreta nell'individuazione e nell'analisi dei fatti e degli interessi (quello primario e quelli secondari), sulla base di un'istruttoria per la decisione.

Il momento della scelta, invece, è quello in cui l'amministrazione, alla luce delle risultanze del giudizio, adotta la soluzione che ritiene più opportuna e conveniente per il miglior perseguimento dell'interesse pubblico primario.

L'occasione è adesso propizia per mettere subito a fuoco il concetto di «discrezionalità tecnica»: questa forma di discrezionalità non si condensa in una «scelta» ma soltanto in un «giudizio»; sicché, in sostanza, il concetto di «discrezionalità tecnica» non è di per sé idoneo a identificare una forma di manifestazione all'esterno della volontà dell'amministrazione.

Nel dettaglio, va detto che la discrezionalità tecnica ricorre quando l'esame di fatti o di situazioni rilevanti per l'esercizio del potere pubblico necessiti del ricorso a cognizioni tecniche o scientifiche di carattere specialistico. Attraverso la discrezionalità tecnica non si tende ad operare una comparazione tra interesse pubblico primario e interessi secondari, bensì a compiere una valutazione di fatti: si tratta di un giudizio da effettuarsi alla stregua di canoni scientifici e tecnici, che non implica il potere di scegliere quale sia la soluzione più opportuna per l'interesse da perseguire.

Tra la «discrezionalità amministrativa» e la «discrezionalità tecnica», dunque, vi è una diversità concettuale di fondo: mentre la discrezionalità amministrativa consta sia del momento del giudizio (nel quale si acquisiscono e si esaminano i fatti), che del momento della scelta (nel quale si compie una sintesi degli interessi in gioco e si determina la soluzione più opportuna), la discrezionalità tecnica, viceversa, si risolve solo in analisi di fatti, sia pure complessi, ma non di interessi.

La discrezionalità tecnica, quindi, contiene il profilo del giudizio, ma difetta di quello della scelta.

Una volta esaurita la fase dell'accertamento dei fatti sulla base di cognizioni tecniche, poi, può succedere che la P.A. sia «vincolata», per effetto della norma attributiva del potere, all'adozione di un determinato provvedimento: in questo caso, si afferma che la discrezionalità tecnica è servente rispetto al vincolo amministrativo stabilito dal Legislatore.

Può altresì accadere che, dopo l'analisi dei fatti condotta nell'esercizio della discrezionalità tecnica, la P.A. rimanga libera di individuare il provvedimento più opportuno per il perseguimento dell'interesse pubblico: in tale ipotesi, si sostiene che la discrezionalità tecnica è seguita dalla discrezionalità amministrativa, dando luogo alla c.d. «discrezionalità mista», intesa concettualmente come la sintesi dei due momenti discrezionali che caratterizzano l'intera azione amministrativa.

Analizzati nei suddetti termini i caratteri essenziali dell'attività vincolata, della discrezionalità amministrativa e della discrezionalità tecnica, è adesso maggiormente agevole spiegare le ragioni per cui l'«eccesso di potere giurisdizionale» del giudice contabile si realizza solo con riferimento al «merito delle scelte discrezionali».

È soltanto nel caso di discrezionalità amministrativa, infatti, che l'Amministrazione compie delle scelte.

Questa fase di «scelta», invece, difetta sia nell'esercizio dell'attività vincolata che della «discrezionalità tecnica»: nel primo caso, infatti, all'Amministrazione spetta semplicemente il compito di accertare la effettiva sussistenza dei presupposti per l'adozione di un provvedimento dal contenuto legalmente vincolato; nel secondo caso, invece, l'Amministrazione è chiamata soltanto ad analizzare fatti, senza compiere alcuna scelta.

Pertanto, in caso di danno erariale eventualmente procurato nell'esercizio di queste due tipologie di attività (vincolata e discrezionale-tecnica), il giudice contabile non avrebbe certamente bisogno di sindacare il «merito» dell'azione amministrativa.

Sgomberato il campo d'indagine da ciò che non rientra nel fuoco della disposizione sulla «insindacabilità del giudice contabile», occorre adesso soffermarsi sul concetto di «merito delle scelte discrezionali» poiché, come anticipato in apertura, non tutta l'attività discrezionale della P.A. è sottratta al sindacato del giudice contabile, ma soltanto quella parte che afferisce specificamente al merito dell'azione amministrativa.

Il «merito» dell'azione amministrativa e il relativo sindacato del Giudice contabile

Il tema in apice rubricato va opportunamente studiato tratteggiandone l'evoluzione normativa e interpretativa.

Sono almeno quattro le fasi che hanno scandito il percorso evolutivo del concetto di «merito» delle scelte discrezionali della Pubblica Amministrazione e del relativo sindacato da parte del Giudice contabile.

La prima fase evolutiva

La prima fase è riconducibile al periodo in cui ancora non vi era alcuna disposizione che regolamentasse il procedimento amministrativo e/o alcun principio specifico a cui ancorare l'esercizio del potere pubblico (oltre a quelli stabiliti dalla Costituzione all'art. 97): il riferimento è dunque al periodo precedente l'introduzione della l. n. 241/1990 laddove, in assenza di specifiche disposizioni normative idonee ad incanalare l'esercizio del potere discrezionale nei binari della legalità, l'azione della Pubblica amministrazione risultava certamente svincolata dal rispetto di regole specifiche, esponendosi perciò più al vizio di «eccesso di potere» che a quello della «violazione di legge».

In questo contesto normativo, la Corte dei Conti non ha mancato di evidenziare le difficoltà di giungere ad una pronuncia di condanna per danno erariale in assenza di un modello legale e predeterminato di «atto» e di «azione» pubblicistica.

Sicché, mentre il Giudice amministrativo si ritrovava impegnato (sempre in questo periodo storico) nell'elaborazione delle cc.dd. «figure sintomatiche» dell'eccesso di potere ai fini di un giudizio sulla legittimità dei provvedimenti amministrativi, analogamente il Giudice contabile si ritrovava obbligato ad elaborare delle figure sintomatiche di «illiceità della condotta» degli agenti pubblici, idonee ad ancorare il giudizio di responsabilità a canoni predefiniti.

Così operando, in questa prima fase la giurisprudenza contabile ha elaborato diversi criteri interpretativi, tra i quali si ricorda quello dell'«agente pubblico modello» (che agisce sulla base delle nozioni di comune esperienza e dei normali criteri di diligenza e perizia), quello della «convenienza della scelta amministrativa» (per il quale il sindacato del giudice contabile può essere eseguito soltanto ove risulti predeterminabile una precisa correlazione di convenienza, positiva o negativa, tra un certo risultato e l'azione concretamente posta in essere al fine di conseguire il predetto risultato) e, soprattutto, quello della «razionalità/ragionevolezza della scelta amministrativa» (secondo cui non è foriera di danno erariale la scelta pubblicistica che si riveli razionale/ragionevole rispetto all'interesse concreto da soddisfare).

La seconda fase evolutiva

La seconda fase del processo evolutivo del concetto di «merito» delle scelte discrezionali della Pubblica Amministrazione prende l'avvento con le riforme normative degli anni '90 e, in particolare, con l'introduzione della l. n. 241/1990 e della l.n. 20/1994 (oggetto del presente lavoro).

È intuitivo l'apporto innovativo recato dalle due leggi innanzi richiamate.

La legge n.241/1990, infatti, ha il merito di aver tradotto in precetti legislativi i princìpi ed i canoni dell'azione amministrativa precedentemente dedotti interpretativamente dalla giurisprudenza: sicché, per quel che qui rileva, l'introduzione della l. n. 241/1990 ha comportato, tra gli altri effetti, la valorizzazione dei princìpi fondanti l'esercizio del potere pubblicistico (primi fra tutti i princìpi di economicità e di efficacia), offrendo così un essenziale canone di riferimento non solo per l'amministrazione ma anche per il giudice chiamato all'accertamento degli effetti (in punto di legittimità e di illiceità) dell'azione pubblica.

D'altro canto, alla l. n. 241/1990 va ascritto il merito di aver esplicitato le regole specifiche dell'agere publicum, con il risultato di estendere l'ambito di operatività del vizio della «violazione di legge», che ha così finito per erodere le aree tradizionalmente riservate all'eccesso di potere (si pensi, ad esempio, ai vizi concernenti la motivazione del provvedimento prevista dall'art. 3 l. n. 241/1990, tradizionalmente utilizzati per l'elaborazione delle figure sintomatiche dell'eccesso di potere). Ne è conseguito un più agevole accertamento dell'illegittimità del provvedimento amministrativo e dell'illiceità della condotta del funzionario pubblico: tale accertamento, infatti, non è risultato più pregiudicato dalle difficoltà probatorie legate alla dimostrazione della sussistenza del vizio dell'eccesso di potere (che ricorre ove la P.A. utilizza il potere discrezionale per finalità ed interessi differenti da quelli per i quali tale potere le è stato conferito), ma è stato invero facilitato dal mero confronto della fattispecie concreta col paradigma legale.

La l. n.20/1994, invece, per quanto riguarda specificamente l'oggetto del presente lavoro, ha certamente contribuito alla positivizzazione della figura dell'eccesso di potere giurisdizionale del Giudice contabile, riservando tuttavia agli interpreti la soluzione delle questioni di cui in questa sede si parla.

In questo rinnovato contesto normativo, sono state le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (adìte ex art. 111, ultimo comma, Cost.) a fornire un prezioso contributo per la delimitazione del concetto di merito delle scelte discrezionali e per la definizione dei limiti del relativo sindacato da parte del Giudice contabile.

Con sentenza n. 33 del 29 gennaio 2001, infatti, le Sezioni Unite hanno evidenziato come sia assai sottile il discrimine tra sindacabilità ed insindacabilità delle opzioni possibili nell'ambito dell'attività amministrativa, giacché si tratta di «contemperare due esigenze (ambedue meritevoli di tutela ma talora divergenti), come l'esigenza di impedire e/o sanzionare la dissipazione del pubblico danaro e la necessità di non ingessare l'iniziativa dei pubblici amministratori in confini così angusti da paralizzare o, quanto meno, gravemente condizionarne l'attività» (Cass. S.U., n. 33/2001).

Sicché, prediligendo dapprima un approccio rigido e restrittivo, la Cassazione ha elaborato il principio generale ed astratto per il quale «il giudice contabile può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell'ente; ma una volta accertata tale compatibilità, l'articolazione concreta e minuta dell'iniziativa intrapresa dall'amministratore rientra nell'ambito di quelle scelte discrezionali per le quali il legislatore ha stabilito l'insindacabilità (art. 3, n. 1, lett. a), d.l. n. 543/1996)» (Cass. S.U., n. 33/2001).

Peraltro, a parere delle Sezioni Unite, «la valutazione della omogeneità dei fini non può talora prescindere da quella dell'adeguatezza dei mezzi. Problema che va risolto nel senso della sindacabilità anche dei mezzi utilizzati a seguito di scelte discrezionali solo nell'ipotesi di una loro assoluta ed incontrovertibile estraneità rispetto ai fini» (Cass. S.U., n. 33/2001).

L'orientamento espresso dalle Sezioni Unite è stato poi ribadito dalla successiva sentenza n. 6851 del 6 maggio 2003, con cui le stesse Sezioni Unite hanno pure (e inaspettatamente) affermato che il sindacato esercitato dal Giudice contabile sulla discrezionalità amministrativa è più limitato rispetto a quello svolto dal Giudice amministrativo: in questo modo, è stata dunque avallata un'interpretazione diretta a spezzare clamorosamente l'unitarietà dell'istituto della discrezionalità amministrativa.

In definitiva, è evidente che l'approdo ermeneutico raggiunto dalle Sezioni Unite in questa seconda fase evolutiva è valso a limitare l'area del sindacato del Giudice contabile, giacché ha segnato il passaggio da un'indagine giudiziale concentrata sulla «razionalità/ragionevolezza della scelta amministrativa» ad un accertamento limitato alla mera compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell'ente, con possibile ulteriore sindacato in ordine all'adeguatezza dei mezzi scelti dall'Amministrazione soltanto nel caso di assoluta ed incontrovertibile estraneità dei predetti mezzi rispetto ai fini.

La terza fase evolutiva

La terza fase evolutiva del concetto di «merito» delle scelte discrezionali della P.A. e del relativo sindacato del Giudice contabile è invece segnata da un nuovo allargamento dei confini del predetto sindacato.

La pronuncia che ha inaugurato questa terza fase è rappresentata dalla sentenza n. 14488/2003, con cui le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato innanzitutto che «l'insindacabilità “nel merito” delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti non comporta la sottrazione di tali scelte ad ogni possibilità di controllo» (Cass. S.U., n. 14488/2003).

Sulla base di questo assunto, allora, le Sezioni Unite hanno dapprima spiegato il concetto di «merito» dell'attività amministrativa, chiarendo che esso «riguarda la scelta – alla stregua di criteri di opportunità e, quindi, di parametri non giuridici – delle modalità di azione della pubblica amministrazione in vista della realizzazione degli interessi affidati dalla legge alle sue cure. Esso, pertanto, non attiene al profilo della legittimità dell'azione amministrativa, in quanto presuppone che la legge, pur determinando i fini che debbono essere obbligatoriamente perseguiti dalla p.a., lasci a quest'ultima la possibilità di valutare (e, quindi, di scegliere) come tali interessi debbano essere perseguiti nel caso concreto» (Cass. S.U., n. 14488/2003).

Ciò posto, il Consesso ha rilevato che, senza alcun dubbio, «l'insindacabilità «nel merito» sancita dall'art. 1, primo comma, della legge 20/94, non priva la Corte dei conti della possibilità di controllare la conformità alla legge dell'attività amministrativa», con l'ulteriore precisazione «che tale conformità deve essere verificata anche sotto l'aspetto «funzionale», vale a dire in relazione alla congruenza dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore» (Cass. S.U., n. 14488/2003).

In aggiunta, e col dichiarato intento di superare il precedente orientamento espresso con le sentenze nn. 33/2001 e 6851/2003 (prima richiamate), le Sezioni Unite hanno precisato che «non è revocabile in dubbio che, alla stregua di quanto stabilito dal citato art. 1, comma 1, l. n. 20/94, l'esercizio, in concreto, del potere discrezionale dei pubblici amministratori costituisce espressione di una sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato della Corte dei conti. Ma è altrettanto certo che detta disposizione deve essere messa in correlazione con l'art. 1, comma 1, l. n. 241/1990, il quale stabilisce, in via generale, che l'esercizio dell'attività amministrativa deve ispirarsi a criteri di economicità e di efficacia» (Cass. S.U., n. 14488/2003).

È proprio questo il passaggio fondamentale del nuovo indirizzo inaugurato delle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui, proprio in virtù della specifica previsione recata dall'art. 1 della l. n. 241/1990, il criterio di economicità (che indica la congruità del rapporto tra i costi sostenuti dall'Amministrazione e i risultati conseguiti) ed il criterio di efficacia (che è riferito all'idoneità dell'azione pubblica a conseguire il risultato prestabilito) hanno acquistato «dignità normativa», divenendo così una «concreta» (e non più solo teorica) specificazione del più generale principio sancito dall'art. 97,comma 1,Cost., ed assumendo così rilevanza sul piano della legittimità (e non della mera opportunità) dell'azione amministrativa.

Così opinando, il Collegio ha concluso nel senso che «la verifica della legittimità dell'attività amministrativa non può quindi prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obbiettivi conseguiti e i costi sostenuti. E si intende, allora, che la violazione dei criteri sopra indicati possa assumere rilievo anche nel giudizio di responsabilità, dal momento che l'antigiuridicità dell'atto amministrativo costituisce un presupposto necessario (anche se non sufficiente) della «colpevolezza» di chi lo abbia posto in essere» (Cass. S.U., n. 14488/2003).

In questa terza fase evolutiva, quindi, l'allargamento del sindacato della Corte dei Conti sul merito delle scelte discrezionali della P.A. ha fatto leva – per la prima volta – sulla valorizzazione dei criteri di «economicità» e di «efficacia», intesi come precetti che devono informare di l'azione amministrativa discrezionale e, come tali, sindacabili dal Giudice contabile.

La quarta (e ultima) fase evolutiva

È tuttavia la quarta fase del processo evolutivo qui in rassegna, però, che consente di delineare con maggiore esattezza i contorni del sindacato della Corte dei Conti sul merito delle scelte discrezionali della P.A.

Questa quarta fase evolutiva è segnata dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 7024 del 28 marzo 2006.

La richiamata decisione si caratterizza per tre passaggi fondamentali: in primo luogo, infatti, le Sezioni Unite prendono nettamente le distanze dall'orientamento restrittivo tradizionalmente espresso dal medesimo Collegio (seconda fase); in secondo luogo, vengono accuratamente delineati i contorni del concetto di discrezionalità amministrativa; in terzo ed ultimo luogo, vengono confermate ed implementate le ragioni poste a fondamento dell'estensione dell'area del sindacato della Corte dei Conti sull'azione della P.A. (terza fase).

Nel dettaglio, rispetto all'indirizzo originariamente patrocinato dalle stesse Sezioni Unite (seconda fase), risulta evidente il desiderio di voler sconfessare l'idea che il controllo del Giudice contabile sulla discrezionalità amministrativa debba essere meno intenso rispetto al controllo esercitabile dal Giudice amministrativo, sull'assunto che, in ragione di quanto stabilito dall'art. 1 della l. n. 20/1994, solo in relazione alle pronunce del Giudice contabile (a differenza di quanto si verifica nei confronti delle pronunce del giudice amministrativo) esisterebbe una norma specifica che preclude allo stesso giudice contabile di sindacare nel merito le scelte discrezionali della P.A.

Ebbene, avverso il predetto teorema le Sezioni Unite osservano adesso che «la nozione (e quindi l'ampiezza) del concetto di discrezionalità [non può] essere diversa nelle varie sedi giurisdizionali. In particolare, non è imposto da alcuna ragione di ordine sistematico che il controllo di legalità nel giudizio di responsabilità amministrativa dinanzi al giudice contabile debba avere un contenuto meno ampio e debba essere meno penetrante di quanto avviene nel giudizio di legittimità sugli atti amministrativi, affidato al giudice amministrativo e, in via incidentale, al giudice ordinario, e soprattutto nel giudizio di responsabilità per danni affidato agli stessi giudici, quando la condotta causativa di danno sia costituita da atti o provvedimenti amministrativi» (Cass. S.U., n. 7024/2006).

Queste prime argomentazioni delle Sezioni Unite, per come innanzi riportate, possono essere riassunte nel seguente principio che, a dispetto della sua apparente ovvietà, valeva certamente la pena venisse scandito a chiare lettere: l'istituto della discrezionalità è unitario, sia in relazione al suo esercizio da parte dell'Amministrazione, sia in relazione al sindacato che su di essa viene svolto da parte del giudice (contabile o amministrativo).

Assodata l'unitarietà dell'istituto, le Sezioni Unite ne disegnano accuratamente il perimetro.

Al riguardo, si precisa che «una riconduzione all'area della discrezionalità (e quindi dell'insindacabilità giurisdizionale) di qualunque articolazione dell'agire amministrativo, purché compiuta nel rispetto dei fini istituzionali dell'ente o dell'organo, costituirebbe un ritorno a sistemi addirittura anteriori alla creazione dello Stato di diritto, nei quali si contrapponevano i cd. affari di amministrazione (esclusi in toto dal riesame giurisdizionale e contrassegnati con la qualifica della discrezionalità) dagli affari di giustizia»; peraltro, si rileva che «dalla necessità di ricondurre l'esercizio del potere discrezionale al principio di legalità discende, altresì, che lo stesso non può consistere in mero arbitrio e che devono essere assicurate le varie forme possibili di sindacato indiretto (quale quello classico dell'eccesso di potere nelle sue varie forme), in qualunque sede giurisdizionale. Proprio la mancanza, nel sistema costituzionale, di una riserva di amministrazione (che riporterebbe in vita i cc.dd. affari di amministrazione) comporta che qualunque giudice può riesaminare senza alcun limite l'interpretazione e l'applicazione di norme giuridiche espresse negli atti amministrativi. Pertanto, la creazione di un'area d'immunità giurisdizionale più ampia, propria di un particolare giudizio, nella quale anche articolazioni dell'agire amministrativo contra legem, purché sia assicurato il perseguimento dei fini istituzionali, sarebbero riconducibili alla sfera della discrezionalità, oltre a costituire un'evidente discriminazione rispetto ad altre forme di tutela, incorrerebbe inevitabilmente in una censura d'incostituzionalità per contrasto coi principi di legalità dell'amministrazione e di pienezza della tutela giurisdizionale» (Cass. S.U., n. 7024/2006).

In definitiva, il ragionamento espresso dalle Sezioni Unite in questo secondo passaggio motivazionale si compendia nei due seguenti passaggi logici: a ) l'esercizio del potere discrezionale va ricondotto al principio di legalità; b ) lungi dal comportare una (innominata) riserva di amministrazione, ciò garantisce che sull'azione pubblica il giudice possa svolgere un sindacato in qualunque sede giurisdizionale.

Da tali premesse deriva la seguente conseguenza, espressa a chiare lettere dalle Sezioni Unite: «il sindacato della Corte dei conti in sede di giudizio di responsabilità (ma anche in sede di giurisdizione di conto) non deve limitarsi a verificare se l'agente abbia compiuto l'attività per il perseguimento di finalità istituzionali, ma deve estendersi alle singole articolazioni dell'agire amministrativo, escludendone soltanto quelle in relazione alle quali la legge attribuisce all'amministrazione una scelta elettiva tra diversi comportamenti, negli stretti limiti di tale attribuzione» (Cass. S.U., n. 7024/2006).

Quid iuris quando la discrezionalità dell'amministrazione viene esercitata attraverso moduli privatistici?

Detto diversamente: il concetto di discrezionalità amministrativa ed il relativo sindacato del giudice, mutano quando la c.d. «funzionalizzazione legale dell'azione pubblica» si traduce in un'attività della P.A. svolta in forma privatistica e secondo modelli imprenditoriali?

Il quesito innanzi prospettato trova (anch'esso) una pronta risposta nelle parole della Cassazione, secondo cui «di discrezionalità può correttamente parlarsi soltanto in relazione ad attività di rilievo pubblicistico, soprattutto quando la stessa è regolata dal principio di tipicità degli atti amministrativi, senza confondere tale fenomeno con quello della libertà di scelta attribuita all'amministrazione quando la stessa agisce come imprenditore, nella quale non vige il detto principio regolatore e per la quale, a seguito del recente revirement della giurisprudenza delle Sezioni Unite, sussiste la giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità per danno erariale» (Cass. S.U., n. 7024/2006).

Secondo le Sezioni Unite, quindi, quando la discrezionalità dell'amministrazione viene esercitata attraverso moduli privatistici non vige il principio di tipicità degli atti amministrativi: ciò non toglie tuttavia che sussista la giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità per danno erariale.

Sulla base di questa conclusione giurisprudenziale, in sede interpretativa se n'è poi dedotto che dove c'è agire imprenditoriale, sia pure in vista del perseguimento di interessi pubblici, non c'è discrezionalità in senso proprio ma scelte di comportamento che possono essere scrutinate sulla base della clausola di ragionevolezza (Pinotti).

È a questo punto, allora, che le Sezioni Unite si preoccupano di delineare l'area del sindacato del Giudice contabile sulla discrezionalità amministrativa.

La chiave di volta del ragionamento ermeneutico è rappresentata dai princìpi di economicità e di efficacia, già valorizzati dalla precedente giurisprudenza ricondotta nel presente lavoro alla c.d. terza fase.

Di nuovo, però, c'è che in questa quarta fase evolutiva le Sezioni Unite chiariscono sapientemente le conseguenze pratiche che discendono dai predetti principi poiché, come si vedrà, viene sancita una netta separazione tra il controllo giurisdizionale sulla discrezionalità amministrativa ed il controllo giurisdizionale sul rispetto, da parte dell'Amministrazione, dei criteri di economicità e di efficienza.

Il pensiero espresso dalle Sezioni Unite si articola in sei passaggi logici: 1) discrezionalità amministrativa significa possibilità di scelta fra più comportamenti per il soddisfacimento dell'interesse pubblico, in omaggio al generale principio di legalità; 2) la scelta fra più comportamenti nell'esercizio del potere discrezionale è tuttavia concettualmente diversa dalla scelta fra le diverse modalità di attuazione dei principi di economicità ed efficacia; 3) l'economicità e l'efficacia, infatti, costituiscono delle regole giuridiche di legittimità dell'azione amministrativa, che costantemente innervano l'agire publicum: i principi di economicità e di efficacia, quindi, non rappresentano un mero ed enfatico richiamo ai principi di legalità e di buona amministrazione contenuti nell'art. 97 Cost., ma costituiscono un quid pluris in conseguenza del rango a loro ascritto di «vere e proprie regole giuridiche» (o «clausole generali»); 4) al Giudice contabile spetta il potere di verificare il modo in cui l'Amministrazione abbia dato concreta applicazione ai principi di economicità e di efficacia, perché – come detto – tale concreta applicazione non rientra nell'ambito della discrezionalità amministrativa: quello operato dal Giudice contabile, dunque, è un controllo di legittimità (e non di merito); 5) è indubitabile, però, che il concetto di economicità e quello di efficacia rappresentino dei concetti giuridici «indeterminati»: sicché l'Amministrazione è sostanzialmente chiamata a offrirne una «determinata» attuazione scegliendo fra più comportamenti, tutti di pari valore giuridico; 6) al cospetto della concreta applicazione di concetti giuridici «indeterminati» (economicità ed efficacia), il (già ammesso) sindacato del Giudice contabile deve limitarsi ad accertarne la mera ragionevolezza: si tratta, quindi, di un controllo di legittimità, ancorché limitato.

La conclusione dell'articolato ragionamento svolto dalle Sezioni Unite è la seguente: «la verifica della corretta applicazione di una clausola generale non è sindacato di discrezionalità, ma controllo (anche se limitato) di legittimità, per cui il suo esercizio (e cioè la concreta applicazione della regola al caso concreto) non pone un problema di sindacato della discrezionalità amministrativa» (Cass. S.U., n. 7024/2006).

A questo punto, un succinto riferimento al caso concretamente esaminato dalla Cass. S.U., n. 7024/2006 può certamente agevolare la comprensione dei principi nell'occasione espressi.

Ebbene, nella fattispecie il danno erariale era stato cagionato dal mancato tempestivo pagamento di un'obbligazione pecuniaria da parte dell'Amministrazione: sicché, in seguito all'accertamento giudiziale dell'illegittimità dell'inerzia dell'Amministrazione, quest'ultima era stata condannata al pagamento di una ingente somma a titolo di interessi e spese legali.

La controversia conseguentemente innescata innanzi al Giudice contabile aveva ad oggetto la responsabilità degli organi dell'Amministrazione non già per il fatto di aver effettuato una scelta anziché un'altra, ma per aver omesso di adottare una qualunque scelta che consentisse di far fronte con maggiore rapidità (e quindi evitando l'onere di maggiori spese legali, danni ed interessi) alle obbligazioni pecuniarie precedentemente assunte.

Sicché, a fronte della condanna al risarcimento del danno erariale comminata dalla Corte dei Conti, il soggetto responsabile aveva adìto le Sezioni Unite della Cassazione exartt. 111, comma 8, Cost. e 207 c.g.c., eccependo l'inammissibilità del sindacato che nell'occasione il Giudice contabile aveva svolto sul merito dell'azione amministrativa.

Risolvendo la questione in applicazione di tutti i principi elaborati (per come innanzi richiamati), le Sezioni Unite hanno evidenziato che nel caso di specie certamente l'adempimento di obbligazioni pecuniarie da parte dell'Amministrazione poteva avvenire attraverso procedimenti amministrativi alternativi: tuttavia, se tra le diverse alternative possibili l'Amministrazione non ne sceglie nemmeno una (come era accaduto nella fattispecie), allora è chiaro che qui non si pone assolutamente un problema di sindacato del Giudice contabile sul merito della discrezionalità amministrativa, poiché il sindacato giurisdizionale cade, per vero, sul mancato rispetto da parte della P.A. dei principi di economicità e di efficacia.

Viceversa, se nella specie l'Amministrazione avesse scelto una delle possibili soluzioni alternative (tutte legalmente consentite), allora sì che si sarebbe trattato, per il Giudice contabile, di un inammissibile sindacato sulle valutazioni discrezionali della P.A. (salva la valutazione circa la ragionevolezza della scelta concretamente adottata).

È dunque su questi presupposti fattuali che matura il convincimento espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 7024/2006.

Dai principi in quella sede elaborati la Corte di Cassazione non si è più discostata.

Sicché, come si evidenzierà nel successivo paragrafo, essi risultano sostanzialmente inalterati nelle successive (e pure attuali) applicazioni interpretative.

L'attuale assetto interpretativo

Come si è anticipato nel precedente paragrafo, l'attuale giurisprudenza risulta allineata all'orientamento patrocinato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza Cass. S.U., n. 7024/2006.

Sono numerosi i recenti pronunciamenti (sia del Giudice ordinario che del Giudice contabile) che attestano il predetto traguardo interpretativo.

