Codice di Procedura Civile art. 669 decies - Revoca e modifica 1Revoca e modifica 1 [I]. Salvo che sia stato proposto reclamo ai sensi dell'articolo 669-terdecies, nel corso dell'istruzione il giudice istruttore della causa di merito può, su istanza di parte, modificare o revocare con ordinanza il provvedimento cautelare, anche se emesso anteriormente alla causa, se si verificano mutamenti nelle circostanze o se si allegano fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. In tale caso, l'istante deve fornire la prova del momento in cui ne è venuto a conoscenza 2. [II]. Quando il giudizio di merito non sia iniziato o sia stato dichiarato estinto, la revoca e la modifica dell'ordinanza di accoglimento, esaurita l'eventuale fase del reclamo proposto ai sensi dell'articolo 669-terdecies, possono essere richieste al giudice che ha provveduto sull'istanza cautelare se si verificano mutamenti nelle circostanze o se si allegano fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. In tale caso l'istante deve fornire la prova del momento in cui ne è venuto a conoscenza3. [III]. Se la causa di merito è devoluta alla giurisdizione di un giudice straniero o ad arbitrato, ovvero se l'azione civile è stata esercitata [761 c.p.p.] o trasferita [751 c.p.p.] nel processo penale, i provvedimenti previsti dal presente articolo devono essere richiesti al giudice che ha emanato il provvedimento cautelare [669-quater5-6, 669-quinquies], salvo quanto disposto dall'articolo 818, primo comma 4.
[1] La sezione (comprendente gli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies ) è stata inserita dall'art. 74, comma 2, l. 26 novembre 1990, n. 353, entrata in vigore il 1° gennaio 1993. L' art. 92 stabilisce inoltre: « Ai giudizi pendenti a tale data si applicano, fino al 30 aprile 1995, le disposizioni anteriormente vigenti ». L'art. 90, comma 1, l. n. 353, cit., come sostituito dall'art. 9 d.l. 18 ottobre 1995, n. 432, conv., con modif., nella l. 20 dicembre 1995, n. 534, estende ulteriormente l'applicabilità delle disposizioni ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995. [2] L'art. 23 lett. e-bis) n. 3 d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv., con modif., in l. 14 maggio 2005, n. 80, ha sostituito, in sede di conversione, i primi due commi all'originario primo comma, con effetto dal 1° marzo 2006. Ai sensi dell'art. 2 3-quinquies d.l. n. 35, cit., le modifiche si applicano ai procedimenti instaurati successivamente al 1° marzo 2006. Il testo precedentemente in vigore, recitava: «Nel corso dell'istruzione il giudice istruttore della causa di merito può, su istanza di parte, modificare o revocare con ordinanza il provvedimento cautelare anche se emesso anteriormente alla causa se si verificano mutamenti nelle circostanze». [3] L'art. 23 lett. e-bis) n. 3 d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv., con modif., in l. 14 maggio 2005, n. 80, ha sostituito, in sede di conversione, i primi due commi all'originario primo comma, con effetto dal 1° marzo 2006. Ai sensi dell'art. 2 3-quinquies d.l. n. 35, cit., le modifiche si applicano ai procedimenti instaurati successivamente al 1° marzo 2006. Il testo precedentemente in vigore, recitava: «Nel corso dell'istruzione il giudice istruttore della causa di merito può, su istanza di parte, modificare o revocare con ordinanza il provvedimento cautelare anche se emesso anteriormente alla causa se si verificano mutamenti nelle circostanze». [4] Comma così modificato dall'art. 3, comma 47, lett. d), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 che ha aggiunto, in fine, le seguenti parole: «, salvo quanto disposto dall'articolo 818, primo comma» (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022 , il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come da ultimo modificato dall'art. 1, comma 380, lett. a), l. 29 dicembre 2022, n.197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.". InquadramentoLa revoca e la modifica dei provvedimenti cautelari sono disciplinate dall'art. 669-decies c.p.c. La disposizione ed il corpus normativo cui appartiene, segnatamente quello costituito dagli artt. 669-bis-669-quaterdecies c.p.c., sono stati introdotti nel nostro ordinamento dalla l. n. 353/1990 e dettano regole (artt. 669-bis-669-terdecies c.p.c., al cui commento si rinvia) ed àmbito di applicazione (art. 669-quaterdecies c.p.c., al cui commento si rinvia) del processo che assiste la tutela cautelare (c.d. rito cautelare uniforme), salvo che sia altrimenti disposto. L'importanza dell'intervento normativo risiede nel fatto che, per la prima volta, proprio la tutela cautelare viene finalmente governata, nella sua dimensione processuale, da regole uniformi, laddove l'originaria architettura del codice di procedura civile si caratterizzava, viceversa, per una pluralità di procedimenti costruiti ad hoc per singoli tipi di provvedimenti cautelari. A seguito dell'intervento riformatore, dunque, alla pluralità di provvedimenti ispirati alla funzione cautelare (di protezione cioè dal periculum in mora) corrisponde l'unicità della struttura processuale, con regole uniformi che governano la competenza, il rito di primo grado, le impugnazioni, la fase di esecuzione e, per l'appunto, la modifica e revoca dei provvedimenti già resi (in prime cure o in sede di impugnazione). L'art. 669-decies c.p.c. dunque, rubricato «Revoca e modifica», nel testo originale introdotto nel 1990 recitava: «Nel corso dell'istruzione il giudice istruttore della causa di merito può, su istanza di parte, modificare o revocare con ordinanza il provvedimento cautelare anche se emesso anteriormente alla causa se si verificano mutamenti nelle circostanze». La disposizione conferiva finalmente veste normativa alle riflessioni teoriche ed alla realtà applicativa, sedimentatesi prevalentemente in riferimento ai provvedimenti d'urgenza ex art. 700 c.p.c., favorevoli al superamento del preesistente dogma dell'immodificabilità e irrevocabilità del provvedimento cautelare se non da parte della sentenza che impartiva la tutela finale dichiarativa. Dogma, a sua volta, indotto dall'assenza di una disciplina generale che proprio la revocabilità/modificabilità delle cautele, solo in quanto tale (a prescindere cioè dal sopraggiungere della tutela finale) avesse ad oggetto. L'art. 669-decies c.p.c. ha poi subìto, ancora a recepimento di indicazioni emerse dalle prassi applicative, importanti modifiche con la sostituzione di due nuovi commi all'originario comma 1, con effetto dall'1° marzo 2006, da parte del d.l. n. 35/2005, convertito, con modificazioni, in l. n. 80/2005. Esso, dunque, nel suo attuale tenore, così recita: «Salvo che sia stato proposto reclamo ai sensi dell'articolo 669-terdecies, nel corso dell'istruzione il giudice istruttore della causa di merito può, su istanza di parte, modificare o revocare con ordinanza il provvedimento cautelare, anche se emesso anteriormente alla causa, se si verificano mutamenti nelle circostanze o se si allegano fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. In tale caso, l'istante deve fornire la prova del momento in cui ne è venuto a conoscenza. Quando il giudizio di merito non sia iniziato o sia stato dichiarato estinto, la revoca e la modifica dell'ordinanza di accoglimento, esaurita l'eventuale fase del reclamo proposto ai sensi dell'art. 669-terdecies, possono essere richieste al giudice che ha provveduto sull'istanza cautelare se si verificano mutamenti nelle circostanze o se si allegano fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. In tale caso l'istante deve fornire la prova del momento in cui ne è venuto a conoscenza». La revocabilità e la modificabilità dei provvedimenti cautelari puntellano in modo evidente la differenza tra la tutela giurisdizionale dichiarativa in prospettiva del giudicato sostanziale e le altre forme di tutela, tra cui proprio quella cautelare, caratterizzate dalla conclusione del relativo processo con provvedimenti di tipo ordinatorio. La contrapposizione risiede, segnatamente, proprio nella inidoneità di questi ultimi, a differenza dei primi, a definire una lite mediante la fissazione delle regole del rapporto sostanziale tra le parti idonea ad assumere la stabilità della cosa giudicata. Infatti, la revocabilità e modificabilità dei provvedimenti cautelari costituisce, per così dire, il naturale contraltare della strumentalità della tutela cautelare, dello stretto rapporto, cioè, che da sempre avvince l'efficacia del provvedimento all'instaurazione del processo di merito ed al perseguimento della tutela finale dichiarativa. Tale efficacia, infatti, almeno fino alla novella varata con d.l. n. 35/2005, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 80/2005, era naturalmente condizionata proprio alla tempestiva instaurazione del giudizio dichiarativo ed alla sua conclusione con la sentenza di merito. Come noto, la novella appena richiamata ha invece comportato la modifica degli artt. 669-octies e 669-novies c.p.c. (ai cui commenti si rinvia), consentendo – in buona sostanza – indipendentemente dall'introduzione del giudizio di merito e dalla sua conclusione con sentenza dichiarativa, la perdurante efficacia del provvedimento cautelare c.d. anticipatorio. È, quest'ultimo, quel provvedimento cautelare che assume: a) un contenuto precettivo sostanzialmente riproducente il risultato pratico dell'accoglimento della domanda attraverso l'anticipazione di effetti propri della sentenza di merito; b) un contenuto precettivo che, benché diverso (perché non immediatamente sovrapponibile) rispetto a quello della sentenza finale di accoglimento della domanda, è idoneo comunque, in ragione delle peculiarità del caso concreto, a preservarne gli effetti. L'onere di introduzione del giudizio di merito (e quello collegato di coltivare il processo fino al perseguimento della decisione finale sul diritto cautelato) è dunque ancora oggi funzionale a preservare l'efficacia dei soli provvedimenti cautelari di tipo conservativo (quelli, cioè, idonei a proteggere dai pregiudizi c.d. da infruttuosità della tutela finale: art. 669-novies, c.p.c., al cui commento si rinvia). Ne consegue che ancora più netta appare la sottolineatura del carattere precario del provvedimento cautelare, comunque esposto, sia pur entro certi limiti che si vedranno di seguito, alla perdita di efficacia per ragioni che, viceversa, se si fosse al cospetto di un atto suscettibile di passaggio in giudicato, sarebbero del tutto irrilevanti. La differenza tra provvedimenti cautelari anticipatori e conservativi, che i nova del 2005 hanno introdotto nel lessico normativo quale presupposto di specifiche conseguenze processuali (v. gli artt. 669-octies e 669-novies c.p.c., al cui commento si rinvia), appartiene da sempre alla storia della tutela cautelare e ne accompagna il faticoso delinearsi come forma autonoma di tutela, secondo linee di sviluppo che è qui d'uopo, sia pur brevemente, richiamare. Alle origini della tutela cautelare.La tutela cautelare nasce come protezione da un pericolo. Fin dagli inizi del novecento e nella vigenza del codice di procedura civile del 1865 lo scopo che la ispira è individuato nella necessità di «creare uno stato di diritto e di fatto attuale che preservi la futura esecuzione dal pericolo» (così Diana, 211). Negli anni '30 del novecento è, poi, Chiovenda a riprendere il concetto, affermando che lo scopo della cautela è sempre quello di evitare che l'attuazione di una possibile volontà di legge sia impedita o resa difficile a suo tempo da un fatto avvenuto prima del suo accertamento, cioè dal mutamento dell'attuale stato di cose (Chiovenda, 31). Ma di lì a poco sarà Calamandrei a formulare compiutamente quel concetto di periculum in mora che tanta fortuna ha riscosso presso la dottrina successiva (Calamandrei, 18). Il pericolo rilevante ai fini della concessione della cautela è – secondo l'autore – quello per ovviare al quale la tutela ordinaria si rivela troppo lenta, così che è necessario provvedere in via d'urgenza ad impedire con misure provvisorie che il danno minacciato si produca o si aggravi proprio a causa di quell'attesa. L'autore arriva, pertanto, a definire il pericolo cautelare come «quell'ulteriore danno marginale che potrebbe derivare dal ritardo del provvedimento definitivo» (la figura del danno marginale è ripresa dall'opera di Finzi, 50). Esso costituisce il vero fulcro della costruzione calamandreiana del periculum derivante dal tempo indispensabile al compimento dell'ordinario iter processuale necessario all'accertamento del diritto cautelato (in tal senso, si era già pronunciato, del resto, Carnelutti, 205; negli anni '30 del novecento, aveva affrontato l'argomento anche Micheli, 62; Montesano, 4, parla dei provvedimenti provvisori ed urgenti in relazione all'esigenza che la pratica efficacia del processo non venga in concreto frustrata; v. anche Rocco, 56 e passim). Connaturata perché indispensabile alla funzione di paralisi del periculum è perciò la natura sommaria che caratterizza la cognizione del giudice nel concedere la tutela cautelare. Anche la sommarietà della cognizione è da sempre appartenuta all'elaborazione scientifica (oltre che alla prassi applicativa) della tutela cautelare. Non potendo risalire troppo oltre nel tempo, si può partire ancora da Chiovenda che, nel contesto del riconoscimento dall'azione assicurativa come figura generale, disegna la c.d. summaria cognitio: «L'urgenza del provvedimento non permette che un esame affatto superficiale». Nella misura provvisoria è dunque necessario – prosegue l'autore – «distinguere la giustificazione attuale, cioè di fronte alle apparenze del momento, e la sua giustificazione ultima. La misura provvisoria attua una effettiva volontà di legge, ma una volontà che consiste nel garantire l'attuazione d'un'altra supposta volontà di legge: se in seguito, ad esempio, questa altra volontà è dimostrata inesistente, anche la volontà attuata colla misura provvisoria si manifesta come una volontà che non avrebbe dovuto esistere» (così Chiovenda, 237). La cognizione sommaria come corrispondente al carattere urgente del provvedimento e del processo è poi riproposta da Calamandrei, che evidenzia come i provvedimenti cautelari rappresentino la conciliazione tra opposte esigenze della giustizia: il far presto ma male, e il far bene ma tardi. Essi, infatti, mirano anzitutto a far presto, lasciando che il problema del bene e del male, cioè della giustizia intrinseca del provvedimento, sia risolto successivamente e con la necessaria ponderatezza nelle riposate forme del giudizio di cognizione ordinario (Calamandrei, 20 e passim). Così individuata la funzione specifica della tutela cautelare nei suoi rapporti con la tutela finale dichiarativa, di cui è volta ad assicurare la pratica fruttuosità, è sempre la riflessione di Calamandrei a portare all'emersione della dicotomia tra provvedimenti cautelari innovativi e conservativi. I primi consistono, segnatamente, in una decisione che produca «in via provvisoria e anticipata quegli effetti costitutivi e innovativi che potrebbero diventare, se differiti, inefficaci o inattuabili». I secondi, invece, puntano a conservare uno stato di fatto «in attesa ed allo scopo che su di esso possa il provvedimento principale esercitare i suoi effetti» (così Calamandrei, 206). La feconda riflessione su natura e fisionomia della tutela cautelare si intreccia, nella storia del pensiero giuridico a cavallo tra il codice di rito del 1865 e quello attuale, con quella sull'opportunità di introdurre un potere generale di cautela in capo al giudice civile. Emblematico di questo intreccio, ancora una volta, il pensiero di Calamandrei il quale (Calamandrei, 147), proprio in margine alla sistemazione dei provvedimenti cautelari in base al periculum che sono chiamati a scongiurare (da tardività per i provvedimenti cd. «anticipatori/innovativi» e da infruttuosità per i provvedimenti cd. «conservativi»), preconizza ed auspica la introduzione di una misura cautelare innominata in grado di superare la rigida tipicità dei provvedimenti cautelari previsti dal codice di rito del 1865. L'idea è trasfusa (Montesano 1955, 22) nel Progetto Carnelutti di codice di procedura civile (che Calamandrei stesso richiama), che all'art. 324 sanciva che, «quando dallo stato di fatto di una lite sorga ragionevole timore che i litiganti commettano violenza, ovvero che si compiano prima della decisione atti tali da poter ledere in modo grave e non facilmente e sicuramente riparabile un diritto controverso, ovvero che nel processo una delle parti si trovi in condizioni di grave inferiorità di fronte all'altra, il giudice può prendere i provvedimenti provvisori idonei ad evitare che il pericolo sia avveri. In particolare, e ferma ogni disposizione speciale della legge, può disporre il sequestro di una cosa mobile o immobile, vietare o autorizzare il compimento di certi atti, assegnare somme provvisionali, imporre cauzioni». Siamo, dunque, agli albori dell'idea di introdurre il potere generale di cautela del giudice civile, poi dal codice vigente trasfusa nell'art. 700 c.p.c., il quale oggi – come noto – enuncia che: «Fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti di urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito». La collocazione della disposizione nella sezione di chiusura del capo III del titolo I del libro IV del codice di procedura civile attuale, che la erge a chiusura del sistema, è significativa dello stretto legame che vi è tra i provvedimenti che appartengono al genus della tutela cautelare e il fine ultimo di preservare il provvedimento definitivo dai pregiudizi provocati dalla durata del processo (Andrioli, 247). Nelle intenzioni dei conditores, ad ogni modo, la disposizione, cui si ascriveva carattere conservativo in virtù del riferimento alla «assicurazione» degli effetti della sentenza finale (v. la Relazione al Re, n. 32), era relegata al ruolo marginale di copertura degli spazi che non fossero già colonizzati dai sequestri. Ciò è dimostrato dalla letteratura a ridosso del varo del codice vigente (Redenti, 94), nella quale si manifestavano forti dubbi sul successo applicativo della nuova misura generale, posto che le esigenze conservative cui si ispirava erano compiutamente assolte già dai sequestri. Le cose però, come ben noto, non andarono così. Proprio il riferimento dell'art. 700 c.p.c. alla idoneità della cautela ad «assicurare» gli effetti della decisione ne consentiva infatti una interpretazione non in senso necessariamente conservativo. In più, atipicità e residualità hanno finito con il favorire, invece che limitare, l'impiego della misura, la cui versatilità in termini possibili contenuti precettivi ne ha fatto, con il tempo, la più rilevante manifestazione concreta di tutela cautelare non solo e non tanto conservativa quanto invece «anticipatoria» proprio nel senso a suo tempo illustrato da Calamadrei (Delle Donne, 722). Segue. L'art. 700 c.p.c. e l'effettività della tutela . La tutela innominata apprestata dall'art. 700 c.p.c. mostra appieno le sue enormi potenzialità divenendo strumento di effettività della tutela finale ex art. 24 Cost. nella lezione offerta negli anni dalla Corte Costituzionale. Infatti, la Consulta (Corte cost., n. 190/1985), riannodando i fili della storia, arriva progressivamente ad affermare che tutte le volte in cui un diritto assistito da fumus boni iuris sia minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile nel tempo occorrente a farlo valere in via ordinaria, al giudice deve essere riconosciuto il potere di adottare i provvedimenti che appaiano, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito. La Corte, cioè, richiamandosi al principio che la durata del processo non deve andare a danno della parte che ha ragione, scorge nella tutela ex art. 700 c.p.c. l'espressione di una «direttiva di razionalità tutelata dall'art. 3, comma 1 e, in subiecta materia, dall'art. 113 Cost.». Emerge, dunque, anche nella giurisprudenza l'idea, concepita dalla dottrina sopra richiamata, dello stretto legame tra effettività della tutela giurisdizionale e tutela cautelare, entrambe ricondotte alla comune matrice dell'art. 24 Cost. L'aggancio della tutela d'urgenza ai valori costituzionali aggregantisi intorno ad una tutela «effettiva» viene ribadito ancora dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 249/1996; Corte cost., n. 427/1999), per la quale «la disponibilità di misure cautelari è strumentale all'effettività della tutela giurisdizionale e costituisce espressione del principio per cui la durata del processo non deve andare a danno della parte che ha ragione, in applicazione dell'art. 24 Cost.». Segue. Le potenzialità applicative dell'art. 700 c.p.c. La valorizzazione costituzionale della tutela urgente innominata catalizza (ed al contempo si intreccia con) l'evoluzione della tradizionale concezione dell'irreparabilità del pregiudizio a cui presidio l'art. 700 c.p.c. consente appunto l'adozione dei provvedimenti d'urgenza più opportuni. Nel clima culturale che vide l'introduzione della norma nel codice di rito del 1940, i diritti di obbligazione si consideravano, infatti, in linea di principio, estranei allo spettro di operatività del provvedimento d'urgenza, in quanto asseritamente insuscettibili di essere pregiudicati, e men che mai in modo irreparabile, nelle more del giudizio. L'irreparabilità del pregiudizio, percepita come «permanente offesa della propria situazione giuridica durante il processo», più precisamente come «godimento da parte del convenuto di una situazione che è incompatibile, perché ne costituisce la negazione, con la situazione giuridica, col diritto del ricorrente» (Satta 1953, 132), si riteneva cioè predicabile solo per i diritti assoluti. La giurisprudenza costituzionale di cui si è dato conto supra mostra invece che non è possibile escludere a priori la tutela cautelare per classi di situazioni soggettive, essendo piuttosto necessario valutare l'esistenza di un pregiudizio nel caso specifico. Piena si mostra, allora, la sintonia con quella dottrina favorevole a riconoscere la utilizzabilità della tutela d'urgenza ex art. 700 c.p.c. non solo a favore di diritti assoluti a contenuto e funzione non patrimoniale (quelli della personalità, delle libertà costituzionali, ecc.), ma anche di diritti relativi a contenuto patrimoniale e funzione non patrimoniale, come il diritto alla retribuzione, cui è collegata la possibilità di una esistenza libera e dignitosa per il lavoratore e la sua famiglia, ed in qualche caso anche di diritti di credito in quanto tali. Ciò sul presupposto che l'irreparabilità vada valutata come esistenza di un obiettivo scarto qualitativo tra il risultato ottenibile all'esito del processo ordinario e quello che si sarebbe ottenuto con l'adempimento volontario (Andrioli, 251; Proto Pisani 1982, 380, il quale ha contribuito, agli inizi degli anni ‘80 del novecento, all'allargamento dell'angolo visuale da cui guardare al pregiudizio necessario a far scattare la tutela urgente; in particolare, l'autore ha posto l'attenzione anche sul titolare del diritto minacciato, affermando che il pregiudizio ricorra non solo nei casi di diritti a contenuto e funzione non patrimoniale, appunto, ma altresì nei casi di diritti a contenuto patrimoniale e funzione non patrimoniale e altresì di diritti a contenuto e funzione patrimoniale, quando sussista uno scarto tra danno subito e danno risarcito, anche per questioni temporali connesse alla determinazione del quantum, come nei casi di concorrenza sleale, ove può rivelarsi impossibile quantificare il danno stesso). Segue. Art. 700 c.p.c. e tutela cautelare «anticipatoria» Sulle basi ricevute, la giurisprudenza di merito forgia progressivamente i provvedimenti anticipatori attraverso la lente privilegiata dell'art. 700 c.p.c. In particolare, la tutela cautelare anticipatoria nota alla prassi applicativa si mostra, figlia della sua stessa storia, funzionale ad impartire una norma agendi tratta dal diritto sostanziale, che si impone direttamente all'obbligato prima ed a prescindere dall'accertamento con efficacia di giudicato delle relazioni intercorrenti con la controparte ed è tale da paralizzare il periculum che minaccia l'interesse materiale del ricorrente (Delle Donne, 722). Nella giurisprudenza di merito, in particolare, il periculum è visto quale relazione tra eventi. Esso assume, dunque, consistenza materiale niente affatto riconducibile alla durata, in sé, del giudizio di merito. La prassi considera infatti il periculum in mora come probabilità di concreta lesione dell'interesse del ricorrente sotteso al diritto vantato, a prescindere dal dato formale della prognosi sulla durata del processo dichiarativo. Fatto generatore di tale pericolo è quasi sempre l'inadempimento di obblighi derivanti da un rapporto giuridico con il beneficiario della cautela. Sono noti, ad esempio, i casi in cui è ordinato l'adempimento urgente di un credito in denaro sul presupposto che il protrarsi dell'insoddisfazione comporterebbe il fallimento del ricorrente o sue serie difficoltà nel far fronte alle proprie obbligazioni con terzi (v., ad esempio, Pret. Roma 14 febbraio 1983; Pret. Roma 31 luglio 1986). Stessa logica ispira l'ordine di non sospendere la somministrazione di gas ed energia elettrica per impedire la chiusura dell'impresa del somministrato, con conseguente pregiudizio irreparabile alla produzione (Pret. Caltagirone 10 marzo 1993). In queste fattispecie, il perpetuarsi del comportamento inadempiente, infatti, genera per il giudice, una lesione dell'interesse del beneficiario (rispettivamente il creditore ed il somministrato titolari di una impresa), che a sua volta si pone come fonte di una serie di pregiudizi non riparabili né a seguito della pronuncia definitiva del giudice, né di un eventuale adempimento volontario successivo ad essa né maiori causa con l'esecuzione forzata della sentenza (Trib. Milano 14 agosto 1997). La tutela d'urgenza è praticata anche nell'àmbito dell'affidamento dei minori. Si è, infatti, deciso che il giudice può, con provvedimento d'urgenza, anche prima dell'instaurazione del contradditorio, statuire sull'affidamento di un minore al fine di assicurargli tutela piena e immediata (Trib. Roma 4 dicembre 2017, in fattispecie in cui è stato disposto l'affido esclusivo alla madre di una minore, figlia di genitori non coniugati, il cui padre, del tutto estraneo alla sua vita, viveva da anni all'estero ed al quale per questo non era stato possibile notificare tempestivamente il ricorso introduttivo). L'emersione dei profili più squisitamente materiali del periculum caratterizza anche molte pronunce a tutela del diritto alla salute e delle varie posizioni afferenti allo status di prestatore di lavoro. Quanto al primo aspetto (diritto alla salute), possono citarsi le pronunce che ordinano ad una A.S.L. esborsi in danaro per consentire al beneficiario di sottoporsi ad intervento chirurgico o ad altro trattamento terapeutico anche in attesa dell'accertamento se quel trattamento è a carico del Servizio sanitario nazionale: v., a titolo esemplificativo, Trib. Napoli 5 marzo 1986; Pret. Lecce 4 febbraio 1998, in riferimento al c.d. caso Di Bella; Pret. Maglie 10 dicembre 1997 e Pret. Prato 26 gennaio 1998; Pret. Catanzaro 26 gennaio 1998 e Pret. Macerata 12 gennaio 1998, sempre in riferimento alla somministrazione di somatostatina per la c.d. cura Di Bella; Pret. Modica 13 agosto 1990, con cui è stato autorizzato un trattamento sanitario ad un paziente che rifiutava immotivatamente di sottoporvisi; Pret. Torino 25 marzo 1991, in un caso di paziente che chiedeva di farsi operare all'estero) o che ordinano al responsabile di lesioni gravi o gravissime esborsi di denaro in favore della vittima, per consentire a quest'ultima di attendere, medio tempore, alle proprie esigenze di vita (Trib. Milano 23 dicembre 1993). La tutela d'urgenza è stata, poi, concessa (Trib. Milano 20 maggio 2006) in termini di ordine di immediata attivazione della fornitura di energia elettrica e di gas a favore di persona occupante abusiva di immobile di edilizia pubblica, in ragione della presenza di un minore di soli cinque mesi e dell'assoluta preminenza dell'esigenza di salvaguardare le condizioni minimali di una sopravvivenza decorosa e dignitosa. Sempre in via urgente, è stato disposto, inoltre, l'impianto intrauterino di embrioni crioconservati su istanza della moglie rimasta vedova dopo la formazione degli embrioni stessi (Trib. Bologna 25 agosto 2018). Il danno alla salute assume particolare rilievo anche nella giurisprudenza chiamata a far fronte, in via urgente, al pregiudizio nascente da immissioni moleste (Trib. Venezia 27 luglio 2007, in fattispecie in cui si lamentava la presenza costante di immissioni di odori e suoni gravemente disturbanti per l'equilibrio psico-fisico del ricorrente). Acquisita la prova di tali immissioni e delle conseguenze patite da parte del ricorrente in termini di alterazione del sonno, lieve labilità emotiva, stress, esasperazione, riduzione della capacità di concentrazione, il giudicante rileva come «non è possibile revocare in dubbio che, pur non essendo ipotizzabile un danno alla salute attuale, la prolungata esposizione alle plurime fonti disturbanti esponga ad un pregiudizio, oltre che imminente, irreparabile (non foss'altro per il carattere ampiamente non compensativo del risarcimento per equivalente pecuniario al cospetto di un interesse non patrimoniale) il diritto del (...) a poter vivere all'interno della sua abitazione». Ne consegue la piena inibitoria, pronunciata nei confronti di parte resistente, alla continuazione delle immissioni moleste così come provate in giudizio. Quanto al secondo aspetto, il provvedimento di reintegra è stato concesso anche a prescindere dalla valutazione dell'aspetto retributivo, e quindi dello stato dibisogno del lavoratore, ma a tutela della sua dignità professionale, cioè dell'interesse ad utilizzare il suo bagaglio di conoscenze operando concretamente nel mondo del lavoro (Pret. Parma 11 febbraio 1992; Trib. Roma 14 ottobre 2003). In queste ipotesi, si è cioè riconosciuta l'esistenza del periculum in mora, ad esempio, nel probabile aggravamento delle condizioni di depressione del lavoratore a causa dell'esautoramento dalle mansioni dirigenziali prima espletate (Trib. Roma 14 ottobre 2003). Il carattere irreparabile del periculum emerge qui come insieme dei riflessi negativi proiettati su tutta la sfera (patrimoniale e non) del soggetto leso dall'inadempimento, e che solo mediatamente sono riconducibili ad esso. La stessa logica si riscontra anche nelle ipotesi in cui il pregiudizio appare rimediabile, attraverso la tutela ordinaria, solo per il futuro, mentre l'attuale interesse del ricorrente è medio tempore irrimediabilmente frustrato o, al più, valutato sotto il profilo risarcitorio (v., in tal senso, Trib. Avezzano 18 giugno 2004, il quale ha ordinato in via urgente l'immediato rilascio dei locali dell'azienda e la cessazione di ogni atto di ingerenza nelle attività di amministrazione e gestione della società, nei confronti del socio accomandatario che aveva assunto comportamenti tali da determinare un pregiudizio imminente ed irreparabile per l'immagine, gli interessi ed il corretto funzionamento della società stessa). Particolare attenzione al carattere materiale del periculum ispira anche quella giurisprudenza di merito (Trib. Foggia 28 luglio 2018), per la quale è ammissibile il ricorso alla tutela d'urgenza ex art. 700 c.p.c. per ottenere la riduzione dell'ipoteca giudiziale, in quanto il disposto di cui all'art. 2884 c.c. trova applicazione nella sola ipotesi della cancellazione, dalla quale la prima si differenzia per essere una mera rettifica tendente a correggere l'eccedenza dell'iscrizione. Ritiene questa giurisprudenza, più in particolare, che l'art. 2884 c.c., laddove stabilisce che «la cancellazione deve essere eseguita dal conservatore, quando ordinata con sentenza passata in giudicato o con altro provvedimento definitivo emesso dalle autorità competenti», non può trovare applicazione anche nell'ipotesi di riduzione dell'ipoteca, poiché la stessa non equivale ad una cancellazione, bensì ad una rettifica volta, appunto, a correggere l'eccedenza dell'iscrizione. L'equiparazione tra riduzione e cancellazione ipotecaria non è allora predicabile, secondo questa lettura, data la differenza sul piano della causa petendi che, nel primo caso, è inverata dalla contestazione del credito o del diritto alla garanzia, e nel secondo caso dalla asserita sproporzione tra il valore dei beni oggetto di iscrizione ipotecaria e l'importo del credito da garantire. E, del resto, aderire all'opposta opzione ermeneutica condurrebbe a ritenere che il legislatore, nel disciplinare la riduzione ipotecaria, non abbia ritenuto necessario un provvedimento definitivo, il che non è sostenibile. Questa lettura richiama i principi espressi dalla Consulta (Corte cost., n. 271/2017), la quale ha statuito che qualora sia richiesta in via giudiziale la riduzione d'ipoteca per restrizione dei beni sui quali è avvenuta l'originaria iscrizione, è ammissibile il ricorso alla tutela in via d'urgenza. Ciò in quanto tale riduzione – per un verso – non integra un'ipotesi di cancellazione parziale, essendo per converso riconducibile ad una vicenda modificativa del diritto reale di garanzia, e – per altro verso – esige la mera pronuncia con il provvedimento conclusivo del giudizio instaurato, che non necessariamente deve assumere la forma della sentenza, ben potendo identificarsi con l'ordinanza che accorda un provvedimento cautelare anticipatorio. Va, poi, ricordata quella recente giurisprudenza (Trib. Rimini 25 maggio 2020), per la quale sussistono i presupposti per concedere, con decreto inaudita altera parte, la tutela d'urgenza invocata dall'affittuario di un'azienda alberghiera rimasta inattiva a causa dell'emergenza epidemiologica da Covid-19 e, per l'effetto, ordinare alla controparte di non mettere all'incasso gli assegni bancari postdatati o privi di data, che erano stati rilasciati a garanzia del pagamento del canone (nello stesso senso, v. anche Trib. Bologna 12 maggio 2020). I provvedimenti cautelari «anticipatori», per come si mostrano nella prassi applicativa soprattutto della tutela d'urgenza, si caratterizzano perciò come idonei a dettare una regula di diritto sostanziale alle parti che può corrispondere, in tutto o in parte, a quella (che presumibilmente sarà) impartita dal provvedimento dichiarativo che impartisce la tutela finale. La realtà applicativa mostra come, soprattutto attraverso i provvedimenti ex art. 700 c.p.c., siano «anticipati» contenuti in tutto corrispondenti a quelli della tutela finale, come accade ove siano richieste cautele d'urgenza autorizzative (v., ad esempio, Trib. Roma 17 febbraio 2000, il quale, in riferimento alla tematica della c.d. maternità surrogata, dichiara la liceità e meritevolezza di un accordo tra moglie, marito ed un medico, avente ad oggetto il trasferimento di embrioni crio-conservati per l'impianto nell'utero di donna consenziente; e ancora Trib. Roma 10 febbraio 1999, il quale dichiara in via urgente l'infondatezza di una notizia lesiva dell'immagine di un imprenditore ed autorizza la pubblicizzazione di tale provvedimento; o ancora Trib. Foggia 28 luglio 2018, cit., il quale ha ritenuto ammissibile ordinare in via urgente la riduzione dell'ipoteca giudiziale). Struttura «anticipatoria» assumono, tuttavia, anche quelle cautele di contenuto non corrispondente alla regola di diritto sostanziale applicabile al rapporto tra le parti, ma addirittura diverso. È il caso, emblematico, dell'ordine urgente di pagamento reso nei confronti di una A.S.L., al fine di consentire al richiedente di sottoporsi a trattamento terapeutico in attesa dell'accertamento che il trattamento stesso è a carico del servizio sanitario nazionale (v. la giurisprudenza citata in tema di diritto alla salute). In altre ipotesi, poi, il contenuto della cautela si presenta quale contemperamento degli opposti interessi perché impone, ad esempio, limiti o correttivi all'esercizio della situazione giuridica sostanziale contesa oppure una regolamentazione provvisoria della situazione litigiosa, diversa da quella di diritto sostanziale (v., ad esempio, Pret. Roma 11 giugno 1984, che ha ordinato ex art. 700 c.p.c. la continuazione, fino ad esaurimento delle scorte, di un rapporto di franchising in relazione alla produzione e distribuzione di prodotti tra società italiana ed altra società licenziataria del marchio, che si trovava in liquidazione; Pret. Roma 15 dicembre 1982 e Pret. Roma 14 febbraio 1983, che hanno ordinato al debitore il pagamento solo di una parte del credito, cioè nei limiti necessari ad evitare il pregiudizio irreparabile lamentato dal creditore). La «anticipatorietà» cautelare quale risposta ai-bisogni di tutela urgente emersi nella pratica dunque, lungi dal caratterizzarsi sempre come (ri)produzione anticipata della regula sostanziale (che sarà resa in sede di tutela dichiarativa), esibisce spesso un contenuto altro, che nondimeno: a) ha sempre la consistenza di una norma agendi tratta dal diritto sostanziale, che si impone direttamente all'obbligato prima ed a prescindere dall'accertamento con efficacia di giudicato delle relazioni intercorrenti con la controparte; b) è tale da paralizzare il periculum che minaccia l'interesse materiale del ricorrente. Segue. La c.d. «strumentalità attenuata» La particolare evoluzione che il periculum ha progressivamente subito nella prassi applicativa, e che lo ha visto allontanarsi dalla durata del giudizio di merito per assurgere invece a relazione tra eventi materiali, è all'origine della svolta normativa che ha codificato il regime della c.d. «strumentalità attenuata». Com'è noto, infatti, oggi l'art. 669-octies, comma 6, c.p.c., letto in combinato disposto con l'art. 669-novies c.p.c. (al cui commento si rinvia), prevede che la mancata instaurazione del giudizio di merito nei termini perentori prescritti o la sua successiva estinzione non comportano l'inefficacia dei provvedimenti d'urgenza e di quelli idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, nonché dei provvedimenti resi su denuncia di nuova opera o danno temuto. Ratio della previsione, che si deve al d.l. n. 35/2005, convertito, con modificazioni, in l. n. 80/2005 e che per la prima volta emancipa il provvedimento cautelare anticipatorio dal giudizio sull'esistenza del diritto cautelato, è quella di perseguire l'economia processuale. Il legislatore del 2005 ha inteso, infatti, evitare il ricorso al giudizio dichiarativo in prospettiva del giudicato tutte le volte in cui il risultato ottenuto con la cautela appaia già pienamente satisfattivo dell'interesse delle parti, secondo una valutazione di opportunità che esse stesse sono chiamate a compiere. Il rapporto tra prassi applicativa della tutela d'urgenza anticipatoria (v. supra) e legislatore è, dunque, circolare, perché quest'ultimo ha blindato un risultato cui la giurisprudenza era addivenuta da tempo, sollevando il sottile velo che ancora legava il periculum alla semplice durata del giudizio di merito, invece di radicarlo nella realtà sostanziale che fa da substrato al diritto (Delle Donne, 731). La differenza tra provvedimenti cautelari anticipatori e conservativi ha dunque oggi precise ricadute sul regime di stabilità del provvedimento cautelare, e quindi influenza in modo significativo, come si vedrà, anche la disciplina della revoca/modifica disegnata dall'art. 669-decies c.p.c. in commento. Alle origini dell'attuale regime della modifica/revoca.La tutela urgente innominata dell'art. 700 c.p.c. si è mostrata determinante, nella realtà applicativa come nelle riflessioni teoriche, anche quale banco di prova della tenuta del regime di stabilità del provvedimento cautelare, dato che nella disciplina originaria del codice di rito vigente non esisteva, come rilevato in apertura, una regola che ne sancisse, in generale, la revocabilità /modificabilità. Ne era conferma l'esistenza di una serie di ipotesi in cui i provvedimenti cautelari, previsti da normative settoriali, erano sì concepiti come revocabili, ma solo all'esito del giudizio di merito, cioè attraverso la sentenza dichiarativa che ne avesse ribaltato o modificato il contenuto precettivo. In dottrina si erano infatti individuate (Merlin 1990, 239; Carratta 2013, 332) varie ipotesi – tra cui quella dei provvedimenti cautelari in materia di violazione di brevetti per invenzioni industriali e marchi di impresa, e quella della provvisoria reintegrazione dei lavoratori – in cui la revoca dei provvedimenti cautelari era sempre conseguente al contenuto della decisione della causa nel merito che dichiarava l'inesistenza della posizione giuridica cautelata. Ne usciva perciò confermata l'assenza di una disciplina generale che sancisse la revocabilità dei provvedimenti cautelari solo in quanto tale. La lacuna, nella normativa antecedente alla l. n. 353/1990, relativa alla revocabilità/modificabilità dei provvedimenti cautelari, non era smentita neppure dal disposto dell'art. 684 c.p.c., a mente del quale «Il debitore può ottenere dal giudice istruttore, con ordinanza non impugnabile, la revoca del sequestro conservativo, prestando idonea cauzione per l'ammontare del credito che ha dato causa al sequestro e per le spese, in ragione del valore delle cose sequestrate». La disposizione, malgrado l'espresso riferimento alla revoca, non codifica in realtà una revoca in senso tecnico bensì una sostituzione dell'oggetto del sequestro, da effettuare mediante versamento di una cauzione commisurata al credito che ha dato causa al sequestro e alle spese, «in ragione del valore delle cose sequestrate», con una formulazione avente forti punti di somiglianza con la disciplina della conversione del pignoramento (v., amplius, su questo profilo, il commento all'art. 669-undecies c.p.c.). A colmare la lacuna normativa, si accinse ben presto la giurisprudenza di merito attraverso una coraggiosa interpretazione evolutiva dell'art. 177, comma 2, c.p.c. Com'è noto, la disposizione prevede che «le ordinanze possono sempre essere revocate e modificate dal giudice che le ha pronunciate». Sicché, dato che la forma di cui il provvedimento d'urgenza si ammanta è quella dell'ordinanza, e ad emetterla è il giudice istruttore della causa di merito, apparve plausibile supporre che il regime di generale revocabilità previsto proprio dall'art. 177, comma 2, c.p.c. per le ordinanze rese da quest'ultimo potesse estendersi anche alle ordinanze emesse in via d'urgenza e persino ai provvedimenti resi ante causam dal pretore (v., ad esempio, in tal senso Trib. Napoli 1° dicembre 1984; Trib. Grosseto 17 gennaio 1984; Trib. Roma 1° aprile 1983; Pret. Milano 30 aprile 1981; Pret. Siracusa 21 ottobre 1981). Secondo questo orientamento, insomma, era sostenibile che il regime delle ordinanze cautelari fosse in parte qua sovrapponibile a quello delle ordinanze istruttorie. Anche le ordinanze cautelari dovevano, perciò, proprio al pari di quelle istruttorie, poter essere modificate o revocate se il giudice le avesse ritenute non conformi alla finalità di assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito. Gli argomenti fondati sull'interpretazione estensiva dell'art. 177, comma 2, c.p.c. non si mostravano, tuttavia, a perfetta tenuta, almeno nella visione di chi faceva rilevare come vi fosse una grossa differenza tra ordinanze istruttorie ed ordinanze di natura cautelare. La revocabilità delle prime, infatti, era pur sempre da collocare nel più generale contesto del potere del collegio di revocare e modificare le ordinanze rese dal giudice istruttore e trovava la sua ratio nell'essere tali provvedimenti solo funzionali a far progredire il processo (natura istruttoria). Le ordinanze cautelari rese ex art. 700 c.p.c., viceversa, esprimevano una forma di tutela giurisdizionale, comunque, autonoma da quella dichiarativa (cui pure accedevano) e, perciò, sottoposta al principio della domanda. Risultava, quindi, abbastanza arduo immaginarne una revoca/modifica in assenza di specifica domanda di parte in tal senso. Ed erano queste ragioni a ispirare un altro filone della giurisprudenza. Si era, ad esempio, deciso (Trib. Milano 1° febbraio 1981) che non era possibile una revoca o modifica del provvedimento cautelare al di fuori dei casi in cui la sentenza finale sul merito ne avesse ribaltato o modificato il contenuto precettivo. Per parte sua, anche la Cassazione aveva sposato la tesi dell'irrevocabilità dei provvedimenti cautelari emessi ante causam in quanto solo quelli in corso di causa avrebbero potuto essere fisiologicamente oggetto dei poteri di revoca da parte del collegio, ai sensi, appunto, dell'art. 177 c.p.c. La Suprema Corte (Cass. S.U., n. 2722/1981) aveva statuito, infatti, che qualora, in pendenza di procedimento di merito avente ad oggetto il dovere del datore di lavoro di assumere un soggetto avviato al collocamento obbligatorio in base alla l. n. 482/1968, il pretore, adìto ai sensi dell'art 700 c.p.c., avesse accordato a detto soggetto un assegno alimentare, in via cautelativa rispetto al pregiudizio che sarebbe potuto derivargli dal tempo necessario alla definizione di quel procedimento, il relativo provvedimento non aveva portata di statuizione definitiva sulle contrapposte pretese delle parti, ma funzione strumentale e natura provvisoria proprie dei provvedimenti d'urgenza regolati dall'art. 700 c.p.c. Ne conseguiva – nella logica della Corte – che ogni questione sulla legittimità di tale provvedimento, tanto in relazione al contenuto ed alle condizioni sostanziali per la sua emanazione, quanto in relazione a ragioni di rito (quale, ad esempio, quella inerente alla sua adottabilità nonostante l'esperimento di regolamento preventivo di giurisdizione), non appariva denunciabile con ricorso per cassazione a norma dell'art 111 Cost. Il provvedimento cautelare era infatti da considerarsi sindacabile, anche al fine di un'eventuale revoca o modifica provvisoria, solo nell'ambito del giudizio di merito, la cui definizione comunque esauriva od assorbiva gli effetti del provvedimento medesimo. L'orientamento era chiaro nell'affermare come il potere di revoca fosse strettamente collegato al potere del giudice del merito di ribaltare il contenuto del provvedimento cautelare con la decisione di merito. Dunque, non una vera e propria revoca la Cassazione teorizzava, bensì un effetto, se si vuole, naturale della pronuncia di merito che avesse contenuti precettivi di segno contrario a quelli riconosciuti con la cautela. Evidente risultava, in sintesi, l'apertura verso una revoca del provvedimento concesso ante causam, sebbene sempre nel quadro di quel giudizio di merito la cui mancata instaurazione nel prescritto termine perentorio determinava sempre l'inefficacia del provvedimento cautelare rendendo così irrilevante il tema della revocabilità della misura. Ciò che si sottolineava, insomma, con questi arresti, era piuttosto la naturale non incontrovertibilità delle decisioni cautelari, non invece la revocabilità intesa come autonomo potere, incluso nel potere di adozione del provvedimento cautelare stesso. Di certo, il dato comune che emergeva dal quadro riepilogativo appena offerto era una valutazione della stabilità del provvedimento cautelare per rimarcarne il contenuto distintivo rispetto alla decisione di merito idonea al passaggio in giudicato. Non altrettanta attenzione era invece riservata al profilo del riesercizio del potere, in senso caducatorio o di ripensamento della precedente scelta operata nella sede squisitamente cautelare. Solo successivamente, i giudici di legittimità hanno allargando i propri orizzonti proprio nella direzione dell'ammissibilità di un potere di revoca o modifica di carattere generalizzato in capo al giudice del merito, prima in riferimento ai soli provvedimenti resi in corso di causa (Cass. III, n. 2774/1981; Cass. III, n. 6327/1980), e poi addirittura a quelli resi ante causam (Cass. III, n. 1782/1985). Inoculato nel sistema il germe della revocabilità/modificabilità prima in via ermeneutica e poi con l'intervento del legislatore, si è verificata una progressiva inversione di tendenza nella direzione del dibattito. L'attenzione è stata infatti indirizzata verso normative settoriali che deviavano dallo schema del rito cautelare uniforme nel frattempo varato portando, proprio alla luce della consapevolezza acquisita all'esito del tormentato dibattito cui si è fatto cenno, all'insorgenza di questioni di costituzionalità di tali segmenti normativi nella parte in cui escludevano il potere di revoca degli specifici provvedimenti cautelari ivi previsti. Emblematica è sul punto una pronuncia di restituzione degli atti al giudice a quo (Corte cost., n. 312/1998). La Consulta era stata chiamata ad affrontare le questioni di legittimità costituzionale proposte in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nei confronti degli artt. 26 e 27 della l. n. 4/1929 (Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie). Tali disposizioni, infatti, consentivano all'intendente di finanza di chiedere al tribunale competente, in base al processo verbale di constatazione dell'infrazione, a garanzia dell'adempimento della prevista sanzione pecuniaria, l'iscrizione di ipoteca legale sui beni del trasgressore od anche l'autorizzazione a procedere a sequestro conservativo sui beni mobili dello stesso, senza peraltro permettere all'interessato di esperire i rimedi di cui agli artt. 669-decies e 669-terdecies c.p.c. (revoca o modifica del provvedimento per mutate circostanze, e reclamo ad altro giudice), né imporre all'Amministrazione di promuovere, una volta ottenuta la misura cautelare, il giudizio di merito. Ne derivava, dunque, un'esclusione dell'applicabilità del rito cautelare uniforme. La Corte ha, poi, rimesso gli atti al giudice a quo per una rinnovata valutazione della rilevanza della questione, in quanto successivamente all'ordinanza di rimessione era stato emanato il d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (recante disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie), con il quale veniva introdotta una nuova disciplina degli istituti dell'ipoteca e del sequestro conservativo (art. 22), disponendosi al contempo l'abrogazione degli artt. 26 e 27 della l. n. 4/1929 (art. 29), con prevista regolamentazione transitoria anche in ordine alle violazioni accertate ed ai procedimenti in corso (art. 25). Quanto ai presupposti della revoca/modifica, si era inclini a ritenere che tanto la sopravvenienza di fatti, quanto «un più illuminato apprezzamento dei fatti passati» (così Andrioli, 276) incidessero egualmente sulla immediatezza ed irreparabilità del pregiudizio e quindi anche sull'apprezzamento della ragione dell'attore e, in definitiva, sulla revocabilità o modificabilità delle ordinanze cautelari. Ferma restando comunque la revocabilità di provvedimenti di urgenza adottati ante causam e inaudita altera parte (Merlin 1990, 238, la quale faceva rilevare la necessità che ne fosse rivisto il contenuto precettivo attraverso il fuoco del contraddittorio, pena la violazione degli artt. 3 e 24 Cost.), il tema del dibattito si è incentrato prevalentemente sul potere di riesame delle condizioni di accoglimento della misura a seguito del prodursi di sopravvenienze, e sui complessi