Ad esempio, con la sentenza Cass. S.U., n. 30527 /2019 le Sezioni Unite hanno affermato che «l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti non comporta che esse siano sottratte ad ogni possibilità di controllo, e segnatamente a quello della conformità alla legge che regola l'attività amministrativa, con la conseguenza che il giudice contabile non viola i limiti esterni della propria giurisdizione quando accerta la mancanza di tale conformità. In particolare, la Corte dei conti può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell'ente, che devono essere ispirati ai criteri di economicità ed efficacia, ex art. 1 della l. n. 241/1990: essi assumono rilevanza sul piano, non già della mera opportunità, ma della legittimità dell'azione amministrativa e consentono, in sede giurisdizionale, un controllo di ragionevolezza sulle scelte della pubblica amministrazione, onde evitare la deviazione di queste ultime dai fini istituzionali dell'ente e permettere la verifica della completezza dell'istruttoria, della non arbitrarietà e proporzionalità nella ponderazione e scelta degli interessi, nonché della logicità ed adeguatezza della decisione finale rispetto allo scopo da raggiungere» (Cass. S.U., n. 30527/2019).

Ancor più di recente le Sezioni Unite hanno chiarito che, «in tema di giudizi di responsabilità amministrativa, la Corte dei Conti può valutare, da un lato, se gli strumenti scelti dagli amministratori pubblici siano adeguati – anche con riguardo al rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti – oppure esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da perseguire e, dall'altro, se nell'agire amministrativo gli amministratori stessi abbiano rispettato i princìpi di legalità, di economicità, di efficacia e di buon andamento, i quali assumono rilevanza sul piano della legittimità e non della mera opportunità dell'azione amministrativa» (Cass. S.U., n. 8848/2020).

Questa pronuncia riassume gli elementi essenziali di sindacabilità da parte del Giudice contabile perché, per un verso, si rileva che la discrezionalità dell'amministratore nell'individuare la soluzione più idonea a realizzare nel caso concreto l'interesse pubblico può dirsi legittimamente esercitata solo in quanto risultino osservati i criteri informatori dell'agere della P.A., come dettati in via generale dall'art. 97 Cost. e codificati dall'art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 quanto a «economicità, efficacia e pubblicità», e dall'art. 1 del d.lgs. n. 286/1999 in materia di controlli interni della Pubblica Amministrazione; per altro verso, si rileva che la rispondenza in concreto delle scelte degli amministratori a questi criteri è soggetta al controllo di giuridicità sostanziale della Corte dei Conti, in quanto si tratta di criteri che, travalicando la “riserva di amministrazione” (intesa come preferenza tra alternative, nell'ambito della ragionevolezza, per il soddisfacimento dell'interesse pubblico), rientrano nella legittimità e non nella mera opportunità dell'azione amministrativa.

Da ultimo, pronunciandosi positivamente in merito alla possibilità che il Giudice contabile giudichi sulla eventuale responsabilità amministrativa dei dirigenti del Ministero del Tesoro (oggi MEF) per l'adozione di determinate modalità operative e per la pattuizione di specifiche condizioni negoziali relative a contratti in strumenti finanziari derivati, le Sezioni Unite hanno chiarito che, «ferma restando l'insindacabilità giurisdizionale delle scelte di gestione del debito pubblico, da parte degli organi governativi a ciò preposti, mediante ricorso a contratti in strumenti finanziari derivati, rientra invece nella giurisdizione contabile, in quanto attinente al vaglio dei parametri di legittimità e non di mera opportunità o convenienza dell'agire amministrativo, l'azione di responsabilità per danno erariale con la quale si faccia valere, quale petitum sostanziale, la mala gestio alla quale i dirigenti del Ministero del Tesoro (oggi MEF) avrebbero dato corso, in concreto, nell'adozione di determinate modalità operative e nella pattuizione di specifiche condizioni negoziali relative a particolari contratti in tali strumenti» (Cass. S.U., n. 2157/2021).

Ai medesimi principi si è allineata pure la giurisprudenza del Giudice contabile.

Ne costituisce dimostrazione la recente sentenza C. conti, Sez. II App., n. 155/2021, per la quale «l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali compiute da soggetti sottoposti, in astratto, alla giurisdizione della Corte dei conti non ne comporta la sottrazione ad ogni possibilità di controllo e, segnatamente, a quello della conformità alla legge che regola l'attività amministrativa, con la conseguenza che il giudice contabile non viola i limiti esterni della propria giurisdizione quando accerta la mancanza di tale conformità.

Il limite dell'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali si pone quale confine invalicabile alla cognizione del giudice contabile solo allorquando siano in gioco plurime condotte alternative, tutte lecite, ben potendo, invece, essere verificata la conformità alla legge dell'attività amministrativa, anche sotto l'aspetto funzionale, ovvero in merito alla congruità dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via generale od in modo specifico, dal legislatore.

In particolare, l'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994 non priva il giudice contabile della possibilità di accertare la compatibilità delle scelte amministrative con i criteri di economicità ed efficacia, di cui all'art. 1, l. n. 241/1990: essi assumono rilevanza sul piano, non già della mera opportunità, ma della legittimità dell'azione amministrativa e consentono, in sede giurisdizionale, un controllo di ragionevolezza sulle scelte della pubblica amministrazione, onde evitare la deviazione di queste ultime dai fini istituzionali dell'ente e permettere la verifica della completezza dell'istruttoria, della non arbitrarietà e proporzionalità nella ponderazione e scelta degli interessi, nonché della logicità ed adeguatezza della decisione finale rispetto allo scopo da raggiungere.

Il giudice contabile non viola, dunque, i limiti esterni della propria giurisdizione, quando accerta la mancanza di conformità delle condotte di amministratori pubblici rispetto ai parametri normativi di efficienza, efficacia e legalità» (C. conti, sez. II App., n. 155/2021).

I caratteri della responsabilità amministrativo–contabile

Il primo comma dell'art. 1 della l. n. 20/1994 sancisce la regola per la quale la responsabilità amministrativo-contabile è «personale». L'ultimo alinea della norma precisa altresì che «Il relativo debito si trasmette agli eredi secondo le leggi vigenti nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi».

Si tratta di regole che vanno lette in stretta correlazione tra loro, giacché esse costituiscono il nucleo essenziale della prima versione del comma 1 della l. n. 20/1994, che nel suo testo originario stabiliva esclusivamente quanto segue: «La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale. Essa si estende agli eredi nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi».

Come si avrà modo di evidenziare, con il d.l. n. 543/1996 (convertito con modificazioni dalla l. n. 639/1996) il Legislatore si è preoccupato di disciplinare in maniera più organica il regime della personalità della responsabilità amministrativo-contabile, per un verso introducendo il concetto di «trasmissione agli eredi del debito erariale» in luogo del precedente concetto di «estensione della responsabilità»; per un altro verso, regolamentando i casi di danno erariale cagionato da una pluralità di soggetti responsabili: in quest'ultimo contesto si collocano infatti le disposizioni recate dall'art. 1 della l. n. 20/1994 ai commi 1-ter (relativo alla responsabilità collegiale ed alla c.d. «esimente politica») ed ai commi 1-quater e 1-quinquies (che si occupano della regola della parziarietà del debito erariale e delle sue eccezioni).

All'analisi degli argomenti innanzi segnalati sono dedicati i successivi paragrafi.

Il principio della «personalità» della responsabilità amministrativo-contabile.

Il principio della personalità sancito dall'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994vale ad escludere l'ingresso nell'ordinamento contabile di forme di responsabilità oggettiva o per fatto altrui.

Ai fini della condanna per responsabilità amministrativo-contabile, quindi, deve risultare che il danno erariale sia eziologicamente collegato alla condotta attiva o omissiva del soggetto responsabile.

Il carattere della personalità, però, non esclude che la responsabilità, oltre a riguardare le persone fisiche, investa anche le persone giuridiche private o, comunque, le entità sovrapersonali private (come le associazioni non riconosciute e/o le fondazioni): ciò accade ovviamente quando il danno erariale venga cagionato dalla persona giuridica privata legata da un rapporto di servizio con la Pubblica amministrazione (secondo quanto già evidenziato nel precedente paragrafo 4.2).

Peraltro, in tutti i casi in cui nelle dinamiche della responsabilità erariale risulti coinvolta la persona giuridica privata, è fondamentale accertare che il c.d. «schermo societario» non venga utilizzato dalle persone fisiche (che operano dietro il predetto schermo) per sfuggire alla loro «personale» responsabilità: ciò vale in particolare per gli amministratori (di diritto o di fatto) della persona giuridica privata, in relazione ai quali la giurisprudenza contabile si preoccupa di verificare perciò la sussistenza, in concreto, dei presupposti necessari per «squarciare il velo societario» (secondo la suggestiva formula linguistica frequentemente usata a tale proposito).

L'esigenza di valutare le responsabilità «anche» dei soggetti privati (persone fisiche) che agiscono dietro lo schermo societario si rivela peraltro necessaria non solo quando è concretamente prospettabile una responsabilità solidale dei predetti soggetti e della persona giuridica privata, ma anche (e soprattutto) quando quest'ultima sia «cessata» per qualsivoglia ragione, scomparendo così dal mondo del diritto: è intuitivo, infatti, che in quest'ultimo caso la responsabilità erariale potrà essere eventualmente rimproverata soltanto ai soggetti privati (persone fisiche) che abbiano agito nascondendosi dietro lo schermo societario.

In questo senso, la giurisprudenza contabile ha chiarito che la Corte dei Conti ha giurisdizione anche per l'azione di danno erariale proposta nei confronti non già della società privata a favore della quale il finanziamento sia stato erogato, ma direttamente di chi, nella veste di persona fisica che ha agito per conto dell'Ente in qualità di amministratore, di diritto o di fatto, ovvero di soggetto comunque legato in modo organico alla compagine sociale che ha operato in funzione delle proprie specifiche prerogative, avvalendosi dello schermo societario ed abusando dei suoi tipici poteri gestori, abbia distratto le somme oggetto della sovvenzione in violazione dell'immanente e rigido vincolo di scopo, così frustrando gli obiettivi perseguiti dalla Pubblica Amministrazione erogatrice (C. conti, Piemonte, n. 140/2017).

Invero, secondo questa pacifica impostazione interpretativa, «la cognizione della Magistratura contabile è correlata non solo alla riferibilità alla società privata che ha ricevuto i contributi pubblici degli effetti di tutti gli atti posti in essere dai suoi diversi organi gestionali, ma anche all'attività stessa di chi, in funzione dei poteri derivanti dal ruolo operativo ricoperto, anche di fatto, disponendo degli importi corrisposti in modo diverso da quello preventivato o realizzando attivamente i necessari presupposti per la loro illegittima percezione, abbia provocato lo svilimento del fine di interesse generale perseguito dall'Amministrazione» (C. conti, Piemonte, n. 140/2017).

Questa soluzione della giurisprudenza contabile fa leva sul raffinato ragionamento propugnato dalle Sezioni Unite della Cassazione secondo il quale, poiché la distrazione di fondi pubblici rappresenta il dato fondante della responsabilità erariale, è consequenziale che ne rispondano in via solidale sia il soggetto al quale il finanziamento sia stato materialmente erogato (ossia la società privata), sia tutti i soggetti persone fisiche, legati in maniera organica in virtù dei rispettivi ruoli alla compagine destinataria della sovvenzione, che li hanno distratti per averne avuto la concreta disponibilità ovvero hanno sviluppato le condizioni necessarie per il loro indebito incameramento. In questo senso si rileva che la normativa di settore concernente l'istituto della responsabilità amministrativa e contabile dei dipendenti e degli agenti pubblici mira a garantire il risarcimento del danno erariale, il quale, intaccando il patrimonio di soggetti pubblici e recando conseguentemente pregiudizio all'intera comunità dei cittadini, deve trovare necessariamente ristoro nel superiore interesse della collettività; ma se questo è l'obiettivo precipuo del legislatore, appare certamente più aderente al sistema l'interpretazione «che aumenta il numero degli obbligati e non quella che li diminuisce, «salvando» per di più proprio coloro che avendo cagionato materialmente il danno per scopi addirittura criminosi, dovrebbero essere i primi a rispondere (in ogni sede) delle conseguenze negative del loro operato» (Cass. S.U., n. 23332/2009).

L'intrasmissibilità agli eredi del debito erariale

Dal carattere «personale» della responsabilità amministrativo-contabile deriva innanzitutto l'intrasmissibilità agli eredi del debito erariale.

Si tratta del primo corollario del principio della personalità, voluto dal Legislatore sin dall'emanazione della prima versione dell'art. 1 della l. n. 20/1994.

Tuttavia, mentre nell'originario testo normativo il Legislatore aveva stabilito che la «responsabilità» amministrativo-contabile «si estende agli eredi nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi», già con il d.l. n. 453/1996 (convertito con modificazioni dalla l. n. 639/1996) il Legislatore ha eliminato ogni riferimento alla possibile estensione iure hereditatis della responsabilità, sancendo che è (solo) «il relativo debito [che] si trasmette agli eredi secondo le leggi vigenti nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi»: la precisazione normativa si è rivelata evidentemente opportuna, in quanto è risultata diretta a valorizzare il carattere «personale» della responsabilità del de cuius e l'intrasmissibilità del (solo) debito erariale, che rimane sempre – giova ribadirlo – quello originariamente contestato al de cuius.

Inoltre, mentre originariamente il principio della intrasmissibilità della responsabilità era collocato subito dopo la previsione del carattere «personale» della responsabilità medesima, attualmente la previsione della intrasmissibilità del debito erariale risulta scivolata nell'ultimo alinea del primo comma dell'art. 1, dati i numerosi interventi legislativi che nel tempo hanno ingrossato il dispositivo del comma 1, insistendo principalmente sull'elemento soggettivo della responsabilità.

Vi è da notare poi che, per vero, la norma in commento non esplicita letteralmente il principio della «intrasmissibilità agli eredi del debito erariale»: la tecnica di redazione usata dal Legislatore, infatti, si è mossa nel senso di stabilire che il debito erariale è sì trasmissibile agli eredi, ma ciò soltanto «secondo le leggi vigenti nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi».

È proprio interpretando questa soluzione normativa, quindi, che in sede ermeneutica è stata avvertita la necessità di esplicitarne il senso nei seguenti termini: il debito erariale non è trasmissibile agli eredi, «salvo che» dall'illecito erariale il de cuius abbia tratto un illecito arricchimento e, al contempo, i relativi eredi abbiano da ciò conseguito un indebito arricchimento.

Sono quattro gli aspetti della norma che meritano in questa sede considerazione.

In primo luogo si rileva che la disposizione in commento sancisce un principio opposto rispetto a quello operante nell'ordinamento civile, dove viceversa vige la regola per la quale i debiti ereditari si ripartiscono di diritto fra tutti i coeredi («nomina hereditaria ipso iure dividuntur»): ed effettivamente, in ambito civile il Legislatore ha previsto che «i coeredi contribuiscono tra loro al pagamento dei debiti e pesi ereditari in proporzione delle loro quote ereditarie, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto» (art. 752 c.c.), salvi gli effetti dell'accettazione dell'eredità con «beneficio d'inventario» (art. 490 c.c.) e salvi altresì gli effetti della rinunzia all'eredità (artt. 519 e ss. c.c.).

Prima dell'affermazione dell'autonomia della responsabilità amministrativo-contabile, la considerazione innanzi riferita aveva portato la dottrina a valorizzarne le differenze rispetto a quella civile e ad accostarla, di converso, alla responsabilità penale dove, in considerazione del suo carattere «personale» (art. 27, comma 1, Cost.), la morte del reo estingue sia il reato (art. 150 c.p.) che la pena (art. 171 c.p.).

Attualmente, invece, l'affermazione dell'autonomia concettuale della responsabilità amministrativo-contabile (si veda il precedente paragrafo di «Inquadramento», introduttivo del presente lavoro) aiuta ad esaltare il carattere del tutto peculiare del principio della intrasmissibilità agli eredi del debito erariale, giacché esso, come si vedrà, non è immune da eccezioni (come viceversa accade in ambito penale, dove sono ovviamente inderogabili le regole sancite dai richiamati artt. 150 e 171 c.p.).

In secondo luogo va evidenziato che il principio della intrasmissibilità agli eredi del debito erariale, nel momento in cui è stato introdotto, ha segnato una netta cesura con l'opposto orientamento precedentemente patrocinato dalla Corte dei Conti, che affermava la generalizzata trasmissibilità agli eredi della responsabilità amministrativo-contabile, salve le eccezionali deroghe tassativamente previste dalla legge (come ad esempio quella sancita dall'art. 58, comma 4, della l. n. 142/1992, che nell'ambito dell'ordinamento delle autonomie locali sanciva espressamente che «La responsabilità nei confronti degli amministratori e dei dipendenti dei comuni e delle province è personale e non si estende agli eredi») (cfr., ex multis, C. conti, S.R., n. 830/1993).

In terzo luogo, e venendo ad un esame diretto della norma in commento, si osserva che essa condiziona la trasmissibilità del debito erariale alla sussistenza di due presupposti, di cui va accertata la concomitante presenza: l'illecito arricchimento che il responsabile (il de cuius) abbia ricavato dall'illecito erariale e l'indebito arricchimento che ne abbiano conseguito gli eredi del responsabile.

Come è evidente, si tratta di due condizioni di «non scontata» verificazione, ancorché esse vadano entrambe inquadrate nell'ambito del principio generale del «divieto dell'arricchimento senza giusta causa».

Per un verso, infatti, non sempre l'autore del danno erariale consegue un illecito arricchimento dalla sua condotta responsabile: ciò accade soltanto quando questi abbia conseguito dei profitti economici a danno dell'erario (come nel caso di illecito conseguimento di finanziamenti pubblici); viceversa, ove questo non avvenga (si pensi all'ipotesi in cui il responsabile abbia colposamente omesso il recupero di un credito erariale in favore dell'amministrazione), non vi sono in radice i presupposti per l'applicazione della norma.

Per un altro verso, risulta ancor più problematico l'accertamento dell'indebito arricchimento conseguito dagli eredi del soggetto responsabile.

Secondo le Sezioni Unite della Cassazione, infatti, innanzitutto «non v'è alcun automatismo nella trasmissione del debito» (Cass. S.U., n. 19280/2018).

Tuttavia, secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza contabile, fortemente criticato in dottrina (Tenore, 431), «una volta appurato l'illecito arricchimento del dante causa, sussiste una presunzione iuris tantum di esistenza del conseguente indebito arricchimento degli eredi. Tale linea interpretativa si fonda sulla constatazione che l'indebito arricchimento degli eredi è la conseguenza normale (secondo l'id quod plerumque accidit) dell'arricchimento illecito del de cuius; rimangono esclusi soltanto i casi, del tutto eccezionali, in cui quanto pervenuto attraverso la successione ereditaria costituisce (in tutto o in parte) il corrispettivo di una prestazione a suo tempo eseguita dagli eredi a favore del de cuius medesimo.

Appare dunque ragionevole presumere, sia pure in via relativa, la consequenzialità di cui si è detto lasciando agli eredi la possibilità di superare il dato presuntivo, dimostrando che ciò che è stato loro trasferito con l'eredità rappresenta (in tutto o in parte) non un «indebito», ma un «dovuto» (C. conti, sez. giur. Emilia Romagna, n. 3/2006).

Nella fattispecie, quindi, non viene in rilievo una «presunzione iuris et de iure di arricchimento indebito degli eredi del responsabile, come se la trasmissione di responsabilità dal dante causa agli aventi diritto fosse automatica. È però configurabile una presunzione iuris tantum, a fronte della quale l'erede può fornire prova contraria, dimostrando la mancanza dell'arricchimento o che esso non ha carattere antigiuridico»; pertanto, «l'indebito arricchimento degli eredi, al quale il legislatore ha subordinato la trasmissibilità del debito per responsabilità amministrativa, non costituisce oggetto di prova da parte del requirente contabile, dovendosi invero ritenere che spetti agli aventi causa dimostrare che dall'illecito non sia derivato alcun loro vantaggio patrimoniale», con l'ulteriore precisazione che, «in presenza di un profitto illecito, anche un minor passivo ereditario configura il presupposto in questione, giacché quello che perviene agli eredi è pur sempre un patrimonio arricchito» (C. conti, sez. giur. Lazio, n. 61/2017).

Nel caso in cui l'eredità sia stata accettata con beneficio di inventario, poi, la giurisprudenza precisa che «occorre comunque verificare in concreto l'incidenza che l'illecita locupletazione del de cuius può aver avuto sulla formazione dell'asse ereditario» (C. conti, sez. giur. Emilia Romagna, n. 3/2006).

Invece, per il caso in cui l'erede abbia provveduto a rinunciare all'eredità lasciata dal de cuius, la giurisprudenza contabile afferma il difetto di legittimazione passiva dell'erede rinunciante nell'eventuale giudizio instaurato a suo carico per il recupero del credito erariale.

In particolare, evidenziando la differenza tra il caso della rinuncia all'eredità e l'ipotesi dell'accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario, la giurisprudenza ha sottolineato che la rinuncia all'eredità «determina il venir meno della qualità di erede e, con essa, la legittimazione passiva nel giudizio» di responsabilità; invece, «nel caso di accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario, l'erede resta legittimato passivamente nel processo contabile, se sussista un illecito arricchimento del dante causa ed un conseguente arricchimento indebito dello stesso erede, atteso che il beneficio d'inventario non esclude la qualifica di erede e limita soltanto la responsabilità, ma non la esclude in radice. In altri termini, nei confronti degli eredi che hanno accettato l'eredità con beneficio di inventario ben può pronunciarsi la condanna per l'intero del danno prodotto, una volta dimostrato l'indebito arricchimento, mentre l'accettazione con beneficio d'inventario rileva solo nella fase dell'esecuzione, non potendo gli eredi essere colpiti se non intra vires hereditatis» (C. conti, sez. giur. Lazio, n. 61/2017).

In quarto luogo, si pone la necessità di risolvere in questa sede un'importante questione processuale, relativa al regime applicabile nel caso in cui la morte del responsabile sia occorsa nelle more del giudizio contabile o successivamente alla definizione dello stesso.

Ebbene, ove la morte del responsabile intervenga in pendenza del giudizio contabile, esso dovrà essere interrotto (art. 108 c.g.c.) e dovrà poi essere eventualmente riassunto nei confronti degli eredi (art. 109 c.g.c.).

Tuttavia, ove non vi siano i presupposti per convenire in giudizio gli eredi, dovrà essere dichiarata l'estinzione del giudizio nei confronti del de cuius.

Se, però, il giudizio innanzi alla Corte dei Conti sia stato promosso nei confronti di più soggetti responsabili, la morte di uno di essi e il successivo accertamento dell'assenza dei presupposti per la condanna dei relativi eredi determinerà solo la parziale estinzione del giudizio nei confronti del de cuius, mentre il danno erariale (ove eventualmente sussistente), andrà quantificato nella sua totalità e andrà poi ripartito tra gli altri responsabili, previa deduzione della quota riferibile al convenuto deceduto (quota che perciò rimarrà a carico della collettività).

In ogni caso è evidente che la competenza a decidere nei casi come questi spetta sempre alla Corte dei Conti, secondo quanto stabilito dalle disposizioni del Codice di Giustizia Contabile innanzi richiamate.

Vi è da notare, peraltro, che le predette disposizioni recepiscono il pacifico orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, che già prima dell'introduzione del suddetto Codice avevano affermato la giurisdizione della Corte dei Conti in questa materia sull'assunto che, venendo in questi casi in rilievo la trasmissione «del medesimo debito, identico deve essere il regime processuale dello stesso, sia in capo all'autore dell'illecito, sia in capo agli eredi», giacché il «presupposto della trasmissione dell'obbligazione risarcitoria agli eredi è che tale obbligazione sia effettivamente sorta in capo al de cuius. L'accertamento giurisdizionale di tale presupposto ha per oggetto, quindi, tutti gli elementi soggettivi ed oggettivi della responsabilità contabile–amministrativa, che ha caratteristiche del tutto speciali rispetto all'obbligazione risarcitoria di diritto comune, e che è devoluta al suo giudice naturale, che è quello contabile, il quale deve esercitare gli speciali poteri a lui attribuiti» (Cass. S.U., n. 14178/2004).

Il regime processuale che vede devoluta questa «materia» alla giurisdizione della Corte dei Conti, poi, non muta nel caso in cui il decesso del responsabile avvenga dopo la definizione del giudizio contabile (e quindi dopo che, in sostanza, la sua responsabilità sia stata accertata con sentenza passata in giudicato).

Pure in relazione a questo caso, infatti, secondo le Sezioni Unite della Cassazione è necessario che il «titolo esecutivo» si formi nei confronti degli eredi davanti al Giudice contabile, giacché «in tema di responsabilità amministrativa, anche quando il debito risarcitorio del pubblico dipendente sia stato accertato dal giudice contabile con sentenza passata in giudicato, la trasmissibilità agli eredi si verifica soltanto nei casi in cui il fatto illecito abbia non soltanto arrecato un danno all'erario, ma anche procurato al dante causa, autore dello stesso, un illecito arricchimento, il che richiede che tale presupposto – così come il conseguente indebito arricchimento degli eredi – sia stato «accertato nel giudizio dinanzi al giudice contabile» (Cass. S.U., n. 19280/2018).

Il principio innanzi richiamato produce delle immediate conseguenze in relazione al giudizio che gli eredi abbiano eventualmente instaurato per l'opposizione all'esecuzione di un credito erariale posto a carico (direttamente e soltanto) del de cuius.

A tale riguardo giova premettere che l'esecuzione delle sentenze di condanna emesse dalla Corte dei Conti avviene nelle forme e nei modi indicati dagli artt. 212-216 c.g.c.

In particolare, ai sensi dell'art. 214, comma 5, c.g.c., «La riscossione del credito erariale è effettuata: a) mediante recupero in via amministrativa; b) mediante esecuzione forzata di cui al Libro III del codice di procedura civile; c) mediante iscrizione a ruolo ai sensi della normativa concernente, rispettivamente, la riscossione dei crediti dello Stato e degli enti locali e territoriali».

Ebbene, a parere delle Sezioni Unite della Cassazione, ove gli eredi propongano innanzi al Giudice Ordinario un giudizio per l'opposizione avverso l'esecuzione avviata contro di essi per il recupero del credito erariale affermato (direttamente e soltanto) nei confronti del de cuius, la predetta opposizione dovrà essere accolta sulla base della semplice «assenza di un titolo esecutivo formato nei loro confronti e quindi azionabile in via esecutiva», mentre risulta superfluo per il Giudice Ordinario svolgere ulteriori accertamenti in merito all'avvenuto arricchimento del dante causa e all'indebito arricchimento dei pretesi eredi, giacché tali accertamenti sono rimessi esclusivamente alla Corte dei Conti (Cass. S.U., n. 19280/2018).

La responsabilità collegiale e la c.d. «esimente politica»

Gli ulteriori corollari del principio della «personalità» della responsabilità amministrativo-contabile riguardano i casi in cui il danno erariale sia stato cagionato da una pluralità di soggetti responsabili.

Le regole che in questo caso vengono in rilevo sono quelle introdotte dal Legislatore con il d.l. n.543/1996, convertito con modificazioni dalla legge 20 dicembre 1996, n.639, con cui nell'originario impianto normativo dell'art. 1 della legge n. 20/1994 sono stati aggiunti i commi 1- ter, 1- quater e 1- quinquies.

Seguendo l'impostazione sistematica dell'art. 1 della l. n. 20/1994, quindi, le prime due ipotesi disciplinate dal Legislatore nell'ambito dell'istituto del concorso di persone nella responsabilità amministrativo-contabile sono quelle regolamentate dal comma 1–ter.

La predetta disposizione si compone di due alinea.

In particolare, il primo periodo riguarda la c.d. «responsabilità collegiale» e stabilisce che «Nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole».

Il secondo alinea del comma 1-ter, invece, introduce nell'ordinamento la c.d. «esimente politica» e prevede che «Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione».

In relazione alla fattispecie individuata dal richiamato primo alinea, si rileva innanzitutto che essa ha comportato l'inapplicabilità, per il Giudice contabile, dell'art. 24 del d.P.R. n. 3/1957 che, proprio in materia di «Responsabilità degli organi collegiali» (come evocato dalla stessa rubrica della norma), stabilisce quanto segue: «Quando la violazione del diritto sia derivata da atti od operazioni di collegi amministrativi deliberanti, sono responsabili, in solido, il presidente ed i membri del collegio che hanno partecipato all'atto od all'operazione. La responsabilità è esclusa per coloro che abbiano fatto constatare nel verbale il proprio dissenso».

L'evidente incompatibilità tra le disposizioni recate dal richiamato art. 24 del d.P.R. n. 3/1957 e dall'art. 1, comma 1-ter, della l. n. 20/1994, convince del fatto che, nei giudizi davanti alla Corte dei Conti per l'accertamento della responsabilità amministrativo-contabile, trovi applicazione esclusivamente l'art. 1, comma 1-ter, della l. n. 20/1994.

Viceversa l'art. 24 del d.P.R. n. 3/1957, lungi dall'aver subito un'implicita abrogazione, troverà applicazione nell'eventuale giudizio incardinato innanzi al Giudice ordinario dall'Amministrazione danneggiata, alimentando così le aporie di un sistema che, in relazione al medesimo danno erariale, ammette la contemporanea pendenza di un giudizio contabile (azionato dal Procuratore contabile) e di un giudizio avviato dall'Amministrazione danneggiata innanzi al Giudice civile (oppure dinanzi al Giudice penale in ragione di un'apposita costituzione di parte civile) (c.d. fenomeno del «doppio binario», di cui si darà atto nell'ambito delle successive «Questioni applicative»).

A conferma del regime di favore operante in sede contabile vale richiamare le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza, secondo cui il Legislatore ha introdotto il predetto comma 1–ter con il chiaro intento «di sostituire il criterio di solidarietà, che prima si riteneva intercorresse tra i componenti di un organo collegiale, con quello della imputabilità personale delle singole posizioni assunte in seno al Collegio. Il nuovo dettato normativo, quindi, ha modificato il diritto vivente antecedentemente orientato nell'equiparazione degli astenuti ai «votanti a favore della delibera», con consequenziale non responsabilità degli stessi non avendo colpevolmente concorso alla formazione dell'atto» (C. conti, sez. giur. Toscana, n. 94/2016).

Di recente, poi, muovendo dall'intento di precisare la portata applicativa della disposizione in commento, con la sentenza n. 374/2021 la Terza Sezione Giurisdizionale d'Appello della Corte dei Conti ha affermato che «il principio generalissimo che trova applicazione al fine di individuare i centri di responsabilità per il danno conseguente a deliberato di organi collegiali è che del danno possono rispondere i soggetti che hanno proposto la delibera, quelli che avevano compiti consultivi o di controllo sul rispetto delle condizioni di legge e quelli che, in seno all'organo collegiale, hanno espresso voto favorevole laddove fossero nelle condizioni di conoscere le violazioni che con il deliberato sono state perpetrate, o avrebbero dovuto esserlo in ragione del fatto che il deliberato esprime competenze proprie dell'organo collegiale o comunque da quello assunte» (C. conti, sez. III App., n. 374/2021).

Con riguardo all'esimente politica prevista nel secondo alinea del comma 1-ter, invece, si rileva che essa è stata introdotta nell'ordinamento con la finalità (perseguita dal legislatore nel riformare l'organizzazione degli enti locali, in coerenza con la riforma della dirigenza nel settore pubblico) di tutelare gli organi locali di governo nell'esercizio delle funzioni deliberative loro proprie, laddove la decisione di loro competenza necessiti di una istruttoria tecnico-amministrativa complessa, che coinvolga accertamenti affidati ad organi tecnico–amministrativi interni.

Tale regola costituisce infatti la naturale conseguenza, sul piano delle responsabilità, del principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico (spettanti agli organi di governo) e attività di gestione (spettanti agli organi amministrativi di vertice), introdotto dal d.lgs. n. 29/1993 e poi dall'art. 4 del d.lgs. n. 165/2001, ed è volta a garantire che l'organo politico-amministrativo rimanga esente da responsabilità connesse all'esercizio di proprie funzioni che risultino, in concreto, viziate da un errore imputabile agli accertamenti istruttori di specifica competenza dei dirigenti.

A dire il vero, l'introduzione della norma non è stata salutata con favore dalla dottrina, che ha evidenziato come, sul piano pratico, la norma consente una «evidente deresponsabilizzazione della classe politica (amministratori, Consiglieri di enti locali, Ministri, ecc.) a scapito della dirigenza, divenuta parafulmine dell'amministrazione in caso di scelte complesse e come tali rischiose, parzialmente bilanciata da incrementi retributivi erogati, in tutte le loro componenti, in modo generosamente non selettivo ad ogni dirigente. Tale deresponsabilizzazione si palesa ancor più infida a fronte di pressanti richieste verbali ed informali dei vertici che palesano, come tali, le pervicaci ingerenze della politica nelle scelte imposte di fatto alla dirigenza, sotto la spada di Damocle del mancato rinnovo dell'incarico o della adibizione ad altro incarico meno remunerato o di minor prestigio» (Tenore, 215).

In ogni caso, data la portata eccezionale della disposizione in commento, la giurisprudenza contabile ne offre, con costanza, una rigorosa applicazione: in questo senso, si accede ad uno scrupoloso accertamento della sussistenza, in concreto, della buona fede degli organi politici (così come è espressamente previsto dalla norma) e si afferma che la scriminante politica non opera «quando l'evidenza dell'erroneità dell'atto sia stata tale da escludere qualsiasi buona fede» (C. conti, sez. giur. Campania, n. 349/2019), con l'ulteriore precisazione che «l'applicabilità della c.d. ‘esimente politica' va esclusa, a maggior ragione, laddove l'illegittimità dell'atto o, comunque, la sua idoneità ad arrecare un pregiudizio erariale fosse chiaramente percepibile in presenza di chiari e univoci elementi e facilmente accertabili. Nei suddetti casi, quindi, la responsabilità degli organi politici può affiancarsi a quella degli organi gestionali» (C. conti, sez. giur. Campania, n. 1071/2018).

D'altro canto, si rileva che «l'ambito operativo dell'esimente è circoscritto alle ipotesi di questioni di particolare complessità tecnico-amministrativa, necessitanti di una competenza non esigibile dagli organi politici, per atti comunque rientranti nelle competenze degli uffici» (C. conti, sez. I App., n. 407/2017), fermo restando che, in ogni caso, «la c.d. ‘scriminante politica' non è applicabile nelle materie riservate agli organi di governo, nelle quali gli uffici amministrativi e tecnici della struttura abbiano espletato funzioni istruttorie o consultive e comunque di mero supporto strumentale» (C. conti, sez. giur. Campania, n. 349/2019).

Da ultimo, applicando i predetti principi al caso della approvazione del rendiconto di esercizio, in sede interpretativa è stato chiarito che l'esimente politica «non è applicabile nel caso di atti che, come l'approvazione del rendiconto di esercizio, sono assegnati dalla legge alla competenza di un organo politico» giacché, in questo caso, «dispensare i componenti dell'organo politico da ogni responsabilità significherebbe praticamente ridurre, contrariamente alla volontà del legislatore, la deliberazione del Consiglio comunale di approvazione del rendiconto a mera ratifica di decisioni assunte da altri»; d'altro canto, «la presenza di pareri favorevoli e/o l'assenza di rilievi di legittimità da parte del Segretario-Direttore generale o dei Revisori dei conti non sono sufficienti a dispensare i componenti dell'organo politico dalle loro eventuali responsabilità» (C. conti, sez. giur. Campania, n. 1071/2018).

La regola della parziarietà

La regola generale che governa il regime della responsabilità concorsuale nella produzione del danno erariale è senza dubbio quella della parziarietà.

Pertanto, se è vero che l'art. 1, comma 1-ter, della l. n. 20/1994 disciplina il particolare caso della responsabilità erariale con riferimento agli organi collegiali ed agli organi politici, è il successivo comma 1-quater che introduce la regola generale che sovrintende il regime della responsabilità amministrativo-contabile in caso di danno erariale cagionato da una pluralità di soggetti.

Nel dettaglio la norma, anch'essa introdotta con il d.l. n. 543/1996, convertito dalla l. n. 639/1996, stabilisce che, «Se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso».

La richiamata disposizione sancisce, quindi, il principio della parziarietà della responsabilità amministrativo-contabile, da intendersi quale evidente corollario del principio della personalità.

Per vero, si tratta di una disposizione che non innova l'ordinamento contabile, poiché già l'art. 82, comma 2, del r.d. n. 2440/1923 («Nuove disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità dello Stato») stabiliva che, «Quando l'azione od omissione è dovuta al fatto di più impiegati, ciascuno risponde per la parte che vi ha presa».

La previsione contenuta nell'art. 1, comma 1-quater, della l. n. 20/1994, tuttavia, senza dubbio conferisce maggiore vigore alla regola della parziarietà della responsabilità amministrativo-contabile, soprattutto in considerazione del fatto che, almeno in origine, il precedente art. 82, comma 2, del r.d. n. 2440/1923 non aveva completamente convinto gli interpreti circa la vigenza della suddetta regola.

Sia come sia, è chiaro che, come già si è notato con riferimento alla regola della intrasmissibilità agli eredi del debito erariale, pure il principio della parziarietà determina una differenza tra la responsabilità amministrativo-contabile e la responsabilità civile, laddove in materia di obbligazioni vige l'opposto principio generale della solidarietà tra condebitori (c.d. solidarietà passiva, ex art. 1294 c.c.).

Ciò comporta delle importanti ricadute pratiche, essendo evidente che per la responsabilità amministrativo-contabile (salva la regola prescritta dall'art. 1, comma 1–quinquies, della l. n. 20/1994, di cui si dirà innanzi) non potranno trovare applicazione le specifiche regole stabilite dal codice civile in materia di «obbligazioni solidali», prima fra tutte la regola della prescrizione sancita dall'art. 1310 c.c.: sicché, in sostanza, in ambito contabile l'atto interruttivo della prescrizione assunto nei confronti di uno dei condebitori, non ha effetti riguardo agli altri debitori.

La regola della parziarietà della responsabilità amministrativo-contabile conosce tuttavia due importanti eccezioni, tipizzate dal primo alinea del comma 1-quinquies, per il quale «Nel caso di cui al comma 1-quater i soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo sono responsabili solidalmente».

Attraverso questa soluzione normativa il Legislatore ha inteso rinforzare la posizione del creditore–erario (e della corrispondente posizione nell'ambito del rapporto obbligatorio derivato dalla produzione del pregiudizio arrecato allo stesso erario) soltanto nelle anzidette ipotesi dell'illecito arricchimento e del dolo, in cui massima diviene la riprovazione sociale e massima è l'incidenza dell'illiceità commessa dall'autore del danno.

Nei due casi in cui opera la regola (eccezionale per l'ordinamento contabile) della solidarietà: quindi, l'Amministrazione danneggiata potrà soddisfare le proprie ragioni creditorie indifferentemente (e per l'intero) con il patrimonio personale di ognuno dei responsabili a titolo di dolo.

Sul versante interno dei rapporti tra i soggetti corresponsabili a titolo di dolo, invece, continuerà ad operare il principio secondo cui ognuno risponderà solo per la parte che ha avuto nella causazione del fatto dannoso.

Per completezza, poi, va detto che l'art. 1, comma 1-quinquies, della l. n. 20/1994, prosegue stabilendo, con una previsione di diritto transitorio, che «La disposizione di cui al presente comma si applica anche per i fatti accertati con sentenza passata in giudicato pronunciata in giudizio pendente alla data di entrata in vigore del d.l. n. 248/1995. In tali casi l'individuazione dei soggetti ai quali non si estende la responsabilità solidale è effettuata in sede di ricorso per revocazione».

Alla luce di tutte le disposizioni innanzi richiamate, quindi, se ne ricava che, con riferimento ai casi di responsabilità amministrativo-contabile imputabile a più soggetti, vige il principio generale della parziarietà della responsabilità, salvo che vi siano concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o che abbiano agito con dolo (per i quali sussiste la responsabilità solidale).

Da tanto si desume che nel generale regime della parziarietà rientra anche il caso del concorso tra condotte dolose e condotte gravemente colpose, i cui caratteri saranno analizzati nel prossimo paragrafo.

Il concorso tra condotte dolose e condotte gravemente colpose

Il tema del concorso tra condotte dolose e condotte gravemente colpose è stato sottoposto all'attenzione delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti: il quesito sollevato innanzi al Supremo Organo della Giustizia contabile ha riguardato in particolare la ripartizione dell'addebito nelle ipotesi di concorso di comportamento colposo con atti di dolosa appropriazione di denaro ovvero beni pubblici.

La soluzione alla cennata questione è stata offerta dalle Sezioni Riunite con la storica sentenzan. 4/1999 con la quale, come si vedrà, è stato enucleato il criterio della c.d. sussidiarietà della responsabilità del soggetto che ha agito con colpa grave, rispetto a quello che ha agito con dolo, con la conseguenza che il convenuto condannato per colpa grave sarà tenuto a rispondere del danno verso l'Amministrazione solo in caso di mancata realizzazione del credito erariale nei confronti del debitore principale (c.d. beneficium excussionis in executivitis).

Nel dettaglio, i Giudici della Corte dei Conti hanno innanzitutto affermato che, in relazione a questa fattispecie concorsuale, l'obbligazione di chi, con dolo, si è appropriato di denaro o valori pubblici, ha carattere principale e restitutorio (in conseguenza dell'indebito arricchimento), mentre quella del corresponsabile che ha agito con colpa grave ha carattere sussidiario e risarcitorio.

Da ciò deriva la necessità di una «graduazione progressiva della azione satisfattiva dell'erario anche per meglio raggiungere quelle finalità superiori, connesse con il perseguimento delle responsabilità (art. 97 Cost.): ciò è possibile realizzare al momento della esecuzione delle sentenze di condanna attraverso un ben preciso ordine di escussione legato alla efficienza causale delle condotte e all'intensità dell'elemento soggettivo. Le obiezioni, mosse da parte della giurisprudenza all'ambito concettuale e giuridico in cui andrebbero relegate figure quali quelle dell'obbligazione principale e sussidiaria ovvero della possibilità o meno di introdurre il vincolo (pronunciato dal giudice) di un determinato ordine di escussione nella responsabilità amministrativo-contabile, risentono della origine civilistica della configurazione delle stesse figure, nonché delle limitazioni ordinamentali e codicistiche cui le stesse, in quel «campo» del diritto, sono state relegate soprattutto ad opera del legislatore del 1942.

In un settore diverso, quale è appunto il diritto contabile e la disciplina della responsabilità amministrativo-contabile, caratterizzato da princìpi di fondo assolutamente differenti e permeato dalla esistenza e dalla necessità che sia comunque (anche mediatamente) conseguito un interesse pubblico, è la struttura dell'obbligazione nella sua proiezione realizzativa a determinare soluzioni non estranee all'ordinamento positivo che, seppure non previste espressamente, costituiscono il mezzo per l'applicazione integrale e corretta delle norme corrispondenti in conformità ed attuazione della ratio legis che ne costituisce il fondamento.

Pertanto, fermo rimanendo il principio che, in caso di concorso nella produzione del danno erariale, ciascuno dei corresponsabili sia condannato ”per la parte che vi ha preso”, che, come si è visto, rappresenta nel tempo una costante della normativa in materia, proprio la necessità di tenere distinta la responsabilità di chi agisce con dolo o ha conseguito un illecito arricchimento, cui deve essere attribuito un peso e una misura più rilevanti, da quella di chi tiene invece un comportamento caratterizzato da colpa grave, comporta la necessità di assegnare al primo soggetto un ruolo ed una posizione prioritari nella individuazione delle obbligazioni, da porre a carico di ciascuno, e della loro misura» (C. conti, S.R., n. 4/1999).

Sulla base di queste premesse le Sezioni Riunite della Corte dei Conti hanno altresì rilevato che, nell'ipotesi di concorso colposo con atti di dolosa appropriazione, l'applicazione pura di un criterio assoluto di ripartizione deve essere considerata in pratica giuridicamente impossibile, in quanto determinerebbe o una stridente violazione di esigenze elementari di giustizia (addossando una parte del danno, prodotto da chi si sia appropriato di denaro pubblico, ai corresponsabili a titolo colposo) ovvero una locupletazione dell'erario (che si troverebbe ad escutere il peculatore o apprensore per l'intero e gli altri corresponsabili per la parte posta a loro carico con un possibile «ristoro» superiore al danno subìto).

Pertanto, è stata ritenuta maggiormente rispondente al sistema contabile «la individuazione, come obbligazione principale, dell'obbligazione del soggetto cui sia imputato di aver agito con dolo e di essersi appropriato di somme di danaro o valori pubblici e la individuazione, come obbligazione sussidiaria, della obbligazione facente carico al corresponsabile che abbia agito con colpa grave».

In aggiunta, è stato evidenziato che «alla relazione, esistente tra obbligazione principale e obbligazione sussidiaria, è strettamente e connaturalmente legato l'obbligo dell'erario creditore di seguire un ordine di escussione determinato, che costituisce attuazione reciproca e complementare del rafforzamento del vincolo obbligatorio a carico dell'obbligato principale ed attenuazione di quello gravante sul debitore sussidiario. Pertanto, la sentenza di condanna deve essere eseguita prima nei confronti del debitore principale e, poi, nei confronti del debitore sussidiario nei limiti della somma al cui pagamento quest'ultimo è stato condannato, ma solo subordinatamente al tentativo, non portato a buon esito dall'amministrazione danneggiata, di realizzare il proprio credito» (C. conti, S.R., n. 4/1999).

Da ultimo si rileva che, pure in ragione dei principi espressi dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti con la sentenza n. 4/1999, la prevalente giurisprudenza contabile ammette che, nei casi di concorso tra condotte dolose e condotte gravemente colpose, possa ricorrere l'occultamento doloso del danno: sicché, in punto di prescrizione dell'azione erariale, si ritiene che in questo caso per tutti i concorrenti operi il «regime prescrizionale del compartecipe che abbia agito a titolo doloso e non il contrario» (C. conti, sez. I App., n. 120/2021).

L'assunto si spiega in ragione del fatto che, «laddove si registri una confluenza di apporti qualitativamente disomogenei, ascrivibili a diversi titoli di imputazione delle condotte riferibili a più soggetti, essendo unitari e non frazionabili i connotati fattuali della vicenda, vi è una imprescindibile concatenazione tra le diverse posizioni che presuppone l'emersione del fatto dannoso.

Conseguentemente, il disvelamento di quest'ultimo rappresenta circostanza condizionante la possibilità di esercitare il diritto di credito mediante l'azione di responsabilità, tanto nei confronti dei soggetti che hanno dolosamente occultato quel fatto, tanto nei confronti di coloro che, per colpa grave, hanno in qualche misura cooperato alla produzione del nocumento.

In definitiva, in simili situazioni, anche per i soggetti cui sia ascrivibile una responsabilità di tipo sussidiario, conseguente all'imputazione della condotta a titolo di colpa grave, la possibilità di promuovere l'azione di responsabilità (o, utilizzando la terminologia di cui all'art. 2935 c.c., di far valere il diritto) è subordinata alla percepibilità del fenomeno dannoso: se questa percezione sia dolosamente ostacolata da taluno, solo quando abbia avuto luogo la scoperta inizia a decorre – in modo unitario per tutte le posizioni coinvolte – il termine di prescrizione quinquennale» (C. conti, II App., n. 304/2020).

Da ciò si ricava che, in sostanza, nel caso di concorso tra condotte dolose e condotte gravemente colpose, ai sensi dell'art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994, il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni, decorrenti dalla data della scoperta del danno che era stato dolosamente occultato.

L'elemento soggettivo dell'illecito erariale

Uno degli elementi strutturali della responsabilità amministrativo–contabile è l'elemento soggettivo, cioè il titolo di imputazione soggettiva della predetta responsabilità.

Secondo quanto attualmente previsto dall'art. 1, comma 1, della l. n.20/1994 (e salvo ciò che innanzi di dirà in merito alle recenti modifiche normative), ai fini del rimprovero di responsabilità occorre che il soggetto legato alla P.A. da un rapporto di impiego o di servizio abbia cagionato un danno erariale con dolo o colpa grave.

Sfuggono invece a qualsivoglia giudizio di responsabilità i danni all'erario cagionati con colpa lieve.

Nei propositi del Legislatore, la scelta normativa di espungere la colpa lieve dall'ambito di operatività della responsabilità amministrativa «risponderebbe» all'esigenza di evitare che il timore di incorrere in una condanna anche per errori di modesta entità conduca ad una vera e propria stagnazione dell'attività amministrativa, con gravi ripercussioni sulla vita e il benessere dell'intera collettività degli amministrati in termini di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento della medesima attività: nei fatti, però, è evidente che la deresponsabilizzazione delle condotte lievemente colpose finisce per estendere l'area dei c.d. danni legali, destinati a rimanere purtroppo a carico della collettività.

In ordine alla descritta limitazione della responsabilità amministrativa ai soli comportamenti (attivi od omissivi) connotatati dal dolo o dalla colpa grave, la Corte costituzionale ha peraltro affermato che non vi è dubbio che «il legislatore sia arbitro di stabilire non solo quali comportamenti possano costituire titolo di responsabilità, ma anche quale grado di colpa sia richiesto ed a quali soggetti la responsabilità sia ascrivibile, senza limiti o condizionamenti che non siano quelli della non irragionevolezza e non arbitrarietà» (Corte cost., n. 371/1998).

La stessa Suprema Corte ha poi chiarito che, nella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza che connotano l'istituto della responsabilità amministrativo-contabile, la disposizione recata dall'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994, risponde «alla finalità di determinare quanto del rischio dell'attività debba restare a carico dell'apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo» (Corte cost., n. 371/1998).

Vi è da dire, però, che la previsione del dolo o della colpa grave non apparteneva al testo originario dell'art. 1della l. n.20/1994.

Nell'iniziale ordito normativo dell'art. 1, infatti, il Legislatore non aveva fatto alcun cenno all'elemento soggettivo dell'illecito erariale, lasciando quindi che l'aspetto in questione venisse regolato dalle precedenti disposizioni generali, che sin dal r.d. n. 2440/1923 riconoscevano la sussistenza della responsabilità amministrativo-contabile anche in caso di condotta lievemente colposa del pubblico funzionario, salve le ipotesi eccezionali e settoriali in cui la responsabilità era limitata al dolo o alla colpa grave dell'autore dell'illecito: tra queste ipotesi, si richiama quella relativa ai soggetti convenuti per l'omessa denuncia del danno erariale (prevista dall'art. 83, comma 3, del r.d. n. 2440/1923 ed al successivo art. 53, comma 3, del r.d. n. 1214/1934), nonché quella prevista dall'art. 52 del r.d. n. 1592/1933 («Testo Unico delle leggi sulla istruzione superiore»), per la quale «il Presidente ed i componenti il Consiglio di amministrazione delle Università sono personalmente responsabili delle spese deliberate ed ordinate in eccedenza ai fondi disponibili e dei danni economici arrecati all'Università o Istituto superiore a causa d'inosservanza di disposizioni di carattere legislativo o regolamentare per dolo o colpa grave».

Successivamente, è stato il d.l. n.543/1996, convertito con modificazioni dallal. n.639/1996, ad introdurre nel corpo dell'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994, la previsione per la quale la responsabilità amministrativo-contabile è «limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave», aggiungendo altresì il principio della insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali.

Come è evidente, si è trattato della prima soluzione legislativa diretta a ridurre l'area dell'azione contabile: tale soluzione – lo si è già detto – è stata giudicata costituzionalmente legittima dalla Consulta (Corte cost. n. 371/1998), nonostante il fatto che il momento di profonda crisi di valori della Pubblica amministrazione in cui essa è stata adottata (caratterizzato dal c.d. «scandalo tangentopoli») avrebbe per vero richiesto un irrigidimento, anziché un ammorbidimento, dell'azione contabile nei confronti dei responsabili dei danni erariali.

Nel corso degli anni successivi, poi, numerosi interventi normativi d'urgenza hanno ripetutamente innovato questa materia, rimpolpando il contenuto del comma 1 dell'art. 1 della l. n. 20/1994 attraverso disposizioni funzionali a ridurre ancor di più la possibilità di esercizio dell'azione contabile.

In definitiva, quindi, se è vero che in origine l'elemento psicologico della responsabilità non è rientrato nelle attenzioni del Legislatore, adesso tale elemento innerva il cuore della disposizione in commento, che attualmente vede perciò ad esso dedicate gran parte delle disposizioni dell'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994.

Tuttavia, quel che maggiormente colpisce è che, mentre nel 1994 il Legislatore aveva quietamente accettato l'impostazione oramai radicatasi in argomento in virtù di una pluridecennale tradizione normativa, nel corso degli anni successivi lo stesso Legislatore, attraverso numerosi interventi normativi (addirittura) d'urgenza (iniziati col d.l. n. 543/1996 e da ultimo manifestatisi attraverso il d.l. n. 76/2020 ed il d.l. n. 77/2021) ha utilizzato proprio l'elemento soggettivo della responsabilità amministrativo-contabile come strumento per accedere ad una profonda e biasimevole riforma dell'intero sistema della responsabilità medesima.

Senza entrare nel merito – almeno per il momento – delle disposizioni che l'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994 attualmente dedica al profilo soggettivo della responsabilità, ci si limita in questa sede ad esporre nei seguenti termini il contenuto delle suddette disposizioni.

In questa prospettiva si rimarca che il primo alinea della norma stabilisce – come già detto – che la responsabilità amministrativo-contabile è «limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave».

Il secondo alinea del comma 1 stabilisce invece che «la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso»: tale periodo è stato introdotto dall'art. 21, comma 1, del d.l. n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 120/2020.

A tale riguardo, però, vi è da precisare che il richiamato art. 21 del d.l. n.76/2020, significativamente rubricato «Responsabilità erariale», contiene un'ulteriore disposizione di grande interesse in relazione all'argomento qui affrontato: si tratta in particolare del comma 2 della norma, a tenore del quale, «Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 30 giugno 2023, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l'azione di responsabilità di cui all'art. 1 della l. n. 20/1994, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente».

Si segnala ulteriormente che il limite temporale di validità della suddetta disposizione, originariamente fissato al 31 dicembre 2021, è stato poi spostato al 30 giugno 2023 (come prima indicato) dal recentissimo art. 51, comma 1, lettera h), del d.l. n.77/2021, convertito in l. n.108/2021.

Il terzo alinea dell'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994 prevede poi che «in ogni caso è esclusa la gravità della colpa quando il fatto dannoso tragga origine dall'emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità, limitatamente ai profili presi in considerazione nell'esercizio del controllo»: questa disposizione è stata introdotta dall'art. 17, comma 30-quater, lett. a), del d.l. n. 78/2009, convertito con modificazioni dalla l. n. 102/2009.

Il quarto alinea del predetto comma 1 sancisce infine che «la gravità della colpa e ogni conseguente responsabilità sono in ogni caso escluse per ogni profilo se il fatto dannoso trae origine da decreti che determinano la cessazione anticipata, per qualsiasi ragione, di rapporti di concessione autostradale, allorché detti decreti siano stati vistati e registrati dalla Corte dei conti in sede di controllo preventivo di legittimità svolto su richiesta dell'amministrazione procedente»: la richiamata disposizione è stata introdotta dall'art. 4, comma 12-ter, del d.l. n. 32/2019, convertito con modificazioni dalla l. n. 55/2019.

L'utilità della distinzione tra dolo e colpa grave.

Prima di analizzare le caratteristiche del dolo e della colpa grave, si ritiene opportuno valorizzare l'importanza che la loro distinzione riveste nell'ordinamento contabile.

Tale distinzione assume valore sia sul piano sostanziale che sul piano processuale.

Dal punto di vista sostanziale rilevano le regole fissate dallo stesso art. 1 della l. n. 20/1994.

Sicché, seguendo l'impostazione della predetta norma, si evidenzia in primo luogo che soltanto in caso di colpa grave il Giudice contabile può ricorrere al potere riduttivo dell'addebito previsto dal comma 1–bis: secondo l'indirizzo interpretativo più accreditato, infatti, il potere di riduzione non è spendibile dal Giudice in caso di dolo.

In secondo luogo, soltanto in caso di dolo o, meglio, in caso di concorso di condotte tutte dolose, può trovare applicazione (nella disciplina dei cc.dd. “rapporti esterni”) la regola eccezionale della responsabilità solidale fissata dall'art. 1, comma 1–quinquies, della l. n. 20/1994: viceversa, nel caso di concorso tra condotte tutte colpose trova applicazione la regola generale della “parziarietà della responsabilità” (art. 1, comma 1–quater, della l. n. 20/1994) e nell'ipotesi di danno erariale conseguente al concorso di condotte dolose e di condotte gravemente colpose opera il diverso regime della responsabilità sussidiaria interpretativamente delineato dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti con la sentenza n. 4/1999.

In terzo luogo, l'ipotesi dell'occultamento doloso (comma 2) è incompatibile con la colpa grave, con tutto quello che ciò comporta in relazione all'esordio della prescrizione per l'esercizio della relativa azione di responsabilità, nonché in relazione all'eventuale «riapertura del fascicolo istruttorio archiviato» prevista dall'art. 70, comma 1, c.g.c., a cui è peraltro collegata la successiva previsione dell'art. 83, comma 3, c.g.c..

Dal punto di vista processuale, invece, assumono in questo contesto particolare significato alcune disposizioni contenute nel Codice di Giustizia Contabile.

La prima norma che qui viene in rilevo è l'art. 69, comma 2, c.g.c., per il quale «Il pubblico ministero dispone altresì l'archiviazione per assenza di colpa grave ove valuti che l'azione amministrativa si sia conformata al parere reso dalla Corte dei conti in via consultiva, in sede di controllo e in favore degli enti locali nel rispetto dei presupposti generali per il rilascio dei medesimi».

Dal tenore letterale della norma si ricava agevolmente che essa è inapplicabile in caso di danno erariale cagionato dolosamente.

La seconda norma che merita segnalazione è l'art. 95, comma 4, c.g.c., che, rivolgendosi questa volta al Giudice e non al Procuratore contabile, stabilisce che «Il giudice, ai fini della valutazione dell'effettiva sussistenza dell'elemento soggettivo della responsabilità e del nesso di causalità, considera, ove prodotti in causa, anche i pareri resi dalla Corte dei conti in via consultiva, in sede di controllo e in favore degli enti locali, nel rispetto dei presupposti generali per il rilascio dei medesimi».

Interpretando la richiamata disposizione, la dottrina ha rilevato che, «nonostante la diversa formulazione della norma e il riferimento – non più alla sola colpa grave, ma – alla «valutazione dell'effettiva sussistenza dell'elemento soggettivo», è proprio con riferimento alle contestazioni in termini di colpa grave che la norma si presta ad essere applicata con maggiore frequenza, essendo la stessa criterio ordinario di imputazione della responsabilità erariale (Raeli, 148).

La terza norma che va richiamata è l'art. 130, comma 4, c.g.c., che sancisce l'inammissibilità della richiesta di rito abbreviato nei casi di doloso arricchimento del danneggiante: sicché, fuori dai predetti casi, la predetta richiesta rimane viceversa certamente proponibile.

La colpa grave

La colpa grave costituisce, come anticipato, il criterio minimo (o ordinario) di imputazione della responsabilità amministrativo–contabile.