rapporti con il controllo sulla concessione del provvedimento cautelare e dunque sulla previsione di un vero e proprio mezzo di impugnazione. Guardando in prospettiva, dunque, con l'introduzione del procedimento cautelare uniforme e la previsione della fase di gravame da parte del legislatore del 1990, l'uso dello strumento cautelare come mezzo interdittivo e correttivo di precedenti provvedimenti d'urgenza ha potuto trovare ulteriore terreno applicativo anche solo in ragione del fatto che il provvedimento emesso in sede di reclamo non è ricorribile ulteriormente ma solo revocabile o modificabile ex art. 669-decies c.p.c. dal giudice del merito. Tale previsione esclude, perciò, che la tutela cautelare urgente possa essere invocata in tutte le ipotesi nelle quali sorge l'esigenza di rimediare al pregiudizio derivante dalla esecuzione di un provvedimento cautelare. Ne escono confermate la complessità e circolarità dei rapporti tra introduzione del rito cautelare generale e tutela d'urgenza ex art. 700 c.p.c., quest'ultima vero laboratorio di costruzione e sviluppo del sistema cautelare (nella somma di provvedimenti e procedimento) come oggi lo conosciamo. Infine, nel quadro del dibattito che ha condotto all'attuale assetto della disciplina della stabilità dei provvedimenti cautelari e della loro modificabilità o revocabilità, si è inserita anche la riflessione sulla disciplina della revoca dei provvedimenti concessi dal giudice dei procedimenti di separazione (art. 708 c.p.c.), la quale, nel testo in vigore anteriormente alle modifiche disposte dall'art. 2, comma 3, lett. e-ter), del d.l. n. 35/2005, convertito, con modificazioni, con l. n. 80/2005, prevedeva che: «Se il coniuge convenuto non comparisce o la conciliazione non riesce, il presidente, anche d'ufficio, dà con ordinanza i provvedimenti temporanei e urgenti che reputa opportuni nell'interesse dei coniugi e della prole, nomina il giudice istruttore e fissa l'udienza di comparizione delle parti davanti a questo. Se si verificano mutamenti nelle circostanze, l'ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore a norma dell'articolo 177». La disposizione pone infatti proprio il mutamento delle circostanze a base dell'esercizio di un potere di revoca. Quanto sin qui evidenziato, restituisce la misura di quanto la riflessione sulle enormi potenzialità applicative della tutela cautelare d'urgenza abbia finito anche col catalizzare l'iter che ha condotto alla configurazione di una generale revocabilità o modificabilità dei provvedimenti cautelari da parte del legislatore del 1990. Nel nuovo contesto normativo inaugurato dalla l. n. 353/1990, il tema dei rapporti tra cautela e provvedimento che impartisce la tutela finale dichiarativa viene ancora utilizzato dalla giurisprudenza ma, per così dire, cambiando pelle. La giurisprudenza di legittimità si sofferma, infatti, in modo approfondito sui caratteri del provvedimento concessivo della cautela sotto il particolare profilo dell'efficacia in riferimento alle sorti del giudizio di merito, e quindi sui rapporti tra cautela e giudicato. La capacità della sentenza dichiarativa di modificare o porre nel nulla il contenuto precettivo della cautela (già nota alla prassi applicativa ed alla riflessione teorica, come visto nei precedenti paragrafi) viene cioè analizzato più specificamente sotto il profilo della intrinseca inidoneità di quest'ultima ad incidere o decidere sul diritto cautelato con efficacia di giudicato pieno. Così, si è deciso che l'ordinanza di accoglimento dell'istanza cautelare (art. 669-octies c.p.c., al cui commento si rinvia) ha carattere strumentale e provvisorio, è suscettibile, appunto, di successiva modificazione o revoca (art. 669-decies c.p.c.) anche sulla scorta di un riesame della situazione fattuale che ne ha costituito il substrato, ha efficacia condizionata all'instaurazione del procedimento di merito (nel regime precedente alle modifiche che hanno introdotto la «strumentalità attenuata per i c.d. provvedimenti anticipatori), ed è altresì destinata ad essere superata o assorbita dalla pronuncia che lo concluda. Ne consegue che, presentando connotazioni di precarietà, la cautela coinvolge posizioni di diritto soggettivo ma non statuisce su di esse con la forza dell'atto giurisdizionale idoneo ad assumere autorità vincolante di giudicato. Identica natura deve essere attribuita all'ordinanza, di segno positivo o negativo, emessa dal tribunale sul reclamo, la quale si sostituisce al provvedimento impugnato con pari funzione e non si sottrae alle indicate ulteriori vicende, comportanti provvisorietà ed emendabilità (ex plurimis, Cass. I, n. 8178/1996). La Corte ha, altresì, precisato che, alle norme che regolano il processo, fissando la sede, i modi ed i tempi nei quali una determinata domanda può essere portata alla cognizione del giudice, corrispondono diritti soggettivi delle parti (Cass. I, n. 3127/1993). Tuttavia, la pronuncia sull'osservanza o meno delle norme medesime, ove inserita in un provvedimento non decisorio sul rapporto sostanziale, non può avere separata consistenza di statuizione su quei diritti, perché le disposizioni processuali, di natura strumentale, non sono suscettibili di un dibattito distinto ed astratto, e, quindi, se attinenti ad un atto non decisorio su quel rapporto, non possono essere autonomamente oggetto di impugnazione ed ulteriore discussione, sotto il profilo di una loro violazione (Cass. IV, n. 2821/2009). Limpida si mostra, dunque, nella giurisprudenza di legittimità la linea di demarcazione tra provvedimento cautelare reso in prime cure, strumento impugnatorio (art. 669-terdecies c.p.c., al cui commento si rinvia) e strumento deputato, invece, al riesame dei presupposti per indurne una modifica/revoca (art. 669-decies c.p.c.). Il tutto nel quadro della inidoneità della cautela a produrre effetti di giudicato sostanziale. Giudicato collegato esclusivamente, invece, alla sentenza che decide in via ordinaria sul diritto fatto valere. Generalità e àmbito di applicazione.La logica che sta alla base della revocabilità o modificabilità dei provvedimenti cautelari può cristallizzarsi nella notazione (dovuta a Calamandrei, 80) per cui «i provvedimenti cautelari non contengono l'accertamento di un rapporto esaurito nel passato e destinato per questo, a rimanere attraverso il passaggio in giudicato, staticamente fissato per sempre; ma costituiscono, per proiettarlo nell'avvenire, un rapporto giuridico nuovo (rapporto cautelare), destinato a vivere e quindi a trasformarsi se la dinamica della vita lo esige». In altre parole, il provvedimento cautelare nasce con l'implicita clausola rebus sic stantibus e, quindi, come è stato efficacemente sottolineato (Merlin 1990, 246), con il compito di amministrare provvisoriamente il rapporto litigioso per il tempo necessario alla conclusione della causa di merito la cui strumentalità, almeno nel disegno primigenio del codice, era necessaria (sul punto, si rinvia al commento agli artt. 669-octies e 669-novies c.p.c.). Tale funzione, che autorevole dottrina (Andrioli, 53) riconduce al più generale potere ordinatorio del giudice istruttore quale espressione dell'esistenza di un mezzo per adattare i provvedimenti alle nuove esigenze che si producono nella causa, appartiene all'ancora più ampio genus dei poteri di revoca degli atti amministrativi. In tale contesto, la revoca invera la reazione che il modificarsi dei presupposti di valutazione dell'interesse pubblico determina sull'atto amministrativo. Il fondamento della revoca, quindi, in linea del tutto generale, è costituito dal sopravvenire di una divergenza tra la causa e la base dell'atto, che produce una reazione di tale entità da far venir meno la causa dell'atto, conducendo alla revoca dello stesso il quale, viceversa, re adhuc integra, sarebbe stato irrevocabile. Tornando al piano della tutela cautelare, appare evidente che i presupposti della revocabilità o modificabilità non possono che apparire collegati all'evolversi nel tempo dei presupposti che giustificarono la concessione del provvedimento cautelare. Tale evoluzione, a sua volta, impone, su domanda di parte, la valutazione della perdurante idoneità del provvedimento stesso ad assolvere alla propria funzione in relazione ai relativi presupposti e fini, in un contesto fattuale e giuridico che si assume mutato. Tale configurazione della revoca conduce i termini della questione a un evidente punto di contatto con un'esigenza affine e non meno importante: quella del controllo sul provvedimento cautelare in quanto tale, anche a prescindere, cioè, dal mutamento della sua base fattuale e giuridica. Ma per le sue caratteristiche siffatto controllo è assicurabile con l'esercizio di un potere che non si affida, come quello di revoca/modifica, alla eventualità di un ripensamento del giudice fondato su un substrato fattuale e giuridico evolutosi nel tempo e cui la pronuncia cautelare va adeguata, ma si declina in termini di riesame degli stessi presupposti della concessione non solo (o non tanto) con riferimento alla situazione di fatto esistente al momento della decisione, ma anche in relazione alla medesima situazione di fatto esistente al momento della adozione del provvedimento cautelare. È chiaro, a questo punto, che il potere di revoca/modifica non è in grado concettualmente di rispondere all'esigenza di rivalutazione dei presupposti di fatto e di diritto che avevano giustificato l'emissione della cautela e dunque di dare vita ad un novum iudicium. Quest'ultimo, infatti, potrebbe trovare adeguata collocazione solo nel quadro di un meccanismo di tipo impugnatorio, caratterizzato da regole certe sia in termini di riduzione dei margini di discrezionalità del giudice che in termini di esercizio del potere stesso. La profonda e problematica riflessione sul potere di revoca fondato sull'art. 177 c.p.c. – secondo l'impostazione che, anteriormente alla novella della l. n. 353/1990, era stata accolta come fondativa del relativo potere anche in materia cautelare – in altre parole, connotato dall'assenza di concrete limitazioni che non fossero quelle dettate dalla prassi pretoria e dalla interpretazione più prudente, aveva dato la stura alla predisposizione, per mano del legislatore del 1990, di due diversi congegni operanti sulla stabilità dei provvedimenti cautelari. Il primo di essi era inverato, appunto, da quel potere generalizzato di revoca e modifica codificato dall'art. 669-decies c.p.c. Il secondo era invece quel meccanismo di controllo del provvedimento, il reclamo cautelare disciplinato all'art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia), che si pone in chiave almeno prima facie alternativa (e non esattamente esclusiva) rispetto alla revoca, come si evince dalla formula di apertura dell'art. 669-decies c.p.c., «salvo che sia stato proposto reclamo». La giurisprudenza, per parte sua, mostra piena consapevolezza dei differenti ambiti di applicazione dell'istituto della revoca/modifica codificato dall'art. 669-decies c.p.c. e dell'istituto del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia), caratterizzati da diversi presupposti e diverse regole di competenza. Si è, infatti, affermato che, ritenuta la natura cautelare del provvedimento ex art. 446 c.c., deve giocoforza ritenersi che l'istanza riproposta (dopo il primo rigetto) al presidente del tribunale sia inammissibile, in quanto il presidente si è già pronunciato con provvedimento di rigetto. Ove, però, nel ricorso si ponga a base della riproposizione della domanda cautelare un fatto nuovo (rappresentato dall'errore dell'assistente sociale nella quantificazione della pensione di invalidità) e il ricorso sia qualificato come istanza di modifica del precedente provvedimento ex art. 669-decies c.p.c., esso va indirizzato, essendo pendente il giudizio di merito, al giudice di quest'ultimo e non al presidente del tribunale, rispetto al cui provvedimento l'unica revisione possibile è il reclamo (Trib. Trani 9 gennaio 2012). La stessa consapevolezza dei confini tra i diversi ambiti in cui la tutela cautelare opera e dei diversi livelli in cui si gioca la partita della stabilità del provvedimento concessivo mostra la giurisprudenza di legittimità in ordine ai rapporti tra giudizio di merito e reclamo. Si è, infatti, deciso che in caso di giudizio instaurato ai sensi degli art. 669-octies e 669-novies c.p.c. (ai cui commenti si rinvia) a seguito della concessione di provvedimento cautelare ante causam, il provvedimento di rigetto della domanda di emissione di altro provvedimento cautelare da parte del giudice di merito, fondato sul rilievo che essa non attiene alla modifica o alla revoca ex art. 669-decies c.p.c. ovvero alle modalità di esecuzione ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c. di quello già concesso, esula dalla materia oggetto del giudizio di merito ed è perciò impugnabile con reclamo e non già mediante regolamento di competenza, ponendo una questione di procedura e non, appunto, di competenza (Cass. II, n. 5216/2005). In base all'art. 669-decies c.p.c., dunque, un provvedimento cautelare – sia esso concesso ante causam o durante il giudizio di merito – può essere revocato o modificato, su istanza di parte, al ricorrere dei presupposti del mutamento delle circostanze ovvero dell'allegazione di fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. La revoca è la caducazione del provvedimento, la perdita di sua efficacia. La modifica attiene invece a una mutazione quantitativa o qualitativa, che incide sull'estensione oggettiva del provvedimento stesso. Esula invece dall'ambito concettuale della modifica/revoca – secundum littera legis – la c.d. mutatio libelli, la domanda, cioè, di una diversa tipologia di provvedimento cautelare. L'art. 669-decies c.p.c. postula, infatti, e chiaramente, l'esistenza di una domanda, cioè di una richiesta di adozione di un provvedimento, come del resto emerge dalla dizione dell'art. 669-sexies c.p.c. (al cui commento si rinvia), e, anche laddove la tutela originariamente richiesta sia stata atipica, è evidente come solo una nuova iniziativa cautelare possa assolvere alla funzione di mutare completamente il petitum cautelare. Proprio per queste caratteristiche strutturali e funzionali la revoca o la modifica non possono essere utilizzate per far valere nullità processuali relative alla fase cautelare, quali quelle attinenti alla nullità della notifica del ricorso introduttivo del relativo procedimento. Si tratta infatti di profili, attinenti ad errores in procedendo, naturalmente ospitati nel giudizio di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. (Consolo 2006, 365). Anche la giurisprudenza ha tracciato questa linea di confine. Si è infatti deciso che non può essere dedotta l’illegittimità di provvedimento cautelare emesso ante causam se non con il reclamo. (Nel caso di specie si trattava di una opposizione a decreto ingiuntivo emesso per una causa ereditaria ove era stato richiesta la revoca del sequestro conservativo: così Trib. Latina, 24 aprile 2020). In riferimento all'àmbito di applicazione, si è ritenuto che l'art. 669-decies c.p.c. sia applicabile ai provvedimenti cautelari disciplinati dal codice civile (giusta il rinvio operato dall'art. 669-quaterdecies c.p.c., v., in tal senso, Trib. Trani 9 gennaio 2012). Non appartiene, invece, alla nozione di revoca di cui all'art. 669-decies c.p.c. il fenomeno della perdita di efficacia dei provvedimenti cautelari resi inaudita altera parte ai sensi dell'art. 669-sexies c.p.c. (al cui commento si rinvia), al sopraggiungere dell'ordinanza resa in contraddittorio, avendo tali provvedimenti natura strumentale e funzione cautelativa del tutto peculiare. Essi esibiscono, infatti, la funzione di assicurare in via massimamente provvisoria (e in presenza di un pregiudizio che potrebbe discendere dall'attivazione ordinaria del contraddittorio) l'effettività della tutela cautelare nella sua dimensione esecutiva (e in definitiva, perciò, del diritto cautelato) e sono strumentali ad evitare che la futura pronuncia a contraddittorio pieno possa essere pregiudicata nel tempo necessario ad ottenerla. Per tali ragioni, i decreti inaudita altera parte sono destinati a perdere ogni efficacia a seguito della decisione emessa a contraddittorio pieno, nella quale restano naturalmente assorbiti e caducati, dato l'esaurimento della funzione strumentale loro propria. Detto altrimenti, tali decreti mostrano carattere del tutto provvisorio ed interinale, per cui l'ordinanza emessa a contraddittorio pieno è destinata a sostituirli ed assorbirli. È, dunque, la sola ordinanza resa in contraddittorio a poter essere oggetto dei rimedi della revoca/modifica in senso proprio ex art. 669-decies c.p.c. e del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia), consolidandone l'efficacia nel caso di conferma e togliendoli definitamente dal mondo giuridico (come se non fossero stati mai emanati) nell'ipotesi di revoca. In riferimento specifico al reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., la giurisprudenza si è, in più occasioni espressa, negandone l'esperibilità nei confronti dei decreti inaudita altera parte, in particolare: 1) perché è lo stesso art. 669-terdecies c.p.c. a fare riferimento solo alle ordinanze e non ai decreti come oggetto di impugnazione; 2) perché la sede deputata al loro controllo è quella dell'udienza fissata nel contraddittorio delle parti; 3) perché la peculiare provvisorietà del decreto non consente l'utilizzo del reclamo (Trib. Torino 21 novembre 2003; Trib. Venezia 28 febbraio 2007). Questa conclusione è mantenuta ferma anche per il caso patologico in cui il giudice abbia omesso, con il decreto reso inaudita altera parte, di fissare l'udienza in contraddittorio delle parti (Trib. L'Aquila 31 ottobre 2002). In tal caso, infatti, la parte interessata potrebbe sollecitare il giudice, ex art. 289 c.p.c., affinché a correzione ed integrazione del decreto fissi l'udienza di comparizione delle parti. Più di recente si è ribadito che in materia di opposizione all'esecuzione, il decreto inaudita altera parte ha un carattere interinale e provvisorio per cui l'ordinanza emessa a contraddittorio pieno è destinata ad assorbirlo e sostituirlo sicché solo essa può essere oggetto dei rimedi della revoca, ex art. 669-decies c.p.c., e del reclamo, ex art. 669-terdecies c.p.c.. (Trib. Lecce, 2 luglio 2020). La giurisprudenza di merito mostra una spiccata propensione ad utilizzare la pronuncia inaudita altera parte all'esito del bilanciamento degli interessi contrapposti delle parti, laddove ritiene prevalente l'interesse del ricorrente alla sollecita emissione della misura cautelare rispetto a quello del resistente a difendersi. Si è così deciso, ad esempio, che il provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c., volto ad inibire il trasferimento del lavoratore subordinato, può pronunciarsi con decreto ogni qualvolta i tempi previsti per l'operatività del trasferimento stesso non consentano di disporre la convocazione della controparte (Pret. Forlì 26 giugno 1995). Si è, altresì, ritenuto che l'imminente avvio delle operazioni di riconsegna di una agenzia di assicurazioni inveri un pregiudizio grave ed irreparabile idoneo a legittimare l'emissione della misura cautelare con decreto inaudita altera parte (Trib. Bari 15 ottobre 2004). Si è, infine, ritenuto che: a) il procedimento exart. 2409 c.c. non può condurre ad alcuna pronuncia senza previa attivazione del contraddittorio; b) che, d'altra parte, se ed in quanto esista la prova della violazione del divieto di concorrenza da parte degli amministratori, allora sussistono anche le condizioni per concedere inaudita altera parte un provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c. volto ad inibire agli amministratori stessi il compimento di ogni attività commerciale rispetto alla quale si profili l'allegata violazione del divieto di concorrenza (così Trib. Firenze 24 giugno 1993). Da altro punto di vista, si è ritenuto che non possa trovare accoglimento la domanda, formulata con esplicito riferimento all'art. 669-decies c.p.c., volta ad ottenere la revoca dell'ordinanza con cui è stata concessa la provvisoria esecuzione di un decreto ingiuntivo opposto. Se ne deve, infatti, censurare l'inammissibilità sotto il duplice profilo della sostanziale elusione del dettato di cui agli artt. 648 e 649 c.p.c. e dell'estraneità della fattispecie rispetto all'ambito propriamente cautelare. Invero, se dal primo punto di vista deve ritenersi pacifica l'irrevocabilità dell'ordinanza di concessione della provvisoria esecutorietà ex art. 648 c.p.c. e la riferibilità del disposto dell'art. 649 c.p.c. alla sola ipotesi di emissione di decreto ingiuntivo già provvisoriamente esecutivo ex art. 642 c.p.c., il riferimento al disposto dell'art. 669-decies c.p.c. appare ultroneo, in considerazione della natura non cautelare dell'ordinanza impugnata e della specificità e tipicità della relativa disciplina normativa (Trib. Como 21 marzo 2007). Neppure può attribuirsi portata di norma che disciplina un'ipotesi di revoca ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c. all'art. 124, comma 3, del d.lgs. n. 30/2005 (c.d. Codice della proprietà industriale), laddove prevede che «Con la sentenza che accerta la violazione di un diritto di proprietà industriale può essere ordinata la distruzione di tutte le cose costituenti la violazione, se non vi si oppongono motivi particolari, a spese dell'autore della violazione. Non può essere ordinata la distruzione della cosa e l'avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei danni, se la distruzione della cosa è di pregiudizio all'economia nazionale. Se i prodotti costituenti violazione dei diritti di proprietà industriale sono suscettibili, previa adeguata modifica, di una utilizzazione legittima, può essere disposto dal giudice, in luogo del ritiro definitivo o della loro distruzione, il loro ritiro temporaneo dal commercio, con possibilità di reinserimento a seguito degli adeguamenti imposti a garanzia del rispetto del diritto». La disposizione si riferisce, infatti, ai provvedimenti di natura sanzionatoria che possono essere disposti dal giudice, in luogo del ritiro definitivo dal commercio o della distruzione dei beni contraffatti, con la sentenza che accerta la violazione di un diritto di proprietà industriale, e non può essere invocato – come del resto non può essere invocato l'art. 700 c.p.c. – al fine di ottenere il dissequestro di prodotti recanti un marchio contraffatto, allo scopo di eliminarlo (Trib. Genova 18 novembre 2008). I rapporti con l'art. 669-septies c.p.c. All'indomani del varo della l. n. 353/1990, il dibattito sulla revoca/modifica dei provvedimenti cautelari ha fatalmente imboccato strade altre e diverse da quelle che gettarono le basi della riforma (anche) in parte qua, del sistema. Si è imposto, infatti, alla prassi applicativa ed alla riflessione teorica il problema del coordinamento tra l'art. 669-decies c.p.c., che codifica la regola generale della revocabilità/modificabilità, ed altri strumenti che variamente attingono o condizionano la stabilità della pronuncia resa in sede cautelare, quali in particolare il reclamoex art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia) e la riproposizione della domanda cautelare rigettata, ai sensi dell'art. 669-septies c.p.c.