Pertanto, se è vero che in linea generale la colpa ricorre in caso di negligenza, imprudenza o imperizia (colpa generica) ovvero in caso di inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa specifica), ai fini del rimprovero della responsabilità amministrativo–contabile occorre che il soggetto agente abbia violato con colpa grave le regole cautelari (generiche o specifiche) dirette a prevenire e/o ad evitare il rischio di conseguenze negative per l'Erario.

La natura essenzialmente normativa della colpa grave impone al giudice contabile una doppia valutazione.

In primo luogo, occorre individuare il fondamento normativo della regola cautelare (generica o specifica) che esprime in termini di prevedibilità, prevenibilità ed evitabilità la misura della condotta sulla quale il Legislatore ha riposto l'affidamento per prevenire e/o evitare il danno erariale.

In secondo luogo, è necessario verificare la conoscenza o la conoscibilità (prevedibilità) da parte dell'agente della predetta regola cautelare (generica o specifica), nonché le condizioni di operatività (prevenibilità, evitabilità) nelle quali è stata posta in essere la condotta dannosa.

Definito in tal modo il parametro di riferimento del titolo soggettivo della colpa grave, occorrerà accertare, con una valutazione ex ante rispetto alla condotta concretamente posta in essere (secondo il noto criterio della c.d. “prognosi postuma”), il grado di esigibilità della condotta “virtuosa” comandata.

In tal senso, occorrerà verificare che: a) l'agente abbia correttamente individuato la situazione materiale che richiede l'osservanza delle regole cautelari (generiche o specifiche); b) sussistano le condizioni operative per il loro adempimento; c) non vi siano circostanze anomale che falsino la percezione dell'agente circa il necessario adempimento degli obblighi cautelari.

Ove all'esito del descritto percorso di valutazione risulti che la condotta “virtuosa” comandata fosse effettivamente esigibile dall'agente e che, ciò nonostante, questi l'abbia disattesa con colpa grave (perché, in ipotesi, non è stato osservato il grado minimo di diligenza previsto dalla normativa di riferimento, mancavano difficoltà oggettive ed eccezionali suscettibili di ostacolare l'adempimento dei doveri di ufficio, era possibile prevedere e/o prevenire l'evento dannoso oppure, più in generale, sono state disattese con grave negligenza, imprudenza o imperizia le cautele generiche e/o specifiche dirette a prevenire e/o ad evitare il danno erariale, sì da concretare una delle cc.dd. “figure sintomatiche della colpa grave” (Bonelli)), allora il soggetto agente non potrà sfuggire al rimprovero della responsabilità amministrativo–contabile.

È proprio nella dinamica del giudizio sulla colpa grave, dunque, che si coglie l'intento normativo di affidare al giudice contabile il compito «di determinare quanto del rischio dell'attività debba restare a carico dell'apparato e quanto a carico del dipendente» (Corte cost. n. 371/1998).

Nella ricerca di tale punto di equilibrio, perciò, la prospettiva di una responsabilità rimproverabile solo a titolo di “colpa grave” (e non anche a titolo di “colpa lieve”) deve (o almeno “dovrebbe”) costituire per l'operatore pubblico una ragione di stimolo e non di disincentivo.

Ciò nonostante, nel corso degli ultimi anni il Legislatore ha introdotto tre disposizioni idonee ad «escludere» la colpa grave nonostante la sussistenza di un fatto dannoso o a “ridurre temporaneamente” le potenzialità applicative dell'istituto, muovendo dall'intento (almeno con riguardo alla più recente di tali disposizioni) di «“tranquillizzare” i pubblici amministratori rispetto all'alto rischio che accompagna il loro operato» (Corte cost. n. 8/2022).

La prima delle disposizioni innanzi richiamate è quella recata dall'art. 1, comma 1, terzo alinea, della l. n. 20/1994, introdotto dall'art. 17, comma 30–quater, lett. a), del d.l. n. 78/2009 (convertito con modificazioni dalla l. n. 102/2009).

La suddetta disposizione stabilisce che «in ogni caso è esclusa la gravità della colpa quando il fatto dannoso tragga origine dall'emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità, limitatamente ai profili presi in considerazione nell'esercizio del controllo».

A tale proposito la dottrina ha rilevato che «trattasi di disposizione che, oltre ad essere di difficile verificazione, non ha avuto sinora applicazione nella prassi giudiziaria, ma che ha una sua utilità, in quanto, sebbene si affermi che il rapporto tra legittimità e liceità non sia univoco, nel senso che la legittimità di un provvedimento può sempre far residuare un ambito di illiceità nella concreta vicenda portata all'attenzione del giudice, dappoi che solo la illegittimità è elemento necessario (anche se non sufficiente) per predicare un illecito erariale in relazione alla attività provvedimentale della P.A., è altrettanto vero che in presenza dell'esito positivo del controllo preventivo di legittimità, per la natura «qualificata» della fonte, sarebbe veramente una manifestazione di schizofrenia ordinamentale ravvisare in ipotesi un danno all'erario. Il limite di applicazione di questa nuova esimente è rappresentato dalla riconducibilità del «fatto dannoso» all'atto oggetto del controllo, conclusosi positivamente, e in relazione agli stessi profili per cui è intervenuto» (Raeli, 147).

La seconda disposizione che esclude la colpa grave nonostante la sussistenza di un fatto dannoso è quella contenuta nell'art. 1, comma 1, quarto alinea, della l. n. 20/1994, per il quale «la gravità della colpa e ogni conseguente responsabilità sono in ogni caso escluse per ogni profilo se il fatto dannoso trae origine da decreti che determinano la cessazione anticipata, per qualsiasi ragione, di rapporti di concessione autostradale, allorché detti decreti siano stati vistati e registrati dalla Corte dei conti in sede di controllo preventivo di legittimità svolto su richiesta dell'amministrazione procedente».

La richiamata disposizione è stata introdotta dall'art. 4, comma 12–ter, del d.l. n. 32/2019, convertito con modificazioni dalla l. n. 55/2019: come agevolmente si intuisce dal riferimento alla cessazione anticipata dei rapporti di concessione autostradale, la norma è stata introdotta dopo il crollo del “Ponte Morandi”, in un contesto normativo diretto al rilancio del settore dei contratti pubblici, all'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici, come indicato nella rubrica dello stesso d.l. n. 32/2019.

La terza disposizione che qui rileva è quella che ha temporaneamente ridotto le potenzialità applicative dell'istituto della colpa grave, in un contesto legislativo diretto anche a restringere, meglio definendola, la sfera applicativa del reato di abuso d'ufficio di cui all'art. 323 c.p., secondo un (criticabile) disegno legislativo ispirato dall'idea che l'alleggerimento della responsabilità amministrativo–contabile comporti una maggiore efficienza dell'Amministrazione.

La disposizione a cui si fa riferimento è quella contenuta nell'art. 21, comma 2, del d.l. n. 76/2020 (c.d. “Decreto Semplificazioni”), convertito in l. n. 120/2021 (come poi modificato dall'art. 51, comma 1, lett. h), del d.l. n. 77/2021, convertito in l. n. 108/2021).

La norma stabilisce che, «Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 30 giugno 2023, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l'azione di responsabilità di cui all'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente».

In virtù della predetta disposizione “transitoria”, dunque, l'imputazione di responsabilità amministrativa a titolo di colpa grave è esclusa per tutte le condotte commissive poste in essere fra il 17 luglio 2020 (data di entrata in vigore del d.l. n. 76/2020) ed il 30 giugno 2023, mentre rimane configurabile per le condotte omissive e per le ipotesi di inerzia, anche se ricadenti nel medesimo arco temporale di riferimento.

Trattandosi di una disposizione che rientra nel “fuoco” innescato dal progetto normativo di riforma avviato dal “Decreto Semplificazioni” n. 76/2020, se ne rinvia la trattazione al successivo paragrafo 7.5.

Il dolo

Nella responsabilità amministrativo–contabile il dolo costituisce lo stato soggettivo che esprime il più alto disvalore del soggetto agente nei confronti delle pubbliche finanze.

Come anticipato nel paragrafo 7.1, sia il legislatore che la giurisprudenza innalzano il livello della protezione dell'Erario in caso di danno cagionato con dolo: il legislatore, infatti, prevede che in caso di concorso di condotte tutte dolose trovi applicazione (nella disciplina dei cc.dd. “rapporti esterni”) la regola eccezionale della responsabilità solidale (art. 1, comma 1–quinquies, della l. n. 20/1994); per la giurisprudenza, invece, il potere di riduzione dell'addebito non è spendibile dal Giudice contabile in caso di danno erariale dolosamente cagionato.

Prima della riforma introdotta dall'art. 21, comma 1, del d.l. n. 76/2020 (c.d. “Decreto Semplificazioni”), il sistema della responsabilità amministrativo–contabile si fondava sulla lineare ed elementare regola per cui la predetta responsabilità è «limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave» (primo alinea dell'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994).

In merito alla prova del dolo nel giudizio contabile, quindi, non vi era alcuna specificazione normativa (specificazione viceversa introdotta dal richiamato art. 21, comma 1, del d.l. n. 76/2020, di cui si dirà innanzi).

In questo contesto normativo originario, la giurisprudenza contabile ha interpretato il dolo erariale secondo due diverse impostazioni.

Un primo orientamento ha affermato che il dolo erariale consiste nella consapevolezza e nella volontà dell'agente sia di porre in essere un'azione od un'omissione antidoverosa, sia di produrre l'evento dannoso, sull'assunto che la sola consapevolezza di violare gli obblighi di servizio non basti ad integrare l'elemento soggettivo del dolo erariale.

In questo senso, è stato affermato che il dolo costituisce lo «stato soggettivo caratterizzato dalla consapevolezza e volontà dell'azione o omissione contra legem, con specifico riguardo alla violazione delle norme giuridiche che regolano e disciplinano l'esercizio delle funzioni amministrative, ed alle sue conseguenze dannose per le finanze pubbliche» (C. conti, III App., n. 96/2017; C. conti, III App., n. 510/2004).

Secondo questa impostazione interpretativa, dunque, nella responsabilità amministrativo–contabile il dolo erariale si pone nel solco del dolo penalistico di cui all'art. 43 c.p., nelle sue molteplici declinazioni, compresa quella del c.d. dolo eventuale: quest'ultimo inteso, in un significato prettamente giuscontabilistico, come «accettazione del rischio del previsto verificarsi dell'illecito pregiudizio» all'Erario (C. conti, II App., n. 314/2015).

In chiave probatoria, poi, nel giudizio contabile è stata pretesa la prova, da parte dell'attore pubblico (il Procuratore contabile), che l'azione dannosa fosse stata posta in essere con la consapevolezza e la volontà, da parte dell'agente: a) di violare le norme giuridiche che regolano e disciplinano l'esercizio delle funzioni amministrative; b) di procurare un danno per le finanze pubbliche.

Un secondo orientamento, invece, ha accolto una nozione più elastica di dolo erariale, soprattutto al fine di dimostrarne la sussistenza già in seguito all'accertamento della consapevole e volontaria violazione degli obblighi di servizio da parte del soggetto ritenuto responsabile.

In questo modo, l'indirizzo interpretativo in parola ha forgiato la categoria del c.d. «dolo contrattuale» o del dolo «in adimplendo», rinvenuto nel «proposito consapevole di non adempiere all'obbligo stesso, ossia di violare intenzionalmente i doveri riconducibili all'espletamento del rapporto di impiego, ovvero di servizio per quanto concerne i soggetti privati», indipendentemente dalla volontà di provocare l'evento dannoso (C. conti, sez. giur. Piemonte, n. 58/2007; più recentemente: C. conti, sez. giur. Puglia, n. 39/2022; C. conti, sez. giur. Liguria, n. 195/2019; C. conti, III App., n. 74/2017).

Come è evidente, la categoria del dolo contrattuale fa leva sull'assunto «che la responsabilità amministrativa abbia natura di responsabilità contrattuale, invero caratterizzata dalla violazione di obblighi di servizio inerenti al rapporto che lega il funzionario pubblico con l'amministrazione» (C. conti, II App., n. 399/2017); sicché, è stato sostenuto che «in materia di responsabilità amministrativa la nozione di dolo non si identifica con quella di cui all'art. 43 c.p., ovvero come volontà dell'evento dannoso (evento voluto e previsto dal soggetto legato da rapporto di servizio), ma come “civile contrattuale” determinato dalla volontà di non adempiere agli obblighi di servizio, dalla consapevolezza della natura illecita dell'attività posta in essere, come dolo c.d. contrattuale o in adimplendo, come inadempimento di una speciale obbligazione preesistente, quale ne sia la sua fonte e consiste nella coscienza e volontà di venir meno ai propri obblighi e doveri di ufficio e nel proposito di non adempiere l'obbligazione» (C. conti, sez. giur. Puglia, n. 39/2022).

Sono evidenti le conseguenze che da questa impostazione derivano in relazione alla prova del dolo, giacché in sostanza si riconosce l'applicabilità nel giudizio contabile delle regole ricavabili dall'art. 1218 c.c., con il conseguente alleggerimento dell'onus probandi posto a carico della Procura contabile in virtù della c.d. “inversione dell'onere probatorio” (dalla procura contabile al presunto responsabile convenuto).

In particolare, applicando al giudizio contabile il meccanismo probatorio delineato dall'art. 1218 c.c., il pubblico ministero può limitarsi ad allegare sia il “titolo” che il danno erariale, mentre spetta al presunto responsabile convenuto dimostrare che la violazione degli obblighi di servizio è stata determinata da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Ebbene, a fronte del delineato quadro interpretativo, si deve sottolineare che la categoria del c.d. dolo contrattuale risulta oramai messa in ombra dalla novella legislativa apportata con l'art. 21 del d.l. n. 76/2020, convertito con legge n. 120 del 2020, che nel corpo del comma 1 dell'art. 1 della l. n. 20/1994 ha aggiunto la previsione per cui «La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso» (secondo alinea).

La richiamata novella normativa, quindi, vale ad escludere definitivamente che, per i fatti commessi dopo la sua entrata in vigore (17 luglio 2020), la categoria del dolo contrattuale possa ancora trovare spazio nel campo della responsabilità amministrativa.

Tale conclusione è confermata dalla Relazione Illustrativa del d.l. n. 76/2020 che, in ordine alle novità introdotte dall'art. 21 del medesimo decreto legge, si esprime nei seguenti termini: «In materia di responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, la norma chiarisce che il dolo va riferito all'evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica».

All'analisi delle conseguenze derivanti dalla novella normativa è dedicato il successivo paragrafo.

Le recenti novità normative: il nuovo dolo erariale

Una volta delineati nei precedenti paragrafi i caratteri generali del dolo e della colpa grave nell'ambito della responsabilità amministrativo–contabile, occorre a questo punto analizzare nel dettaglio il contenuto e le conseguenze applicative delle novelle normative introdotte nell'ordinamento con il d.l. n. 76/2020 (art. 21, commi 1 e 2) e con il d.l. n. 77/2021 (art. 51, comma 1, lett. h).

La prima novità legislativa è quella sancita dal comma 1 dell'art. 21 del d.l. n. 76/2020, il quale aggiunge all'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994, dopo il primo periodo, il seguente: «La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso».

La seconda novità è invece quella introdotta dal comma 2 dell'art. 21 del d.l. n. 76/2020 che, pur non comportando alcuna modifica nel testo dell'art. 1 della l. n. 20/1994, ha tuttavia ridotto temporaneamente la portata applicativa dell'istituto della colpa grave nell'ambito della disciplina della responsabilità amministrativo–contabile: l'argomento verrà trattato nel prossimo paragrafo.

In questa sede, invece, ci si soffermerà esclusivamente sulla nuova configurazione del dolo erariale, applicabile ai fatti commessi a partire dal 17 luglio 2020.

Ebbene, come è facilmente evincibile dal tenore letterale del nuovo “secondo alinea” dell'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994, la prova del dolo erariale potrà dirsi raggiunta soltanto ove si dimostri che il soggetto responsabile, oltre ad aver consapevolmente e volontariamente violato gli obblighi di servizio (c.d. “volontarietà della condotta antidoverosa”), abbia altresì agito con volontà di causare l'evento dannoso.

Pertanto, come spiega la Relazione Illustrativa del d.l. n. 76/2020, il dolo erariale va inteso in senso penalistico (anche) con riferimento all'evento dannoso.

Dai lavori preparatori della riforma normativa (dossier n. 275 del 21 luglio 2020 del Servizio studi del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati) emerge come «la volontà del legislatore [sia] quella di escludere ipotesi di dolo che non siano conformi al dettato dell'art. 43 c.p. [...]. Il dolo in chiave penalistica è quindi, costituito da due componenti: – la cosiddetta rappresentazione, che consiste nella pianificazione dell'azione od omissione volta a creare l'evento dannoso; – la risoluzione, cioè la decisione di realizzare effettivamente lo sforzo esecutivo del piano, per giungere alla realizzazione del fatto dannoso o pericoloso».

Sintetizzando lo spirito della novella normativa, quindi, il dolo erariale si pone oggi nel solco del dolo penalistico di cui all'art. 43 c.p., nelle sue declinazioni del dolo intenzionale, del dolo diretto e del dolo eventuale.

Secondo la Dottrina, è proprio l'applicabilità al giudizio contabile del dolo eventuale che occorre adesso affermare con forza, «a meno di ipotizzare una irragionevole divaricazione ermeneutica rispetto al dolo penalistico e a quello aquiliano e che non trova corrispondenza nel dato normativo. Alla luce di ciò sarà sufficiente, per l'attore pubblico, dimostrare che il convenuto abbia trasgredito i doveri di ufficio rappresentandosi almeno la possibilità di uno sviamento delle risorse pubbliche dalla loro corretta utilizzazione, accettandone, conseguentemente il rischio». Per quanto attiene alla prova del dolo, poi, si osserva che l'accostamento del dolo erariale al dolo di matrice penalistica non comporta necessariamente un «particolare ampliamento dell'onere probatorio del pubblico ministero. Infatti, per determinare se il convenuto in giudizio abbia effettivamente voluto e previsto un possibile risultato della sua azione, sarà sufficiente affidarsi a massime di esperienza, espressamente previste come elemento di valutazione dall'art. 95 c.g.c.: la conformità del comportamento tenuto alle medesime sarà sufficiente per ritenere dimostrato il fatto psicologico da provare» (Benigni).

Muovendo lungo questo crinale interpretativo, altra Dottrina evidenzia che «un'esegesi che intendesse la prova della “volontà dell'evento dannoso” come dimostrazione del dolo intenzionale o diretto privando di terreno il dolo eventuale, snaturerebbe il sistema della responsabilità amministrativo-contabile, sostituendo una deroga al generale paradigma che si è detto. Verrebbe meno larga parte degli illeciti contabili, assai rari essendo i casi in cui la volontà dell'agente è direttamente orientata alla causazione di un danno erariale. Perderebbero terreno, insieme ai casi in cui la deminutio patrimonii non sia specificamente voluta, tutte le ipotesi in cui il pregiudizio si appunti nella lesione di interessi funzionali correlati al'azione amministrativa; il danno all'immagine, il danno da disservizio, il danno alla concorrenza verrebbero espunti dal novero dei pregiudizi rilevanti, gravando sulle Procure l'onere diabolico di provare la diretta volontà del soggetto di ledere l'immagine o il buon andamento dell'Amministrazione. Ne deriverebbe una sostanziale immunità, che si riserverebbe proprio alle condotte, di non insignificante disvalore, di chi abbia direttamente voluto un illecito vantaggio personale, unicamente rappresentandosi la possibilità di un pregiudizio all'erario» (Giordano).

Sono a questo punto due i profili applicativi della novella normativa che occorre qui analizzare.

Il primo profilo riguarda l'applicazione della novella ai fatti di danno precedenti la sua introduzione.

Sul punto la giurisprudenza contabile ha già chiarito che tale novella non si applica ai rapporti sorti antecedentemente alla modifica della norma in questione, perché ad essa va attribuito un carattere sostanziale e non processuale.

In questo senso, è stato affermato che la novella «non si applica ai rapporti sorti antecedentemente alla modifica della norma in questione perché di carattere sostanziale, a differenza dei rapporti processuali che, al contrario, ben possono essere sempre regolati dalla normativa vigente al momento di pubblicazione della norma, indipendentemente dall'epoca di commissione del fatto. In sostanza, le norme di carattere processuale sono di immediata applicazione e, quindi, si applicano anche ai rapporti in corso e non esauriti, mentre per le norme di carattere sostanziale, come quella in esame, vige il principio di cui all'art. 11, co. 1, delle disp. prel. cod. civ.» (C. conti, I App., n. 234/2020).

Peraltro, secondo quella giurisprudenza contabile che aderiva alla tesi del c.d. “dolo contrattuale” prima della modifica dell'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994 ad opera dell'art. 21, comma 1, del d.l. n. 76/2020, con riferimento ai rapporti in corso e non ancora esauriti e, in ogni caso, precedenti la predetta novella normativa, può tuttora predicarsi l'applicabilità della teoria del “dolo contrattuale” (C. conti, sez. giur. Puglia, n. 39/2022).

Il secondo profilo, infine, si risolve nella constatazione del carattere strutturale (o di sistema) della novella: la previsione che «la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso», infatti, è stata inserita nel corpo dell'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994con carattere definitivo e la sua applicazione non è soggetta ad alcuna scadenza temporale.

Segue: l'eclissi della colpa grave

Come anticipato nei precedenti paragrafi, la seconda novità introdotta nel sistema della responsabilità amministrativo–contabile dal Decreto Semplificazioni del 2020 è quella recata dall'art. 21, comma 2, del d.l. n. 76/2020, per il quale, “Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 30 giugno 2023 [data modificata ex art. 51, comma 1, lettera h), del d.l. n. 77/2021, convertito in legge n. 108/2021, essendo originariamente fissata per il 31 dicembre 2021], la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l'azione di responsabilità di cui all'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”.

La norma non comporta alcuna modificazione del testo dell'art. 1 della l. n. 20/1994.

Si tratta invero di una disposizione transitoria (a cui in sede interpretativa si è sovente fatto riferimento utilizzando l'espressione “scudo erariale”), in virtù della quale, per i fatti commessi tra il 17 luglio 2020 e il 30 giugno 2023, occorrerà distinguere due ipotesi: ove si tratti di condotte commissive causative di danno erariale, l'addebito di responsabilità amministrativo–contabile potrà essere sollevato soltanto nel caso in cui venga accertato il dolo (in senso penalistico) del soggetto agente; ove si tratti, invece, di condotte omissive o di inerzia del soggetto agente, continuerà ad operare il normale regime di imputazione soggettiva della responsabilità amministrativa a titolo sia di dolo che di colpa grave.

In sostanza, quindi, il Legislatore ha disposto la deresponsabilizzazione erariale delle condotte gravemente colpose attive tenute nel periodo compreso tra il 17 luglio 2020 e il 30 giugno 2023.

Proprio in questo senso, infatti, la Relazione Illustrativa del d.l. n. 76/2020 chiarisce che «la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l'azione di responsabilità viene limitata al solo profilo del dolo per le azioni e non anche per le omissioni, in modo che i pubblici dipendenti abbiano maggiori rischi di incorrere in responsabilità in caso di non fare (omissioni e inerzie) rispetto al fare, dove la responsabilità viene limitata al dolo».

La differenza tra inerzia ed omissione viene efficacemente spiegata dalla Dottrina nella misura in cui si afferma che i due predetti concetti, «lungi dal rappresentare una ripetizione tautologica, identificano diverse condotte riconducibili, rispettivamente, alla categoria degli illeciti erariali di pura omissione, in cui dalla semplice assenza della condotta dovuta scaturisce un evento dannoso per la p.a. (come avviene per la mancata riscossione dei tributi erariali locali, ovvero per il colpevole ritardo nel deposito delle sentenze, fattore causale del diritto all'indennizzo previsto dall'art. 2 della l. n. 89/2001) e degli illeciti erariali commissivi cagionati causalmente da precedenti omissioni di pubblici funzionari, tenuti a espletare compiti di verifica, vigilanza e controllo» (Benigni).

Ciò che in ogni caso emerge dalla novella normativa è certamente l'eclissi (auspicabilmente) temporanea della colpa grave.

Anzi, è proprio la dichiarata temporaneità della disposizione a metterla al riparo da censure di incostituzionalità: il tutto, però, a condizione che il temporaneo non si trasformi in definitivo.

Ove ciò malauguratamente accadesse, infatti, verrebbe chiaramente sottratto al Giudice contabile lo strumento (quale è quello del giudizio sulla colpa grave) idoneo a «determinare quanto del rischio dell'attività debba restare a carico dell'apparato e quanto a carico del dipendente»: sicché sarebbe preclusa la ricerca di «un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo» (Corte cost. n. 371/1998).

Come ha sottolineato il Procuratore Generale della Corte dei Conti in occasione dell'Inaugurazione dell'anno giudiziario 2022, peraltro, «la giustizia contabile non è un evento che casualmente incombe sui pubblici amministratori e sui pubblici funzionari; non è un “rischio” per il pubblico funzionario coscienzioso, accorto, rispettoso delle leggi, che tale rischio non deve percepire nemmeno psicologicamente: è invece un rischio concreto e reale e lo deve essere, ed è un bene che lo sia, per il funzionario che coscientemente trascura gravemente i propri doveri, che subordina l'interesse pubblico all'interesse privato o personale, che viola le leggi, che dissipa le risorse della comunità»; pertanto, se già «le generalizzate riduzioni, come quella posta in essere con l'art. 21 del D.L. n. 76/2020 per contrastare [...] la c.d. paura della firma, rischiano di “spuntare le armi” delle procure regionali anche nei confronti di autori di frodi e dissipatori seriali di risorse pubbliche», un'eclissi definitiva della colpa grave determinerebbe di per sé un nocumento per le finanze pubbliche.

Per evitare questa conseguenza, sarebbe innanzitutto auspicabile che il fenomeno della «paura della firma» venga risolto «a monte», implementando gli investimenti nella formazione del personale pubblico.

In secondo luogo, ad una deresponsabilizzazione (temporanea o, peggio, definitiva) della colpa grave è certamente preferibile la soluzione adottata dal Legislatore per scongiurare il fenomento della c.d. «medicina difensiva»: il riferimento va, in particolare, all'art. 9, comma 5, della l. n.24/2017 (c.d. Legge Gelli Bianco), con cui il Legislatore, con esclusivo riferimento ai casi di danno erariale per “mala sanità” cagionato con colpa grave, si è preoccupato non solo di individuare i presupposti per l'applicazione del potere riduttivo del Giudice contabile ma ne ha altresì circoscritto la misura di esercizio, stabilendo sostanzialmente che l'importo della condanna a cui è esposto il medico non possa in ogni caso superare un tetto rapportato al triplo della sua retribuzione annua lorda.

Come si avrà modo di evidenziare nel successivo paragrafo 10.2, però, la richiamata previsione normativa desta perplessità per la sua «generalizzata applicabilità», comportando invero che situazioni diverse vengano trattate in maniera uguale: sicché, in ipotesi, la condanna per responsabilità amministrativa disposta nei confronti del medico che con colpa grave abbia cagionato un danno erariale di elevata entità (e, in particolare, di “gran lunga” superiore alla retribuzione annua lorda del medico responsabile) potrebbe risultare sostanzialmente uguale alla condanna riportata dal medico che abbia cagionato un danno erariale di minore entità (e, in particolare, di misura “appena” superiore alla retribuzione annua lorda del medico responsabile).

Pertanto, pur tornando a riconoscere che una soluzione di questo tipo è comunque preferibile ad una deresponsabilizzazione della colpa grave, se proprio si intenda risolvere legislativamente il fenomeno della «burocrazia difensiva» (ma anche quello della «medicina difensiva») sarebbe preferibile una scelta normativa che, per i casi di danno erariale cagionato con colpa grave, preveda sì una quantificazione della riduzione della condanna, ma contempli anche la possibilità per il Giudice contabile di differenziare la predetta condanna in funzione della minore o della maggiore entità del danno erariale cagionato con colpa grave: solo prevedendo delle “soglie di condanna” parametrate a certe “soglie di danno erariale”, infatti, si può evitare che situazioni diverse vengano trattate in maniera uguale.

La quantificazione del danno erariale

Il tema della quantificazione del danno erariale è affrontato dal Legislatore nell'art. 1, comma 1-bis, della l. n. 20/1994, ai sensi del quale «Nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall'amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità».

Come è evidente, la richiamata disposizione, aggiunta nell'originario impianto normativo dall'art. 3 del d.l. 23 ottobre 1996, n. 543 (convertito con modificazioni dalla l. n. 639/1996), reca la disciplina di due fondamentali regole in tema di quantificazione del danno: da una parte, infatti, essa introduce nel sistema della responsabilità erariale la regola civilistica della compensatio lucri cum damno, prevedendone tuttavia gli opportuni adattamenti alla materia contabile; da un'altra parte, invece, essa «lascia fermo» il potere del Giudice contabile di ridurre l'addebito erariale.

La prospettiva scelta dal Legislatore, quindi, esalta il ruolo della Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti, che deve decidere in merito alla fondatezza della domanda proposta dalla Procura contabile e, in caso di suo accoglimento, deve altresì quantificare il danno erariale procurato all'Amministrazione dal soggetto convenuto, legato alla stessa P.A. da un rapporto di servizio.

Ciò non toglie, però, che spetti al Procuratore contabile il compito di procedere ad una prima quantificazione del danno erariale.

Ai sensi dell'art. 51, comma 1, c.g.c., infatti, «il pubblico ministero inizia l'attività istruttoria, ai fini dell'adozione delle determinazioni inerenti l'esercizio dell'azione erariale, sulla base di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge», con l'ulteriore specificazione contenuta nel comma 2 della medesima norma, secondo la quale «la notizia di danno, comunque acquisita, è specifica e concreta quando consiste in informazioni circostanziate e non riferibili a fatti ipotetici o indifferenziati».

La fase istruttoria che segue all'acquisizione della denuncia del danno erariale, poi, consente al Procuratore contabile di individuare con esattezza il quantum da contestare al presunto responsabile, al quale dovrà essere notificato il formale «invito a fornire deduzioni» ai sensi dell'art. 67 c.g.c., nel quale verrà cristallizzata una prima quantificazione del danno erariale contestato.

Trascorso il termine (non inferiore a quarantacinque giorni decorrente dalla notifica dell'invito a dedurre) concesso all'invitato per l'eventuale deposito delle proprie deduzioni, entro i successivi centoventi giorni il Procuratore contabile, ove si convinca della sussistenza di un danno erariale, dovrà depositare l'atto di citazione in giudizio nei confronti del soggetto ritenuto responsabile, con la precisazione che, ai sensi dell'art. 86, comma 2, lett. c), c.g.c., tale atto di citazione deve contenere «l'individuazione e la quantificazione del danno o l'indicazione dei criteri per la sua determinazione».

La quantificazione del danno erariale operata dal Procuratore contabile è poi soggetta al sindacato della Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti, che potrà accogliere integralmente la domanda dell'attore pubblico, accoglierla parzialmente o anche rigettarla.

È dunque al Collegio Giudicante che, come prima anticipato, spetta il compito di addivenire alla definiva quantificazione del danno erariale.

Tale quantificazione potrà avvenire o all'esito del c.d. «rito ordinario» (disciplinato dal Titolo III della Parte II del Codice di Giustizia Contabile, artt. da 83 a 113), oppure all'esito di uno dei «riti speciali» previsti dal Titolo V della stessa Parte II del c.g.c., quali il «rito abbreviato» (art. 130), il «rito monitorio» (artt. 131 e 132) e il «rito relativo a fattispecie di responsabilità sanzionatoria pecuniaria» (artt. da 133 a 136).

Nei successivi paragrafi verrà affrontato il tema relativo ai criteri di quantificazione utilizzabili nel c.d. «rito ordinario», nonché nel «rito abbreviato» e nel «rito monitorio», trattandosi certamente di riti funzionali alla definizione dei giudizi di responsabilità amministrativo-contabile.

È estranea al presente lavoro, invece, l'analisi dei caratteri del «rito relativo a fattispecie di responsabilità sanzionatoria pecuniaria», giacché esso riguarda intuitivamente le fattispecie di responsabilità sanzionatoria (di cui in ogni caso già si è trattato nel precedente paragrafo 4.9).

Nel successivo paragrafo 9, invece, verrà studiata l'applicazione contabile della regola della compensatio lucri cum damno, mentre al paragrafo 10 è affidato l'esame dei caratteri del potere giurisdizionale di riduzione dell'addebito, per come attribuito in via esclusiva al Giudice contabile.

La quantificazione del danno nel «rito ordinario»

Le regole della quantificazione del danno nel giudizio contabile rinvengono la loro principale fonte nell'ordinamento civile, salve le eccezioni appositamente stabilite dall'art. 1, comma 1-bis, della legge n. 20/1994 in tema di compensatio lucri cum damno e di potere riduttivo del Giudice contabile (di cui si è già fatto cenno nel precedente paragrafo e di cui comunque si tratterà approfonditamente nei successivi paragrafi 9 e 10).

Seguendo l'impostazione del codice civile, quindi, ai sensi dell'art. 1223c.c. il danno erariale deve comprendere sia la perdita subita dall'Amministrazione danneggiata (danno emergente) sia il mancato guadagno (lucro cessante), in quanto siano conseguenza immediata e diretta della condotta illecita tenuta, con dolo o colpa grave, dal soggetto legato alla stessa P.A. da un rapporto di servizio.

Tale danno erariale può essere «diretto» o «indiretto».

In particolare, è diretto il danno che l'Amministrazione subisce direttamente, appunto, in conseguenza della condotta del soggetto responsabile.

È indiretto, invece, il danno originato dalla condanna dell'Amministrazione in sede civile o amministrativa per la condotta illecita di un proprio dipendente: in questi casi, infatti, l'amministrazione subisce un pregiudizio economico per il fatto di aver risarcito, ex art. 28 Cost., il terzo danneggiato dal proprio dipendente o per il fatto di aver risarcito un soggetto privato, leso dal provvedimento illegittimo imputabile al funzionario pubblico; sicché, ai sensi dell'art. 22, comma 2, del d.P.R. n.3/1957, «L'amministrazione che abbia risarcito il terzo del danno cagionato dal dipendente si rivale agendo contro quest'ultimo».

Il danno erariale deve essere altresì certo, concreto ed attuale (C. conti, sez. giur. Lazio, n. 717/2021).

Il carattere della certezza del danno implica che esso deve essere incontestabile nella sua realtà materiale: sicché non sono risarcibili danni ipotetici.

Il requisito della concretezza, invece, rileva per spiegare che non ogni comportamento o atto illecito/illegittimo risulta foriero di danno: pertanto, la sussistenza del danno deve essere accertata in concreto.

L'attualità, infine, implica che il danno erariale è risarcibile solo quando si concretizza in un fatto che determina un pregiudizio attuale e non futuro e/o prevedibile: nel caso di danno indiretto, ad esempio, il danno diventa attuale nel momento in cui la Pubblica amministrazione paga in favore del terzo la somma per la quale ha subìto la condanna giudiziaria (si rinvia al successivo paragrafo 11.3 per l'approfondimento del tema).

Per ciò che attiene alla concreta determinazione del danno risarcibile, invece, si rileva la necessità di distinguere i danni erariali di tipo «patrimoniale» da quelli di tipo «non patrimoniale».

Nel primo caso, il danno subìto dall'Amministrazione andrà rapportato all'importo della somma erogata o a quello dell'entrata non acquisita (sicché, venendo in rilievo la perdita di una somma di denaro, il danno sarà pari al valore nominale della somma stessa, exartt. 1277 e ss. c.c.) o al valore della cosa distrutta o perduta (nel qual caso il danno sarà pari al valore intrinseco del bene stesso, secondo le quotazioni di mercato al tempo della perdita e non già secondo la quotazione di inventario eseguita presso l'Amministrazione danneggiata).

Sia come sia, quindi, vi sarà certamente un parametro a cui ancorare la determinazione del quantum risarcibile in sede erariale.

La questione che in questo caso dovrà risolversi in sede giudiziale atterrà esclusivamente all'attualizzazione del danno, da operare in base alla distinzione tra obbligazioni cc.dd. di «valuta» e di «valore».

Diverso è il caso dei danni erariali non patrimoniali.

In linea generale, occorre premettere che, rivelandosi in questi casi complessa la determinazione precisa del danno, la giurisprudenza contabile suole fare ricorso a presunzioni nei limiti dell'id quod plerumque accidit o ad una valutazione equitativa del danno, ai sensi dell'art. 1226 c.c. (C. conti, sez. giur. Lazio, n. 717/2021).

Con riferimento a talune fattispecie di danno erariale, però, è stato direttamente il Legislatore a indicare i criteri per la determinazione del danno risarcibile, ravvisando evidentemente la problematicità della questione.

L'esempio più evidente di questa tendenza normativa è offerto dall'art. 1, comma 1- sexies, della l. n.20/1994, introdotto dall'art. 1, comma 62, della l. n. 190/2012 (c.d. «Legge anticorruzione»).

In particolare, la suddetta disposizione stabilisce che, «Nel giudizio di responsabilità, l'entità del danno all'immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente».

A tale previsione si aggiunge quella contenuta nel successivo comma 1- septies che, a garanzia del pubblico erario, prevede che «Nei giudizi di responsabilità aventi ad oggetto atti o fatti di cui al comma 1-sexies, il sequestro conservativo è concesso in tutti i casi di fondato timore di attenuazione della garanzia del credito erariale».

La quantificazione del danno nei «riti speciali»

Come anticipato, i riti che consentono la definizione «speciale» del giudizio di responsabilità amministrativo-contabile sono il «rito abbreviato» (art. 130) e il «rito monitorio» (artt. 131 e 132).

Con riguardo al rito abbreviato si osserva che esso è stato introdotto in alternativa al rito ordinario, con funzione deflativa e anche per garantire l'incameramento certo e immediato di somme risarcitorie all'erario.

A tale rito, però, può chiedere di accedere soltanto il convenuto che non si sia dolosamente arricchito in conseguenza della condotta dannosa tenuta.

Sicché, in estrema sintesi, il rito abbreviato consente la definizione del giudizio di responsabilità, sia immediatamente in primo grado, che in appello, graduando progressivamente la percentuale della definizione: sino al 50% del danno quantificato nell'atto di citazione nel primo grado di giudizio; non inferiore al 70% del danno quantificato nell'atto di citazione, qualora il rito abbreviato si perfezioni in appello.

In entrambi i gradi di giudizio la sentenza definisce il giudizio stesso dopo avere verificato l'avvenuto versamento, in unica soluzione, della somma determinata dal collegio giudicante.

Per ciò che attiene al rito monitorio, invece, si osserva che esso è disciplinato dagli artt. 131 e 132 c.g.c. e rinviene il proprio antecedente storico nell'art. 55 del r.d. n. 1214/1934.

In particolare, il novello rito monitorio forgiato dal Codice di Giustizia contabile consiste in una procedura speciale che, in ragione della lieve entità del danno patrimoniale, ovvero nei casi in cui l'addebito non superi l'importo di euro 10.000,00, prevede che con decreto venga determinato l'importo da pagare entro un termine fissato per l'accettazione.

Spirato il termine senza esito, ovvero in caso di mancata espressa accettazione oppure nel caso di irreperibilità della parte, il giudizio prosegue secondo il rito ordinario.

Permane, rispetto alla disciplina previgente, il carattere vincolante del parere del pubblico ministero.

La compensatio lucri cum damno

Il comma 1-bis dell'art. 1 della l. n. 20/1994 introduce nel sistema della responsabilità erariale la regola civilistica della compensatio lucri cum damno, prevedendone tuttavia gli opportuni adattamenti alla materia contabile.

Per vero, la citata disposizione ha fatto ingresso nel corpus normativo in virtù dell'art. 3 del d.l. n. 543/1996, convertito con modificazioni dalla l. n. 639/1996, rientrando così nell'ambito di quel complesso intervento legislativo che nel 1996 ha trovato espressione nella decretazione d'urgenza in ragione della straordinaria necessità ed urgenza – appunto – di emanare disposizioni in materia di ordinamento della Corte dei conti.

Nel dettaglio, la norma stabilisce che «Nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall'amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità».

In ragione del tenore letterale della norma non vi è dubbio che la stesura della stessa sia stata ispirata dalla regola della compensatio lucri cum damno: in entrambi i casi, infatti, vi è il riferimento alla necessità che per il risarcimento del danno si tenga conto anche dei vantaggi eventualmente procurati dall'atto dannoso.

Tuttavia, vi sono due fattori che colorano di novità la norma contabile: il primo è il riferimento ai vantaggi «comunque» conseguiti dalla parte danneggiata, che consente un allargamento dell'area della c.d. «regola dei vantaggi»; il secondo è dato dalla identificazione del beneficiario dei predetti vantaggi, che conduce verso l'introduzione della c.d. «compensatio obliqua».

Come si avrà modo di evidenziare, la recente giurisprudenza contabile (C. conti, Sezioni Riunite in sede Giurisdizionale, n. 13/2021) tende certamente a considerare le due predette novità, senza tuttavia enfatizzarne gli effetti, spingendo verso un'interpretazione della disposizione in commento ispirata alla tesi tradizionalmente (ma non attualmente) affermata dal Giudice civile.

Per comprendere i caratteri della regola introdotta dall'art. 1, comma 1-bis, della legge n. 20/1994, appare quindi necessario studiare preliminarmente l'evoluzione che la predetta regola ha conosciuto in seno alla giurisprudenza civile.

La regola della compensatio nella giurisprudenza civile

Nel sistema civile (al contrario di quello contabile) non vi è alcuna norma che preveda espressamente la regola della «compensazione del lucro col danno»: si tratta invero di una regola di matrice squisitamente interpretativa ricavata tradizionalmente dall'art. 1223 c.c., il quale stabilisce che il risarcimento del danno deve comprendere sia la perdita subita dal danneggiato sia il mancato guadagno (primo periodo), in quanto siano conseguenza immediata e diretta del fatto illecito (secondo periodo).

In sede ermeneutica se n'è quindi dedotto che l'art. 1223 c.c. implica, in linea logica, che l'accertamento conclusivo degli effetti pregiudizievoli (primo periodo) tenga conto anche degli eventuali vantaggi collegati all'illecito in applicazione della regola della causalità giuridica (secondo periodo); se così non fosse, infatti, il danneggiato ne trarrebbe un ingiusto profitto, oltre i limiti del risarcimento riconosciuto dall'ordinamento giuridico.

Ciò posto, va evidenziato che il rilievo ermeneutico della regola della compensatio è dimostrato dal fatto che, proprio di recente, essa è stata sottoposta all'attenzione prima dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e poi delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

La vicenda portata all'attenzione dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è stata risolta con sentenza n. 1 del 23 febbraio 2018, con cui la Plenaria ha tuttavia escluso che la fattispecie scrutinata richiedesse l'applicazione della regola della compensatio nella sua versione «tradizionale», poiché nell'occasione non veniva per vero in rilievo una «medesima condotta» produttiva (al contempo) di un «danno» e di un «vantaggio» ma una «medesima condotta» produttiva solo di «danni» e dunque di effetti pregiudizievoli.

Maggiormente proficuo si è rivelato invece il contributo offerto in questa materia dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che sempre nel 2018 si sono occupate della concreta applicazione della compensatio a taluni casi controversi: è così accaduto che, con ben quattro coeve sentenze del 22 maggio 2018 (sentenze nn. 12564, 12565, 12566 e 12567), le Sezioni Unite hanno definito la portata e l'ambito di operatività della figura, ossia i limiti entro i quali la compensatio può trovare applicazione, superando i precedenti orientamenti sostenuti in materia.

Giova precisare, infatti, che prima del pronunciamento delle Sezioni Unite del 2018 la questione in oggetto aveva fatto registrare un contrasto interpretativo.

Un primo orientamento, infatti, riteneva operante la compensatio solo quando il pregiudizio e l'incremento discendevano entrambi, con rapporto immediato e diretto, dallo stesso fatto generatore del danno.

Un altro e contrapposto orientamento affermava invece che, ai fini dell'operatività della compensatio, lucro e danno non andavano concepiti come un credito ed un debito autonomi per genesi e contenuto, ma occorreva verificare se il vantaggio ottenuto fosse conseguenza immediata e diretta del fatto illecito.

Con le quattro sentenze «gemelle» del 22 maggio 2018, invece, le Sezioni Unite hanno chiarito che può operarsi la compensatio quando il vantaggio economico ha la stessa causa giustificativa dell'obbligazione risarcitoria.

In particolare, la Corte di Cassazione ha ritenuto di adottare un nuovo approccio al problema, basato non sul mero criterio causale (suscettibile di «ridurre la quantificazione del danno e l'accertamento della sua esistenza ad una mera operazione contabile») ma sulla doverosa indagine in merito alla ragione giustificatrice della attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato.

Secondo la Corte di Cassazione, quindi, occorre guardare alla «funzione di cui il beneficio collaterale si rivela essere espressione, per accertare se esso sia compatibile o meno con una imputazione al risarcimento; la prospettiva non è quindi quella della coincidenza formale dei titoli ma quella del collegamento funzionale tra la causa dell'attribuzione patrimoniale e l'obbligazione risarcitoria».

Le Sezioni Unite, infine, hanno precisato che occorre accertare se «l'ordinamento abbia coordinato le diverse risposte istituzionali (del danno da una parte e del beneficio dall'altra) prevedendo un meccanismo di surroga o di rivalsa, capace di valorizzare l'indifferenza del risarcimento, ma nello stesso tempo di evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l'autore dell'illecito»: ai fini dell'applicazione della regola della compensatio, infatti, non possono assumere rilevanza tutti i vantaggi cc.dd. «indiretti» o «mediati», perché ciò condurrebbe ad un'eccessiva dilatazione delle poste imputabili al risarcimento, finendo con il considerare il verificarsi stesso del vantaggio un merito da riconoscere al danneggiante.

Proprio sulla scorta delle predette considerazioni le Sezioni Unite hanno affermato espressamente i quattro seguenti principi.

In primo luogo, è stato rilevato che «dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall'Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto» (Cass. S.U., n. 12564/2018).

In secondo luogo, è stato chiarito che «il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall'ammontare del danno risarcibile l'importo dell'indennità assicurativa derivante da assicurazione contro i danni che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto» (Cass. S.U., n. 12565/2018).

In terzo luogo, le Sezioni Unite hanno affermato che «l'importo della rendita per l'inabilità permanente corrisposta dall'INAIL per l'infortunio in itinere occorso al lavoratore va detratto dall'ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile del fatto illecito» (Cass. S.U., n. 12566/2018).

In quarto ed ultimo luogo, è stato sostenuto che «dall'ammontare del danno subìto da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l'assistenza personale, deve sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall'Inps in conseguenza di quel fatto» (Cass. S.U., n. 12567/2018).

La regola della compensatio nella giurisprudenza contabile

È adesso opportuno verificare come i principi affermati in questa materia dalla giurisprudenza civile siano stati recepiti dalla giurisprudenza contabile.

In premessa, occorre subito evidenziare che il Giudice contabile non risulta attualmente allineato all'orientamento espresso nel 2018 dalle Sezioni Unite della Cassazione.

La prova di quanto innanzi è offerta dalla recente sentenza n. 13 dell'11 ottobre 2021 resa dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti per offrire risposta al seguente quesito prospettato: «se, in ipotesi di danno erariale conseguente all'omesso versamento dei compensi di cui all'art. 53, comma 7 e seguenti, del d.lgs. n. 165/2001 da parte di pubblici dipendenti (o, comunque, di soggetti in rapporto di servizio con la p.a. tenuti ai medesimi obblighi), la quantificazione sia da effettuarsi al netto o al lordo delle ritenute fiscali IRPEF operate a titolo d'acconto sugli importi dovuti o delle maggiori somme eventualmente pagate per la medesima causale sul reddito imponibile».

Come si dimostrerà, la risposta offerta dal Supremo Consesso contabile è risultata conforme a quella già precedentemente resa dalle stesse Sezioni Riunite della Corte dei Conti con la sentenza n. 24 del 12 ottobre 2020, emessa per dare risposta al seguente quesito: «se, in ipotesi di danno erariale conseguente alla illecita erogazione di emolumenti lato sensu intesi in favore di pubblici dipendenti (o, comunque, di soggetti in rapporto di servizio con la Pubblica Amministrazione), la quantificazione deve essere effettuata al netto o al lordo delle ritenute fiscali Irpef operate a titolo di acconto sugli importi liquidati a tale titolo, in applicazione della regola dei vantaggi di cui all'art. 1, comma 1-bis, della l. n. 20/1994».

In entrambi i casi, i dubbi interpretativi sollevati in sede contabile sono risultati alimentati dalla presenza di due opposti orientamenti interpretativi in seno alle Sezioni giurisdizionali d'appello (oltre che di quelle territoriali), tale da delineare un c.d. «contrasto orizzontale» in ordine ad un profilo di diritto suscettibile di applicazione generalizzata.

In particolare, secondo un primo orientamento, la quantificazione deve essere nella specie eseguita al lordo, giacché in assenza di una relazione diretta ed immediata tra condotta causativa del danno e beneficio addotto, nella specie non vi sono i presupposti per accedere alla compensazione di cui all'art. 1, comma 1-bis, della l. n. 20/1994: ciò in ragione del fatto che l'onere fiscale è strettamente correlato all'adempimento di una obbligazione a carico dell'ente quale sostituto di imposta, mentre il danno arrecato alla P.A. riposa, diversamente, sulla illiceità della condotta.

L'impostazione patrocinata nei suddetti termini risulta chiaramente ispirata alla tesi interpretativa (sostenuta dalla giurisprudenza civile prima dell'intervento delle Sezioni Unite del 2018) per la quale l'applicazione della regola della compensatio lucri cum damno comporta la necessità che, ex art. 1223 c.c., il danno ed il vantaggio siano entrambi conseguenza immediata e diretta del comportamento, quali suoi effetti contrapposti.

Un secondo orientamento opta invece per una quantificazione al netto del danno, sulla scorta della considerazione che l'importo del predetto danno debba essere pari a quanto entrato effettivamente nella sfera patrimoniale dell'interessato.

È questo l'orientamento che valorizza maggiormente le due peculiarità che, per come segnalato in apertura, reca la disposizione di cui all'art. 1, comma 1-bis, della l. n. 20/1994, vale a dire il riferimento ai vantaggi «comunque» conseguiti dalla parte danneggiata e l'identificazione del beneficiario dei predetti vantaggi.

E in effetti, secondo il richiamato indirizzo, il comma 1-bis prescrive letteralmente di tener conto dei vantaggi «comunque» prodotti dal comportamento dei responsabili, non soltanto a beneficio dell'ente collegato dal rapporto di servizio, bensì a favore di ogni amministrazione e, ancor più estensivamente, dell'intera «comunità amministrata»: al cospetto di queste evidenze testuali, si è argomentato che la disciplina pubblicistica collima solo parzialmente con quella privatistica della compensatio e si è sostenuto che la previsione dell'art. 1, comma 1-bis, debba essere «intesa con tratti assolutamente peculiari, non potendosi prescindere, nell'applicazione della norma in esame, dalla pluralità di interessi che notoriamente confluiscono in ogni azione amministrativa».

Secondo questa visuale, quindi, la norma in commento, più che introdurre nel nuovo regime della responsabilità amministrativa tout court il principio della compensatio lucri cum damno, riconosce la complessità degli interessi e dei fini perseguibili con l'attività amministrativa, imponendo al Giudice contabile di valutare, nei termini più ampi possibili («comunque»), l'utilitas conseguita; sicché, a questi fini, acquistano rilevanza gli interessi rispondenti alle esigenze ed alle finalità dell'Amministrazione o della collettività nell'ottica dei più generali fini dell'Amministrazione stessa correlati all'utile collettivo.

Ebbene, a fronte del contrasto interpretativo innanzi prospettato, le Sezioni Riunite hanno preso posizione sulle questioni deferite aderendo alle conclusioni prospettate dal primo dei suddetti orientamenti, mutando tuttavia le ragioni fondanti il predetto convincimento.

Rispetto alla tesi patrocinata dal secondo orientamento, invece, i Supremi Giudici hanno avuto un approccio più ruvido che, pur muovendo dalla condivisione dei presupposti di partenza, ha tuttavia comportato un radicale capovolgimento degli esiti finali.

In particolare, il Consesso condivide l'idea che l'art. 1, comma 1-bis, della l. n. 20/1994 abbia introdotto una «regola dei vantaggi» diversa da quella proposta dal tradizionale principio della compensatio lucri cum damno: ciò perché, effettivamente, la disciplina pubblicistica richiede che venga data opportuna considerazione alla pluralità di interessi che notoriamente confluiscono in ogni azione amministrativa.

Tuttavia, secondo le Sezioni Riunite, la portata applicativa dell'art. 1, comma 1-bis, non può essere estesa sino a ritenere che l'utilitas conseguita dall'Amministrazione debba essere letta attraverso il filtro dell'ampio concetto di «finanza pubblica allargata».

Invero, a parere del Consesso, nella realtà della finanza pubblica odierna la tutela degli equilibri finanziari dei singoli enti pubblici di cui all'art. 97, comma 1, Cost., finisce con il riverberarsi direttamente sulla più generale tutela degli equilibri di bilancio, in relazione ai quali la situazione delle singole amministrazioni assume la veste di fattore determinante degli equilibri stessi (Corte cost., sent. n. 107/2016).

Inoltre, si rileva che l'equilibrio complessivo della finanza pubblica allargata deve essere congruente e coordinato con l'equilibrio della singola componente aggregata se non si vuole compromettere la programmazione e la scansione pluriennale dei particolari obiettivi che compongono la politica di tutti gli enti territoriali (Stato compreso), in quanto il superiore interesse alla realizzazione dell'equilibrio della finanza pubblica allargata trova il suo limite nella correlata esigenza di sana gestione finanziaria dell'ente che vi è soggetto e nell'esigenza di garantire adeguatamente il finanziamento delle funzioni assegnate (Corte cost., sent. n. 6/2019).

Ciò fa sì che il concetto di finanza pubblica allargata scolori e confluisca oggi in quello più ampio derivante dal combinato disposto dei principi di coordinamento della finanza pubblica e di armonizzazione dei conti pubblici, secondo l'insegnamento costituzionalmente orientato dell'equilibrio «dinamico», come giusto contemperamento, nella materia finanziaria, tra i precetti dell'art. 81 Cost. e la salvaguardia della discrezionalità legislativa nel rispetto delle autonomie territoriali.

Suggerendo un approccio sovranazionale per l'inquadramento interpretativo della questione, poi, con la sentenza n. 13/2021 le Sezioni Riunite hanno in particolare evidenziato che, se è vero che i principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica traggono fondamento dal carattere unitario della Repubblica italiana (art. 5 Cost.), occorre riconoscere che negli ultimi anni la sua definizione unitaria ha assunto un carattere sovranazionale, soprattutto come parte costitutiva dell'Unione europea (art. 117, comma 1, Cost.). Gli obblighi di risanamento della finanza pubblica, quindi, riguardano tutti gli organi ed enti che sono ritenuti tradizionalmente parte costitutiva della Repubblica italiana (come le autonomie ordinarie speciali, ed ancor prima lo Stato in tutte le sue articolazioni) ma anche (e inevitabilmente) anche le istituzioni dell'U.E., come parti di un ordinamento più generale, cui partecipano gli ordinamenti degli Stati membri.

È dunque questo il primo (e fondamentale) approdo a cui giungono le Sezioni Riunite: per interpretare la c.d. «regola dei vantaggi» fissata dall'art. 1, comma 1-bis, della l. n. 20/1994, occorre avere riguardo non al generale concetto di unitarietà della finanza pubblica ma ai principi di coordinamento finanziario e di armonizzazione dei bilanci pubblici.

Sulla base di questa chiave di lettura, il Consesso giunge ad interpretare la disposizione in commento nel senso che, ai fini della validità della compensazione, è necessario che la stessa si ricolleghi ad un unico fatto genetico, produttivo sia del danno che dei presunti vantaggi; tuttavia occorre considerare non solo il danno patrimoniale, inteso quale diminuzione pecuniaria derivante dal danno emergente e dal lucro cessante, ma anche il danno finanziario derivante dall'alterazione dell'equilibrio economico-finanziario della singola Amministrazione, con conseguente pregiudizio per l'azione amministrativa di competenza, nell'ambito dei più ampi rapporti di coordinamento finanziario e finanche di armonizzazione dei bilanci pubblici.

Così opinando, le Sezioni Riunite affermano il seguente principio generale: ciò che entra nella valutazione della fattispecie è, da una parte, la coincidenza del soggetto danneggiato con quello avvantaggiato (con ciò intendendo che lucrum e damnum si possono compensare tra loro in quanto intervenienti sullo stesso patrimonio); dall'altra, la circostanza che il bilanciamento fra vantaggio e danno possa giustificarsi solo in presenza di un medesimo fatto generatore del pregiudizio.

Alla luce dei superiori rilievi, il pensiero delle Sezioni Riunite può riassumersi nei due seguenti passaggi logici.

In primo luogo, il concetto di «vantaggi comunque conseguiti» non va enfatizzato, nel senso che esso non allude all'ulteriore concetto di «finanza pubblica allargata»: invero, poiché nella fattispecie rilevano i principi di coordinamento della finanza pubblica e di armonizzazione dei conti pubblici, l'attenzione dell'interprete deve focalizzarsi esclusivamente sull'equilibrio economico-finanziario di quella specifica Amministrazione che risulti, al contempo, danneggiata e avvantaggiata dal fatto illecito; ciò perché il lucro e il danno si possono compensare tra loro solo quando incidono sul medesimo patrimonio: risulta per questa via certamente ridimensionata la teoria della c.d. «compensatio obliqua».

In secondo luogo, l'operatività della regola sancita dall'art. 1, comma 1-bis, della l. n. 20/1994 è subordinata all'accertamento della sussistenza di un unico fatto che abbia generato, al contempo, danno e vantaggio.

È proprio questo secondo approdo ermeneutico che sancisce l'allontanamento della tesi del Giudice contabile dalla tesi attualmente sostenuta dal Giudice civile.

Come si è detto in precedenza, infatti, nel 2018 le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che, ai fini dell'applicazione della regola della compensatio lucri cum damno, occorre accertare se il vantaggio economico abbia, o meno, la stessa causa giustificativa dell'obbligazione risarcitoria. Così opinando, in sede civile è stato segnato il superamento delle precedenti soluzioni interpretative, che in un primo momento avevano suggerito di avere riguardo alla provenienza del pregiudizio e dell'incremento dallo stesso fatto generatore ed in un secondo momento avevano invece richiesto di verificare se il vantaggio ottenuto fosse conseguenza immediata e diretta del fatto illecito.

È dunque evidente che la soluzione proposta dal Giudice contabile, nel momento in cui propone l'accertamento della sussistenza di un unico fatto generatore del danno e del vantaggio, si rifà alla tesi tradizionalmente sostenuta dalla giurisprudenza civile.

Ed è proprio applicando il predetto «criterio dell'unico fatto generatore» che le Sezioni Riunite della Corte dei Conti risolvono i due casi specifici sottoposti alla loro attenzione, entrambi sostanzialmente relativi alla quantificazione del danno erariale conseguente alla illecita erogazione di emolumenti lato sensu intesi in favore di pubblici dipendenti (o, comunque, di soggetti in rapporto di servizio con la Pubblica Amministrazione).