(al cui commento si rinvia). Va, altresì, considerato l'art. 669-novies c.p.c. (al cui commento si rinvia) che, nel disciplinare presupposti e limiti dell'inefficacia delle misure cautelari, stabilisce che, nel corso del giudizio contenzioso volto alla declaratoria di inefficacia, appunto, possano essere assunti «i provvedimenti di cui all'art. 669-decies» c.p.c. In più punti, dunque, i segmenti di disciplina disegnati da queste disposizioni si intrecciano imponendo una preliminare actio finium regundorum. In riferimento ai rapporti tra revoca/modificaex art. 669-decies c.p.c. e riproponibilità della domanda cautelare rigettata ex art. 669-septies c.p.c., l'intreccio, per così dire, è quello attinente alla locuzione «mutamenti nelle circostanze» e «nuove ragioni di fatto o di diritto» che compare in entrambe le disposizioni. Il quesito che si pone è, dunque, quasi istintivamente, se in entrambe il legislatore abbia inteso recepire esattamente gli stessi concetti e dare ad essi la stessa latitudine. La riflessione ha investito perciò la riproposizione di cui al comma 1 dell'art. 669-septies c.p.c. sia in assoluto che, in prospettiva diacronica, in riferimento ai nova normativi che hanno interessato nel 2005 l'art. 669-decies c.p.c. L'approccio esegetico all'art. 669-septies c.p.c.in parte qua, proprio cioè laddove subordina la riproposizione dell'istanza cautelare (originariamente rigettata) al verificarsi di mutamenti delle circostanze o alla deduzione di nuove ragioni di fatto e di diritto, non è apparso, infatti, uniforme in giurisprudenza. Secondo un primo orientamento, ad esempio, l'art. 669-septies c.p.c. sottintende che il c.d. giudicato cautelare sia estremamente volatile, copra cioè solo il dedotto ma non anche il deducibile, con la conseguenza della riproponibilità della domanda cautelare anche qualora vengano dedotte circostanze di fatto o allegati mezzi di prova preesistenti all'adozione del provvedimento di rigetto e semplicemente non allegati nel primo giudizio per qualsivoglia ragione (Trib. Messina 15 dicembre 1997). L'idea è, cioè, che l'ordinanza di rigetto del ricorso ex art. 669-septies c.p.c. non precluda la riproposizione dell'istanza sia sulla base delle circostanze preesistenti, ma non dedotte in precedenza, sia di semplici allegazioni di ragioni di fatto o di diritto, non ancora proposte ancorché già proponibili, riguardanti gli elementi del fumus boni iuris e del periculum in mora (in tal senso, v., ex pluribus, Trib. Mantova 12 aprile 2002; Trib. Roma 15 maggio 1995; Trib. Udine 14 dicembre 1994; Trib. Foggia 12 luglio 1993; Trib. Bari 23 marzo 1993). Diversamente, altro orientamento, muovendo da presupposti contrari, sostiene che, in base alla previsione dell'art. 669-septies c.p.c., l'istanza cautelare può essere riproposta soltanto quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto; infatti, dal principio di ragionevole durata del processo, così come dal nuovo comma 1 dell'art. 669-decies c.p.c. – che prevede l'improponibilità della istanza di revoca o modifica ove sia proposto reclamo – si evince che il giudicato cautelare copre il dedotto ed il deducibile, per cui non è possibile addurre in sede di reiterazione della medesima richiesta cautelare nuove ragioni di diritto che potevano già dedursi prima, evitando così una inammissibile frantumazione e diluizione nel tempo della attività difensiva che va a sicuro discapito di un celere svolgimento del procedimento (Trib. Nola 9 maggio 2012; Trib. Bari 2 marzo 2009; v. altresì Trib. Parma 13 giugno 1994). L'art. 669-septies c.p.c. è, dunque, chiaro nella parte in cui impone che la riproposizione della domanda cautelare sia supportata dall'allegazione di nuove circostanze, per esse intendendosi i fatti che vengono in essere successivamente all'adozione della misura cautelare di rigetto non reclamata o al provvedimento negativo assunto in sede di reclamo. E può considerarsi tendenzialmente pacifica in dottrina e giurisprudenza la relazione positiva tra sopravvenienze e reiterabilità della pretesa cautelare, ad instar di quanto accade, del resto, nei rapporti tra sopravvenienze e giudicato. Le divergenze interpretative riguardano, invece, il profilo delle «nuove ragioni di fatto o di diritto». Si è, infatti, appena registrata la tendenza giurisprudenziale a riconoscere la sufficienza, ai fini dell'ammissibilità della reiterazione della pretesa cautelare, della sola allegazione di fatti nuovi o di nuovi elementi istruttori. Concetto, quest'ultimo, destinato ad essere ricompreso nella previsione «nuove ragioni di fatto» anche ove le circostanze fattuali fossero già esistenti pendente il primo procedimento cautelare, e del tutto a prescindere dal fatto che fossero, o dovessero ragionevolmente essere, conosciute o conoscibili dal ricorrente. Con la rilevante conseguenza che appare sufficiente che quest'ultimo deduca nuove ragioni lato sensu difensive, ivi inclusa dunque l'indicazione di nuovi mezzi di prova, senza che rilevi il momento temporale in cui egli ne abbia avuto conoscenza, per aspirare ad un riassetto delle regole fissate dalla cautela già resa (modifica) o ad una rimozione completa della loro fonte (revoca). Appare, tuttavia, evidente come l'altro modo di leggere l'art. 669-septies c.p.c.in parte qua che – come già detto – esige che le ragioni di fatto e di diritto preesistenti alla formazione del giudicato cautelare legittimino la proposizione di una nuova domanda cautelare solo qualora il deducente ne alleghi e dimostri la conoscibilità in epoca posteriore alla definizione del procedimento cautelare concluso con provvedimento negativo, allinei il contenuto precettivo della disposizione a quello di cui al comma 1 dell'art. 669-decies c.p.c., come modificato dalla novella del 2005. Si tratta, segnatamente, del segmento normativo per il quale, come più volte rilevato, l'ammissibilità dell'istanza di modifica/revoca è subordinata sì alla allegazione di fatti anteriori alla definizione del giudizio che ha messo capo al primo provvedimento cautelare, ma purché se ne sia acquisita conoscenza successivamente a quest'ultimo, con onere del ricorrente di dimostrare, di conseguenza, il momento in cui tale conoscenza è stata da lui acquisita. E, in effetti, anche nella giurisprudenza, specie di merito (Trib. Nola 29 agosto 2019), emerge l'inclinazione a sostenere una nozione di giudicato cautelare unica e non, invece, cangiante in relazione ai diversi istituti del procedimento cautelare uniforme che con essa si confrontano. È questa la ratio che porta ad affermare che a seguito del rigetto dell'istanza cautelare, e dunque dell'adozione di un provvedimento negativo definitivo, l'art. 669-septies c.p.c. deve essere oggetto di un'interpretazione sistematica che sia coerente con le norme di cui al comma 1 dell'art. 669-decies c.p.c. e di cui al comma 1 dell'art. 669-terdecies c.p.c. e sia al contempo rispettosa del principio della simmetria delle prerogative difensive. Ne consegue che la deduzione di nuove ragioni di fatto e di diritto preesistenti alla definizione del procedimento cautelare conclusosi con il provvedimento di rigetto, deve necessariamente accompagnarsi alla prova della sopravvenienza della conoscenza di tali ragioni rispetto alla definitiva adozione della misura di rigetto (Trib. Urbino 23 febbraio 2011). In altri termini, il giudicato cautelare deve avere la medesima consistenza, e dunque produrre effetti preclusivi analoghi, sia qualora si intenda porre in discussione un provvedimento cautelare negativo, facendo dunque ricorso all'istituto di cui all'art. 669-septies c.p.c. sia qualora si voglia modificare o revocare una misura cautelare positiva già consolidatasi, facendo dunque applicazione dell'istituto di cui all'art. 669-decies c.p.c. Ora, è di tutta evidenza che, invece, accedendo al primo orientamento interpretativo sopra riportato, si finisce per attribuire una consistenza diversa al giudicato cautelare, con effetti preclusivi autonomamente modulati, unicamente in ragione del rimedio azionato. Infatti – come noto – ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c., così come modificato dalla novella del 2005, la revoca o la modifica del provvedimento cautelare d'accoglimento presuppongono che i fatti nuovi allegati, qualora risalenti ad un momento temporale anteriore all'adozione della misura, siano stati conosciuti dal deducente in epoca successiva all'adozione della misura stessa. Con la conseguenza che il ricorrente ex art. 669-decies c.p.c., lungi dal potersi limitare a mere allegazioni, «deve fornire la prova del momento in cui ne è venuto a conoscenza». La nozione di giudicato cautelare recepita dal primo comma dell'art. 669-decies c.p.c. si estende, dunque, per semplificare, al dedotto ed al deducibile e la misura cautelare positiva può essere modificata o revocata solo in ragione di fatti sopravvenuti o di fatti preesistenti ma non dedotti solo in quanto non conosciuti. L'idea di valorizzare la unicità della nozione di giudicato cautelare che emerge dalla panoramica giurisprudenziale cui si è fatto cenno conta anche sul fatto che il testo attuale dell'art. 669-decies c.p.c., introdotto nel 2005, è posteriore al testo dell'art. 669-septies c.p.c., che risale invece al 1990. La circostanza depone, infatti, nel senso che la nozione di «fatti anteriori» accolta nel 2005 ed i correlati effetti preclusivi che ne discendono debbano essere estesi anche alla preesistente norma di cui all'art. 669-septies c.p.c. Quest'ultima, del resto, laddove compie un generico riferimento alle «nuove ragioni di fatto e di diritto», non pone alcun ostacolo letterale a che tali nova (preesistenti ma emersi in concreto solo dopo l'esaurimento della precedente procedura) non siano già conosciuti ma siano di nuova acquisizione. Altro argomento a favore della estensione della nozione di deducibile adottata nel 2005 anche al contesto della riproposizione di cui all'art. 669-septies c.p.c., risiede, poi, nella constatazione che il procedimento cautelare, al pari di ogni giudizio propriamente contenzioso ove si fronteggiano posizioni dialettiche, deve ispirarsi, ex art. 111 Cost., al principio c.d. della parità delle armi. Ne consegue che l'interprete deve privilegiare letture sistematiche incentrate sul principio secondo cui, a parità di accesso ad un rimedio generale, deve corrispondere, per le parti che a tale utilità ambiscono, l'imposizione delle medesime preclusioni (in tal senso, con precipuo riferimento al procedimento cautelare, v. Corte cost., n. 253/1994 e Corte cost., n. 197/1995). Vanno, invece, escluse tutte le soluzioni che consentono ad una sola delle parti di accedere ad un'utilità processuale, quale che sia l'istituto che ad essa conduca, senza incontrare preclusioni o incontrando preclusioni di minore consistenza. Dei due orientamenti giurisprudenziali esaminati, solo il primo, e non anche il secondo, sembra rispettoso del principio costituzionale di parità delle armi. Infatti, ritenendo che a seguito di un provvedimento di rigetto l'istanza cautelare possa essere riproposta solo allegando circostanze fattuali preesistenti ma neglette per calcolo o per semplice negligenza nel processo che ha messo capo al provvedimento negativo, si attribuisce al ricorrente, per il sol fatto di essere tale, una posizione più vantaggiosa rispetto a quella del resistente. Quest'ultimo, infatti, ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c., per aspirare alla rimodulazione del contenuto precettivo di un provvedimento cautelare sfavorevole o per eliminarlo del tutto, non può limitarsi a cambiare il quadro fattuale posto a base della domanda cautelare originaria ma, laddove intenda allegare fatti preesistenti, ha l'onere aggiuntivo di dimostrare di averne acquisito conoscenza in epoca successiva. Egli deve cioè, in buona sostanza, giustificare il «cambiamento di tiro» attraverso la dimostrazione che la rappresentazione fattuale di cui al momento si avvale per fondare la pretesa ex art. 669-decies c.p.c. non gli era stata accessibile in precedenza. Ne consegue un'evidente irragionevolezza laddove si ponga a confronto la posizione del ricorrente soccombente con quella del ricorrente vincitore che, tuttavia, ambisce ad una modifica migliorativa della misura cautelare già conseguita. Infatti, il primo, seppure soccombente ad esito di un provvedimento non reclamato nei termini o confermato in sede di reclamo o assunto per la prima volta in questa sede, e proprio in ragione del difetto di allegazioni, anche probatorie, sarebbe legittimato a riproporre la domanda cautelare senza limiti se non quelli di costruire una base fattuale più convincente della precedente. In tal modo egli potrebbe così rimediare alle lacune dell'impianto fattuale posto a base della domanda respinta, in fin dei conti beneficiando delle criticità evidenziate dal giudice nella motivazione del provvedimento di rigetto. Non così, invece, per il ricorrente vittorioso che abbia tuttaviabisogno di modifiche migliorative o ampliative del provvedimento già ottenuto. La sua domanda dovrebbe, infatti, passare per le forche caudine della prova dell'ignoranza delle circostanze fattuali preesistenti ma neglette nel primo ricorso, nei termini più volte indicati. Vi è, infine, un dato di sistema che occorre rimarcare. Nell'attuale stadio di sviluppo del sistema processuale che assiste la tutela cautelare, il reclamo, sia avverso i provvedimenti di accoglimento che di rigetto, si configura come mezzo di gravame totalmente devolutivo. Ne consegue che suo tramite il ricorrente, oltre a far valere le circostanze sopravvenute al momento della proposizione del mezzo (e di cui espressamente al comma 4 della disposizione) può proporre le allegazioni di fatto e di diritto anche preesistenti alla formulazione della domanda cautelare ma non dedotte nel procedimento concluso con il provvedimento di rigetto, poi reclamato. Orbene, la presenza di un termine perentorio per la proposizione del reclamo, che lo si ripete è interamente devolutivo e consente la produzione di documenti e l'indicazione di mezzi di prova preesistenti, non può non avere ricadute nel senso di precludere la libera riproposizione della domanda in primo grado a seguito di rigetto. Intesa, quest'ultima, quale reiterazione senza l'allegazione e la prova della sopravvenuta conoscenza di quei motivi e di quegli elementi istruttori che, pur deducibili e producibili, non siano stati dedotti né prodotti nel termine perentorio di cui al comma 1 dell'art. 669-terdecies c.p.c. È, pertanto, l'opposto orientamento interpretativo che, postulando la deduzione di fatti preesistenti all'adozione di una misura cautelare, sia essa di rigetto o di accoglimento, solo se si accompagni alla prova della mancata conoscenza di tali circostanze al momento della definizione del provvedimento cautelare «messo in discussione», pone sullo stesso piano la posizione del resistente e quella del ricorrente, dando, così, compiutezza al principio costituzionale della simmetria delle prerogative difensive. In dottrina (Consolo 2020, 100), si è, in contrario, rilevato come, a meno di una interpretatio abrogans dell'art. 669-septies c.p.c., non vi siano limiti testuali alla riproposizione fondata sul deducibile ma non dedotto. Inoltre, la riforma del 2005, essendo intervenuta restrittivamente sui presupposti della revoca o modifica del provvedimento cautelare ma non sulla riproposizione, pare suggerire una volontà di non allineamento dei presupposti di operatività dei due istituti. Si è, perciò, concluso nel senso che, «se il reclamo si svolge (e potrà essere instaurato dal ricorrente contro il rigetto dell'istanza, ma pure dal resistente contro il suo accoglimento) e si chiude con il rigetto della domanda cautelare, allora l'art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c. opererà, e preverrà sulla norma generale dell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c. Il deducibile che il ricorrente non abbia dedotto almeno in sede di reclamo, non potrà essere invocato in sede di riproposizione dell'istanza cautelare. Se però il reclamo non viene proposto, allora il deducibile non dedotto potrà ammissibilmente alimentare l'istanza riproposta». I termini del dibattito appena riassunto danno dunque la misura di quanto, in sé considerato, l'argomento dei nova restrittivi introdotti nel 2005 nel testo dell'art. 669-decies c.p.c. sia ribaltabile, potendo condurre tanto nella direzione della sua esportabilità ad altre disposizioni quanto nella direzione opposta. Segue. I rapporti con l'art. 669-terdecies c.p.c. L'altro naturale profilo di interferenza tra segmenti di disciplina che attingono la stabilità del provvedimento cautelare attiene – come già rilevato – ai rapporti tra l'art. 669-decies c.p.c. e l'art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia). Nel contesto originario del procedimento cautelare uniforme, ci si poneva infatti il dubbio se le sopravvenienze in senso tecnico (i fatti sopravvenuti alla chiusura del processo cautelare di primo grado) e le ragioni di fatto e di diritto non allegate in primo grado anche perché non conosciute, dovessero essere allegate esclusivamente in sede di reclamo, pendendo i relativi termini o il relativo processo, o invece potessero sempre e comunque essere poste a base di autonoma domanda cautelare ai sensi dell'art. 669- deciesc.p.c. Il dubbio si alimentava della duplice circostanza che il legislatore del 1990 era rimasto silente sia sulle modalità di eventuale coordinamento tra i due segmenti di disciplina, revoca e reclamo appunto, sia sulla natura del reclamo nell'alternativa tra novum iudicium aperto anche ai nova o revisio prioris istantiae chiusa ad ogni allegazione aliena al giudizio di primo grado. E, in effetti, si discuteva, ad esempio, se il reclamo potesse ospitare solo errores in procedendo ed errores in iudicando riscontrati in prime cure (revisio prioris istantiae) o anche sopravvenienze in senso tecnico e fatti che, ancorché preesistenti, non erano stati allegati proprio in prime cure nonché, ancora, nuovi mezzi di prova. A sostegno di questa seconda opzione, si faceva in particolare rilevare come il reclamo fosse costruito quale mezzo di gravame interamente devolutivo e sostitutivo, non operando alcun regime di preclusioni analogo a quello caratterizzante il giudizio dichiarativo sia di primo grado che di appello. A favore di questa conclusione militava, del resto, il riferimento dello stesso art. 669-terdecies c.p.c. ai motivi sopravvenuti che avrebbero potuto recare grave danno e legittimanti perciò l'istanza di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato (v., per tutti, Giordano 2014, 1338). Proprio tale riferimento pareva, infatti, confermare l'apertura del giudizio di reclamo all'allegazione di sopravvenienze. Le medesime oscillazioni ed inquietudini interpretative caratterizzavano, del resto, la giurisprudenza di merito che in qualche occasione si era pronunciata, ad esempio, a favore della tesi più restrittiva. Si era infatti ritenuta l'inammissibilità dell'eccezione sollevata per la prima volta in sede di reclamo e funzionale a contestare l'esistenza del periculum in mora proprio motivando nel senso che il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. è una stretta revisio del primo giudizio, non idonea perciò ad ospitare un completo ed aperto riesame della domanda già proposta in primo grado (così Trib. Marsala 18 novembre 2004). In senso contrario, invece, altra giurisprudenza di merito, sull'opposta premessa del carattere devolutivo e sostitutivo pieno del reclamo, attribuiva al giudice dell'impugnazione gli stessi poteri del giudice di primo grado. Con la conseguenza che il reclamo doveva configurarsi come gravame a critica libera con il quale far valere in generale (oltre che i profili di nullità anche) l'ingiustizia della decisione di prime cure sia adducendo fatti già esistenti ed allegati sia fatti sopravvenuti sia nuovi documenti e altri mezzi di prova (v., ad esempio, Trib. Catanzaro 27 maggio 1997; Trib. S.M. Capua Vetere 16 ottobre 1997). Le modifiche apportate dalla l. n. 80/2005 al procedimento cautelare uniforme varato nel 1990 ed in particolare all'art. 669-decies, comma 2, c.p.c. ed all'art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c.rispondono ad alcuni quesiti posti dalla prassi e pongono dei punti fermi laddove prima regnava l'incertezza. Esse valgono, anzitutto, a configurare il reclamo quale rimedio avente carattere interamente devolutivo e sostitutivo. Di tale carattere non pare perciò oggi potersi più dubitare. Se ne deve, dunque, dedurre che il reclamo è idoneo ad ospitare non solo il rilievo di errores in iudicando ed errores in procedendo collocabili nel giudizio di prime cure, ma anche sopravvenienze e nuovi mezzi di prova. L'assenza nella specifica disciplina di preclusioni di sorta induce infatti alla conclusione che possano compiersi per la prima volta attività non compiute in primo grado, come allegazioni di fatti anche a mezzo di eccezioni in senso stretto, attività istruttoria e in generale tutto quanto risulti utile e funzionale alla (migliore) decisione sull'impugnazione. La giurisprudenza di merito si è mostrata pronta a cogliere le implicazioni delle novità normative del 2005. Si è, infatti, deciso che è possibile la proposizione di nuovi motivi di reclamo addirittura nella memoria difensiva depositata all'udienza di discussione del reclamo. La conclusione è fondata sul carattere interamente devolutivo e privo di preclusioni che emerge oggi dalla configurazione normativa del reclamo, nel quale perciò si applicano le sole formalità necessarie al contraddittorio e non opera né il divieto di ius novorum né quello di nuove prove (così Trib. Benevento, 21 dicembre 2007). Nella stessa prospettiva, si è inoltre deciso che, a differenza che per l'appello nel rito ordinario di cognizione, non può pronunciarsi l'inammissibilità del reclamo per mancata specificazione dei motivi. La proposizione dell'impugnazione ex art. 669-terdecies c.p.c. comporta, infatti, un'automatica devoluzione al giudice di tutte le questioni già affrontate in prime cure (Trib. Locri 9 novembre 2006; contra, Trib. Padova 13 febbraio 1996; Trib. Venezia 19 marzo 2007, il quale ritiene invece che, malgrado non sia applicabile al reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c., l'art. 342 c.p.c., il reclamo è comunque inammissibile se l'atto introduttivo non enuncia le ragioni della domanda). I nova normativi non hanno, tuttavia, fugato altre questioni emerse in sede applicativa. Una lettura testuale e restrittiva della nuova formulazione del primo comma dell'art. 669-decies c.p.c. parrebbe, infatti, escludere l'ammissibilità della revoca e della modifica allorché il provvedimento cautelare sia stato sottoposto alla verifica impugnatoria attraverso il reclamo di cui all'art. 669-terdecies c.p.c. Secondo questa logica, non sarebbe perciò ammissibile l'istanza di revoca/modifica ex art. 669-decies c.p.c. relativa a provvedimenti cautelari sottoposti al doppio grado di giurisdizione cautelare, sicché ne deriverebbe una maggiore loro vischiosità e resistenza, indotta proprio dal doppio vaglio giudiziale, quello di prime cure e quello di impugnazione. Un'interpretazione teleologica e sistematica della disposizione induce, però, a ben diverse conclusioni. Il potere di modifica/revoca regolato dall'art. 669-decies c.p.c. affonda, infatti, le sue radici nell'essenza più profonda della strumentalità della cautela al merito. La funzione di anticipare o, comunque, assicurare gli effetti della decisione finale dichiarativa impone, infatti, una costante attenzione all'evolversi della realtà materiale e giuridica su cui è destinato ad incidere il provvedimento cautelare. Ne consegue che, a fronte di un'evoluzione di tale realtà che non giustifica più la permanenza dell'assetto di regole fissato nella cautela o ne impone un mutamento deve consentirsi all'interessato di chiedere, rispettivamente, la revoca o la modifica. La portata del richiamo operato dall'incipit dell'art. 669-decies c.p.c. al reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. va allora letta in un modo che non sia quello di escludere che il provvedimento vagliato in sede di reclamo resti immune all'evoluzione della realtà su cui è destinato ad incidere, e alla conseguente possibilità di revoca/modifica. E tale modo impone di considerare che il legislatore del 2005 ha modificato in modo consistente non soltanto l'art. 669-decies c.p.c. ma anche l'art. 669-terdecies c.p.c. Con l'introduzione dell'attuale comma 4, quest'ultima disposizione recita, infatti, oggi che: «Le circostanze e i motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo debbono essere proposti, nel rispetto del principio del contraddittorio, nel relativo procedimento». Ne consegue allora che il significato di quel «salvo che sia stato proposto reclamo ai sensi dell'articolo 669-terdecies» c.p.c., che costituisce l'incipit dell'art. 669-decies c.p.c. nel suo attuale tenore, va ricercato nella necessità di razionalizzare i rapporti tra i due rimedi che possono condurre ad una revoca/modifica del provvedimento cautelare. Mezzo al fine si rivela l'onere, per le parti, di concentrare nel giudizio di impugnazione del provvedimento cautelare ogni allegazione relativa ai mutamenti nelle circostanze intervenuti sino a quel momento. Il che non esclude, anzi implica la possibilità di revoca o modifica sulla base di mutamenti nelle circostanze verificatisi dopo la decisione cautelare di secondo grado. La conferma della bontà di questa lettura risiede, del resto, nel comma 2 dell'art. 669-decies c.p.c., a mente del quale una volta esaurita la fase di reclamo, la revoca e la modifica dell'ordinanza di accoglimento possono essere richieste al giudice che ha provveduto sull'istanza cautelare. Si tratta, segnatamente, del giudice del reclamo, se si verificano mutamenti nelle circostanze o se si allegano fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare, qualora il giudizio di merito non sia iniziato o sia stato dichiarato estinto (ciò che oggi è ben possibile per i provvedimenti cautelari c.d. «anticipatori»). La giurisprudenza mostra piena consapevolezza della ratio del potere di revoca/modifica codificato dall'art. 669-decies c.p.c. (e che si è cercato fin qui di illustrare). La stretta aderenza di tale potere alla valutazione dinamica della realtà materiale e giuridica su cui la cautela è destinata ad incidere è bene messa in rilievo in quelle pronunce che ritengono necessario il vaglio dei mutamenti delle circostanze, altrimenti non potendosi intaccare l'assetto di interessi già fissato nella cautela (che essa sia resa in primo grado o eventualmente resa o modificata in sede di reclamo). In modo del tutto coerente con queste premesse, si è perciò ritenuto che le considerazioni in diritto sulla concedibilità della cautela non possano in alcun modo essere poste a base di una domanda ex art. 669-decies c.p.c. La stabilità del provvedimento cautelare che ne deriva non va, però, confusa con la definitività idonea, per diritto vivente, a legittimare il soccombente al ricorso in cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. Il consolidato orientamento che esclude la ricorribilità ai sensi della disposizione costituzionale da ultimo citata risulta infatti fondato non sul mero dato della revocabilità bensì soprattutto (v., ex multis,Cass. I, n. 7429/2012) sul carattere provvisorio del provvedimento cautelare, condizionato com'è alla instaurazione della causa di merito e destinato ad essere superato dalla decisione che la definisce. Applicando questa premessa in tema di sequestro conservativo, dove opera l'ulteriore effetto previsto dall'art. 686 c.p.c., la giurisprudenza di legittimità conclude nel senso che la conversione del sequestro conservativo concesso (la cui efficacia non sia venuta meno) segue di diritto al passaggio in giudicato della sentenza, e non è quindi necessaria alcuna pronuncia di accertamento ulteriore da parte del giudice del merito. La conclusione è fondata sulla