Nel dettaglio, con la sentenza n. 24/2020 il Giudice contabile evidenzia che, nel caso controverso, sottopostogli, il vantaggio che si assume derivare allo Stato dalla riscossione dell'acconto IRPEF non è legato alla commissione del danno ma al semplice fatto che l'amministrazione ha erogato in favore del proprio dipendente un compenso che per il percettore costituisce reddito imponibile, in ciò integrandosi un'obbligazione tributaria autonoma che nasce indipendentemente dal carattere illecito della vicenda sottostante all'erogazione della spesa.

Da ciò deriva l'evidente insussistenza di una identità causale tra fatto generatore del danno e fatto generatore del vantaggio, tenendo ben presente che la nozione di fatto non deve essere ancorata al mero accadimento materiale, ma estesa alla qualificazione giuridica di quest'ultimo in termini di illiceità.

Pertanto, se è vero che il pagamento di tributi o altri oneri contributivi rappresenta l'adempimento di un'obbligazione che nasce ed esaurisce i suoi effetti nell'ambito del rapporto che, nonostante la temporanea partecipazione dell'Ente danneggiato per gli adempimenti accessori e strumentali, vede come unici soggetti coinvolti l'Amministrazione fiscale/previdenziale, da un lato, ed il soggetto passivo dall'altro, allora è altrettanto vero che in questi casi difetta l'identità (soggettiva e oggettiva) del fatto generatore che la giurisprudenza stessa individua quale presupposto indefettibile della citata compensatio lucri cum damno.

Peraltro, si evidenzia opportunamente che gli importi dovuti per ottemperare agli obblighi tributari e contributivi, in quanto compresi nell'esborso, devono ritenersi concorrenti, al pari delle altre causali, a gravare sul bilancio dell'ente danneggiato come componente negativa, ancorché la parte di spesa sostenuta per gli adempimenti fiscali e contributivi sia poi destinata a trasformarsi in un beneficio per altri soggetti pubblici, non potendo quella stessa parte essere suscettibile di valutazioni compensative ai sensi dell'art. 1, comma 1-bis, della l. n. 20/1994.

È sulla base di queste considerazioni che, con la sentenza n. 24/2020 i Giudici contabili affermano conclusivamente il seguente principio: «in ipotesi di danno erariale conseguente alla illecita erogazione di emolumenti lato sensu intesi in favore di pubblici dipendenti (o, comunque, di soggetti in rapporto di servizio con la Pubblica Amministrazione), la quantificazione deve essere effettuata al lordo delle ritenute fiscali Irpef operate a titolo di acconto sugli importi liquidati a tale titolo», con l'ulteriore precisazione che ciò avviene non in applicazione della regola dei vantaggi ma in ossequio alla sussistenza, nella fattispecie evocata, di autonome obbligazioni (C. conti, S.R., n. 24/2020).

Ad analoghe conclusioni pervengono le Sezioni Riunite con la sentenza n. 13 dell'11 ottobre 2021, laddove si afferma che, «in ipotesi di danno erariale conseguente all'omesso versamento dei compensi di cui all'art. 53, comma 7 e seguenti, del d.lgs. n. 165 del 2001 da parte di pubblici dipendenti (o, comunque, di soggetti in rapporto di servizio con la p.a. tenuti ai medesimi obblighi), la quantificazione è da effettuare al lordo delle ritenute fiscali IRPEF operate a titolo d'acconto sugli importi dovuti o delle maggiori somme eventualmente pagate per la medesima causale sul reddito imponibile» (C. conti, S.R., n. 13/2021).

Il potere di riduzione dell'addebito

Il comma 1-bis dell'art. 1 della l. n. 20/1994, oltre a prevedere l'applicazione della regola della compensatio lucri cum damno (con gli opportuni adattamenti alla materia contabile), lascia fermo il potere del Giudice contabile di ridurre l'addebito contestato dal Procuratore al soggetto convenuto nel giudizio di responsabilità.

La disposizione, quindi, non innova l'ordinamento ma ribadisce, nel generale contesto dell'azione di responsabilità amministrativo-contabile, una regola originariamente concepita con l'art. 61 dellal. n.5026/1869 (legge «Sulla amministrazione del patrimonio dello Stato e sulla contabilità generale») e successivamente confermata dall'art. 83, comma 1, del r.d. n.2440/1923 («Nuove disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità dello Stato»), dall'art. 52, comma 2, del r.d. n.1214/1934 (c.d. «T.U. delle leggi sulla Corte dei Conti») e dall'art. 19, comma 2, del d.P.R. n.3/1957 (c.d. «T.U. delle disposizioni concernenti lo Statuto degli impiegati civili dello Stato») che, con disposizioni di analogo tenore, sostanzialmente stabiliscono che la Corte del Conti, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto.

Si tratta a questo punto di comprendere il fondamento, i presupposti e le condizioni di esercizio del potere riduttivo intestato al Giudice contabile.

L'indagine relativa al fondamento dell'istituto ne rivela l'affascinante origine storica e costituisce al contempo la testimonianza dell'alto prestigio che già prima della proclamazione del Regno d'Italia del 1861 era riconosciuto alla Magistratura contabile, chiamata a giudicare in merito al danno erariale procurato dai dipendenti pubblici nello svolgimento di un'attività ad elevato rischio di responsabilità.

Ed è proprio dall'intento di ricercare un equilibrio nell'allocazione dei rischi dell'attività amministrativa che origina l'istituto, fornendo al Giudice contabile lo strumento per determinare quanto rischio dell'attività debba restare a carico dell'apparato pubblico e quanto, viceversa, a carico del dipendente, soprattutto in considerazione delle reali capacità economiche di quest'ultimo.

Come anticipato, prima della proclamazione del Regno d'Italia la necessità di ricercare il predetto punto di equilibrio venne avvertita già dal Cavour, che nel suo celebre discorso al Parlamento Subalpino del 27 dicembre 1852 evidenziò quanto fosse inopportuno introdurre, accanto alla responsabilità dei cassieri, quella solidale dei «verificatori ministeriali», al cui alto compito di responsabilità (strettamente connesso all'elevato grado del rischio di «perdita di valori» da parte dello Stato), non corrispondeva né un elevata remunerazione né una reale responsabilità nella causazione dell'eventuale danno erariale: sicché la proposta di affermare la corresponsabilità del verificatore con quella del cassiere non trovò accoglimento nella Legge di contabilità di Stato piemontese del 1853.

L'argomento venne tuttavia ripreso dopo la proclamazione del Regno d'Italia, allorquando l'originario avvertimento del Cavour ispirò la cautela usata dal Legislatore al momento di introdurre il potere equitativo del Giudice contabile al fine di porre a carico dei «verificatori» solo una parte del danno erariale conseguente alla «perdita di valori» da parte dello Stato: come si è già detto nel precedente paragrafo 3.3., è proprio attraverso questa chiave di lettura che deve essere interpretata la disposizione recata dall'art. 61 della l. n. 5026/1869 (legge «Sulla amministrazione del patrimonio dello Stato e sulla contabilità generale»), secondo cui «gli Ufficiali pubblici stipendiati dallo Stato, e specialmente quelli ai quali è commessa la ispezione e la verificazione delle casse e dei magazzini, dovranno rispondere dei valori che fossero per colpa loro perduti dallo Stato. La Corte dei conti potrà, secondo le circostanze dei casi, temperare gli effetti della presente disposizione, ponendo a carico di questi Ufficiali una parte soltanto dei valori perduti».

È dunque questa l'origine dell'istituto in commento che, come sottolineato, nasce quale potere equitativo e determinativo della condanna, appannaggio esclusivo del Giudice contabile.

Questa prerogativa della Corte dei Conti è rimasta inalterata nel testo dell'art. 83, comma 1, del r.d. n.2440/1923, dell'art. 52, comma 2, del r.d. n.1214/1934 e dell'art. 19, comma 2, del d.P.R. n.3/1957.

In nessuna delle predette disposizioni l'istituto viene battezzato come «potere di riduzione».

È stata invero la giurisprudenza a scambiare questo potere equitativo della Corte dei Conti con un potere di riduzione dell'addebito, rimesso alla benevola discrezionalità del Giudice (Maddalena): in questo modo, però, si è perduta di vista l'autenticità dell'istituto, ispirato dalla necessità di attribuire al Giudice contabile il compito di individuare un punto di equilibrio tra il rischio che può assumersi il dipendente pubblico (evidentemente in base al corrispettivo che riceve) ed il rischio proprio di impresa che deve restare a carico dell'Amministrazione.

Le ragioni di questa evoluzione (recte: involuzione) sono probabilmente legate all'intento interpretativo post-costituzionale di imbrigliare la responsabilità amministrativo-contabile nelle maglie della responsabilità penale o in quelle della responsabilità civile, dimenticando però che la predetta responsabilità amministrativo-contabile ha un'origine ed un fondamento diverso, peraltro precedenti rispetto alle attuali teorie sulla responsabilità penale e civile.

Si vuole in altri termini sostenere che, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, gli interpreti si sono affannati nel tentativo di inquadrare la responsabilità amministrativo-contabile nell'ambito di quella penale o di quella civile, così perdendo di vista, però, l'originaria autenticità che ha caratterizzato proprio la responsabilità amministrativo-contabile ben prima dell'introduzione del Codice penale del 1930 e del Codice civile del 1942.

In questa prospettiva, devono ritenersi forzati i tentativi interpretativi diretti ad accostare l'istituto in commento agli indici di valutazione della responsabilità penale (ex art. 133 c.p.) o al concorso del fatto colposo dell'Amministrazione creditrice (ex art. 1227, comma 1, c.c.).

La verità, come si è detto, è che nella specie si è al cospetto di un potere equitativo attribuito al Giudice contabile che, lungi dal costituire un istituto inspiegabile (Alessi), trova giustificazione nelle esigenze di equilibrio che hanno storicamente ispirato la genesi dello strumento giuridico in parola: sicché attualmente pare maggiormente proficuo un accostamento dell'istituto in rassegna al principio penalistico della proporzionalità della pena (implicitamente affermato dalla Costituzione nell'art. 27, comma 3, Cost. ed espressamente sancito, invece, dall'art. 49, comma 3, della Carta dei Diritti Fondamentali dell'U.E. del 2010).

Nei fatti, tuttavia, l'accennata evoluzione interpretativa che nella seconda metà del secolo scorso ha interessato l'istituto in commento (ma anche, più in generale, il sistema della responsabilità amministrativo-contabile), ha inciso sull'etichetta normativa attribuitagli per la prima volta con il comma 1-bis dell'art. 1 della l. n. 20/1994, introdotto con l'art. 3 del d.l. n. 543/1996, convertito in l. n. 639/1996, laddove appunto si parla di «potere di riduzione».

Ed è in questo contesto interpretativo e normativo, quindi, che occorre studiare i presupposti e le condizioni di esercizio del predetto potere riduttivo attribuito al Giudice contabile, per i quali si rinvia al successivo paragrafo.

I presupposti e le condizioni di esercizio del potere riduttivo

In premessa è opportuno evidenziare che, secondo la costante giurisprudenza contabile, il potere discrezionale di riduzione affidato al giudice deve essere motivato, al fine di rendere conto della sussistenza degli elementi che lo hanno determinato: a differenza del caso di suo mancato esercizio, infatti, la sua applicazione richiede adeguata e puntuale esplicitazione (essendo espressione di discrezionalità del giudice) e deve essere correlata a concludenti e precisi elementi o condizioni soggettive od oggettive che giustifichino l'accoglimento della pretesa riduzione del danno.

In aggiunta, si evidenzia che l'esercizio del potere riduttivo implica un giudizio di merito dell'intera vicenda, allo scopo di adeguare la condotta alla effettiva efficienza causale riferibile al concreto comportamento del convenuto (quale si evince non solo dalla meccanica applicazione del rapporto di causalità, ma da tutti gli altri fattori che operarono nella produzione dell'evento), nonché a concrete e specifiche considerazioni rapportate alle risultanze processuali: invero, lungi dal consistere in una «benevola e graziosa riduzione dell'addebito», l'esercizio di detto potere comporta la necessità di una determinazione concreta del quantum dovuto dal soggetto riconosciuto responsabile, mediante un procedimento di graduazione della responsabilità, sulla base di circostanze oggettive e soggettive che vincolano l'esercizio del potere, in relazione al caso concreto (C. Conti, sez. II App., n. 265/2020; C. Conti, sez. I App., n. 246/2017).

Ciò posto, va detto che il potere di riduzione può essere esercitato dal Giudice contabile d'ufficio o su richiesta della parte interessata (vale a dire il responsabile del danno erariale).

In merito ai presupposti per l'esercizio del predetto potere, poi, si rileva che la giurisprudenza contabile ne ammette opportunamente l'applicazione solo nel caso di danno erariale cagionato per colpa grave, viceversa escludendo che esso operi in ipotesi di dolo, di occultamento doloso del danno o di responsabilità penale del soggetto responsabile (giacché l'intenzionalità del comportamento, pure ove accertata in sede penale, rende irrilevante l'eventuale sussistenza delle condizioni oggettive e soggettive per l'applicazione dell'istituto).

Peraltro, i Giudici contabili negano la riduzione della condanna nei casi di appropriazione o comunque di percezione indebita di denaro pubblico, giacché in questi casi la responsabilità si concreta in un obbligo di restituzione.

In merito alle condizioni di esercizio si osserva invece che, a rigore (e considerando la genesi dell'istituto), dovrebbero rilevare solo quelle condizioni oggettive legate alla particolare complessità, delicatezza e pericolosità delle prestazioni lavorative e quelle condizioni soggettive relative alle condizioni economiche del responsabile.

In sede interpretativa, però, nel novero delle condizioni oggettive sono state incluse anche quelle correlate alla disorganizzazione dell'ufficio e alla limitatezza delle risorse umane; nell'ambito delle condizioni soggettive, invece, vengono ricondotti gli aspetti personali legati alla giovane età ed al buon curriculum del responsabile, nonché elementi come l'aver seguito la prassi dell'ufficio e il tentativo di ridurre gli effetti del fatto dannoso.

La quantificazione della riduzione

All'esito della trattazione sin qui condotta, è possibile svolgere la seguente considerazione conclusiva.

Si è visto che l'esercizio del potere di riduzione da parte del Giudice contabile consente a quest'ultimo di condannare l'agente pubblico al risarcimento di un danno erariale inferiore rispetto a quello effettivamente cagionato alla Pubblica Amministrazione.

Si tratta tuttavia di un potere esercitabile senza la preventiva definizione, certa ed oggettiva, di parametri di riferimento: sicché, in sostanza, nella prassi si registrano spesso dei sensibili scostamenti tra le richieste di condanna formulate dalla Procura e le condanne comminate dal Giudice contabile in primo e in secondo grado.

Proprio per le ragioni innanzi illustrate, in sede interpretativa è stata avvertita la necessità che il Legislatore introduca espressamente dei criteri e dei limiti per l'esercizio di questo potere (Bottino), non solo al fine di evitare che l'esercizio del predetto potere sfoci in un mero arbitrio giudiziale ma anche per garantire al soggetto pubblico di poter adeguatamente calcolare e/o prevedere le effettive conseguenze del proprio comportamento illecito, produttivo di danno erariale: sicché, in sostanza, mutuando i principi dell'ordinamento penale, pure in sede contabile è auspicabile che un apposito intervento normativo garantisca il rispetto del principio della «certezza della condanna» e la «calcolabilità delle conseguenze risarcitorie della condotta illecita».

Ciò vale a maggior ragione in quei settori particolarmente «sensibili» della Pubblica Amministrazione, dove è fondamentale garantire che l'agente pubblico, prima di porre in essere la propria condotta, percepisca correttamente la consistenza del rapporto tra rischio decisionale e responsabilità: si pensi in particolare ai settori in cui maggiormente si avverte la necessità di scongiurare la c.d. «medicina difensiva» o la c.d. «burocrazia difensiva» (o «paura della firma»).

Proprio in questa prospettiva pare che, in ambito sanitario, si sia già mosso il Legislatore con la l. n.24/2017 (c.d. Legge Gelli Bianco), con cui sono state introdotte «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie».

Ebbene, l'art. 9 della predetta legge, rubricato «Azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa», al comma 5 (per come modificato dall'art. 11, comma 1, lett. a), della l. n. 3/2018) stabilisce quanto segue: «In caso di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, ai sensi dei commi 1 e 2 dell'art. 7, o dell'esercente la professione sanitaria, ai sensi del comma 3 del medesimo art. 7, l'azione di responsabilità amministrativa, per dolo o colpa grave, nei confronti dell'esercente la professione sanitaria è esercitata dal pubblico ministero presso la Corte dei conti. Ai fini della quantificazione del danno, fermo restando quanto previsto dall'art. 1,comma 1- bis, della l. n.20/1994, e dall'art. 52, comma 2, del testo unico di cui al r.d. n. 1214/1934, si tiene conto delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, in cui l'esercente la professione sanitaria ha operato. L'importo della condanna per la responsabilità amministrativa e della surrogazione di cui all'art. 1916, primo comma, del codice civile, per singolo evento, in caso di colpa grave, non può superare una somma pari al triplo del valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo. Per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato, l'esercente la professione sanitaria, nell'ambito delle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche, non può essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti e il giudicato costituisce oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori».

È dunque evidente che il Legislatore, al fine specifico di scongiurare la c.d. «medicina difensiva» e con esclusivo riferimento ai soli casi di danno erariale cagionato con colpa grave, si è preoccupato non solo di individuare i presupposti per l'applicazione del potere riduttivo del Giudice contabile ma ne ha altresì circoscritto la misura di esercizio, stabilendo sostanzialmente che l'importo della condanna a cui è esposto il medico non può in ogni caso superare un tetto rapportato al triplo della sua retribuzione annua lorda.

Si tratta di una soluzione di sicuro favore per gli esercenti la professione sanitaria che abbiano cagionato un danno erariale con colpa grave.

La generalità della previsione normativa, però, desta perplessità nella misura in cui essa comporta che situazioni diverse vengano trattate in maniera uguale: sicché, in ipotesi, la condanna per responsabilità amministrativa disposta nei confronti del medico che con colpa grave abbia cagionato un danno erariale di elevata entità (e, in particolare, di “gran lunga” superiore alla retribuzione annua lorda del medico responsabile) potrebbe risultare sostanzialmente uguale alla condanna riportata dal medico che abbia cagionato un danno erariale di minore entità (e, in particolare, di misura “appena” superiore alla retribuzione annua lorda del medico responsabile).

Certamente, comunque, questo tipo di soluzione è preferibile alla generale deresponsabilizzazione dei fatti di danno erariale commessi con colpa grave, come risulta attualmente (e temporaneamente) previsto dall'art. 21, comma 2, del d.l. n. 76/2020.

Sicché, probabilmente, sarebbe auspicabile che i fenomeni di «medicina difensiva» (ma anche quelli di «burocrazia difensiva») vengano affrontati attraverso una soluzione che, per i casi di danno erariale cagionato con colpa grave, preveda sì una quantificazione della riduzione della condanna, ma contempli anche la possibilità per il Giudice contabile di differenziare la predetta condanna in funzione della minore o della maggiore entità del danno erariale cagionato con colpa grave: solo prevedendo delle “soglie di condanna” parametrate a certe “soglie di danno erariale”, infatti, si può evitare che situazioni diverse vengano trattate in maniera uguale.

La prescrizione del diritto al risarcimento del danno erariale

L'art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994 accoglie la disciplina della prescrizione del diritto al risarcimento del danno erariale, stabilendo che il predetto diritto si prescrive «in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta».

Va sottolineato che la previsione del suddetto termine quinquennale di prescrizione era contenuta già nell'originario testo dell'art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994, mentre è stato l'art. 3 del d.l. n. 543/1996 (convertito con modificazioni dalla l. n. 639/1996) a precisare che il diritto al risarcimento del danno erariale si prescrive «in ogni caso» in cinque anni.

Con tale disposizione, dunque, il Legislatore ha riportato ad unità il sistema normativo precedente che, da un lato, prevedeva termini quinquennali di prescrizione con riguardo a taluni settori dell'azione amministrativa (si veda, ad esempio, l'art. 58 della l. n. 142/1990 o l'art. 1, comma 7, della l. n. 423/1993); dall'altro lato, sull'assunto della natura contrattuale dell'illecito amministrativo-contabile, sanciva il termine decennale di prescrizione come regola generale (art. 19 del d.P.R. n. 3/1957).

La dottrina ha posto in rilievo che «esigenze diverse sono verosimilmente alla base della scelta legislativa del 1994: tutela della certezza dei rapporti giuridici, salvaguardia del diritto alla difesa (che si attenuerebbe a fronte di azioni intraprese dopo moltissimi anni dai fatti), rispetto della rapidità del giudizio contabile affinché abbia anche una reale funzione preventiva-dissuasiva di condotte dannose, favorire la realizzazione del credito in quanto una prescrizione decennale accentuerebbe il rischio di decesso del responsabile» (Tenore, 396).

Come si evince dal testo dell'art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994, il Legislatore ha distinto il dies a quo relativo alle ipotesi in cui il fatto dannoso è immediatamente percepito dall'Amministrazione danneggiata (laddove è la «verificazione del fatto dannoso» a determinare l'esordio della prescrizione), dal dies a quo relativo alle ipotesi in cui il danno viene dolosamente occultato dal responsabile dell'illecito erariale (nel qual caso rileva la data della scoperta del danno).

Nel prosieguo, l'art. 1 della l. n. 20/1994 individua tre ulteriori regole in materia di prescrizione del diritto al risarcimento del danno erariale.

Si tratta in particolare delle regole contenute nei commi 2–bis, 2–ter e 3 dell'art. 1.

Le prime due disposizioni, per vero, contengono prescrizioni oramai in disuso.

Con il comma 2- bis, infatti, il Legislatore si è occupato della prescrizione relativa ai fatti di danno imputabili ai responsabili delle Unità Sanitarie Locali, delle Regioni e degli Enti ospedalieri disciolti, stabilendo che in questi casi «la prescrizione si compie entro cinque anni ai sensi del comma 2 e comunque non prima del 31 dicembre 1996».

Il comma 2- ter, invece, prevede che «per i fatti verificatisi anteriormente alla data del 15 novembre 1993 e per i quali stia decorrendo un termine di prescrizione decennale, la prescrizione si compie entro il 31 dicembre 1998, ovvero nel più breve termine dato dal compiersi del decennio».

Ben più rilevante, invece, è ancora oggi la previsione contenuta nel comma 3 dell'art. 1 della l. n. 20/1994, con cui il Legislatore si è occupato del caso in cui la prescrizione del diritto al risarcimento del danno erariale sia maturata a causa di omissione o ritardo della denuncia del fatto dannoso: in tale ipotesi, secondo l'ordito normativo, la responsabilità erariale ricade sui soggetti che hanno omesso o ritardato la denuncia, con la precisazione che contro i predetti soggetti l'azione è proponibile entro cinque anni dalla data in cui la prescrizione è maturata. Per l'aprofondimento di questo tema si rinvia al successivo paragrafo 11.5.

L'exordium praescriptionis

Ai fini della individuazione del termine iniziale di decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno erariale occorre fare riferimento alle regole contenute nell'art. 2935 c.c. e nell'art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994.

In particolare, la prima delle predette disposizioni stabilisce che «la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere»; la seconda, come già si è detto, sancisce che «il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta».

Posto il descritto contesto normativo, la giurisprudenza contabile si è ripetutamente preoccupata di individuare il termine di esordio della prescrizione in relazione alle diverse fattispecie di danno erariale, specificando soprattutto la nozione di «fatto dannoso» da cui far decorrere la prescrizione.

In questo senso, è stato evidenziato che «il carattere ordinariamente non tipizzato dell'illecito dannoso ha imposto al Giudice contabile, nel declinare la regola generale ex art. 2935 c.c. (che è ovviamente applicabile anche alla prescrizione dell'azione risarcitoria erariale), importanti sforzi interpretativi per individuare nel «fatto dannoso» – che è costituito dal binomio «condotta/danno» – sia il momento dell'effettivo verificarsi del danno, che può essere temporalmente distinto dalla condotta dannosa, sia il momento di esordio della prescrizione dell'azione risarcitoria erariale, che può fisiologicamente non coincidere con la verificazione materiale del pregiudizio patrimoniale laddove al soggetto danneggiato sia impedita, per dolo o per una causa legale, la stessa conoscibilità del danno» (C. conti, III App., n. 203/2019).

È stato pertanto chiarito che «la decorrenza del termine di prescrizione deve essere ancorata al perfezionamento della fattispecie dannosa, che comprende sia l'azione illecita (omissiva o commissiva), sia l'effetto lesivo della stessa. L'azione illecita e l'effetto lesivo non sempre risultano cronologicamente coincidenti, in quanto l'effetto lesivo può verificarsi anche molto tempo dopo l'azione illecita. Solo il perfezionamento della fattispecie dannosa e, quindi, il verificarsi dell'effetto lesivo determina la decorrenza del termine quinquennale di prescrizione» (C. conti, sez. giur. Campania, n. 866/2018).

In altri termini, la regola generale in materia di prescrizione del diritto al risarcimento del danno in sede contabile è quella secondo cui il fatto dannoso, da cui far decorrere il termine di prescrizione, non si perfeziona con il comportamento tenuto in violazione delle norme nella specie applicabili (circostanza questa riferibile alla condotta), bensì si realizza con il momento in cui, verificandosi le conseguenze di quel comportamento, si produce l' eventus damni, inteso quale deminutio patrimonii, ossia come effettivo depauperamento del patrimonio pubblico (C. conti, III App., n. 195/2021).

L' exordium praescriptionis del diritto al risarcimento del danno erariale, quindi, viene individuato dalla giurisprudenza della Corte dei conti in base al criterio della percepibilità e «conoscibilità obiettiva» del danno medesimo da parte del danneggiato: secondo tale prospettiva, la prescrizione inizia a decorrere quando il danno si «esteriorizza», divenendo percepibile come modificazione patrimoniale negativa e riconoscibile come ingiusto in termini di spesa non dovuta o valore perduto (C. conti, III App., n. 207/2019; C. conti, II App., n. 182/2019; C. conti, I App., n. 365/2018).

Prima di tale momento, perciò, non è configurabile in capo al titolare del diritto una inerzia giuridicamente rilevante nel far valere il diritto stesso (C. conti, sez. giur. Puglia, n. 359/2020).

Sul punto, la stessa giurisprudenza ha pure precisato che la verifica della percepibilità e riconoscibilità del danno va condotta alla luce del parametro dell'ordinaria diligenza mostrata da parte del soggetto danneggiato: «ciò al fine di escludere il rilievo di incuria, disattenzioni o negligenze dello stesso e, più in generale, il rilievo di atteggiamenti soggettivi del danneggiato incidenti sulla conoscibilità oggettiva del danno» (C. conti, III App., n. 207/2019).

Pertanto, «ai fini dell'accertamento dell'exordium praescriptionis, la verifica dell'assolvimento dell'onere di diligenza in ordine all'ordinaria situazione di integrità del proprio patrimonio da parte del danneggiato va operata in ragione di una attenta valutazione delle circostanze di fatto che hanno caratterizzato la fattispecie di danno erariale; soltanto una condizione di ignoranza incolpevole (con esclusione di inerzia, incuria, disattenzioni o negligenze) in capo al danneggiato, infatti, sarebbe idonea a impedirgli di far valere il proprio diritto al risarcimento (art. 2935, c.c.)» (C. conti, III App., n. 20/2021).

La regola generale appena riportata subisce tuttavia una deroga di grande rilievo: ai sensi dell'art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994, infatti, nelle ipotesi di «occultamento doloso del danno» la prescrizione del diritto al risarcimento del danno decorre dal momento della sua scoperta.

Si tratta a questo punto di comprendere l'ubi consistam dell'occultamento doloso.

Innanzitutto, esso va distinto dal dolo inteso quale elemento strutturale dell'illecito contabile (C. conti, I App., n. 173/2018; C. conti, sez. giur. Piemonte, n. 7/2021).

Ciò posto, si evidenzia, che, secondo la giurisprudenza contabile, l'occultamento doloso «postula una condotta volutamente ingannatrice e fraudolenta, diretta intenzionalmente ad occultare l'esistenza del danno e che sia idonea ad ingenerare una situazione di obiettiva preclusione, da parte del creditore, circa la possibilità di fare valere il proprio diritto di credito e che sia tale, cioè, da comportare per l'amministrazione, erogatrice dei benefici, un impedimento insuperabile con gli ordinari controlli» (C. conti, I App., n. 269/2018).

L'occultamento doloso, quindi, non coincide con la mera commissione (anche dolosa) del fatto dannoso, essendo invece necessario un quid pluris, cioè una ulteriore condotta tesa ad impedire la conoscenza del fatto medesimo, al fine ultimo di ostacolare la scoperta di una lesione patrimoniale ancora in fieri ovvero di celare un danno ormai prodotto.

Ciò comporta delle immediate ricadute in tema di exordium praescriptionis.

Sul punto, infatti, la giurisprudenza contabile ha evidenziato che la scoperta del «doloso occultamento del danno» non consiste nella conoscenza o conoscibilità ipotetica di un illecito, anche a rilievo penale (da parte dell'Amministrazione danneggiata o anche del Procuratore regionale), ma presuppone che l'attività dolosa, e soprattutto il danno, siano delineati nelle loro linee essenziali, a seguito di specifiche attività investigative (C. conti, I App., n. 173/2018).