circostanza che, con la introduzione del procedimento cautelare uniforme e del reclamo cautelare, è scomparso il giudizio ad hoc di convalida del sequestro. Sicché al giudice della causa di merito non è più richiesto di riesaminare, altresì, le condizioni per la concessione della cautela (Cass. I, n. 13903/2014). Segue. Modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c. e inefficacia ex art. 669-novies c.p.c. L'altro profilo di interferenza da esaminare è quello tra la modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c. e l'inefficacia regolata dall'art. 669-novies c.p.c. (al cui commento si rinvia). A mente di tale ultima disposizione – come noto – la perdita di efficacia della misura cautelare consegue ad una serie di fatti esterni alla misura ma al cui verificarsi il legislatore ha scelto di condizionare la sua perduranza nell'ordinamento giuridico (Carratta 2013, 331). Si tratta, segnatamente: a) del mancato inizio del giudizio di merito nel termine perentorio previsto dalla legge o fissato dal giudice, ovvero della sua successiva estinzione, per i provvedimenti cd. conservativi, ai sensi dell'art. 669-octies c.p.c. (al cui commento si rinvia); b) del mancato versamento della cauzione di cui all'art. 669-undecies c.p.c. (al cui commento si rinvia); e c) del riconoscimento dell'inesistenza del diritto a cautela del quale la misura cautelare fu concessa, con sentenza di primo grado. La modifica o la revoca ex art. 669-decies c.p.c., invece – come ampiamente rilevato – sono esiti derivanti da una nuova valutazione giudiziale in ordine ai presupposti, fumus boni iuris e periculum in mora, che giustificarono l'originaria emissione della misura, alla luce di una serie di nova considerati dalla legge idonei a fondare una rimodulazione del contenuto precettivo della cautela originaria o la sua espunzione dal circuito giuridico. Si tratta sempre di fatti esterni ma in un senso diverso da quello rilevante ai fini dell'inefficacia. I mutamenti nelle circostanze, nella latitudine comprensiva delle nuove ragioni di fatto e di diritto che a questa locuzione conferisce la realtà applicativa (v. supra ed infra) sono infatti rilevanti nella misura in cui giustificano la rimozione della cautela o la modifica del suo contenuto precettivo in funzione di meglio assicurare gli effetti della decisione sul diritto cautelato. In tale dimensione, perciò, una vicinanza piuttosto netta può registrarsi tra cause di inefficacia ex art. 669-novies c.p.c. e presupposti della modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c.solo in riferimento alla sentenza di merito che dichiari l'inesistenza del diritto cautelato. L'acclarata assenza del bene tutelato in via cautelare è infatti da sempre naturalmente ostativa al permanere della cautela nel circuito giuridico, come mostra l'evoluzione storica del dibattito intorno alla modifica/revoca (v., amplius, supra), olim collegate in via esclusiva, in assenza di una disciplina ad hoc, proprio alla sentenza finale di merito in dipendenza del suo concreto contenuto precettivo. Occorre tuttavia intendersi. Le considerazioni appena effettuate non possono infatti fondare una ricostruzione di mutamento delle circostanze tale da ricomprendervi il sopravvenire della sentenza di merito che accerti l'inesistenza del diritto cautelato. Anche aderendo all'orientamento che considera, ai fini della revoca ex art. 669-decies c.p.c., anche circostanze inerenti lo svolgimento della causa di merito (ad esempio, le risultanze di nuove prove, documenti, consulenze tecniche d'ufficio) mai potrebbe annoverarsi tra i nova rilevanti anche la sopravvenienza di una pronuncia che contenga la decisione della controversia. Ad argomentare in senso contrario, infatti, il tema della revoca del provvedimento cautelare sconfinerebbe inevitabilmente in quello dell'inefficacia (art. 669-novies c.p.c.), che appunto copre l'ipotesi in cui venga dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale il provvedimento cautelare fu reso. A ben vedere, infatti, in ossequio al principio di specialità, altro è il verificarsi di una circostanza sopravvenuta o di una circostanza esistente ma non conosciuta al momento della concessione del provvedimento cautelare, altro è un accertamento che comporti, anche in diritto, la definizione della controversia in senso ostativo al titolare del diritto cautelato. Questa ipotesi, isolata dal legislatore ed autonomamente regolata, è infatti da considerare lex specialis e dunque attratta in via esclusiva all'area della norma che la prevede (l'art. 669-novies c.p.c., appunto). La giurisprudenza ha applicato questa logica in materia di rapporti fra lodo arbitrale e misure cautelari. Si è ritenuta, infatti, applicabile in via estensiva o analogica la disciplina delineata dall'art. 669-novies c.p.c. anche in ipotesi in cui la controversia sia decisa con lodo irrituale pronunciatosi per la inesistenza del diritto cautelato, sussistendone la medesima ratio. L'art. 669-novies c.p.c. lascia intendere che il provvedimento cautelare divenga inefficace non quando si raggiunga un dictum avente natura definitiva sulla vicenda, ma quando si giunga ad un provvedimento di merito che disattende il diritto a fronte del quale il ricorrente aveva ottenuto il provvedimento cautelare (Trib. Reggio Emilia 21 giugno 2007). Ma vi è un ulteriore angolo visuale da cui guardare ai rapporti tra art. 669-novies c.p.c. e art. 669-decies c.p.c. Si tratta, segnatamente, della possibilità prevista dal comma 2 dell'art. 669-novies c.p.c. che il giudice disponga, nel corso del giudizio contenzioso volto all'accertamento dell'inefficacia sopravvenuta della misura, proprio le misure previste dall'art. 669-decies c.p.c. Occorre allora chiedersi se la disposizione vada letta nel senso che, pendente tale giudizio, la competenza a disporre la modifica/revoca ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c. passi senz'altro, ed in via esclusiva, al giudice che deve pronunciare l'inefficacia. In dottrina, si tende ad escludere questa conclusione, che viene ritenuta irragionevole nella misura cui priverebbe della competenza a rimodulare il contenuto della misura o ad eliminarla del tutto proprio il giudice (quello indicato dall'art. 669-decies c.p.c., appunto) che meglio di altri è in grado di apprezzare il mutamento del quadro fattuale e processuale su cui la concessione della cautela fu basata (v., in tal senso, ad esempio, Carratta 2013, 327; Sassani 2006, 491). La ratio dell'art. 669-novies c.p.c., in parte qua, andrebbe allora ricercata altrove, ed in particolare in ragioni di opportunità. Considerata, cioè, la durata del giudizio contenzioso volto alla dichiarazione di inefficacia, ed al fine di evitare possibili manovre dilatorie da parte di chi si avvantaggia della misura cautelare della cui efficacia si dibatte, il legislatore conferisce al giudice, in via interinale e provvisoria e su domanda di parte, il potere di rimodulare il contenuto della cautela o di eliminarla del tutto nell'attesa della decisione finale sulla sua inefficacia. Il potere riconosciuto al giudice dell'inefficacia si affianca perciò, in questa logica, al potere del giudice individuato dall'art. 669-decies c.p.c. segnatamente quello della causa di merito che sia eventualmente pendente. Non si può, infatti, escludere la contemporanea pendenza di entrambi i giudizi, quello sul diritto cautelato e quello sull'accertamento della sopravvenuta inefficacia del provvedimento cautelare, né il sopravvenire di mutamenti nelle circostanze tali da giustificare una domanda ex art. 669-decies c.p.c. al giudice della causa di merito anche se è pendente il giudizio contenzioso sulla inefficacia (Merlin 2011, 473; Carratta 2013, 328). Secondo questa lettura, perciò, il combinato disposto degli artt. 669-decies c.p.c. e 669-novies, comma 2, c.p.c. comporta un ampliamento eccezionale dei poteri di modifica/revoca della misura cautelare, che vengono riconosciuti anche al giudice dell'inefficacia in base alla delibazione della possibile fondatezza della domanda volta alla declaratoria dell'inefficacia stessa. Nella giurisprudenza di merito (Trib. Padova 12 novembre 1998), il disposto del comma 2 dell'art. 669-novies c.p.c. viene inteso proprio come conferimento al giudice dell'inefficacia del potere di delibazione della probabile fondatezza/infondatezza della domanda volta alla declaratoria di inefficacia, quale presupposto per disporre la revoca o modifica della misura della cui inefficacia si dibatte. Si afferma però che tale delibazione integra il «mutamento delle circostanze» di cui discorre l'art. 669-decies c.p.c. Al contrario della dottrina, la giurisprudenza sembra perciò maggiormente incline a sovrapporre, più che tenere separate ed affiancate, le due prescrizioni normative (e i due relativi ambiti di competenza). I presupposti: principi della domanda e del contraddittorio.La revoca o la modifica del provvedimento cautelare sono soggette al principio della domanda (ne procedat iudex ex officio). Non è, dunque, consentito al giudice investito della causa di merito di avere officiosi ripensamenti in ordine alla perdurante sussistenza (o all'originaria insussistenza) dei presupposti di pericolo nel ritardo e di verosimile fondatezza dell'istanza posti a base dell'adozione della misura stessa. La precisazione in tal senso dell'art. 669-decies c.p.c., che fa espresso riferimento appunto all'istanza di parte, è stata considerata sommamente opportuna. In sua assenza, infatti, si sarebbe potuto porre il dubbio se il potere di revoca/modifica potesse essere esercitato solo od anche in maniera officiosa. Si è in proposito notato (Merlin 1993, 355) come sia connaturata alla natura più profonda della tutela cautelare, che prescinde dall'effettivo accertamento delle ragioni delle parti, l'eventualità che ciò che appariva prima facie fondato nel prosieguo del giudizio non lo appaia più così tanto. E, tuttavia, ciò non è sufficiente, solo in quanto tale, a far venir meno la giustificazione della perdurante efficacia della misura poiché essa si regge anche sulla valutazione del concreto periculum in mora, rispetto al quale la probabile esistenza del diritto assume una funzione complementare, di conferimento, per così dire, di «rilievo giuridico». Ne esce confermata la conclusione che proprio le valutazioni in ordine alla perdurante incidenza di tale periculum debbano essere rimesse alla parte interessata, cui solo compete, perciò, il potere di chiedere la eventuale modifica o revoca del provvedimento già concesso. L'esame della domanda di revoca o modifica (in specie, del sequestro) ex art. 669-decies c.p.c., presuppone comunque l'instaurazione del contraddittorio; così in materia di giudizio contabile, si è affermato che va resa pronuncia di inammissibilità laddove la parte non abbia dato comunicazione, all'ufficio del procuratore regionale, della relativa istanza e del pedissequo decreto di fissazione dell'udienza (nella fattispecie, devoluta alla cognizione del giudice designato, il relativo giudizio di merito risultava interrotto per l'avvenuto decesso di uno dei convenuti: C. conti Campania, n. 412/2003). La domanda di modifica del provvedimento cautelare può avere ad oggetto anche l'aggravamento della portata di un provvedimento di inibitoria: tali debbono considerarsi episodi denigratori nuovi rispetto a quelli sulla base dei quali era stata concessa l'inibitoria stessa (si immagini, a titolo esemplificativo, l'insorgere di nuovi episodi fattuali che abbiano aggravato la situazione di pericolo di danno). È, comunque, essenziale considerare che la revoca o la modifica del provvedimento cautelare non possono essere pronunciate semplicemente in esito a riesame o diversa valutazione degli stessi elementi considerati al momento della sua pronuncia, essendo ammissibile soltanto l'esame di un diverso substrato materiale e giuridico. Segue. Revoca ex art. 669-decies c.p.c. e revoca del sequestro ex art. 684 c.p.c. Occorre, poi, una actio finium regundorum tra la revoca disciplinata dall'art. 669-decies c.p.c. ed un istituto avente la stessa denominazione ma non basato sulla valutazione di mutamenti nelle circostanze e disciplinato dall'art. 684 c.p.c. A mente di tale ultima disposizione: «Il debitore può ottenere dal giudice istruttore, con ordinanza non impugnabile, la revoca del sequestro conservativo, prestando idonea cauzione per l'ammontare del credito che ha dato causa al sequestro e per le spese, in ragione del valore delle cose sequestrate». Si tratta della c.d. revoca del sequestro conservativo, rispetto alla quale ci si interroga da sempre se essa consista in un ritiro, con effetto ex nunc, del provvedimento autorizzativo o, invece, in una semplice conversione di oggetto, diretta a consentire al debitore di riottenere la disponibilità dei beni sottoposti a vincolo (v., su questi profili, anche il commento all'art. 669-undecies c.p.c.). La possibile risposta riposa su una duplice circostanza. La prima consiste nel rilievo che la ratio della norma consiste nel legittimare il debitore a liberare i propri beni dal vincolo del sequestro, prestando appunto le opportune garanzie. La seconda considerazione è nel senso che se la cauzione viene considerata quale nuovo oggetto di sequestro, appare pienamente rispettato il principio della par condicio creditorum di cui all'art. 2741 c.c., consentendo, in seguito alla conversione del sequestro conservativo in pignoramento ai sensi dell'art. 686 c.p.c., il concorso degli altri eventuali creditori nell'esecuzione forzata. È per questo che pare preferibile ritenere che l'art. 684 c.p.c. non codifichi una revoca in senso tecnico del provvedimento di autorizzazione del sequestro ma una ipotesi di conversione del suo oggetto che non implica in alcun modo il riconoscimento della legittimità della misura cautelare ma solo il trasferimento del vincolo sulla somma determinata dal giudice. Anche la giurisprudenza (App. Lecce 12 gennaio 1995) è orientata per la seconda tesi. Essa afferma, infatti, che l'art. 684 c.p.c. integra un'ipotesi di conversione del sequestro in un deposito cauzionale che, non implicando il riconoscimento della legittimità del sequestro e concretandosi soltanto nell'adozione di una misura provvisoria diretta a consentire la disponibilità delle cose sequestrate senza perdita per il creditore della garanzia a tutela del suo credito, lascia intatta la necessità di tutti gli adempimenti successivi richiesti a pena di inefficacia della misura. Per parte sua la giurisprudenza di legittimità (Cass. I, n. 9291/1999) ha affermato che, «in tema di procedimento di sequestro, secondo il regime normativo antecedente la riforma di cui alla l. n. 353/1990 e successive modifiche, l'accoglimento dell'istanza di revoca ex art. 684 c.p.c. di un sequestro conservativo autorizzato ante causam e la conseguente conversione del sequestro in un deposito cauzionale, non implicando il riconoscimento della legittimità del sequestro e concretandosi soltanto nell'adozione di una misura provvisoria diretta a consentire la disponibilità delle cose sequestrate senza perdita per il creditore della garanzia a tutela del suo credito, non comporta il venir meno delle incombenze successive alla concessione del sequestro, previste dall'art. 675 c.p.c., a proposito dell'esecuzione del sequestro entro il termine ivi previsto, e dall'ora abrogato art. 680 c.p.c., a proposito dell'instaurazione del giudizio di convalida» (v., altresì, Cass. II, n. 18278/2007; Cass. I, n. 921/1999). A tale orientamento, formatosi nel vigore della disciplina precedente alla legge del 1990, e quindi in costanza del cd. giudizio di convalida del sequestro, può farsi capo anche nell'assetto attuale pur dovendosi sostituire il giudizio di merito sul diritto cautelando al giudizio di convalida, oggi non più previsto. Si è, altresì, precisato che proprio l'art. 684 c.p.c., nel prevedere la revoca del sequestro in conseguenza della prestazione di idonea cauzione e nel commisurare quest'ultima all'ammontare del credito e delle spese (anche se in ragione delle cose sequestrate), realizza pur sempre – mediante il trasferimento del vincolo dai beni asserviti alla cauzione- la funzione primaria di garantire l'adempimento del credito azionato (Cass. I, n. 520/1995). Ancora più evidente è l'alienità tra revoca del sequestro e revoca ex art. 669-decies c.p.c. negli orientamenti di legittimità in materia di sequestro conservativo penale. Si è, infatti, deciso che detta misura è suscettibile di revoca solo nel caso in cui venga offerta idonea cauzione e non anche per il venir meno dei presupposti che ne hanno legittimato l'adozione (così, da ultimo, Cass. IV, n. 39171/2013, che precisa prima della definitività della sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere; in senso conforme, v. Cass. V, n. 2196/1995; Cass. VI, n. 2626/1996; Cass. VI, n. 2794/1996; Cass. V, n. 45929/2005; Cass. III, n. 35396/2010; Cass. V, n. 40407/2012; nonché, in obiter, Cass. S.U., n. 34623/2002, laddove affermano che il sequestro conservativo, al contrario delle misure cautelari personali, è misura irrevocabile, di talché la mancata impugnazione del relativo provvedimento impositivo ai sensi dell'art. 318 c.p.p. ne determina la definitività). Un diverso orientamento ritiene, invece, che la mancata previsione della revocabilità del sequestro conservativo non può significare che, nel caso di mancata attivazione degli ordinari strumenti di gravame, non possa poi richiedersi la caducazione del provvedimento impositivo, dal momento che coessenziale a ogni misura cautelare è la strumentalità a un'esigenza sostanziale e al processo. Ne deriva, perciò, la possibilità di revoca del provvedimento quando sia accertata, anche ex officio, l'insussistenza – tanto più se genetica – dei presupposti che lo legittimano (Cass. VI, n. 1778/1998; Cass. VI, n. 13624/2003; Cass. II, n. 7226/2007). Ma, anche a non volere accedere a tale secondo orientamento, che si esprime in termini generali e di fatto comprende le più disparate situazioni, occorre tuttavia considerare che la prestazione di idonea cauzione è obiettivamente un minus rispetto all'integrale risarcimento del danno, da cui consegue addirittura il venir meno della pretesa civilistica che sostanzia il vincolo. Non può, infatti, dimenticarsi che «il sequestro conservativo penale, previsto dall'art. 316 c.p.p., corrisponde ad una misura di garanzia patrimoniale attuata mediante la creazione di un vincolo di indisponibilità sui beni dell'imputato diretto ad evitare la dispersione delle garanzie per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario dello Stato (comma 1), nonché delle garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato (comma 2). In quest'ultima ipotesi il fondamento giustificativo del sequestro conservativo trae titolo dall'inserimento dell'azione civile nel processo penale, essendo qualificato, sotto il profilo funzionale, dallo scopo di assicurare l'effettività dell'adempimento delle obbligazioni restitutorie e risarcitorie derivanti dalla sentenza di condanna, in modo da prevenire condotte poste in essere dall'imputato o dal responsabile civile, nelle more del processo penale, nell'intento di vanificare la responsabilità patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c.» (Cass. S.U., n. 30/2000). In situazioni, dunque, riferibili a sequestro disposto ai sensi dell'art. 316, comma 2, c.p.p., in cui non solo la pretesa civilistica non è in pericolo perché l'imputato ha offerto idonea cauzione, ma essa è venuta addirittura meno per integrale risarcimento della pretesa o transazione sulla stessa con rinunzia all'azione civile, vengono meno non soltanto i presupposti interni all'istituto (costituiti da fumus e periculum), ma la precondizione stessa della misura. Precondizione che, nel caso, si ripete, del comma 2, risiede appunto nell'esistenza di un'azione civile per una obbligazione da soddisfare, venuta meno la quale la misura cautelare di garanzia non può che estinguersi. Segue. La revoca del sequestro ex art. 669-decies c.p.c. Quanto affermato supra non esclude che, anche in tema di sequestro, operi la prescrizione generale dell'art. 669-decies c.p.c. (qui in commento). In materia di giudizio di conto, si è, ad esempio, affermato, in linea generale, che, ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c., il provvedimento di revoca o modifica della misura cautelare può essere concesso solo ove si siano verificati mutamenti nelle circostanze idonei ad incidere sull'uno o sull'altro dei due presupposti della misura stessa (fumus boni iuris e periculum in mora). Ne consegue che il giudice investito del ricorso diretto ad ottenere la revoca o modifica del sequestro conservativo autorizzato e confermato deve solo accertare se è sopraggiunto un quid pluris sul piano fattuale che il giudice del provvedimento revocando non ha potuto utilizzare perché indisponibile al momento della formazione del suo convincimento. Si è, inoltre, ritenuto che il giudice designato a esercitare il potere di revoca o di modifica del sequestro conservativo, autorizzato e confermato ante causam, non può fondare la propria decisione su convincimenti giuridici diversi da quelli del giudice della cautela, dovendo egli accertare solo l'intervento di sopravvenienze sul piano fattuale, non esistenti e/o non conoscibili in precedenza, che possono avere rilievo incisivo, concreto e attuale sul fumus e/o sul periculum (C. conti Campania, n. 19/2002), così rimarcandosi nettamente la distinzione tra controllo del provvedimento e verifica delle sopravvenienze. Del pari, si è deciso che la richiesta di revoca o modifica del sequestro, ex art. 669-decies c.p.c., assolve alla funzione di adeguare il provvedimento cautelare agli sviluppi del processo indotti da un mutamento della situazione di fatto o di diritto che abbia per effetto il sopravvenuto venir meno, in tutto o in parte, dei presupposti cautelari del periculum in mora e del fumus boni iuris. Ne deriva che la relativa domanda non può trovare accoglimento laddove l'interessato deduca solo il deterioramento del bene sottoposto alla misura de qua. Tale situazione può, infatti, solo comportare l'ordine di vendita ex art. 685 c.p.c. ovvero dare ingresso all'eventuale responsabilità del soggetto cui sia stata affidata la custodia (C. conti Campania, n. 413/2003). La latitudine dei «mutamenti nelle circostanze»Come in più occasioni rilevato, l'art. 669-decies c.p.c. legittima la domanda di modifica o revoca del provvedimento cautelare solo «se si verificano mutamenti nelle circostanze», ovvero se vengono allegati altri fatti anche preesistenti alla pronuncia cautelare, ma non conosciuti al tempo del processo che ha messo capo a quella pronuncia. L'art. 669-decies c.p.c., a differenza dell'art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia), non consente perciò di riproporre la stessa domanda già avanzata perché un nuovo giudice ne effettui, puramente e semplicemente, una diversa valutazione. A fronte di un esito di revoca /modifica della cautela comune sia al reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. che alla domandaex art. 669-decies c.p.c., diversi se ne mostrano (almeno in parte, al netto cioè delle sopravvenienze in base al tempo della loro insorgenza: v. amplius supra) i presupposti: se al giudice del reclamo può essere sottoposto lo stesso materiale che ha fondato la domanda in prime cure perché ne effettui una nuova (e diversa) valutazione, al giudice individuato dall'art. 669-decies c.p.c. occorre fornire una serie di nova perché se ne giustifichi una rinnovata valutazione su fumus e periculum che a suo tempo giustificarono l'emissione della misura di cui si chiede, appunto, la modifica o revoca. È, dunque, centrale, nella ricostruzione dei presupposti di accesso alla revoca/modifica ex art. 669-decies c.p.c., la perimetrazione dell'area coperta dai «mutamenti nelle circostanze» e/o dei «fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare». Secondo un primo orientamento, più restrittivo, l'espressione si riferisce alle sole circostanze extra processuali, con esclusione perciò delle vicende relative allo svolgimento della causa di merito in corso. Il primo significato che può ascriversi alla locuzione «mutamenti nelle circostanze» rimanda, dunque, senz'altro a fatti nuovi la cui insorgenza si mostra tale da modificare o ribaltare il contenuto precettivo della cautela originariamente forgiata per assicurare/anticipare provvisoriamente gli effetti della decisione nel merito. Si tratta, quindi, di sopravvenienze di fatto di natura sostanziale (Balena, 364). Tale orientamento annovera tra i suoi seguaci sia chi limita le nuove circostanze rilevanti ai fatti storici sopravvenuti (Tommaseo, 104), sia chi si spinge fino a ricomprendervi anche lo ius superveniens (Petrillo 2007, 203; Cecchella 1997, 143). Un secondo orientamento, più estensivo, ampliava invece, nel contesto originario dell'art. 669-decies c.p.c. (anteriore cioè alle modifiche limitative del 2005) la latitudine del «mutamento nelle circostanze» fino a ricomprendervi l'allegazione di fatti preesistenti ma non allegati, nonché l'insorgenza di nuove prove o comunque nuove risultanze acquisite nel corso processo di merito (Sassani 1996, 671). Non sono mancate neppure in giurisprudenza, come già rilevato (v. amplius supra) letture estensive volte a ricomprendere nelle sopravvenienze rilevanti ai fini di una rivalutazione dell'esistenza di fumus boni iuris e periculum in mora anche fatti meramente probatori ed endoprocessuali (Trib. Messina 15 dicembre 1997), inveranti cioè una evoluzione del quadro probatorio rispetto al quale era stato assunto il provvedimento cautelare originario e tali da imporne perciò una rimodulazione del contenuto precettivo o una totale eliminazione. E sempre in riferimento al testo originario dell'art. 669-decies c.p.c., la giurisprudenza di merito aveva ritenuto, com'è noto (v., amplius, supra), che nella nozione di mutamenti nelle circostanze dovesse ricomprendersi altresì quel complesso di circostanze che, ancorché già esistenti nel corso del processo che ha messo capo al provvedimento di cui si chiede la revoca/modifica, non erano tuttavia state allegate (Trib. Roma 15 maggio 1995; Trib. Udine 14 dicembre 1994; Trib. Foggia 12 luglio 1993; Trib. Bari 25 marzo 1993). La modifica dell'art. 669-decies c.p.c. operata nel 2005 ha, però, reso impraticabile questo sentiero interpretativo poiché oggi l'allegazione di fatti anteriori è consentita solo nella misura in cui se ne sia acquisita conoscenza «successivamente al provvedimento cautelare». La modifica normativa ha inteso porre un punto fermo nel frastagliato panorama interpretativo che faticava a trovare un assetto stabile nella delimitazione dei nova idonei a consentire la modifica o revoca della cautela già resa. La direzione in concreto imboccata dal legislatore del 2005 è stata quella di restituire una maggiore stabilità a quest'ultima, imponendo a chi ne pretenda una rimodulazione o una eliminazione dal mondo giuridico di dimostrare la serietà, per così dire, della propria domanda. E tale serietà si concreta, appunto, nel sottoporre al giudicante sopravvenienze vere e proprie, circostanze cioè mai vagliate nel processo che ha messo capo al provvedimento di cui si chiede la modifica/revoca, perché solo il mutamento del quadro di riferimento può giustificare il mutamento dell'assetto di interessi fissato dal provvedimento (da parte del giudice di primo grado e/o eventualmente di quello del reclamo). Laddove, invece, i fatti su cui si intende fondare la domanda ex art. 669-decies c.p.c. siano nuovi solo nel senso che non furono mai allegati in giudizio ancorché all'epoca già verificatisi, occorre assolvere all'onere ulteriore di dimostrarne la incolpevole ignoranza. Il dibattito interpretativo ha dunque seguìto, dopo l'intervento chiarificatore del 2005, altre strade (v., amplius, sui termini del complesso dibattito, anche Giordano 2014, 1256). Continua, infatti, a registrarsi una differenza di vedute tra chi ritiene che tra i fatti nuovi debbano ricomprendersi anche le sopravvenienze probatorie (le nuove prove ed in generale l'evoluzione del quadro fattuale che proprio l'espletamento dell'istruttoria rende progressivamente leggibile nel corso del giudizio dichiarativo: così Luiso, Sassani 2006, 226); e chi invece ritiene che i fatti nuovi rilevanti debbano essere solo quelli di consistenza extraprocessuale, cioè i fatti materiali (Saletti 2006, 80; Petrillo, 200). Il mutamento di circostanze che legittima la richiesta di revoca o modifica può riguardare tanto il diritto soggettivo (si pensi a un pagamento di una polizza fideiussoria che, una volta inibito, venga revocato in quanto è sopravvenuto un decreto ingiuntivo esecutivo); quanto un'alterazione del bilanciamento degli interessi o del periculum in mora. Così accade, perciò, se viene meno lo stato di fatto che si era manifestato come pericoloso, o ancora la verificazione dell'evento che si intendeva scongiurare, con conseguente venir meno dell'utilità connessa all'emanazione della cautela. Quale che sia la latitudine da riconoscere alla locuzione «mutamenti nelle circostanze», la realtà applicativa mostra come in essa non rientri mai una nuova valutazione dello stesso substrato giuridico e materiale che giustificò l'emissione della prima misura. Si è così deciso che le questioni giuridiche relative alla concedibilità del provvedimento cautelare (nella specie, sequestro conservativo) non sono riconducibili al mutamento delle circostanze che ne consente la revoca o la modifica ex art. 669-decies c.p.c. e non possono, quindi, essere proposte (neppure) nel giudizio di merito (Cass. I, n. 13903/2014). In riferimento ai provvedimenti nell'interesse della prole e dei coniugi emanati dal presidente del tribunale nel giudizio di separazione, questa regola è stata ribadita precisando che tali provvedimenti sono modificabili e revocabili da parte del giudice istruttore della fase contenziosa del processo di separazione soltanto in caso di elementi sopravvenuti o, se preesistenti, incolpevolmente ignorati (Trib. Trani 28 aprile 2006). Il semplice decorso del tempo, in quanto elemento già valutabile da parte del giudice che ha emesso il provvedimento cautelare o eventualmente del giudice del reclamo, non costituisce di per sé mutamento nelle circostanze che legittimi il ricorso per revoca o modifica ex art. 669-decies c.p.c. È, però, da ritenersi che la prova sulla sussistenza attuale del fumus boni iuris sia comunque indispensabile per la conferma del provvedimento cautelare, di talché in assenza di tale prova deve essere revocata la sospensione dell'escussione della fideiussione disposta in via provvisoria dal giudice (Trib. Verona 30 dicembre 2003). È, invece, ammissibile la revoca di un provvedimento di descrizione emesso inaudita altera parte su istanza della parte che abbia subito la descrizione stessa, in forza dell'art. 669-decies c.p.c. e nel rispetto del principio generale stabilito dalla direttiva enforcement, la quale impone la conferma di ogni provvedimento di protezione pronunciato inaudita altera parte quando ne faccia richiesta il convenuto (Trib. Venezia 25 ottobre 2007). In ipotesi di sospensione del processo contabile di merito, motivata con l'opportunità di attendere la conclusione del procedimento penale che si celebri in ordine agli stessi fatti, deve ritenersi inammissibile la prospettazione di doglianze concernenti circostanze già conosciute e/o dibattute prima dell'adozione dell'ordinanza di sospensione, qualora esse siano poste a base di un'istanza di dissequestroex art. 669-decies c.p.c. proposta in epoca successiva a tale ultima data (C. conti Campania, n. 184/2005). Si è, poi, deciso che costituisce sopravvenienza l'improcedibilità del sequestro conservativo concesso nei confronti di una società a fare data dalla presentazione della domanda di ammissione alla procedura di amministrazione controllata, stante il divieto di azioni esecutive sancito dall'art. 168 della l. fallim., richiamato integralmente dall'art. 188 della stessa legge. In conseguenza, il sequestro conservativo concesso anteriormente alla presentazione della domanda deve essere revocato ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c. (Trib. Torino 31 luglio 2000). Si è, altresì, ritenuto che la sopravvenuta esecutività di un decreto ingiuntivo non opposto costituisca presupposto sufficiente per ottenere la revoca del provvedimento d'urgenza che ha sospeso il pagamento di polizze fideiussorie relative ad un contratto autonomo di garanzia (Trib. Trani 22 gennaio 1996). Diversa dalla revoca per mutamenti delle circostanze sin qui descritta è quella che dipende dall'adattamento della situazione cautelata con riferimento alle modalità attuative del provvedimento (Tommaseo, 106). A mente dell'art. 669-duodecies c.p.c. (al cui commento si rinvia), che attribuisce al giudice il potere non solo di controllare lo stato dell'attuazione, ma anche di determinare le modalità attuative e risolvere le difficoltà, può darsi la necessità per il giudice che ha pronunciato il comando cautelare di esercitare il controllo sull'attuazione dei provvedimenti aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio ovvero di determinare le modalità attuative e di risolvere, con i provvedimenti opportuni, le difficoltà insorte in itinere. Su questo punto, la giurisprudenza di legittimità è intervenuta evidenziando che l'art. 669-decies c.p.c prevede che, nel corso dell'istruzione, il giudice istruttore della causa di merito possa, su istanza di parte, modificare o revocare il provvedimento cautelare, anche emesso anteriormente alla causa, qualora si verifichino mutamenti nelle circostanze, mentre l'art. 669-duodecies c.p.c., con disposizione di chiusura avente carattere generale, applicabile (art. 669-quaterdecies c.p.c.) anche ai sequestri, stabilisce che ogni altra questione in ordine all'attuazione della misura cautelare, diversa da quelle in precedenza esaminate nel medesimo articolo (concernenti le mere difficoltà materiali insorte nel corso dell'esecuzione: art. 610 c.p.c.), vada proposta nel giudizio di merito. Ne discende che le contestazioni mosse in ordine all'esecuzione del sequestro non assumono natura di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, ma conservano la loro natura di eccezioni del soggetto che ha subìto la misura cautelare, idonee soltanto a sollecitare l'esercizio, da parte del giudice di merito, dei poteri di modifica, integrazione, precisazione o revoca del provvedimento (Cass. I, n. 19101/2003). Sempre in tema di sequestri si è ritenuta inammissibile la domanda di modifica dell'ordinanza, ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c., avanzata sul presupposto dell'avvenuta sostituzione del custode giudiziario dal momento che la sostituzione del custode non può considerarsi un mutamento di circostanze idoneo a giustificare una rivisitazione del provvedimento di sequestro (Trib. Trani 8 gennaio 2008). La giurisprudenza si è, altresì, interrogata su quale sia il regime normativo applicabile in materia di rapporti fra lodo arbitrale e misure cautelari, quando cioè l'inesistenza della posizione sostanziale a protezione della quale fu concessa una misura cautelare venga sancita da un lodo irrituale. Si è così deciso a favore dell'applicabilità, in via estensiva o analogica, della disciplina delineata dall'art. 669- noviesc.p.c. (Trib. Reggio Emilia 21 giugno 2007), sussistendone la medesima ratio. L'art. 669-novies c.p.c. (al cui commento si rinvia) lascia, infatti, intendere che il provvedimento cautelare divenga inefficace non quando si raggiunga un dictum avente natura definitiva sulla vicenda, ma quando si giunga ad un provvedimento di merito che disattende il diritto a fronte del quale il ricorrente aveva ottenuto il provvedimento cautelare. L'ipotesi esula invece, per il tribunale, dall'àmbito applicativo della revoca prevista dall'art. 669-decies c.p.c. Non si può infatti ritenere che, nel «mutamento delle circostanze» possa rientrare anche la pronuncia che contenga la decisione della controversia in senso ostativo a chi ha chiesto la tutela del diritto cautelato. Tale ultimo effetto è infatti dovuto al fisiologico prevalere del provvedimento destinato alla decisione della controversia su quello deputato solo ad assicurarne gli effetti. La giurisprudenza si è, poi, soffermata anche sul regime dell'ordinanza con la quale, ai sensi dell'art. 830 c.p.c., ultimo comma, la corte d'appello sospende l'efficacia del lodo al ricorrere di gravi motivi. Si è così deciso che a tale provvedimento (inibitoria) sia applicabile il regime di stabilità dei provvedimenti cautelari, con la conseguenza che la modifica e/o la revoca del provvedimento emesso possa tra l'altro avvenire, alla luce dell'art. 669-decies, comma 1, c.p.c., se si verificano mutamenti nelle circostanze (App. Roma 21 marzo 2011). Conseguentemente, in assenza di espressa previsione di legge che dichiari il provvedimento ex art. 830, ultimo comma, c.p.c. non impugnabile – e dunque non soggetto al regime ordinario di revocabilità delle ordinanze – quest'ultimo deve ritenersi modificabile o revocabile da parte del giudice che lo ha emesso. I «fatti anteriori» di cui si è acquisita successiva conoscenza.L'allegazione di fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare costituisce la novità che, come più volte rilevato, il legislatore del 2005 ha inserito nella disciplina della modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c. allo scopo di razionalizzarne l'applicazione anche rispetto al contiguo istituto del reclamoex art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia). Si tratta della seconda tipologia di nova che possono fondare l'istanza di revoca o modifica della misura cautelare sia emessa nel corso del giudizio di merito che ante causam. I fatti in questione sono quelli occorsi anteriormente alla pronuncia del provvedimento cautelare (e dunque deducibili) ma in concreto non dedotti perché non conosciuti. È per questo che la parte interessata alla modifica/revoca ha l'onere di fornire la prova di averli conosciuti successivamente alla pronuncia del provvedimento stesso (Recchioni, 701). I fatti successivamente conosciuti si distinguono nettamente dai fatti sopravvenuti i quali, viceversa, essendo tali in quanto successivi alla fase del passaggio in decisione nel procedimento di concessione del provvedimento cautelare, non abbisognano di alcuna prova in ordine al tempo in cui degli stessi si è avuta conoscenza. Sono quindi fatti anteriori quelli avvenuti prima della pronuncia, sia essa di prime cure che di reclamo. In relazione a questi l'istante deve pertanto indicare, a pena di inammissibilità della domanda ex art. 669-decies c.p.c., l'indicazione del fatto preesistente e il giorno della scoperta. Se il collegio investito del reclamo ometta o rifiuti di prendere in considerazione le novità o i fatti preesistenti allegati dopo la proposizione dell'impugnazione, la parte interessata potrà chiedere la revoca o modifica del provvedimento al giudice della causa di merito o, in difetto, a quello che ha provveduto sull'istanza cautelare (art. 669-decies, comma 2, c.p.c.). La prova attiene solo al momento della conoscenza, prescinde da ogni valutazione circa l'imputabilità della stessa (ma alcune pronunce di merito hanno preteso anche la dimostrazione della incolpevole ignoranza: v., ad esempio, Trib. Torino 17 febbraio 2011). E la stessa prova può essere data con ogni mezzo, tipico o atipico: l'importante è la idoneità a dare evidenza sia dell'esistenza del fatto che del tempo della sua conoscenza (Recchioni, 702). Se pendono i termini di reclamo o il relativo procedimento, si considera preesistente e quindi ivi deducibile un fatto di cui l'interessato sia venuto a conoscenza prima del deposito dell'ordinanza collegiale e dopo l'ultima udienza: in tal caso, il collegio deve riattivare il contraddittorio, rimettendo in istruttoria il procedimento. In giurisprudenza, si è affermato, in una fattispecie concernente la sospensione del processo contabile di merito, motivata con l'opportunità di attendere la conclusione del procedimento penale che si celebri in ordine agli stessi fatti, che è inammissibile la prospettazione di doglianze concernenti circostanze già conosciute e/o dibattute prima dell'adozione dell'ordinanza di sospensione, qualora esse siano poste a base di un'istanza di dissequestroex art. 669-decies c.p.c. proposta in epoca successiva a tale ultima data (C. conti Campania, n. 184/2005). L'inutile decorso dei termini di reclamo.I profili di coordinamento tra gli artt. 669-decies c.p.c. e 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia) vanno ancora indagati in riferimento più specifico alla collocazione delle sopravvenienze nelle ipotesi di pendenza del termine per il reclamo. Per comprendere i termini della questione e la sua diversità almeno parziale rispetto quelle già esaminate (v. supra) occorre ancora tornare all'incipit dell'art. 669-decies c.p.c. ed alla relativa formula di salvaguardia «salvo che sia proposto reclamo.» Proprio tale formula sembra, infatti, suggerire che i mutamenti nelle circostanze legittimanti una domanda di modifica/revoca possano legittimamente essere spesi anche nel (o con il) giudizio di reclamo. L'art. 669-terdecies, comma 4, c.p.c., per parte sua, si limita a menzionare i «motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo» facendo così riferimento rigidamente a sopravvenienze che non hanno come referente temporale la rimessione in decisione nel procedimento cautelare di primo grado, né la pronuncia del provvedimento stesso bensì solo la proposizione del reclamo. Dunque, fino alla proposizione del reclamo sembra autorizzarsi agevolmente la lettura per cui se i presupposti per la revoca o modifica si verificano in pendenza dei relativi termini, la parte interessata possa avvalersi del rimedio del reclamo. Resta, però, ancora da chiedersi se il quadro normativo di riferimento possa essere letto in una sfumatura di significato diversa. Se, in altre parole, in pendenza dei termini di reclamo le sopravvenienze debbano necessariamente essere fatte valere in quella sede o basti invece semplicemente far spirare inutilmente i termini di impugnazione, per poi far valere quelle stesse sopravvenienze ai sensi dell'art. 669-deciesc.p.c. In questo possibile scenario, la parte interessata avrebbe così la scelta se, in presenza di sopravvenienze collocabili nel contesto cronologico della pendenza dei termini di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., farle valere proprio in sede di reclamo o far decorrere i relativi termini ed azionare successivamente il diverso rimedio dell'art. 669-decies c.p.c. Una parte della dottrina nega l'alternatività in pendenza dei termini ritenendo che la domanda di revoca/ modifica ex art. 669-decies c.p.c. sia proponibile solo – fermi restando i presupposti – dopo che si è chiuso il procedimento di reclamo ovvero dopo l'infruttuoso decorso dei termini per la sua proposizione (Menchini, 95; Recchioni, 775). Secondo altra parte della dottrina, invece, è solo l'effettiva pendenza del reclamo a obbligare la parte a spendere in tale sede il fatto nuovo, ferma restando la facoltatività del rimedio allorché si versi in pendenza del termine (Merlin 2008, 475; Vullo, 335). Si è, infatti, osservato (Merlin 2008, 476) che sarebbe «eccessivo onerare la parte che non abbia censure specifiche da spendere circa l'originaria giustificazione della misura cautelare di proporre reclamo solo per dedurre le sopravvenienze che potrebbero importarne la revoca o la modifica». Seguendo questa linea, la domanda di revoca e/o modifica dell'ordinanza cautelare ex art. 669-decies c.p.c. può essere proposta alternativamente al reclamo. Si tratterebbe, cioè, di due binari alternativi di tutela, avendo il primo lo scopo di invocare un ripensamento ad opera del giudice di merito, allorché si verifichino mutamenti nelle circostanze, anche ove sia pendente il termine per proporre il reclamo al collegio ex art. 669-terdecies c.p.c. I confini tra modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c. e reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., nonché quelli con il giudizio sul diritto cautelato sono lucidamente tracciati dalla giurisprudenza di merito. Si è, infatti, ritenuto che il collegio in sede di reclamo operi un integrale riesame del provvedimento anche con riguardo agli errores in procedendo. Quella della impugnazione è, infatti, la sedes privilegiata di verifica e controllo delle condizioni legittimanti la cautela concessa, laddove, invece, il giudice istruttore della causa di merito provvede alla revoca o alla modifica ex art. 669-decies c.p.c.solo se si verifichino mutamenti nelle circostanze, ossia sopraggiungano nuovi fatti. Pertanto, non si verifica sovrapposizione di competenze a decidere sul provvedimento cautelare emesso ante causam e il ricorso al reclamo non può considerarsi recessivo in ragione dell'inizio del giudizio di merito (Trib. Milano 2 marzo 1995). D'altra parte, la giurisprudenza è anche dell'avviso che, in forza dell'art. 669-decies, comma 2, c.p.c., la revoca e la modifica dell'ordinanza di accoglimento possono essere richieste al giudice che ha provveduto sull'istanza cautelare, ossia al giudice del reclamo, se si verificano mutamenti nelle circostanze o se si allegano fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare, qualora il giudizio di merito non sia iniziato o sia stato dichiarato estinto (Trib. Trani 10 gennaio 2012). Si è, poi, affermato che l'incipit dell'art. 669-decies c.p.c. («salvo che sia proposto reclamo»), su cui ci è già soffermati, non preclude al giudice istruttore la revoca del provvedimento, su richiesta di parte e in presenza dei presupposti indicati dall'art. 669-decies c.p.c. stesso, quando siano decorsi i termini per proporre il reclamo. Il caveat previsto dal legislatore ha infatti la sola finalità di coordinare il rimedio della revoca con quello del reclamo nel caso di pendenza del procedimento di reclamo o dei relativi termini. Non si riferisce, invece, alle circostanze anteriori di cui si sia acquisita conoscenza successiva e a quelle sopravvenute (Trib. Milano 1° dicembre 2014). Qualche incertezza nella giurisprudenza di merito ha comunque indotto a ritenere, talvolta, che la revoca o la modifica del provvedimento cautelare possano essere domandate solo allorquando nel processo relativo al diritto cautelato o al di fuori dello stesso si verifichino fatti sopravvenuti che incidano sulla valutazione di legittimità o di opportunità del permanere del vincolo cautelare (Trib. Udine 14 dicembre 1994). La revoca, inoltre, non può avere ad oggetto l'erronea liquidazione delle spese a seguito di ordinanza di accoglimento di domanda cautelare. La questione del regolamento delle spese dovrà infatti necessariamente essere affrontata con lo strumento del reclamo, in quanto attinente alla legittimità del provvedimento, tra l'altro in relazione a presupposti che non attengono al merito della decisione cautelare e dunque a profili che non lambiscono i presupposti della revoca (Trib. Napoli 20 gennaio 2000). La competenza: il giudice del merito.L'art. 669-decies c.p.c. disegna la competenza per la revoca/modifica in modo differenziato in ragione del concreto contesto processuale in cui la domanda si colloca. La disposizione distingue infatti il caso in cui, al momento di proposizione della relativa domanda, sia pendente il giudizio di merito (comma 1), dal caso in cui invece esso non sia mai stato instaurato o si sia successivamente estinto (ipotesi in cui la misura cautelare già resa sopravvive solo se di carattere «anticipatorio»: così gli artt. 669-octies e 669-novies c.p.c., al cui commento si rinvia). La disposizione si fa, altresì, carico di specificare le regole di competenza nel caso in cui il giudizio di merito, pur in corso, penda davanti ad un giudice italiano privo di competenza cautelare o invece ad un giudice straniero o, ancora, davanti agli arbitri. Infine, la disposizione prende posizione in ordine alla competenza a disporre la revoca/modifica se l'azione civile è stata esercitata o trasferita nel processo penale. Ebbene, in pendenza del giudizio di merito davanti ad un giudice dotato di competenza anche cautelare (giudice italiano togato: v., amplius, artt. 669-ter e 669-quater c.p.c., al cui commento si rinvia), la competenza a pronunciare la revoca o modifica è il giudice istruttore, anche rispetto a provvedimenti cautelari resi ante causam. I problemi ermeneutici posti dalla disposizione attengono a due profili generali: a) se la locuzione «nel corso dell'istruzione» debba leggersi in senso letterale, sì da collocare la domanda nella sola fase istruttoria in senso stretto ex art. 184 c.p.c.; b) cosa accada se il giudizio di merito penda ma si trovi in stato di sospensione o interruzione, o comunque non sia stato ancora nominato il giudice istruttore. In riferimento al profilo sub a), due tesi si contendono il campo. Per la prima, la domanda sarebbe inammissibile laddove proposta prima dell'apertura della fase istruttoria in senso stretto (Trib. Brindisi 3 aprile 2000). Secondo altra tesi, invece, la domanda sarebbe ammissibile in ogni fase del giudizio di merito e per tutto il suo corso, in base alla ratio dell'art. 669-decies c.p.c., votato a mantenere il contenuto precettivo del provvedimento cautelare aderente ed adeguato alla reale situazione di periculum in mora e fumus boni iuris per come si evolvono nel corso del giudizio di merito (v., in tal senso, ad esempio, Trib. Catania 3 aprile 2002; Trib. Trani 22 gennaio 1996; Trib. Bari 25 marzo 1993). In riferimento invece al profilo sub b), nell'ipotesi di giudizio sospeso o interrotto non può ritenersi operante il criterio della competenza del giudice istruttore. Va, infatti, ricordato che la disciplina generale della competenza cautelare è contenuta nell'art. 669-quater c.p.c. (al cui commento si rinvia). E tale disposizione contempla espressamente l'ipotesi di giudizio sospeso o interrotto, disponendo nel senso che la domanda cautelare (si intende, in primo grado) vada proposta al presidente del tribunale, che provvede ai sensi dell'art. 669-ter c.p.c. (al cui commento si rinvia) a designare il magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento cautelare. Ne consegue che il coordinamento tra l'art. 669-decies e l'art. 669-quater c.p.c. va effettuato proprio nel senso della prevalenza di tale ultima disposizione, che impone la designazione di un magistrato ad hoc anche per la domanda di modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c. laddove ricorra l'ipotesi particolare dello stato di quiescenza del procedimento di merito, indotto appunto da sospensione o interruzione (Carratta, 341; Sassani 1996, 672; Monteleone, 1171; Verde 2008, 72; contra, invece, Salvioni, 882). Opposta visione emerge, invece, dalla giurisprudenza di merito, in base all'idea che l'art. 669-decies c.p.c. fissi la competenza in capo al giudice istruttore della causa di merito sull'unico presupposto che tale giudizio sia pendente, ciò che puntualmente accade anche nelle fasi di quiescenza derivanti da interruzione o sospensione (così Trib. Genova 12 maggio 2011). Se alla formula «nel corso dell'istruzione» viene attribuito il generico significato di pendenza