Secondo la richiamata giurisprudenza, dunque, «la prescrizione dell'azione contabile decorre da quando il fatto dannoso non viene meramente scoperto, ma da quando esso assume una sua concreta qualificazione giuridica, atta ad identificarlo come presupposto di una fattispecie dannosa pure qualificata, tanto da dare inizio ad una inchiesta amministrativa o penale, e da quando si è verificato il danno quale componente del «fatto», a nulla rilevando la mera «notizia» del fatto, e le eventuali indagini conoscitive non comportanti una conoscenza affidabile dei fatti» (C. conti, I App., n. 173/2018).

In altri termini, qualora l'autore dell'illecito erariale abbia posto in essere specifiche attività idonee ad impedire il disvelamento del fatto dannoso (occultamento doloso attivo) ovvero abbia omesso attività doverose, atte a rilevarne la sussistenza (occultamento doloso omissivo, correlato ad un obbligo giuridico di comunicare, di informare: così, C. conti, I App., n. 173/2018), la prescrizione del diritto al risarcimento del danno decorre dal momento della «conoscenza effettiva» del nocumento e non dal momento della sua «conoscibilità obiettiva» (C. conti, III App., n. 195/2021).

Da ultimo, occorre domandarsi se il regime previsto dall'art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994 in materia di occultamento doloso possa trovare applicazione anche nei casi di concorso tra condotte dolose e condotte gravemente colpose (governati dalla regola della responsabilità sussidiaria originariamente individuata dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti con la sentenza n. 4/1999).

Al riguardo la giurisprudenza contabile ha espresso indirizzi differenti.

Secondo un primo indirizzo (invero prevalente), «l'occultamento doloso del danno da parte dell'autore dell'illecito erariale chiamato in giudizio in via principale a titolo di dolo impedisce il decorso della prescrizione nei confronti di coloro che siano chiamati a rispondere del danno per colpa grave e in via sussidiaria per omissione dei dovuti controlli»; sicché, «l'addebito di responsabilità prospettato in via sussidiaria comporta che deve necessariamente avere lo stesso regime del termine di prescrizione della responsabilità principale azionata in giudizio» (C. conti, I App., n. 120/2021; C. conti, I App., n. 255/2017; C. conti, sez. giur. Puglia, n. 115/2017).

L'assunto si spiega in ragione del fatto che, «laddove si registri una confluenza di apporti qualitativamente disomogenei, ascrivibili a diversi titoli di imputazione delle condotte riferibili a più soggetti, essendo unitari e non frazionabili i connotati fattuali della vicenda, vi è una imprescindibile concatenazione tra le diverse posizioni che presuppone l'emersione del fatto dannoso.

Conseguentemente, il disvelamento di quest'ultimo rappresenta circostanza condizionante la possibilità di esercitare il diritto di credito mediante l'azione di responsabilità, tanto nei confronti dei soggetti che hanno dolosamente occultato quel fatto, tanto nei confronti di coloro che, per colpa grave, hanno in qualche misura cooperato alla produzione del nocumento.

In definitiva, in simili situazioni, anche per i soggetti cui sia ascrivibile una responsabilità di tipo sussidiario, conseguente all'imputazione della condotta a titolo di colpa grave, la possibilità di promuovere l'azione di responsabilità (o, utilizzando la terminologia di cui all'art. 2935 c.c., di far valere il diritto) è subordinata alla percepibilità del fenomeno dannoso: se questa percezione sia dolosamente ostacolata da taluno, solo quando abbia avuto luogo la scoperta inizia a decorre – in modo unitario per tutte le posizioni coinvolte – il termine di prescrizione quinquennale» (C. conti, II App., n. 304/2020).

Da ciò si ricava che, in sostanza, nel caso di concorso tra condotte dolose e condotte gravemente colpose, ai sensi dell'art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994, il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni, decorrenti dalla data della scoperta del danno che era stato dolosamente occultato.

A parere di un diverso indirizzo, invece, il fatto che il concorrente sia citato a giudizio e condannato per responsabilità sussidiaria ed a titolo di colpa grave (e non per concorso doloso nella realizzazione del danno derivante dalle condotte degli altri concorrenti) comporta, in primo luogo, che nessun occultamento doloso possa predicarsi in relazione alle condotte a lui contestate. In secondo luogo, proprio la diversità tra le condotte imputate al concorrente in via principale e quelle contestate agli altri concorrenti, impone una diversificata valutazione delle risultanze che concernono l'individuazione del termine d'esordio della prescrizione rispetto alle distinte posizioni processuali (C. conti, III App., n. 20/2021).

Segue: il dies a quo di prescrizione nel caso di illecito permanente

Il concreto atteggiarsi della prescrizione del diritto al risarcimento del danno erariale risente della distinzione, sovente operata dalla giurisprudenza, tra illecito istantaneo con effetti permanenti ed illecito permanente.

Alla diversa qualificazione dell'illecito nei suddetti termini, infatti, corrisponde un diverso esordio della decorrenza della prescrizione.

In particolare, l'illecito istantaneo con effetti permanenti «è caratterizzato, da un punto di vista naturalistico, da un'azione che unu actu perficitur, che cioè si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando peraltro permanere i suoi effetti nel tempo.

Nell'illecito permanente, invece, la condotta contra ius si protrae nel tempo, così protraendo la verificazione dell'evento in ogni momento della durata del danno e della condotta che lo produce» (C. conti, sez. giur. Sicilia, n. 142/2020).

La giurisprudenza contabile qualifica, ad esempio, come permanente il danno erariale derivante da illegittime erogazioni di indennità non dovute o da mancato utilizzo di un bene immobile idoneo all'uso programmato (fattispecie non sovrapponibile, sul piano strutturale e funzionale, a quella concernente il diverso caso di danno derivante dall'acquisto di immobile, originariamente inidoneo all'uso).

Ciò posto, «in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, secondo orientamento consolidato (Cass. S.U., n. 23763/2011, e successivamente, Cass. 9711/2013 e Cass. 13201/2013), nel caso di illecito istantaneo, caratterizzato da un'azione che si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando permanere i suoi effetti, la prescrizione comincia a decorrere con la prima manifestazione del danno» (C. conti, sez. giur. Sicilia, n. 142/2020).

Nel caso di illecito permanente, invece, la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della condotta dannosa, sicché il diritto al risarcimento sorge in modo continuo via via che il danno si produce e si verifica, e in modo continuo si prescrive se non esercitato entro cinque anni dal momento in cui si realizza (C. conti, III App., n. 79/2021).

Segue: il dies a quo di prescrizione nel caso di danno erariale indiretto

Il danno erariale indiretto rappresenta il depauperamento patrimoniale che la Pubblica Amministrazione subisce qualora, in virtù di una sentenza di condanna del giudice ordinario o del giudice amministrativo, essa debba risarcire un terzo per i danni arrecatigli da un dipendente della stessa Pubblica Amministrazione, in virtù del principio di solidarietà passiva desumibile dal combinato disposto degli artt. 28 Cost. e 22 e ss. del d.P.R. n. 3/1957.

Sull'individuazione del termine di prescrizione nel caso di danno erariale indiretto la giurisprudenza contabile ha conosciuto un'importante evoluzione.

In un primo momento, le Sezioni Riunite della Corte dei conti, con sentenza n. 3/2003/QM, hanno sostenuto che, «in ipotesi di danno c.d. indiretto l'esordio della prescrizione del diritto dell'Amministrazione al risarcimento del danno va fissato alla data in cui il debito della P.A. nei confronti del terzo è diventato certo, liquido ed esigibile in conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza di condanna dell'Amministrazione o dalla esecutività della transazione» conclusa tra terzo e P.A..

In un secondo momento, invece, con sentenza n. 14/2011/QM, le Sezioni Riunite hanno affermato il seguente principio di diritto: «il dies a quo della prescrizione dell'azione di responsabilità per il risarcimento del danno c.d. indiretto va individuato nella data di emissione del titolo di pagamento al terzo danneggiato».

La predetta pronuncia n. 14/2011/QM giunge alla riferita soluzione distinguendo il perfezionamento dell'obbligazione risarcitoria dalla concretezza ed attualità del danno (sebbene, in talune circostanze, i due aspetti possano temporalmente coincidere).

Secondo le argomentazioni svolte dalle Sezioni Riunite, infatti, l'obbligazione risarcitoria a carico della Pubblica Amministrazione si perfeziona in modo definitivo (almeno con riferimento ai mezzi ordinari di impugnazione) ed acquisisce concretezza ed attualità al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna in favore del terzo danneggiato.

Tuttavia, va escluso che l'esistenza di un'obbligazione risarcitoria integri un danno certo ed attuale per l'Amministrazione almeno fino a quando la medesima obbligazione non trovi essa stessa concreta attuazione nel soddisfacimento del terzo, cioè nella destinazione di risorse finanziare pubbliche (naturalmente finalizzate al perseguimento di un interesse pubblico) a finalità di ristoro privato, collegato ad un comportamento illecito della medesima Pubblica Amministrazione.

Secondo la pronuncia n. 14/2011/QM, dunque, prima del pagamento da parte della Pubblica Amministrazione in favore del terzo danneggiato è configurabile soltanto una situazione di danno potenziale, che proprio perché tale, può anche non attualizzarsi, a dispetto della attualità e concretezza dell'obbligazione risarcitoria.

Le Sezioni Riunite concludono pertanto nel senso che, in ossequio alla regola generale di cui all'art. 2935 c.c., la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, cioè quando il danno è divenuto certo, concreto ed attuale: l'individuazione del dies a quo della prescrizione non può essere effettuata con riguardo al momento in cui è sorto il semplice obbligo giuridico di pagare, poiché la diminuzione del patrimonio dell'ente pubblico, nella quale consiste l'evento dannoso, acquista i caratteri della concretezza, attualità ed irreversibilità solo con l'effettivo pagamento in favore del terzo danneggiato.

In linea con la sentenza delle Sezioni Riunite n. 14/2011/QM, la più recente giurisprudenza contabile ha ribadito che «in tema di danno erariale indiretto, [...], in ossequio al disposto di cui all'art. 2935 c.c. secondo il quale la prescrizione inizia a decorrere solo dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, il dies a quo della prescrizione dell'azione risarcitoria deve essere individuato nella data di emissione del titolo di pagamento al terzo danneggiato, posto che solo in tale momento si configura l'evento dannoso consistente nel depauperamento del patrimonio dell'amministrazione ed il relativo danno assume i caratteri della concretezza, attualità ed irreversibilità» (C. conti, sez. giur. Piemonte, n. 308/2019).

Segue: il dies a quo di prescrizione nel caso di danno erariale derivante da reato

Nel caso in cui il danno dolosamente occultato sia collegato a condotte suscettibili di integrare fattispecie di reato, la giurisprudenza prevalente, in ossequio al criterio della «scoperta del danno», individua il momento di esordio del termine prescrizionale nel rinvio a giudizio disposto in sede di giudizio penale, poiché è con tale atto che la notizia di danno, a seguito delle indagini, risulta delineata nelle sue componenti (C. conti, II App., n. 189/2018).

Tuttavia, ove sia stato emesso un provvedimento di custodia cautelare nell'ambito del procedimento penale, in sede interpretativa si ritiene che proprio dalla data di emissione del suddetto provvedimento decorra il dies a quo della prescrizione: al riguardo, infatti, C. conti, I App., n. 368/2017 ha affermato che, ai sensi dell'art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994, «il termine di prescrizione – nel caso in cui i comportamenti in danno integrino anche fattispecie delittuose – non decorre, necessariamente, dalla data di richiesta di rinvio a giudizio, ma anzi decorre dal diverso e antecedente momento in cui il fatto assuma una concreta qualificazione giuridica, atta ad identificarlo come presupposto di una fattispecie dannosa. Nel caso di specie, dunque, dalla data di emissione del provvedimento impositivo delle misure cautelari personali».

D'altro canto è opportuno evidenziare che, in virtù del disposto dell'art. 51, comma 1, del Codice di giustizia contabile, il Pubblico Ministero contabile «inizia l'attività istruttoria, ai fini dell'adozione delle determinazioni inerenti l'esercizio dell'azione erariale, sulla base di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge».

Omessa o ritardata denuncia di danno erariale e prescrizione

Particolare attenzione merita la fattispecie di responsabilità amministrativa contemplata dall'art. 1, comma 3, della l. n. 20/1994, secondo cui, «qualora la prescrizione del diritto al risarcimento sia maturata a causa di omissione o ritardo della denuncia del fatto, rispondono del danno erariale i soggetti che hanno omesso o ritardato la denuncia. In tali casi, l'azione è proponibile entro cinque anni dalla data in cui la prescrizione è maturata».

Tale fattispecie si riferisce al danno erariale conseguente all'estinzione, per prescrizione, del diritto al risarcimento vantato nei confronti del responsabile del danno medesimo, cagionato dalla omessa o tardiva denuncia dello stesso danno: sicché, come rilevato dalla giurisprudenza contabile, «il rigore della disciplina dettata dall'art. 1, comma 3, della l. n. 20/1994, è comprensibile e si giustifica in relazione al bilanciamento dei valori in gioco, avendo il legislatore sostanzialmente ritenuto recessiva la posizione soggettiva del denunciante rispetto al superiore interesse di tutela dell'erario (art. 81 Cost.), posizione soggettiva differenziata [...] in virtù del rapporto di servizio» (C. conti, S.R., n. 2/2017/QM).

In ogni caso, la responsabilità per omessa o ritardata denuncia del fatto dannoso ha natura subordinata: essa presuppone, infatti, l'accertamento (sia pure in via ipotetica) degli elementi costitutivi della responsabilità in capo al soggetto al quale è imputabile il fatto dannoso originario (C. conti, sez. giur. Campania, n. 866/2018).

Ciò posto, è opportuno comprendere quali siano i soggetti sui quali grava l'obbligo di denuncia.

Al riguardo la giurisprudenza contabile ha chiarito che l'obbligo di denuncia grava, quale conseguenza insita nel rapporto di servizio, su determinati soggetti individuati in base alle funzioni loro assegnate, di regola ricollegabili al principio generale di verticalizzazione dell'organizzazione amministrativa e al sistema dei controlli (C. conti, S. R., n. 2/2017/QM).

Numerosi sono gli indici normativi che, nei diversi settori dell'azione amministrativa, individuano le specifiche figure tenute all'adempimento dell'obbligo di denuncia finalizzato ad assicurare una tutela erariale ampia ed effettiva attraverso il rafforzamento degli strumenti conoscitivi a disposizione della Procura contabile.

Tra questi, riveste un ruolo primario la regola generale individuata l'art. 52, commi 1 e 2, del Codice di giustizia contabile (d.lgs. n. 174/2016), ai sensi dei quali, «1. Ferme restando le disposizioni delle singole leggi di settore in materia di denuncia del danno erariale, i responsabili delle strutture burocratiche di vertice delle amministrazioni, comunque denominate, ovvero i dirigenti o responsabili dei servizi, in relazione al settore cui sono preposti, che nell'esercizio delle loro funzioni vengano a conoscenza direttamente o a seguito di segnalazione di soggetti dipendenti, di fatti che possono dare luogo a responsabilità erariali, devono presentarne tempestiva denuncia alla procura della Corte dei conti territorialmente competente. [...] 2. Gli organi di controllo e di revisione delle pubbliche amministrazioni, i dipendenti incaricati di funzioni ispettive, ciascuno secondo le singole leggi di settore, nonché gli incaricati della liquidazione di società a partecipazione pubblica, sono tenuti a fare immediata denuncia di danno direttamente al procuratore regionale competente, informandone i responsabili delle strutture di vertice delle amministrazioni interessate [...]».

Oltre alla richiamata regola generale, vi sono ulteriori disposizioni («lasciate ferme» dal predetto art. 52 c.g.c.) che, nei diversi settori dell'Amministrazione, individuano le specifiche figure tenute all'adempimento dell'obbligo di denuncia.

Tra queste si richiama l'art. 239, comma 1, lett. e ), del d.lgs. n.267/2000 (TUEL), che pone l'obbligo di denuncia a carico dell'organo di revisione, nell'ambito della funzione di referto all'organo consiliare su gravi irregolarità di gestione; l'art. 313, comma 6, del d.lgs. n.152/2006, ai sensi del quale «nel caso di danno provocato da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, anziché ingiungere il pagamento del risarcimento per equivalente patrimoniale, invia rapporto all'Ufficio di Procura regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti competente per territorio»; l'art. 23, comma 5, della l. n.289/2002, che sancisce che «i provvedimenti di riconoscimento di debito posti in essere dalle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, sono trasmessi agli organi di controllo ed alla competente procura della Corte dei conti»; l'art. 60, comma 6, del d.lgs. n.165/2001, che impone all'Ispettorato per la funzione pubblica presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri — Dipartimento della funzione pubblica «l'obbligo, ove ne ricorrano le condizioni, di denunciare alla Procura generale della Corte dei conti le irregolarità riscontrate».

Delineati i tratti caratteristici della responsabilità per omessa o ritardata denuncia del danno erariale, occorre adesso affrontare il correlato tema della c.d. “autodenuncia” del soggetto responsabile.

Sul punto, le Sezioni Riunite della Corte dei conti, con sentenza n. 2/2017/QM, hanno affermato il seguente principio di diritto: «L'art. 1, comma 3, della l. n. 20/1994 va interpretato nel senso che l'obbligo di denuncia di un danno erariale sussiste anche nell'ipotesi in cui esso si risolva in una autodenuncia del soggetto agente».

Nella medesima pronuncia le Sezioni Riunite hanno precisato che, non avendo il Codice di giustizia contabile introdotto modifiche sostanziali al previgente regime giuridico (salvo meglio specificare i destinatari dell'obbligo e il contenuto della denuncia, sempre da collegare a fatti specifici e concreti, e salvo collocare il prudente richiamo al principio del «nemo tenetur se detegere» all'interno della disciplina delle audizioni successive all'invito a dedurre ex art. 60, comma 4, del Codice di giustizia contabile), il principio espresso in tema di autodenuncia con riferimento all'art. 1, comma 3, della l. n. 20/1994 può trovare applicazione anche in vigenza del Codice di giustizia contabile.

Con riguardo al principio del «nemo tenetur se detegere», poi, le Sezioni Riunite hanno chiarito come «anche nell'ipotesi in cui l'incolpazione istruttoria (e poi eventualmente quella successiva processuale) ricada sul denunciante, è improprio sostenere che la segnalazione acquisti ex post il connotato della autodenuncia, determinandosi nella sostanza unicamente l'utilizzabilità da parte del Requirente dei dati di fatto – specifici e concreti – contenuti nella segnalazione stessa.

Nel delineato contesto è evidente che alla denuncia non sarebbe attribuibile natura di confessione stragiudiziale, con l'efficacia probatoria nel rapporto processuale di cui all'art. 2735 c.c., non essendo individuabile l'animus confitendi, escluso dallo specifico scopo di essa, che è unicamente quello di rendere possibili le indagini del Pubblico Ministero contabile.

Né, nell'eventualità in cui il Procuratore individui dal denunciato fatto foriero del nocumento alle casse dell'erario la presunta responsabilità del denunciante, la mancanza dell'alterità soggettiva determinerebbe l'ascrizione di un medesimo fatto a doppio titolo: il fatto illecito in disamina è diverso rispetto a quello «a monte» ed è ad esso subordinato, pur sussistendo l'identità del danno in termini ontologici.

L'antigiuridicità, infatti, è collegata all'inerzia che, avendo impedito il tempestivo esercizio dell'azione di responsabilità nei confronti degli autori del danno «principale», ha determinato, al decorso della prescrizione, la mancata reintegrazione dell'erario».

Peraltro, secondo le Sezioni Riunite, deve escludersi l'animus confitendi pure nell'ipotesi in cui il denunciante risulti l'unico responsabile del fatto dannoso: sicché, egli potrà esporre le sue difese in fase istruttoria ed in corso di giudizio, restando fermo, anche in tale ipotesi, che l'individuazione degli elementi costitutivi dell'illecito sotto il profilo oggettivo e soggettivo rientra tra i compiti del Procuratore regionale.

Ciò posto, le Sezioni Riunite hanno quindi concluso nel senso che «è esigibile in capo al soggetto obbligato alla denuncia secondo l'ordinamento di settore, titolare di una posizione soggettiva differenziata, il comportamento idoneo a rendere effettiva l'azione reintegratoria dell'organo pubblico, anche nel caso in cui a lui sia causalmente riferibile il nocumento, secondo il principio di autoresponsabilità che deve improntare lo svolgimento delle pubbliche funzioni».

Gli atti interruttivi della prescrizione

La principale disciplina relativa agli atti interruttivi della prescrizione è contenuta nell'art. 66 del Codice di giustizia contabile (d.lgs. n. 174/2016), con la precisazione che, ai sensi dell'art. 2, comma 2, dell'Allegato 3 del d.lgs. n. 174/2016 (rubricato «Norme transitorie e abrogazioni»), il regime giuridico introdotto dalla richiamata disposizione si applica ai fatti commessi e alle omissioni avvenute a decorrere dalla data di entrata in vigore del Codice medesimo (7 ottobre 2016).

Più nel dettaglio, l'art. 66 c.g.c. consta di tre commi: il primo stabilisce che, «con l'invito a dedurre ai sensi dell'art. 67, comma 8, ovvero con formale atto di costituzione in mora ai sensi degli artt. 1219 e 2943 c.c., il termine quinquennale di prescrizione può essere interrotto per una sola volta»; il secondo sancisce che, «a seguito dell'interruzione di cui al comma 1, al tempo residuo per raggiungere l'ordinario termine di prescrizione quinquennale si aggiunge un periodo massimo di due anni; il termine complessivo di prescrizione non può comunque eccedere i sette anni dall'esordio dello stesso»; il terzo, infine, dispone che «il termine di prescrizione è sospeso per il periodo di durata del processo».

L'inserimento della disciplina, di natura sostanziale, degli atti interruttivi della prescrizione nell'ambito di un corpus normativo di tipo processuale (il Codice di giustizia contabile) è il risultato di una espressa scelta legislativa: l'art. 20, comma 2, lett. d), della l. n. 124/2015, infatti, ha conferito al Governo la delega ad adottare un decreto legislativo con cui «prevedere l'interruzione del termine quinquennale di prescrizione delle azioni esperibili dal pubblico ministero per una sola volta e per un periodo massimo di due anni tramite formale atto di costituzione in mora e la sospensione del termine per il periodo di durata del processo».

Come emerge dal tenore letterale del citato art. 66 la disciplina in esame deroga sensibilmente rispetto alle regole generali contemplate dal codice civile in tema di prescrizione dei diritti.

In particolare, alla stregua della disciplina recata dagli artt. 2943 e ss. c.c., il titolare del diritto può interrompere il decorso della prescrizione con più atti interruttivi reiterati nel tempo; inoltre, in conseguenza dell'interruzione del decorso della prescrizione il titolare del diritto può giovarsi di un nuovo periodo di prescrizione identico per durata a quello originario.

Ai sensi dell'art. 66 del Codice di giustizia contabile, invece, il termine quinquennale di prescrizione non può essere interrotto più di una volta; per effetto dell'intervenuta interruzione, poi, al tempo residuo per raggiungere l'ordinario termine quinquennale deve aggiungersi un ulteriore periodo massimo di due anni, con la conseguenza che il termine complessivo di prescrizione non può comunque superare i sette anni dall'esordio del termine medesimo.

Poste le descritte deroghe rispetto alle regole generali dettate dal codice civile, la dottrina ha fornito una lettura restrittiva dell'art. 66 c.g.c., ritenendo la norma applicabile soltanto agli atti interruttivi della prescrizione posti in essere dal Pubblico Ministero contabile, e non anche per quelli posti in essere dalla Pubblica Amministrazione creditrice. Secondo tale lettura, dunque, qualora «l'atto interruttivo venisse posto in essere dalla P.A., il P.M. avrebbe altri 5 anni per esercitare la sua azione» (Tenore, 398).

Sempre in questa prospettiva, poi, è stata suggerita «un'interpretazione della norma maggiormente aderente al contesto in cui è stata inserita e idonea a temperare le differenze rispetto al codice civile» (Gribaudo, 251).

Conseguentemente è stato evidenziato che il citato art. 66 è inserito nel Capo III del Titolo I della Parte II del Codice di giustizia contabile, in apertura della disciplina dedicata alla «Conclusione della fase istruttoria», ossia di quella fase intestata al Pubblico Ministero contabile nell'ambito del segmento preprocessuale dei giudizi di responsabilità erariale.

Coerentemente con la descritta collocazione sistematica, l'art. 66 c.g.c. riconosce un effetto interruttivo della prescrizione a due tipologie di atti riservati al P.M. contabile: da un lato, all'invito a dedurre di cui al successivo art. 67 c.g.c.; dall'altro lato, al formale atto di costituzione in mora exartt. 1219 e 2943 c.c..

Quanto alla prima tipologia di atto, la disposizione in commento recepisce il consolidato orientamento giurisprudenziale, espresso anche dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti, che da tempo ritiene l'invito a dedurre suscettibile di interrompere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno erariale, a condizione che esso presenti tutte le caratteristiche della costituzione in mora e l'esplicito richiamo agli artt. 1219 e 2943 c.c. (C. conti, S.R., nn. 4/2007/QM; 1/2004/QM; 6/2003/QM; 14/2000/QM; C. conti, sez. giur. Calabria, n. 978/2005).

Con riguardo, invece, al «formale atto di costituzione in mora» richiamato dall'art. 66 c.g.c. la dottrina ha rilevato che «evidentemente non può che riferirsi ad atto emesso dal pubblico ministero contabile. Del resto la previsione della legittimazione a porre in essere atti di messa in mora che siano interruttivi della prescrizione da parte del titolare ovvero della pubblica amministrazione danneggiata è rinvenibile nella disciplina generale del codice civile (art. 2943 c.c.) ed è ormai riconosciuta pacificamente dalla giurisprudenza contabile» (Gribaudo, 252).

In parte qua, dunque, il Codice di giustizia contabile pone fine ai dubbi interpretativi che, nel sistema previgente, avevano riguardato la possibilità per il P.M. contabile di ricorrere a formali atti di costituzione in mora ai sensi degli artt. 1219 e 2943 c.c.

Tuttavia, in sede interpretativa si precisa che il «limite massimo di sette anni collocato nella disciplina della fase pre-processuale dell'attività del Pubblico Ministero può trovare applicazione unicamente agli atti interruttivi ad efficacia istantanea provenienti dal P.M. contabile, [...], non potendosi pregiudicare i diritti del creditore-P.A. che voglia conseguire il ristoro del danno patito in forma sia istantanea (nel caso di costituzione in mora exartt. 1219 e 2943 c.c.) sia permanente (mediante costituzione di parte civile, fermo amministrativo, etc.)» (Tenore, 398).

In ogni caso, ai fini dell'interruzione della prescrizione, occorre che l'atto di costituzione in mora contenga chiaramente sia la dimostrazione della volontà del titolare del diritto di ottenere la realizzazione del credito sia elementi puntuali in ordine alla causa ed all'ammontare della somma richiesta (C. conti, II App., n. 189/2018).

Da ultimo, merita segnalare che un particolare effetto interruttivo della prescrizione è attribuito dalla giurisprudenza anche alla costituzione di parte civile, nel processo penale, dell'Amministrazione danneggiata: tale atto interrompe la prescrizione sino al momento del passaggio in giudicato della sentenza che definisce il processo penale (C. conti, sez. giur. Lombardia, n. 181/2020).

Al riguardo le Sezioni Riunite della Corte dei conti hanno infatti evidenziato che «gli atti giudiziali e cioè introduttivi di un giudizio e destinati a protrarsi nel tempo hanno, in ragione del disposto di cui all'art. 2945, comma 2 c.c., – oltre all'efficacia interruttiva istantanea, essendo indici della vitalità del diritto che si vuol far valere – anche un'efficacia permanente, per cui la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato, in senso sostanziale, la sentenza definitoria del processo, dato che la volontà interruttiva dell'attore è sempre attuale sino a che egli coltivi il giudizio» (C. conti, S.R., n. 8/2004/QM).

Il danno obliquo

Il quarto (ed ultimo) comma dell'art. 1 della l. n. 20/1994 disciplina il caso dei danni erariali procurati dagli amministratori e dai dipendenti pubblici ad una Amministrazione diversa da quella di appartenenza (c.d. danno obliquo), prevedendo che anche in relazione ai predetti danni sussiste la giurisdizione del Giudice contabile.

Nel dettaglio, la norma stabilisce che «La Corte dei conti giudica sulla responsabilità amministrativa degli amministratori e dipendenti pubblici anche quando il danno sia stato cagionato ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza, per i fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge».

Vi è da notare che la prima parte della richiamata disposizione è stata introdotta dal Legislatore già con la prima versione della l. n. 20/1994, mentre l'ultimo periodo (idoneo a circoscrivere il perimetro di applicazione della norma ai fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della legge) è stato aggiunto nell'originario testo normativo dall'art. 3, comma 1, lettera c-bis), del d.l. n. 543/1996, convertito con modificazioni dalla l. n. 639/1996.

All'indomani della sua introduzione, la novella legislativa del 1996 ha sollevato numerosi dubbi interpretativi, che qui sarebbe ovviamente anacronistico richiamare.