della causa di merito (che, a mente dell'art. 39 c.p.c. si attesta alla notificazione dell'atto di citazione, ovvero al deposito del ricorso in caso di controversie assoggettate a rito del lavoro), occorre poi sciogliere il quesito relativo alla competenza a decidere della revoca o modifica se la domanda sia proposta nelle more della nomina del giudice istruttore. Secondo una prima opinione, la competenza apparterrebbe al presidente del tribunale in applicazione analogica di quanto previsto dall'art. 669-quater, comma 2, che rinvia all'art. 669-ter c.p.c. (Recchioni, 709). La tesi conta, a ben vedere, sullo stesso tenore testuale dell'art. 669-quater c.p.c. che disciplina la competenza proprio in riferimento ad una lite pendente ex art. 39 c.p.c. ma per la quale il giudice istruttore non sia stato ancora designato (ovvero il giudizio sia sospeso o interrotto). Secondo altra opinione, la domanda andrebbe invece comunque proposta al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare (Petrillo 2007, 210). In caso di controversia devoluta alla trattazione del collegio ai sensi dell'art. 50-bis c.p.c., secondo una prima tesi (Recchioni, 709) anche l'istruzione dovrebbe essere collegiale, con quel che ne consegue in ordine alla competenza a rendere la decisione sulla domanda di modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c. Di contrario avviso, si mostrano invece quanti ritengono che sia che la causa sia in fase istruttoria, sia che sia in fase decisoria, la competenza a provvedere ex art. 669-decies c.p.c. debba comunque essere del giudice istruttore (Trisorio Liuzzi, 912). Quanto alla competenza a provvedere in pendenza dei termini per proporre impugnazione avverso la sentenza, è ancora una volta l'art. 669-quater c.p.c. ad individuare la competenza in capo al giudice che ha emanato la sentenza impugnata (Sassani 1996, 673). In pendenza del giudizio di impugnazione, invece, sarà il giudice di quest'ultima a dover ricevere e decidere l'istanza di revoca o modifica (Auletta, 327). Conseguentemente, anche la corte d'appello sarà competente ad esaminare istanze di revoca o modifica (Tommaseo, 104). L'applicabilità dell'art. 669-quater c.p.c. si basa sull'indubbio rilievo che la disposizione è la sedes materiae della legittimazione ad esercitare il potere cautelare, e quindi anche quello estrinsecantesi nella pronuncia di una revoca e modifica di provvedimenti già resi (Merlin 2008, 491; Petrillo 2007, 210). Si pone piuttosto il tema della individuazione del giudice cui compete provvedere ex art. 669-decies c.p.c. in mancanza di un giudice istruttore, come accade nell'appello davanti alla corte d'appello. È ragionevole supporre che a provvedere debba essere il giudice dell'impugnazione nella stessa composizione in cui è giudice di merito, e quindi, nel nostro caso, in composizione collegiale. L'art. 669-quater c.p.c. istituisce, infatti, un rapporto di identificazione tra giudice del merito e giudice della cautela sicché se il primo assume struttura collegiale dovrà essere collegiale anche il secondo (Carratta, 343). Se, invece, il giudizio di merito sia pendente in fase di legittimità la competenza va riconosciuta al giudice che ha reso la sentenza impugnata. Ciò detto in ordine alla competenza radicata nel giudice del merito, si è precisato che tale competenza sussiste a condizione che il giudizio sul diritto cautelato rientri nella giurisdizione del giudice italiano (Vullo, 334). In caso contrario, laddove cioè il giudizio di merito sia attratto alla giurisdizione del giudice straniero ovvero sia devoluta in arbitrato o ancora penda l'azione civile innanzi al giudice penale, ai sensi del comma 3 dell'articolo in commento, sarà competente a disporre la revoca il giudice che ha emanato il provvedimento cautelare. In giurisprudenza, si è peraltro sostenuto che il giudice italiano giurisdizionalmente competente per il merito possa revocare o modificare un provvedimento cautelare reso dal giudice straniero (Trib. Venezia 19 agosto 2003). Va ricordato, in proposito, che, almeno per quanto riguarda la circolazione dei provvedimenti giurisdizionali nell'ambito dell'Unione Europea, né il Regolamento n. 44/2001 né il Regolamento n. 1215/2012 (che ha sostituito il primo) contengono sistemi di coordinamento che consentano al giudice del merito di emanare provvedimenti cautelari in contrasto con pronunce cautelari straniere di opposto tenore: il giudice dell'exequatur, in altre parole, non sembra poter procedere al riesame del merito del provvedimento cautelare straniero. Viceversa, il regolamento CE n. 2201/2003, che disciplina la circolazione dei provvedimenti in materia familiare, prevede che le misure provvisorie o cautelari adottate nel foro non competente per il merito cessano di essere applicabili quando l'autorità giurisdizionale dello Stato membro competente a conoscere il merito abbia adottato i provvedimenti ritenuti appropriati (art. 20, comma 2). In materia di revoca di sequestro conservativo penale a seguito di integrale soddisfazione dei crediti garantiti dal sequestro stesso, la competenza del giudice penale adìto non può affatto ritenersi pacifica. La giurisprudenza, infatti, afferma che dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna nel giudizio penale in cui, su richiesta della parte civile, è stato disposto (a garanzia di quest'ultima) un sequestro conservativo, la competenza ad adottare ogni provvedimento relativo al vincolo è devoluta al giudice civile (Cass. V, n. 16312/2013; Cass V, n. 22062/2011). In altre parole, solo una volta esaurito il giudizio penale e divenuta irrevocabile la condanna generica al risarcimento in favore della parte civile, in pendenza del giudizio civile per la quantificazione del danno, la competenza a «revocare» o modificare il sequestro conservativo originariamente concesso a garanzia dell'azione civile nel giudizio penale spetta al giudice civile. Viceversa, nel caso in cui il giudizio civile fosse stato dichiarato estinto senza essersi provveduto alla conseguente perdita di efficacia della misura, può invece ricavarsi dall'art. 669-decies, comma 2 c.p.c. un principio generale che consente di far rivivere la competenza del giudice penale che ha emesso la misura, in funzione di giudice dell'esecuzione. Secondo questa impostazione, indipendentemente dal fatto che l'art. 669-decies, comma 2, c.p.c. ometta testualmente il caso del sequestro conservativo penale trasfuso nel giudizio civile «il legislatore si è pronunziato a proposito delle ricadute dell'estinzione del giudizio di merito sulla vitalità della misura cautelare strumentale alla tutela fatta valere in quel giudizio. Ha delineato il procedimento ordinato a quel risultato. Lo ha fatto assumendo a situazione tipica, a prototipo, una delle possibili situazioni processuali nel cui ambito la questione di estinzione del giudizio di merito è destinata a potersi presentare. Non spettava al legislatore scandagliare l'estesa varietà di tali situazioni col rischio di tralasciarne qualcuna; spetta all'interprete, posto di fronte ad una situazione processuale diversa da quella prescelta dal legislatore per forgiare il precetto, applicarlo alle situazioni in cui la questione si può concretamente presentare» (così Cass. S.U., n. 12103/2012). Se ne è dedotto, quindi, il principio per cui dopo la condanna irrevocabile al risarcimento in favore della parte civile e in pendenza del giudizio civile per la quantificazione del danno, la competenza a «revocare» o modificare il sequestro conservativo concesso a garanzia dell'azione civile nel giudizio penale spetta esclusivamente al giudice civile; ove, invece, il giudizio civile sia stato dichiarato estinto senza che si sia provveduto alla conseguente perdita di efficacia della misura, a tanto potrà provvedere, ai sensi dell'art. 669-decies, comma 2, c.p.c., e con le forme dell'incidente di esecuzione, il giudice penale (Cass. I, n. 46030/2014). In materia di giudizio di conto, la giurisprudenza ha poi ritenuto che la competenza sull'istanza per la riduzione del sequestro ex art. 669-decies c.p.c., nel caso d'accoglimento parziale della domanda di merito in primo grado, deve essere riconosciuta in capo al giudice d'appello una volta che sia stata proposta impugnazione contro la sentenza di primo grado (C. conti Sardegna, n. 1/2004). Un problema di competenza all'esercizio del potere di revoca può insorgere, altresì, in tema di contestazioni in ordine all'attuazione del sequestro conservativo. Tali contestazioni non assumono natura di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi ma conservano la natura di eccezioni del soggetto che ha subito la misura cautelare, idonee soltanto a sollecitare l'esercizio, da parte del giudice della causa di merito, dei poteri di modifica, integrazione, precisazione o revoca del provvedimento. Ne consegue che la competenza a decidere ogni questione in ordine all'attuazione di tale misura cautelare appartiene al giudice della causa di merito e non al giudice dell'esecuzione. L'abrogazione della disciplina della convalida non ha sottratto al giudice del merito, ogni competenza sul sequestro già disposto: infatti, l'art. 669-decies c.p.c. prevede che, nel corso dell'istruzione, il giudice istruttore della causa di merito possa, su istanza di parte, modificare o revocare il provvedimento cautelare, anche emesso anteriormente alla causa, qualora si verifichino mutamenti nelle circostanze, mentre lo stesso art. 669-duodecies c.p.c. (al cui commento si rinvia), con disposizione di chiusura avente carattere generale, applicabile (art. 669-quaterdecies c.p.c., al cui commento si rinvia) anche ai sequestri, stabilisce che ogni altra questione in ordine all'attuazione della misura cautelare, diversa da quelle in precedenza esaminate nel medesimo articolo (concernenti le mere difficoltà materiali insorte nel corso dell'esecuzione: art. 610 c.p.c.), va proposta nel giudizio di merito (Cass. III, n. 19101/2003; v., altresì, Cass. III, n. 4635/1993; Cass. III, n. 1407/1992; Cass. III, nn. 26, 28, 29 e 30/1988; Cass. III, n. 319/1976; Cass. III, n. 1784/1969). In materia di alimenti, si è poi deciso che il provvedimento presidenziale reso ai sensi dell'art. 446 c.c. ha natura cautelare ed è reclamabile. In pendenza del giudizio di merito, l'eventuale istanza di revoca/modifica della pronuncia ex art. 446 c.c. va perciò presentata al giudice di quest'ultimo e non al Presidente del tribunale, che non può ripronunciarsi su una precedente istanza già rigettata. Infatti, così come avviene per le ordinanze ex art. 708 c.p.c., il suo provvedimento è suscettibile solo di reclamo cosicché, una volta esperito tale gravame, ogni questione attinente la revoca o la modifica del provvedimento, ove non deducibile ex art. 669-decies c.p.c., deve confluire più propriamente nell'ambito del giudizio di merito (Trib. Trani 9 gennaio 2012). Occorre, infine, considerare il comma 2 dell'art. 669-novies c.p.c. (al cui commento si rinvia), per il quale, nel corso del giudizio contenzioso volto all'accertamento della inefficacia del provvedimento cautelare, il giudice può disporre proprio le misure previste dall'art. 669-decies c.p.c. Secondo una prima interpretazione, la disposizione andrebbe interpretata come fonte di una regola di competenza sulla revoca o modifica del provvedimento cautelare in capo al giudice del processo ex art. 669-novies c.p.c. nel caso in cui il giudizio contenzioso sul diritto cautelato non sia pendente e, quindi, non via sia il relativo giudice istruttore cui rivolgere l'istanza ai sensi del 669-decies c.p.c. (Sassani 1996, 491). Secondo altra tesi, la disposizione individuerebbe, invece, il potere del giudice chiamato a decidere dell'inefficacia, di adottare, in forma di ordinanza, misure anticipatorie della futura declaratoria di inefficacia a fronte di contestazioni pretestuose (Merlin 1993, 423). Sorge poi un dubbio ermeneutico. E cioè se la disposizione vada interpretata nel senso che, pendente il giudizio contenzioso avente ad oggetto la declaratoria di inefficacia di un provvedimento cautelare, la competenza a disporre la modifica/revoca ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c. passi senz'altro ed in via esclusiva, al giudice che deve pronunciare l'inefficacia, oppure no. Secondo una parte della dottrina, laddove pendano contemporaneamente il giudizio sul diritto cautelato e il giudizio contenzioso volto alla dichiarazione di inefficacia ex art. 669-novies c.p.c., la domanda di revoca/modifica dovrebbe infatti essere proposta esclusivamente in tale ultimo giudizio, in quanto l'art. 669-novies c.p.c. è norma speciale rispetto al 669-decies c.p.c. e, dunque, prevalente (Recchioni, 721). Altra parte della dottrina è, invece, poco incline a sostenere la vis attractiva in capo al giudice chiamato a provvedere sull'inefficacia. Sembra, infatti, irragionevole privare della competenza a rimodulare il contenuto della misura o ad eliminarla del tutto proprio il giudice (quello indicato dall'art. 669-decies c.p.c., appunto) che meglio di altri è in grado di apprezzare il mutamento delle circostanze che in origine fondarono la emissione del provvedimento cautelare (Carratta 2013, 327; Sassani 2006, 491). L'art. 669-novies c.p.c. va allora letto, in parte qua, in modo diverso. Data, in particolare, la durata del giudizio contenzioso volto alla dichiarazione di inefficacia, onde evitare possibili manovre dilatorie da parte di chi si avvantaggia della misura cautelare della cui efficacia si dibatte, bisogna cioè concludere che legislatore abbia legittimato il giudice, in via interinale e provvisoria e su domanda di parte, a modificare il contenuto precettivo della cautela o ad eliminarla dal circuito giuridico nelle more della decisione finale sulla sua inefficacia. Ne consegue che non può ragionarsi in termini di esclusione perché il potere riconosciuto al giudice dell'inefficacia si affianca al potere del giudice individuato dall'art. 669-decies c.p.c. segnatamente quello della causa di merito che sia eventualmente pendente. Non si può, infatti, escludere la contemporanea pendenza di entrambi i giudizi, quello sul merito del diritto cautelato e quello sull'accertamento della sopravvenuta inefficacia del provvedimento cautelare, né il sopravvenire di mutamenti nelle circostanze tali da giustificare una domanda ex art. 669-decies c.p.c. al giudice della causa di merito anche se è pendente il giudizio contenzioso sulla inefficacia (Merlin 2011, 473; Carratta 2013, 328). Ne consegue che il combinato disposto degli artt. 669-decies c.p.c. e 669-novies, comma 2, c.p.c. codifica un ampliamento dei poteri di modifica/revoca della misura cautelare, che vengono riconosciuti anche al giudice dell'inefficacia in base alla delibazione della possibile fondatezza della domanda volta alla declaratoria dell'inefficacia stessa. La giurisprudenza ha ritenuto che la disciplina dell'inefficacia ex art. 669-novies, commi 3 e 4, c.p.c. si applichi in tutte la ipotesi in cui il giudizio di merito, pendente innanzi ad arbitri, si sia concluso con lodo sfavorevole a chi era precedentemente beneficiario di provvedimento cautelare, dal momento che il lodo sopraggiunto, ostativo alla titolarità del diritto cautelato, non costituisce un mutamento di circostanze legittimante, ai sensi dell'articolo in commento, una domanda di revoca della cautela già concessa (Trib. Reggio Emilia 21 giugno 2007). Segue. Il giudice che ha provveduto sull'istanza cautelare. Nel caso in cui il giudizio di merito non sia mai stato iniziato o si sia successivamente estinto, e nella ipotesi in cui il provvedimento cautelare resti ancora efficace per essere «anticipatorio», idoneo cioè ad assicurare o anticipare gli effetti della decisione di merito (art. 669-octies c.p.c., al cui commento si rinvia), la competenza sulla modifica/revoca è radicata dall'art. 669-decies c.p.c. nel giudice che ha provveduto sull'istanza cautelare. La stessa disciplina è dettata per le ipotesi in cui, pendente il giudizio sul diritto cautelato, il relativo giudice sia per legge privo del potere cautelare. Si tratta, segnatamente, dei casi in cui tale giudizio penda davanti al giudice di pace (ma v., per l'idea che anche al conciliatore dovesse riconoscersi potestà cautelare posto che, nella pendenza del giudizio sul merito, fosse in grado di valutare al meglio i nova fondanti la domanda di modifica/revoca, Proto Pisani 1991, 359) ad un giudice straniero, agli arbitri o, infine, al giudice penale a seguito di esercizio o trasferimento dell'azione civile, appunto, nel processo penale. Questo segmento di disciplina pone il problema di individuare il giudice competente a disporre la revoca/modifica nelle ipotesi in cui al momento della proposizione della domanda ex art. 669-decies c.p.c. sia esaurito il giudizio di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia), ma non sia stato ancora instaurato il giudizio sul diritto cautelato (o comunque tale giudizio non sia pendente). Il problema nasce dalla circostanza che due diversi giudici, quello di prime cure e quello del reclamo appunto, si sono pronunciati sulla domanda cautelare. Quale dei due deve allora ritenersi quello che «ha provveduto sull'istanza cautelare»? Una plausibile risposta è quella che riposa sul rilievo che quest'ultimo giudice deve identificarsi con quello che ha pronunciato in concreto il provvedimento di cui si chiede la modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c. E poiché il reclamo è oggi mezzo di impugnazione pienamente ed automaticamente devolutivo (e sostitutivo), ne consegue che a provvedere dovrà essere il giudice di primo grado che ha reso la cautela, se non è stato esperito reclamo, ed il giudice del reclamo stesso laddove la misura resa in prime cure sia stata modificata in sede di reclamo o, a maggior ragione, emessa per la prima volta in tale sede. Nel caso in cui, invece, esaurita la fase di reclamo, penda il giudizio di merito, la domanda ex art. 669-decies c.p.c. va proposta, ai sensi del comma 1 della disposizione, proprio al giudice di merito (Merlin 2008, 497; Carratta, 345). La competenza di quest'ultimo è, però, esclusa da chi (Valitutti, 1056) fa notare che: a) l'art. 669-decies c.p.c. non fa menzione dell'ordinanza cautelare resa in sede di reclamo; b) l'art. 279, comma 4, per parte sua, inibisce al giudice istruttore della causa di merito la modifica di ordinanze rese dal collegio; c) il provvedimento reso in sede di reclamo è, proprio in quanto tale, non riesaminabile da un giudice di primo grado quale il giudice del merito. La conclusione è allora, secondo questa logica, nel senso che se la cautela è resa o modificata in sede di reclamo non è modificabile/revocabile ex art. 669-decies c.p.c. ma solo da parte della sentenza finale dichiarativa, che naturalmente ne assorbe il contenuto precettivo. Non così, invece, la giurisprudenza di merito, per la quale «il giudice che ha provveduto sull'istanza cautelare», ai sensi dell'art. 669-decies, comma 2, c.p.c. è anche il giudice dell'eventuale fase di reclamo. Si afferma, infatti, che il giudice della causa di merito è competente a pronunciarsi sull'istanza di modifica o di revoca della misura cautelare ex art. 669-decies c.p.c. anche nell'ipotesi in cui questa sia stata concessa dal collegio in sede di reclamo. Qualora, invece, il reclamo sia ancora pendente, l'istanza di modifica o revoca del provvedimento cautelare dovrà essere proposta al giudice del reclamo. Essa può essere decisa dal giudice della causa di merito nell'ipotesi in cui questi abbia in precedenza negato la misura cautelare successivamente concessa dal collegio in sede di reclamo (Trib. Taranto 25 giugno 2014). Si ritiene, altresì, che spetti al giudice istruttore la competenza a disporre la revoca e modifica del provvedimento cautelare emesso in tutto o in parte dal collegio in sede di reclamo (Trib. Udine 14 dicembre 1994). Quanto, poi, alle contestazioni mosse dai soggetti che subiscono l'esecuzione della misura cautelare, e che hanno a fondamento circostanze che potrebbero dar luogo a revoca o modifica, la competenza appartiene al giudice istruttore e non al giudice dell'esecuzione (Trib. Salerno 1° agosto 2007). Qualora la causa di merito sia devoluta ad arbitri, la competenza per la modifica o revoca del provvedimento cautelare emanato dal collegio di tribunale in sede di reclamo spetta al giudice singolo e non al giudice collegiale (Trib. Bassano del Grappa 19 marzo 1999). Il procedimento.L'art. 669-decies c.p.c. non contiene una specifica disciplina del procedimento che assiste la revoca/modifica, limitandosi alla laconica indicazione di una istanza di parte quale atto di impulso iniziale. Poiché, però, la revoca e la modifica sono espressione dello stesso potere cautelare esercitato in prime cure per accogliere o rigettare la domanda, è verosimile immaginare che il silenzio della legge sia significativo di un rinvio tacito alle forme regolate dall'art. 669-sexies c.p.c. (al cui commento si rinvia) proprio per il procedimento di primo grado, sia pure con alcune esclusioni. Si è così condivisibilmente ritenuto che la domanda possa proporsi con ricorso da depositare in cancelleria ovvero oralmente durante lo svolgimento di un'udienza (Merlin 1996, 13), nel rispetto dei requisiti formali minimi imposti dall'art. 125 c.p.c. Ove la domanda sia stata proposta fuori udienza con ricorso, il procedimento si svolgerà essenzialmente mediante fissazione dell'udienza e instaurazione del contraddittorio, assicurando uno spazio temporale consono a consentire al resistente di dispiegare pienamente il diritto di difesa (Merlin 1990, 380). Nel caso in cui, viceversa, la domanda sia proposta nel corso dell'udienza del giudizio sul diritto cautelato, può immaginarsi il duplice sviluppo di una immediata trattazione o di un rinvio per consentire, in base alle circostanze del caso concreto, lo svolgersi del contraddittorio (Recchioni 708). Quella ex art. 669-decies c.p.c. è pur sempre un'autonoma domanda di tutela, sicché è onere dell'istante indicare il tipo di provvedimento richiesto in sostituzione di quello di cui si chiede la modifica/revoca, dovendo il primo assolvere alla medesima funzione olim assolta dal secondo. La parte resistente in un procedimento introdotto da domanda di revoca del provvedimento già concesso può avanzare in forma riconvenzionale una domanda di modifica dello stesso (Cecchella 1997, 151). Il riferimento dell'art. 669-decies c.p.c. all'istanza di parte esclude che la revoca o la modifica possano derivare da un'iniziativa ufficiosa, mentre è possibile che la parte interessata alla modifica sia proprio l'originario beneficiario della misura (ad esempio, per chiedere una misura di tipo ampliativo). Se la domanda di modifica/revoca è proposta senza che penda il giudizio sul diritto cautelato, l'autonomia reciproca tra i due processi impone poi che l'istante depositi copia del provvedimento revocando o modificando (Recchioni, 716). Sarà, poi, seguito l'ordinario procedimento dettato per la tutela cautelare ante causam dall'art. 669-ter, comma 4, c.p.c. (al cui commento si rinvia): formazione del fascicolo d'ufficio da parte del cancelliere e trasmissione al presidente del tribunale per la individuazione senza indugio del magistrato che tratterà il procedimento. È, però, lecito comunque interrogarsi sui possibili limiti di applicabilità delle regole che disciplinano il procedimento di concessione del provvedimento cautelare in prime cure (art. 669-sexies c.p.c.). Se è vero che la revoca costituisce, infatti, contrarius actus e plausibile appare dunque l'idea che essa sia assistita dallo stesso procedimento che ha condotto all'adozione del provvedimento revocando, tuttavia, vi sono indizi che conducono a escludere alcuni segmenti di disciplina del procedimento di primo grado. Si è così ritenuto di escludere la possibilità di far ricorso al procedimento inaudita altera parte sia perché l'art. 669-decies c.p.c. individua l'ordinanza quale forma del provvedimento recante la revoca/modifica, escludendo perciò il decreto, sia perché appare difficile (se non impossibile) configurare una situazione di pericolo per l'attuazione del provvedimento di revoca-modica che possa discendere dalla convocazione della controparte (Merlin 1996, 13; Carratta, 349; contra, invece, per l'applicabilità anche della variante procedimentale incentrata sul decreto inaudita altera parte, Arieta 2011, 1090; Cirulli, 52; Cecchella 1997, 150). Per il resto, l'applicazione estensiva dell'art. 669-sexies c.p.c. ci riporta al contesto di estrema deformalizzazione che tale ultima disposizione disegna, in cui si assiste alla possibile eliminazione di ogni formalità, da parte del giudice, solo se ed in quanto non essenziale al contraddittorio. Ne consegue che ad esempio, sul piano istruttorio, escluso l'impulso d'ufficio (Montesano, Arieta 2001, 419), il giudice ben potrà avvalersi di sommarie informazioni o anche di prove atipiche al solo fine di valutare la fondatezza dell'istanza di revoca o modifica. Quanto al termine finale, l'istanza di revoca o modifica non può essere proposta oltre la precisazione delle conclusioni del giudizio sul diritto cautelato, posto che in esito ad essa la causa passa in decisione, così venendo meno quella fase di trattazione/istruzione che è il terreno elettivo dell'esercizio dei poteri cautelari disegnati dall'art. 669-decies c.p.c. Ci si può, poi, interrogare sul rilievo assunto dalle preclusioni operanti nel processo di merito sul potere di allegazione di nova nel parallelo procedimento cautelare volto alla pronuncia sulla domanda di modifica/revoca. Si è ritenuto che esse non operino anche per l'allegazione dei nova fondanti la modifica/revoca