In questa sede, infatti, pare sufficiente evidenziare che, ai fini della esatta interpretazione dell'ultimo periodo del comma 4, le Sezioni Riunite della Corte dei Conti hanno affermato che occorre «far riferimento alla diversa terminologia rilevabile fra il testo della disposizione di cui al comma 2 dell'art. 1 della l. n. 20/1994 – ove a proposito della decorrenza del termine prescrizionale per l'esercizio dell'azione di responsabilità si legge che «il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso» – e il testo della disposizione di cui al comma 4 dello stesso art. 1 della legge n. 20/1994, come sostituito dall'art. 3, comma 1, lett. c-bis, della l. n. 639/1996, ove invece, con riferimento alla giurisdizione della Corte dei conti nei confronti di amministratori e dipendenti pubblici per i danni cagionati ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza, si parla di «fatti commessi»». Sulla scorta di tali considerazioni, quindi, le Sezioni Riunite hanno chiarito che «l'espressione «fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge», di cui all'art. 1, comma 4, della l. n. 20/1994, come sostituito dall'art. 3, comma 1, lett. c-bis, della l. n. 639/1996, deve essere intesa come riferita al «fatto comportamento», cioè alla condotta omissiva o commissiva da cui sia derivato il danno, e non già al «fatto dannoso», comprensivo anche dell'evento antigiuridico» (C. conti, S.R., n. 2/2001).

Passando adesso ad un esame diretto della disposizione complessivamente recata dal comma 4, si rileva che essa è risultata fondamentale per ampliare l'area della giurisdizione della Corte dei Conti.

È stata in particolare la sentenza n. 19667/2003 delle Sezioni Unite della Cassazione ad esaltare i quattro meriti attribuibili alla norma in commento.

In primo luogo, infatti, è stato evidenziato che l'art. 1, comma 4, della legge n. 20/1994 ha comportato «il superamento [...] della responsabilità contrattuale quale limite della giurisdizione della Corte dei conti», il cui ambito «investe dunque ora anche la responsabilità extracontrattuale, peraltro nei soli confronti di amministrazioni od enti pubblici diversi da quelli di appartenenza» (Cass. S.U., n. 19667/2003).

In secondo luogo, è stato rilevato che la norma ha realizzato quella interpositio legislatoris necessaria per devolvere alla Corte dei Conti la cognizione delle materie relative ai danni ai terzi procurati dai pubblici dipendenti.

In questo senso, infatti, le Sezioni Unite hanno evidenziato che, «prima di tale legge proprio questa Corte ebbe a sollevare, con due ordinanze del 13 giugno 1991 la questione di costituzionalità dell'art. 30 l. n. 335/1976, nella parte in cui correlava la responsabilità patrimoniale degli amministratori e dipendenti delle regioni alla incidenza del danno, derivante dalla violazione di obblighi di funzione o di servizio, sull'erario dell'ente regione e non anche dello Stato o di altro ente pubblico: questione che fu dichiarata infondata dalla Corte costituzionale (sentenza n. 24/1993) sul rilievo che è jus receptum che i pubblici dipendenti, per i danni cagionati nell'esercizio delle loro attribuzioni a terzi, rispondono a titolo di responsabilità extracontrattuale dinanzi al giudice ordinario, e che la devoluzione della giurisdizione alla Corte dei conti richiede l'interpositio legislatoris: ora intervenuta con e nei limiti di cui all'art. 1 ultimo comma legge n. 20 del 1994» (Cass. S.U., n. 19667/2003).

In terzo luogo, è stato definitivamente chiarito che sono attribuiti alla Corte dei conti i giudizi di responsabilità amministrativa anche nei confronti di amministratori e dipendenti di enti pubblici economici.

In particolare, a chiarimento dell'approdo ermeneutico raggiunto, le Sezioni Unite hanno sottolineato che, «data l'ampia formulazione della norma, deve ritenersi che essa faccia riferimento anche agli enti pubblici economici, oltre che a quelli non economici ed alle amministrazioni: depongono in tal senso la lettera e la ratio di essa, ed il rilievo che, allorquando il legislatore ha invece inteso introdurre delle limitazioni o delle distinzioni, lo ha fatto, come nel quasi coevo art. 1, secondo comma, del d.lgs. n. 29/1993. Se, in ordine alla giurisdizione, che continua ad essere attribuita al giudice ordinario, sulla responsabilità extracontrattuale di amministratori e dipendenti pubblici in danno di soggetti diversi da amministrazioni od enti pubblici, quel che rileva, ai sensi dell'art. 2043 c.c., è che la condotta dell'agente sia contrassegnata da dolo o colpa ed abbia prodotto un danno ingiusto ad essa causalmente collegato, altrettanto è a dirsi per la stessa responsabilità dei medesimi soggetti in danno invece di amministrazioni ed enti diversi da quelli di appartenenza, devoluta invece alla Corte dei conti. Il discrimen tra le due giurisdizioni risiede infatti unicamente nella qualità del soggetto passivo, e, pertanto, nella natura – pubblica o privata – delle risorse finanziarie di cui esso si avvale, avendo il legislatore del 1994 inteso più incisivamente tutelare il patrimonio di amministrazioni ed enti pubblici, diversi da quelli cui appartiene il soggetto agente – e così, in definitiva, l'interesse pubblico –, con l'attribuzione della relativa giurisdizione alla Corte dei conti presso la quale (a differenza di quanto invece avviene, salvo eccezioni che qui non interessano, per il giudice ordinario) è istituito il procuratore regionale abilitato a promuovere i relativi giudizi nell'interesse generale dell'ordinamento giuridico» (Cass. S.U., n. 19667/2003).

In quarto ed ultimo luogo, la disposizione in commento si è rivelata utile per rivedere i criteri di attribuzione della giurisdizione al Giudice contabile.

A tale proposito, infatti, le Sezioni Unite hanno rimarcato che «la norma innovativa di cui all'art. 1, ultimo comma, l. n. 20/1994 ha una sua evidente ricaduta anche in tema di responsabilità contrattuale: se, infatti, nella responsabilità extracontrattuale in danno di amministrazioni od enti pubblici diversi da quelli di appartenenza, le modalità della condotta (violatrice di norme tanto di diritto pubblico che di diritto privato) del soggetto agente sono giuridicamente irrilevanti quanto alla giurisdizione, a maggior ragione esse lo sono divenute allorquando il danno sia stato cagionato alla stessa amministrazione di appartenenza, non essendo pensabile che il legislatore abbia voluto tutelare in misura meno incisiva quest'ultima. Non a caso, del resto, l'art. 1 della l. n. 20/1994 fa riferimento al «comportamento» degli amministratori e dipendenti pubblici soggetti a giudizio di responsabilità, nonché al «fatto dannoso» ed al «danno»: è, dunque, l'evento verificatosi in danno di un'amministrazione pubblica il dato essenziale dal quale scaturisce la giurisdizione contabile, e non, o non più, il quadro di riferimento (diritto pubblico o privato) nel quale si colloca la condotta produttiva del danno stesso» (Cass. S.U., n. 19667/2003).

Questioni applicative

1) È davvero «esclusiva» la giurisdizione della Corte dei Conti in «tutte» le materie di contabilità pubblica?

La questione relativa alla sussistenza, o meno, di una giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti in «tutte» le materie di contabilità pubblica affonda le proprie radici nel tessuto costituzionale.

Nel precedente paragrafo 3.6., infatti, è stato evidenziato che l'art. 103, comma 2, Cost., per delimitare la giurisdizione del Giudice contabile, ha evidentemente utilizzato un criterio fondato sulle «materie», quasi a voler creare un'analogia col sistema delineato dal precedente comma dello stesso art. 103 Cost. in relazione alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo.

È la stessa impostazione della norma costituzionale, quindi, ad alimentare l'idea che quella della Corte dei Conti, complessivamente intesa, sia una giurisdizione esclusiva nelle materie della contabilità pubblica.

Tuttavia, sempre nel precedente paragrafo 3.6, è stato altresì evidenziato che la Corte costituzionale, al momento di interpretare l'art. 103, comma 2, Cost., nei suoi pronunciamenti che hanno preceduto l'introduzione dell'art. 1 della l. n. 20/1994 (e, a maggior ragione, precedenti pure all'introduzione del Codice di Giustizia Contabile) non ha mai inteso affermare la sussistenza di una giurisdizione esclusiva del Giudice contabile nelle materie di contabilità pubblica.

Anzi, dalle decisioni della Consulta trapela l'idea che la Corte dei conti sia (soltanto) il giudice naturale (ma non esclusivo) delle controversie nelle «materie» di contabilità pubblica: sicché, considerando l'affermata «tendenziale» e non assoluta generalità della giurisdizione contabile, risulterebbe in ogni caso costituzionalmente legittima l'eventuale scelta del Legislatore ordinario di devolvere talune «materie di contabilità pubblica» alla cognizione del giudice ordinario nei casi in cui risultino lesi diritti soggettivi.

Ebbene, in considerazione della tesi che la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente sostenuto prima dell'introduzione dell'art. 1 della l. n. 20/1994 e del Codice di Giustizia Contabile, si tratta adesso di accertare se l'avvento dei predetti testi normativi abbia innovato il quadro interpretativo, o meno.

La soluzione al prospettato quesito dovrà muoversi lungo tre fronti poiché, data l'attualità del tema, qui occorre sindacare non solo la posizione della Consulta (primo fronte) ma anche quella palesata dal Legislatore ordinario nell'esercizio dell'interpositio (secondo fronte) e quella delle Sezioni Unite della Cassazione (terzo fronte).

Per ciò che riguarda la posizione della Corte Costituzionale, vi è da notare che l'avvenuta interpositio legislatoris nelle materie di contabilità pubblica non ha mutato la prospettiva della Consulta, che pure di recente ha confermato il duplice assunto (già sostenuto in passato) per il quale: a) la giurisdizione della Corte dei conti nella materia della contabilità pubblica è solo tendenzialmente generale; b) la Corte dei conti non può essere ritenuta il giudice esclusivo della tutela da danni pubblici (Corte cost. n. 169/2018).

Risulta opposta la posizione del Legislatore ordinario.

Già nel precedente paragrafo 3.7. è stata evidenziata l'espressa previsione della giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti (e, in particolare, delle Sezioni Riunite in speciale composizione) nelle sei materie indicate dall'art. 11, comma 6, del Codice di Giustizia Contabile.

Sempre nel medesimo paragrafo, poi, è stato evidenziato che, sulla base dell'impostazione del predetto Codice ed in considerazione della tradizione normativa dei procedimenti giudiziali ivi contemplati, alcun dubbio sussiste in merito al fatto che alla Corte dei Conti sia devoluta la giurisdizione esclusiva nei giudizi di conto, nei giudizi di responsabilità contabile, nei giudizi aventi per oggetto l'irrogazione di sanzioni pecuniarie e nei giudizi in materia pensionistica, trattandosi di giudizi «ontologicamente» concepiti come devoluti alla cognizione esclusiva del Giudice contabile.

Dal novero delle suddette materie rimane esclusa soltanto la responsabilità amministrativa, poiché è solo per questa che, effettivamente, alla luce dell'attuale assetto normativo si pone il dubbio se sussista la giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti, o meno.

Il suddetto dubbio si ritiene possa risolversi attraverso la «Relazione illustrativa» che accede al Codice di Giustizia Contabile: poiché tale Relazione esprime la ratio legis che ha alimentato l'emanazione del Codice, essa stessa consente di cogliere la posizione del Legislatore in merito al tema adesso in rassegna.

Ebbene, la predetta «Relazione illustrativa» qualifica ripetutamente come «esclusiva» la giurisdizione del Giudice contabile in materia di responsabilità amministrativa.

Infatti, alla pag. 5 della suddetta Relazione si legge che uno dei princìpi tenuti in particolare considerazione nella redazione del Codice è stato «il principio di esclusività della giurisdizione contabile nelle materie di contabilità pubblica, costituzionalmente garantito».

Nella successiva pag. 6, inoltre, viene precisato che «La scelta del legislatore delegato è stata nel senso di [...] ribadire l'ovvio, ovvero la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa».

Sempre nella medesima pag. 6, infine, si legge che la giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti è stata affermata sulla scorta di quanto sostenuto dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 22059/2007.

Sicché, stando a quanto riferisce la predetta «Relazione illustrativa», alcun dubbio «dovrebbe» adesso sussistere in merito alla completa giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti nella materia della contabilità pubblica, pure in relazione ai giudizi di responsabilità amministrativa.

Il problema, però, è che il prevalente indirizzo delle Sezioni Unite della Cassazione sostiene attualmente un indirizzo diametralmente opposto rispetto a quello originariamente rappresentato con la sentenza n. 22059/2007 citata nella Relazione.

L'analisi della giurisprudenza delle Sezioni Unite, infatti, rivela come la suddetta sentenza del 2007 costituisca un precedente isolato, giacché oggi le stesse Sezioni Unite negano, in sostanza, che vi sia una giurisdizione esclusiva della Corte dei conti in materia di danno recato all'Amministrazione pubblica (Cass. S.U., n. 16722/2020, Cass.S.U., n. 14230/2020, Cass.S.U., n. 8634/2020, Cass.S.U. , n. 4314/2020, n. 24859/2019, Cass. S.U., n. 4883/2019).

Per tale ragione, deve in questa sede concludersi nel senso che quanto si legge nella Relazione illustrativa che accede al Codice di Giustizia Contabile risulta invero fuorviante.

A tanto va aggiunto un dato fondamentale: nella materia della responsabilità amministrativa si registra oggettivamente il diffuso fenomeno della contemporanea pendenza, in relazione al medesimo danno erariale, di un giudizio contabile e di un giudizio civile.

Si tratta del fenomeno del c.d. «doppio binario» (contabile e civile) in materia di responsabilità, oggetto del successivo paragrafo.

Soprattutto per questo motivo fattuale – e al di là, quindi, delle argomentazioni che si leggono nella Relazione illustrativa che accede al Codice di Giustizia Contabile –, attualmente risulta davvero insostenibile la teoria della giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti in «tutte» le materie di contabilità pubblica.

Alla luce delle superiori considerazioni, è evidente che adesso la predetta teoria costituisce un mero «ideale», non ancora consolidato.

2) Quali sono i caratteri e le problematiche applicative del c.d. «doppio binario»?

Come si è anticipato nel precedente paragrafo, è attualmente diffuso il fenomeno della contemporanea pendenza, in relazione al medesimo danno erariale, di un giudizio contabile (azionato dal Procuratore contabile) e di un giudizio avviato dall'Amministrazione danneggiata innanzi al Giudice civile (oppure dinanzi al Giudice penale in ragione di un'apposita costituzione di parte civile).

Il predetto fenomeno viene classificato in sede interpretativa come «doppio binario».

La «Relazione illustrativa» che accede al Codice di Giustizia Contabile spiega in maniera efficace le principali differenze che intercorrono tra i due binari della giustizia.

In questo senso si evidenzia che una prima differenza attiene alla soggettività dell'azione, laddove «l'amministrazione che agisce per il risarcimento davanti al giudice civile o, mediante costituzione di parte civile in sede penale, esprime un interesse pubblico ma settoriale, mentre il pubblico ministero contabile, anche se agisce formalmente in favore di un particolare ente, si pone però sostanzialmente come «tutore» dell'ordinamento nel suo complesso, violato dalla commissione di un illecito».

Una seconda differenza riguarda l'aspetto oggettivo delle azioni: invero, «mentre l'oggetto del giudizio di risarcimento civile è uno specifico interesse, il giudizio innanzi alla Corte dei conti attiene sempre alla più ampia categoria del danno causato alla finanza pubblica».

Alla luce dei due predetti caratteri, risulta evidente che nell'attuale sistema ordinamentale il Procuratore contabile e l'Amministrazione danneggiata hanno sia il diritto che il dovere di agire nelle competenti sedi giudiziarie a tutela del pubblico erario, senza che l'iniziativa legale intrapresa dall'uno o dall'altra possa precludere l'esercizio del predetto diritto/dovere.

Ben può accadere quindi che l'Amministrazione, a tutela del proprio patrimonio, proponga un'azione civile (o la costituzione di parte civile nell'ambito di un procedimento penale o, ancora, una transazione con il soggetto danneggiante) dopo che, per il medesimo danno erariale, il Procuratore contabile abbia introdotto un apposito giudizio innanzi alla Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti; così come può accadere il contrario, e cioè che il giudizio contabile venga intrapreso dopo che l'Amministrazione abbia già avviato innanzi al Giudice ordinario un giudizio a tutela del proprio patrimonio.

Con riferimento a quest'ultima fattispecie, peraltro, la giurisprudenza afferma pacificamente che «l'azione di responsabilità amministrativa non può trovare ostacoli al proprio pieno compimento né dall'adozione di strumenti alternativi dei quali sia titolare la pubblica amministrazione danneggiata per il recupero del danno subito, né dal concorrente ricorso ad altre giurisdizioni da parte della medesima p.a., ritenuta l'esclusività della giurisdizione esercitata dalla Corte dei conti nell'ambito delle materie di contabilità pubblica. Sicché l'unico limite è rappresentato dall'integrale recupero del danno erariale e dall'integrale ripristino patrimoniale pubblico» (C. conti, sez. II App., n. 1/2022; C. conti, sez. III App., n. 426/2021).

Pure le Sezioni Unite della Cassazione, dal canto loro, con riguardo al recupero dei finanziamenti pubblici erogati a soggetti privati da parte di AGEA in virtù del rapporto di servizio instauratosi tra le parti, hanno affermato che «l'esercizio, dinanzi alla Corte dei Conti da parte del pubblico ministero contabile, dell'azione di responsabilità amministrativa non è precluso né dall'attività di recupero dell'indebito esperita in via amministrativa dall'AGEA attraverso l'emissione dell'ingiunzione di pagamento, ai sensi dell'art. 3 della legge n. 898 del 1986, né dalla proposizione, da parte del percettore del contributo, dell'opposizione all'ingiunzione dinanzi al competente giudice ordinario. L'unico effetto deducibile in questa evenienza consiste nell'esaurimento dell'interesse ad agire del pubblico ministero contabile nel caso in cui consti che all'ingiunzione abbia fatto seguito l'effettivo e definivo recupero, da parte della P.A., delle somme indebitamente percepite dal privato, con integrale risarcimento del danno» (Cass. S.U., n. 24858/2019); ove ciò non sia avvenuto, quindi, permane l'interesse della Procura a precostituire un titolo esecutivo giudiziale che le modalità recuperatorie eventualmente intraprese da AGEA non possono originare (C. conti, sez. III App., n. 426/2021).

A fronte della oggettiva percorribilità del «doppio binario» e della (altrettanto) oggettiva assenza di una soluzione normativa che indirizzi il recupero del danno erariale lungo un'unica direzione, la «Relazione illustrativa» che accede al Codice di Giustizia Contabile sottolinea causticamente che «la scelta del legislatore delegato è stata nel senso di prendere atto della impossibilità di risolvere in norma la questione de qua, non potendo, da un lato, vietare in assoluto alle pubbliche amministrazioni di intraprendere giudizi che potrebbero, anche in relazioni agli esiti, rischiare di porsi come temerari e fonte di danno aggiuntivo, oltre che di sicuro onere in ragione dei costi di difesa; dall'altro, di ribadire l'ovvio, ovvero la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa. Per evitare che la questione, scontata nelle conclusioni, si risolvesse in un messaggio di deresponsabilizzazione delle pubbliche amministrazioni, si è quindi introdotto espressamente il principio, peraltro già sotteso a quelli di buon andamento della pubblica amministrazione stessa, di ricordare comunque la necessità di adoperarsi per «cauterizzare» da subito il vulnus prodotto dal fatto causale dannoso oggetto della denuncia, agendo in autotutela per rimuovere la causa del danno o con gli altri possibili rimedi amministrativi a disposizione».

Il riferimento va dunque all'art. 52, comma 6, c.g.c., per il quale «Resta fermo l'obbligo per la pubblica amministrazione denunciante di porre in essere tutte le iniziative necessarie a evitare l'aggravamento del danno, intervenendo ove possibile in via di autotutela o comunque adottando gli atti amministrativi necessari a evitare la continuazione dell'illecito e a determinarne la cessazione».

Esaltando la grande importanza della richiamata disposizione, la «Relazione illustrativa» sottolinea che «le pubbliche amministrazioni, oltre ad attivarsi per segnalare il fatto dannoso, non possono e non devono rimanere inerti, senza che ciò implichi, ovviamente, e salvo casi eccezionali correlati allo sviluppo di singole fattispecie, la sovrapposizione di azioni civilistiche, peraltro dispendiose sul piano economico. Da qui l'inserimento di un comma finale all'art. 52, concernente, appunto, la denuncia di danno: norma prima facie attinente ad aspetti di diritto sostanziale e come tale estranea all'ambito delineato dalla delega; in realtà direttamente ispirata alla ricordata finalità di chiarire bene gli ambiti tra giurisdizione civile e contabile, ancorché in maniera implicita, cioè ricordando alle pubbliche amministrazioni la necessarietà di non trincerarsi dietro l'avvenuto inoltro della segnalazione di danno, adoperandosi per evitarne l'aggravamento, ovvero, se possibile, rimuoverne tempestivamente la causa (pena ulteriore fonte di responsabilità erariale), ma non sovrapponendo azioni di tipo risarcitorio che per identità di oggetto, ma diversità in primis di costi finirebbero per determinare incertezze aggiuntive se non nuove fattispecie di danno».

Occorre a questo punto mettere a fuoco le principali problematiche sottese al regime del «doppio binario».

La prima questione riguarda la possibilità che il responsabile del danno erariale subisca una doppia condanna (una in sede civile e l'altra in sede contabile).

Tale questione risulta invero sopita dalla giurisprudenza nella misura in cui si afferma pacificamente che, come già innanzi anticipato, l'avvenuto recupero del danno erariale in virtù dell'efficace iniziativa intrapresa davanti ad uno dei due Giudici adìti (contabile e ordinario), esaurisce l'interesse ad agire nell'altra sede giudiziale, dove dovrà quindi essere dichiarata la cessazione della materia del contendere.

Merita precisare, tuttavia, che una eventuale transazione o conciliazione conclusa dall'Amministrazione danneggiata con il soggetto responsabile del danno erariale non preclude l'azione di responsabilità amministrativo-contabile per l'intero danno: ciò in considerazione del fatto che la materia della responsabilità amministrativa o contabile non è disponibile per l'Amministrazione interessata e che la responsabilità civile e quella amministrativo-contabile non sono sovrapponibili (ex plurimis, C. conti, sez. giur. Lombardia, n. 569/2005; C. conti, sez. giur. Piemonte, n. 246/2016), con l'ulteriore precisazione che nel giudizio contabile occorre solo tenere conto di quanto eventualmente già versato per rifondere il danno (C. conti, sez. giur. Lombardia, n. 467/2008).

La seconda questione riguarda la configurabilità di una litispendenza in caso di contemporanea pendenza di due giudizi innanzi a giudici appartenenti a due plessi giurisdizionali differenti: questo tema, come è evidente, va risolto secondo le coordinate ermeneutiche che guidano la soluzione della prima questione innanzi segnalata, dovendosi invero sottolineare che, in casi come questi, non si pone per vero alcun problema di litispendenza: infatti, l'indipendenza tra i due Giudici (contabile ed ordinario), anche quando venissero investiti di un medesimo fatto materiale, comporta una mera interferenza tra giudizi e non tra giurisdizioni.

Rimane allora una terza questione, che per vero presenta profili problematici irrisolti, attenendo al diverso regime sostanziale e processuale che caratterizza il giudizio contabile e quello civile.

Già si è detto delle differenze soggettive ed oggettive tra i due predetti giudizi, per come valorizzate dalla «Relazione illustrativa» che accede al Codice di Giustizia Contabile.

In questa sede, allora, vale la pena indicare succintamente le seguenti cinque ulteriori differenze.

In primo luogo viene in rilevo il diverso modo di avvio dei due giudizi: il giudizio civile viene avviato in virtù di una «domanda giudiziale» che l'Amministrazione abbia discrezionalmente deciso di proporre; l'azione del Procuratore contabile viene invece ritenuta obbligatoria, ancorché tale carattere non sia esplicitamente previsto da alcuna disposizione ma risulti comunque ricavabile dal sistema ordinamentale in ragione della tutela di interessi pubblici perseguita dall'azione di responsabilità amministrativo-contabile.

In secondo luogo è differente il termine prescrizionale per l'esercizio delle azioni: decennale per le azioni proposte dalla P.A. davanti al Giudice ordinario; quinquennale per le azioni erariali.

In terzo luogo rileva il fatto che solo davanti al giudice contabile sono applicabili le regole previste dall'art. 1 della l. n. 20/1994 (oggetto del presente commento) in tema di elemento soggettivo della responsabilità (con la conseguenza che le regole di recente introdotte nel comma 1 della norma non trovano assolutamente applicazione innanzi al Giudice ordinario), di riduzione dell'addebito da parte del giudice (comma 1-bis), di responsabilità degli organi collegiali e di «esimente politica» (comma 1-ter), nonché di intrasmissibilità agli eredi del debito erariale (comma 1, ultimo alinea).

In quarto luogo si evidenzia che, all'opposto, in sede contabile non trova applicazione l'art. 1225 c.c., che limita il risarcimento al c.d. «danno prevedibile» (C. conti. Sez. giur. Lombardia, n. 94/2019).

In quinto ed ultimo luogo non è di poco momento osservare che, mentre il giudizio ordinario può articolarsi in tre gradi di giudizio, il giudizio contabile può conoscerne solo due.

Tutte le segnalate differenze tra il giudizio contabile e quello civile alimentano il sospetto che, nell'attuale assetto ordinamentale, il sistema del doppio binario risulti alquanto incoerente: sicché non vi è dubbio che sussista la necessità di un apposito intervento normativo che offra soluzione a tutte le aporie ad esso collegate.

Dal canto suo, peraltro, anche la giurisprudenza contabile evidenzia che la «discrasia tra regimi sostanziali a seconda del giudice che si attivi nei confronti del dipendente che abbia cagionato (qualsiasi) danno alla P.A., appare dunque palesemente irragionevole e la giurisprudenza costituzionale e di legittimità dovrebbero auspicabilmente prenderne atto e determinarsi conseguentemente allorquando la questione verrà loro adeguatamente posta» (C. conti, Sez. giur. Lombardia, n. 94/2019).

Non vi è dubbio, infine, che la questione in oggetto debba oggi essere affrontata e risolta alla luce del fatto che soltanto i «procedimenti contabili» aperti presso le Procure contabili e/o le sentenze di condanna emesse dagli organi giurisdizionali della Corte dei Conti (e non anche i procedimenti per danno erariale pendenti innanzi ai Giudici ordinari e/o le sentenze di condanna da questi conseguentemente emesse) possono contribuire alla costruzione/integrazione di una aggiornata «Piattaforma Nazionale Integrata Anti-Frode» (c.d. PIAF-IT) ed all'implementazione del «Sistema di monitoraggio delle irregolarità e frodi sui Fondi comunitari della Corte dei Conti».

A questo riguardo, infatti, si sottolinea che, secondo le “Linee generali di indirizzo dell'azione amministrativa per l'anno 2022” emanate dal Presidente della Corte dei Conti e pubblicate in data 21/03/2022, il contenuto informativo della predetta PIAF-IT «diventa un elemento chiave anche nella attribuzione dei fondi nazionali o di quelli relativi al PNRR. Infatti, l'obiettivo è evitare che vengano assegnati fondi UE a soggetti che abbiano a carico procedimenti o condanne penali o di responsabilità amministrativo-contabile, soprattutto con riguardo alle frodi». In questo senso, viene precisato che «l'obiettivo del MEF nel costituire la PIAF è aggregare dati e informazioni provenienti da banche dati esterne già esistenti, costituire un fascicolo, una scheda per ogni potenziale beneficiario/richiedente di fondi UE che ha in corso procedimenti penali, amministrativi o contabili. Le Autorità di gestione ogni volta che dovranno verificare l'idoneità di un possibile “beneficiario/assegnatario” di fondi UE, potranno utilmente consultare la PIAF, invece di impiegare molto tempo per consultare diverse banche dati o richiedere documentazione a diversi soggetti. Queste ricerche producono una “scheda informativa” relativa al soggetto potenziale beneficiario di fondi pubblici».

3) L'eccezione di prescrizione può essere rilevata d'ufficio dal giudice?

Ai sensi dell'art. 2938 c.c., l'eccezione di prescrizione non può essere rilevata d'ufficio dal giudice; tale eccezione deve essere invece sollevata dal convenuto, a pena di decadenza, nella comparsa di costituzione e risposta ex art. 90, comma 3, del Codice di giustizia contabile.

In proposito, occorre evidenziare che già prima dell'entrata in vigore del Codice di giustizia contabile, la giurisprudenza aveva chiarito che la decadenza in cui il convenuto è incorso per non avere sollevato l'eccezione de qua nella tempestiva comparsa di risposta secondo quanto previsto dal comma 2 dell'art. 167 c.p.c. non può essere sanata dal fatto che sia stata proposta «nelle deduzioni all'invito trattandosi di fase che, notoriamente, precede l'instaurazione del giudizio che si realizza con la notifica della citazione e che oltretutto svolgendosi al di fuori di ogni controllo giudiziale non dà luogo ad alcuna forma di contraddittorio processuale» (C. conti, sez. giur. Calabria, n. 203/2014).

4) L'eccezione di interruzione della prescrizione può essere rilevata d'ufficio dal giudice?

Tale eccezione, avendo natura di eccezione in senso lato, può anche essere rilevata d'ufficio dal giudice in qualsiasi stato e grado del processo, purché la predetta rilevazione si fondi su allegazioni e prove ritualmente acquisite o acquisibili al processo medesimo (Tenore, 424 e 425).

5) È ammissibile l'eccezione di prescrizione proposta per la prima volta in appello?

L'eccezione di prescrizione proposta per la prima volta in appello è inammissibile ex art. 193 del Codice di giustizia contabile (il quale riprende il contenuto dell'art. 345, comma 2, c.p.c.).

Bibliografia

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