della cautela già concessa, proprio in base all'autonomia funzionale tra il procedimento cautelare e quello, appunto, di merito. La conclusione dovrà tuttavia essere opposta laddove tali nova siano fondati su fatti rilevanti sia per la domanda di revoca o modifica che per quella di merito (Recchioni, 713). L'attuale struttura del procedimento cautelare uniforme consente, inoltre, l'intervento volontario del terzo, qualora questi abbia avuto tempestiva conoscenza della pendenza del giudizio cautelare: diversamente opinando, se cioè non si ammettesse tale facoltà, l'esercizio del diritto di difesa del terzo, da affidare, in base alle circostanze del caso concreto, all'opposizione ex art. 404 c.p.c. o all'opposizione esecutiva ex art. 619 c.p.c., risulterebbe inutilmente ritardato nel tempo. Se, ad esempio, il decreto di sequestro conservativo indicasse per l'esecuzione specifici beni, e questi risultassero di un terzo, a seguito dell'intervento di costui all'udienza, il giudice cautelare potrebbe nell'ordinanza di conferma del sequestro revocare quella indicazione. Secondo parte della dottrina (Sassani 1996, 674; Vullo, 348), il provvedimento di revoca deve contenere le disposizioni eventualmente necessarie per il ripristino, cioè per adeguare la situazione di fatto alla nuova situazione di diritto. La loro attuazione è affidata al procedimento disegnato dall'art. 669-novies c.p.c. (al cui commento si rinvia). La revoca produce, però, i suoi effetti non necessariamente in modo retroattivo. Se si rende necessaria la rimozione degli effetti stessi ed il ripristino della situazione precedente possono dunque incontrarsi difficoltà indotte dalla irreversibilità della situazione conseguente all'attuazione della misura cautelare. Emerge così la possibilità che il giudice chiamato a pronunciarsi sull'inefficacia proprio ex art. 669-novies c.p.c. emetta, altresì, un provvedimento di condanna al risarcimento dei danni a carico dell'attore che abbia agito senza la normale prudenza tutte le volte in cui si accerti l'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito il provvedimento originariamente concesso (art. 96, comma 2 c.p.c.: c.d. responsabilità aggravata). La dottrina appare, in proposito, divisa. Vi è chi appare poco incline ad ammettere che la condanna per responsabilità aggravata possa essere resa nell'ambito di un giudizio che, come quello di cui all'art. 669-novies c.p.c. non ha ad oggetto l'accertamento dell'esistenza della posizione sostanziale cautelata ma solo l'accertamento della inefficacia della misura cautelare (Recchioni, 759). L'argomento non appare, però, decisivo a chi, invece, fa rilevare, optando per la soluzione positiva, che sarebbe diseconomico costringere la parte interessata a proporre un separato giudizio solo per ottenere la condanna da responsabilità aggravata (Merlin 2011, 456; Vullo, 321). Ed è proprio per far fronte a simili problemi, del resto, che il codice del processo amministrativo di cui all'Allegato 1 del d.lgs. n. 104/2010, reca specifica regolamentazione dell'istituto della cauzione, la cui funzione è, appunto, quella di fare da «controcautela» ai danni derivanti dalla eventuale irreversibilità delle modificazioni che una misura cautelare può determinare nella realtà materiale e/o alla dinamica dei rapporti sostanziali tra le parti. Oggi, infatti, l'art. 56, comma 3, del codice del processo amministrativo, rubricato «Misure cautelari monocratiche», prevede che qualora dalla decisione sulla domanda cautelare derivino effetti irreversibili il presidente può subordinare la concessione o il diniego della misura cautelare alla prestazione di una cauzione, anche mediante fideiussione, determinata con riguardo all'entità degli effetti irreversibili che possono prodursi per le parti ed i terzi. La disposizione trova il suo precedente nell'art. 3 della l. n. 205/2000 che, a sua volta, in recepimento di una lunga e consolidata prassi applicativa, sancì la regola generale della atipicità delle misure cautelari nel contesto del processo amministrativo, prima tradizionalmente limitate, nel loro contenuto, alla mera sospensione del provvedimento amministrativo impugnato. Proprio questa conquistata atipicità aveva infatti fatto da apripista alla opportunità di controbilanciarne gli effetti potenzialmente irreversibili con la imposizione di una cauzione. La funzione della cauzione oggi disegnata dall'art. 56, comma 3, del codice del processo amministrativo, come il suo antecedente codificato dall'art. 3 della l. n. 205/2000, è allora quella di contro-cautela rispetto alla concessione o al diniego della misura cautelare sovrapponibile a quella disciplinata, nell'ambito del procedimento cautelare uniforme disegnato dal codice di procedura civile, dall'art. 669-undecies c.p.c. (al cui commento si rinvia). Anche in tale ultimo caso, infatti, si assiste alla logica del bilanciamento tra gli effetti della misura cautelare concessa e la necessità di rimuoverli senza pregiudizio per la controparte in dipendenza della instabilità intrinseca della misura. Lo scopo è, cioè, quello di mitigare le conseguenze negative indotte, a carico della controparte, dalla esecuzione/attuazione di un provvedimento instabile perché fondato su una cognizione sommaria. Ed è secondo questa logica che anche il giudice amministrativo, laddove pronunci sulla sospensione di un provvedimento amministrativo dal quale, se eseguito, scaturirebbero effetti irreversibili, è legittimato a valutare se subordinare la concessione o il diniego della misura cautelare alla prestazione di una cauzione da parte del ricorrente nel primo caso e dell'amministrazione o del controinteressato nel secondo caso. Evidente è, dunque, la comunanza di ratio con la cauzione disciplinata dal codice di procedura civile e la necessità di fare ricorso alla lunga elaborazione del concetto ad opera di dottrina e giurisprudenza in tale ambito. Ed in effetti, ai sensi dell'art. 669-undecies c.p.c., il giudice civile, proprio (ed anche) nell'accogliere l'istanza di modifica può imporre una cauzione per l'eventuale risarcimento dei danni. Si tratta di una generale contro-cautela quale rimedio volto a mitigare la pericolosità intrinseca del provvedimento cautelare, cioè la sua capacità di pregiudicare irreversibilmente gli interessi del resistente contro cui viene emesso il provvedimento cautelare. La cauzione serve, cioè, ad assicurare la possibilità di risarcire i danni che potranno essere causati alla controparte dalla eccessiva celerità o invasività del provvedimento cautelare, con esiti di contemperamento degli opposti interessi e delle opposte esigenze del beneficiario della cauzione e della controparte tenuta alla prestazione. Fermo il rinvio a quanto più diffusamente si dirà nel successivo commento all'art. 669-undecies c.p.c., preme in questa sede richiamare alcuni profili di disciplina affrontati dalla giurisprudenza. Si è, ad esempio, deciso (Trib. Firenze 15 maggio 1995) che una cauzione può essere imposta in un provvedimento successivo a quello che ha reso la cautela (solo) nell'ipotesi in cui si sia verificato un «mutamento delle circostanze» ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c., appunto. In riferimento, invece, ai criteri che ispirano la discrezionalità del giudice nel disporre la cauzione, si fa rilevare come il criterio principe a favore della imposizione sia quello della solvibilità e più in generale della precarietà delle condizioni economiche del beneficiario (della cautela e della cauzione). Ne consegue che va valutata negativamente una richiesta di cauzione formulata in modo assolutamente generico, senza fornire precisi elementi in ordine ai costi direttamente discendenti dalla esecuzione della concessa cautela (Trib. Napoli 8 marzo 2000). Con diverse modulazioni si è pronunciata altra giurisprudenza di merito (Trib. 2 febbraio 1996), per la quale la domanda di cauzione non merita accoglimento se parte ricorrente ha dimostrato la sussistenza di una rilevante ed apprezzabile misura di fumus boni iuris a favore della propria domanda cautelare e se la richiesta viene formulata in modo assolutamente generico, senza fornire elementi precisi di riscontro in ordine ai costi sopportati ovvero al volume di affari collegato alla produzione in contestazione e se non è stato addotto alcun elemento che faccia dubitare della solvibilità economica della ricorrente. In riferimento poi alle spese, la dottrina ha ritenuto che il giudice pronuncerà sulle spese solo ove accolga la domanda di revoca, sostanzialmente corrispondendo tale provvedimento al rigetto dell'originaria domanda, lasciandola negli altri casi al giudice di merito. Nel caso in cui la revoca o la modifica siano domandate prima dell'inizio del giudizio di merito e oggetto della domanda ex art. 669-decies c.p.c. sia una misura cautelare a strumentalità attenuta, il giudice dovrà invece provvedere sempre sulle spese sia che accolga sia che rigetti l'istanza (Vullo 2017, 349). Infine, il procedimento si conclude con l'adozione di un'ordinanza, succintamente motivata, con la quale il giudice accoglie o rigetta la domanda ex art. 669-decies c.p.c. La reclamabilità del provvedimento reso ex art. 669-decies c.p.c.Tema centrale nella riflessione teorica e nella prassi applicativa relative all'art. 669-decies c.p.c. è senz'altro quello della reclamabilità dei provvedimenti resi in esito a domanda di revoca/modifica. La reclamabilità si è ammessa, anzitutto, per i provvedimenti abnormi o eccedenti il contenuto dell'autorizzazione cautelare originaria. Con la precisazione, tuttavia, che le contestazioni concernenti il potere di procedere all'attuazione attuazione in base a circostanze sopravvenute o la perdita di efficacia della misura cautelare vanno fatte valere con gli strumenti della revoca o modifica (art. 669-decies c.p.c. in commento) o della declaratoria di inefficacia (art. 669-novies c.p.c., al cui commento si rinvia), prescindendo perciò dallo strumento impugnatorio (Consolo, Donzelli, Recchioni 2013, 383). Al di fuori dell'ipotesi appena individuata ed in riferimento invece al provvedimento che accogliendo la domanda disponga la revoca o la modifica del provvedimento già concesso, l'utilizzabilità del rimedio dell'art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia) viene spesso fondata sull'assunto che quello di modificare o revocare un provvedimento cautelare reso in prime cure ex art. 669-decies c.p.c. è potere anch'esso di natura cautelare. Il giudice, infatti, rivedendo il contenuto precettivo del pregresso provvedimento, accoglie una nuova e diversa domanda fondata su sopravvenienze (mutamenti nelle circostanze o nuove ragioni di fatto e/o di diritto prima sconosciute). Ne consegue de plano l'applicabilità del regime di controllo impugnatorio del provvedimento cautelare (v., in tal senso, Trib. Roma 27 giugno 1995; Trib. Marsala 25 settembre 1995; Trib. S.M. Capua Vetere 5 novembre 1996; Trib. Milano 20 giugno 1997; Trib. Padova 12 novembre 1998; Trib. Lucca 13 ottobre 1999; Trib. Torino 20 novembre 2001; Trib. Torre Annunziata 31 gennaio 2001; Trib. S. Angelo dei Lombardi 5 marzo 2002; Trib. Milano 29 settembre 2002). Per quanto riguarda, invece, il provvedimento di rigetto, essendo esso basato sulla valutazione di nova, viene ritenuto reclamabile in riferimento proprio a tali nova (così, in particolare, Carratta 351; Merlin 2011, 499, la quale fa in particolare notare come una opposta opzione, che differenziasse cioè il regime di impugnazione a seconda che la domanda ex art. 669-decies c.p.c. sia accolta o rigettata, andrebbe contro lo spirito della pronuncia della Consulta del 1994 che, nell'ammettere il reclamo tanto contro i provvedimenti di accoglimento che contro quelli di rigetto della domanda cautelare, ha inteso proprio attribuire lo stesso peso e la stessa dignità ad entrambe le parti del procedimento). La reclamabilità dei provvedimenti di rigetto della domanda proposta ex art. 669-decies c.p.c. trova diffusi consensi anche nella giurisprudenza di merito (v., ad esempio, Trib. Torino 29 marzo 1995; Trib. Roma 27 giugno 1995; Trib. Nocera Inferiore 11 gennaio 1996; Trib. Padova 12 novembre 1998; Trib. Torino 20 novembre 2001). La conclusione non è, tuttavia, pacifica ed impone un più ampio approfondimento che tenga conto altresì del chiaroscuro che attraversa il tema tanto nella realtà applicativa quanto nelle ricostruzioni della dottrina. In dottrina, sembra prevalente l'inclinazione ad ammettere la reclamabilità tanto del provvedimento di accoglimento che di rigetto della domanda di revoca o modifica (v., per tutti, Merlin 2008, 480; Carratta, 350; Cecchella 1997, 205). Più complesso e sfaccettato il quadro offerto invece dalla giurisprudenza di merito. Così, ad esempio, (Trib. Milano 14 settembre 2002) si è ritenuto che nella nozione di procedimenti cautelari di cui all'art. 92 ord. giud. non rientri anche il procedimento di revoca o modifica ex art. 669-decies c.p.c. della misura cautelare concessa (così come, del resto, qualsiasi forma di impugnazione del provvedimento cautelare reso dal giudice di prima istanza). L'esclusione della natura cautelare mette perciò fuori campo l'utilizzabilità del regime processuale che assiste tale forma di tutela, e dunque anche del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. Ma anche laddove si ravvisi l'apertura giurisprudenziale al riconoscimento di natura cautelare del potere di revoca/modifica, non ne deriva necessariamente la conseguenza di una generalizzata reclamabilità dei provvedimenti resi nella sedes dell'art. 669-decies c.p.c. Si è, ad esempio, deciso che, a favore proprio della generalizzata reclamabilità dei provvedimenti resi in esito a domanda di revoca/modifica ex art. 669-decies c.p.c., non possa deporre l'intervento della Consulta (Corte cost., n. 253/1994) che ha esteso il reclamo cautelare (olim limitato alle ordinanze di accoglimento) anche ai provvedimenti di rigetto della domanda cautelare avanzata in prime cure. La ratio dell'intervento additivo non può, infatti, applicarsi ad ogni provvedimento reso in una sede cautelare, ed in particolare non può applicarsi ai provvedimenti che rigettano la domanda di revoca ex art. 669-decies c.p.c., vertendosi in un'ipotesi diversa da quella che portò alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies c.p.c.in parte qua. Il reclamo è, infatti, finalizzato ad attribuire ad un giudice diverso da quello che si è pronunciato sulla domanda cautelare in prime cure un controllo sull'esercizio del potere cautelare. In altri termini, il legislatore ha voluto che il provvedimento cautelare fosse riesaminato, su istanza dell'interessato, da parte di un giudice diverso rispetto a quello investito della prima domanda (tanto da escludere la stessa partecipazione alla decisione collegiale del giudice che ha emesso il provvedimento) e che non è vincolato ai motivi esposti dal reclamante nel confermare, modificare o revocare la cautela (cd. effetto devolutivo automatico). Dunque, sul presupposto che la finalità del reclamo è quella di attribuire ad un giudice diverso da quello che si è pronunciato sulla domanda un controllo sull'esercizio del potere cautelare, il problema della reclamabilità dell'ordinanza ex art. 669-decies c.p.c. non può prescindere dalla valutazione del contenuto del provvedimento adottato dal giudice istruttore. Andrà perciò applicato il rimedio dell'art. 669-terdecies c.p.c. solo all'ordinanza che, resa ex art. 669-decies c.p.c., esibisca contenuto ampliativo rispetto a quello del provvedimento originario (Trib. Lecco 26 giugno 2000). In senso favorevole alla reclamabilità tout court, senza cioè alcun distinguo né in riferimento al segno della decisione (accoglimento o rigetto) né al suo specifico contenuto (ampliativo o meno della precedente misura) si è, invece, pronunciata altra giurisprudenza di merito, con la precisazione però che il reclamo investe il collegio del potere di compiere solo ed esclusivamente gli atti di istruzione necessari al controllo del sopravvenuto mutamento delle circostanze che a suo tempo fondarono l'adozione del provvedimento oggetto di domanda ex art. 669-decies c.p.c. (Trib. S. Angelo dei Lombardi 5 marzo 2002). Più nel dettaglio, il rapporto tra provvedimento reso in esito a domanda di modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c. e reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. si declina in tre modi diversi, che ispirano altrettanti orientamenti. Secondo un primo orientamento, diffuso in giurisprudenza e con il significativo avallo di una sentenza della Corte di Cassazione (Cass. I, n. 10617/1999), il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. sarebbe rimedio esperibile non solo avverso i provvedimenti che in prime cure accolgono o rigettano la domanda di tutela cautelare (exartt. 669-septies e 669-octies c.p.c.). Essendo esso un generale strumento di garanzia volto ad assicurare il riesame della decisione da parte di un giudice diverso, il reclamo sarebbe cioè esperibile avverso ogni ulteriore e successiva manifestazione del potere cautelare, ivi compresa quella disegnata dall'art. 669-decies c.p.c. Tale orientamento è, altresì, rappresentato in dottrina (Mandrioli 2009, 360; Cecchella 1997, 205; Merlin 2011, 499), ove si afferma chiaramente che, per reagire alla revoca di un provvedimento cautelare, si deve utilizzare lo strumento ad hoc del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. e non proporre un nuovo ricorso che, dopo il consolidamento della revoca, postula necessariamente la deduzione di nuove ragioni di fatto e/o di diritto. Opportunamente l'orientamento favorevole al reclamo puntualizza che il giudice dell'impugnazione debba limitarsi a sindacare la valutazione compiuta dal giudice investito ex art. 669-decies c.p.c.: verificare cioè se siano realmente sopraggiunti quei mutamenti delle circostanze imposti da quest'ultima disposizione. Non potrà, invece, il giudice del reclamo, operare un riesame globale dei presupposti (fumus boni iuris e periculum in mora) che giustificarono la concessione della misura cautelare originaria. A diversamente argomentare, infatti, si finirebbe per aggirare surrettiziamente il termine di decadenza per la proposizione di reclamo avverso l'originaria misura cautelare. Compito del giudice del reclamo sarà, perciò, soltanto quello di sindacare la valutazione da parte del giudice istruttore della persistente meritevolezza della misura cautelare alla luce, tra l'altro, delle risultanze processuali acquisite di volta in volta nel giudizio sul diritto cautelato, verificando l'effettivo mutamento delle circostanze e l'idoneità di tale mutamento a far venir meno o modificare i presupposti del provvedimento su cui incide la domanda ex art. 669-decies c.p.c. D'altronde, appare irragionevole limitare la tutela della parte che subisce la revoca (o la modifica) inibendole ogni possibilità di controllo sulla stessa, considerato che il potere di revoca altro non è che un normale potere di decisione cautelare e che la sentenza della Corte Costituzionale del 1994, ammettendo la reclamabilità del provvedimento di rigetto, ha eliminato l'obiezione principale alla reclamabilità del provvedimento di revoca, fondata sull'analogia tra rigetto e revoca. Inoltre, vi è una sostanziale identità tra l'attività di cognizione svolta dal giudice della cautela in sede di decisione in ordine alla concessione o al rigetto della misura cautelare, e quella che lo stesso giudice della cautela è chiamato a svolgere quando deve decidere se siano venuti a mancare o comunque risultino sostanzialmente incisi – per effetto di mutamenti sopravvenuti – i presupposti della cautela già concessa in modo tale da giustificarne la revoca o la modifica. L'identità dei poteri di cognizione esercitati nei due casi sarebbe tale da giustificare, sotto un profilo sistematico, l'estensione del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. ai provvedimenti con cui, ex art. 669-decies, c.p.c. si revoca o modifica la cautela ovvero, in aderenza al principio della parità delle armi affermato dai giudici della Consulta nel 1994, si rigetta l'una o l'altra istanza (così Trib. Roma 27 giugno 1995). Altro indirizzo giurisprudenziale, prevalentemente di merito (Trib. Palermo 4 luglio 1997; Trib. Roma 26 maggio 1995; Trib. Milano 16 gennaio 1995), esclude, invece, la reclamabilità dei provvedimenti pronunciati in sede di modifica e revoca ex art. 669-decies c.p.c., a prescindere da ogni considerazione in ordine al loro contenuto. Tale orientamento si fonda, anzitutto, sul tenore letterale dell'art. 669-terdecies c.p.c., che contempla i soli provvedimenti con cui il giudice concede o nega in prime cure la tutela cautelare. A questo rilievo, si aggiunge che la sentenza del giudice delle leggi del 1994 non avrebbe inteso sancire il principio generale del doppio grado di giurisdizione (in sede) cautelare, suscettibile in quanto tale di estendersi necessariamente ad ogni altra manifestazione di tale potere diversa dalla concessione o diniego della misura in prime cure. La Consulta, infatti, nel dichiarare l'illegittimità dell'originaria formulazione dell'art. 669-terdecies c.p.c. non ha richiamato il diritto di difesa ex art. 24 Cost. Perno argomentativo della pronuncia additiva è stata invece la necessità di ristabilire la parità delle armi, ex art. 3 Cost., tra la parte che, subendo una misura cautelare, poteva esperire il rimedio e quella che, vedendo respinta la propria domanda di tutela cautelare, poteva solo riproporre la domanda (allegando una serie di nova: v. l'art. 669-septies c.p.c., al cui commento si rinvia), ma non aveva una sede impugnatoria votata al (puro e semplice) riesame da parte di un giudice diverso. Ne consegue, secondo questa lettura, che non vi è alcuna la necessarietà costituzionale di riesame impugnatorio avverso ogni manifestazione di potere cautelare, e segnatamente avverso quella disegnata dall'art. 669-decies c.p.c. Si è di conseguenza deciso, ad esempio, che il provvedimento di rigetto dell'istanza di revoca o modifica, «non è reclamabile posto che tale provvedimento (diversamente da quello di accoglimento dell'istanza, che cioè disponga la revoca o la modifica della precedente cautela) nulla aggiunge alla situazione preesistente e non comporta un esercizio del potere cautelare del giudice del merito che possa considerarsi effettivamente nuovo e diverso rispetto a quello già esplicatosi con la pronuncia del provvedimento originario; diversamente si finirebbe con il consentire una costante e reiterata reclamabilità dell'ordinanza cautelare di cui si chiede la revoca, con la possibilità anche di eludere le preclusioni poste dall'art. 669-terdecies c.p.c.» (così Trib. Messina 29 novembre 2005). Anche generali ragioni di opportunità e di economia processuale militano, secondo questa lettura, a favore dell'esclusione della reclamabilità. La moltiplicazione delle ipotesi di reclamo cautelare finirebbe infatti per rendere un procedimento ispirato alla massima celerità e semplificazione (quello cautelare, appunto) molto più lento e pesante. Si paventa, altresì, la possibile contaminazione/sovrapposizione tra il giudizio sul diritto cautelato e quello di reclamo soprattutto laddove la domanda ex art. 669-decies c.p.c. sia basata su sopravvenienze esclusivamente endoprocessuali. Il caso comporterebbe, infatti, una differente valutazione di quegli stessi elementi di fatto e di diritto che erano stati posti a fondamento della concessione della misura cautelare, condotta però alla luce degli sviluppi dell'istruzione probatoria in sede di giudizio di merito. Potrebbe cioè accadere che il giudice del reclamo si pronunci sulla persistenza del fumus boni iuris beneficiando della progressione dell'istruttoria sul merito, così a sua volta condizionando la valutazione del relativo giudice. Occorre, infine, dare conto di un terzo orientamento di una parte della giurisprudenza (Trib. Torino 29 marzo 1995; Trib Napoli 25 novembre 1994) che si colloca in una posizione intermedia tra i due indirizzi appena esaminati. Posizione che trova consensi in quella dottrina (Dini, Mammone, 662; Guarnieri, 561, nota 29; Consolo 1994, 948) per la quale la reclamabilità dei provvedimenti di modifica e revoca ex art. 669-decies c.p.c. dovrebbe essere valutata alla stregua dell'incidenza di tali provvedimenti sulla situazione sostanziale delle parti cristallizzatasi in esito all'attuazione della misura cautelare revocanda o modificanda. L'idea è che occorra distinguere in base al contenuto del provvedimento reso ex art. 669-decies c.p.c. Se cioè il provvedimento che revoca o modifica (sia in senso ampliativo che restrittivo) la misura cautelare inizialmente concessa, altera la situazione sostanziale delle parti, allora al reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. è legittimata la parte che subisce un pregiudizio da tale mutamento. Se, invece, il provvedimento reso ex art. 669-decies c.p.c. si limiti a rigettare l'istanza di revoca o modifica, il reclamo è inammissibile non essendovi alcun mutamento di equilibri da sottoporre a riesame da parte di un diverso giudice. La tesi del distinguo non pare, tuttavia, catturare lo spirito della lezione della Consulta sull'estensione della legittimazione al reclamo (Corte cost., n. 253/1994). La Corte, infatti, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 669-terdecies c.p.c. nella parte in cui non consentiva il reclamo avverso il provvedimento cautelare di rigetto, partiva da un preciso presupposto. E cioè che con l'art. 669-decies c.p.c. il legislatore, discrezionalmente forgiando le strutture processuali, avesse inteso intaccare il regime di stabilità dei provvedimenti cautelari consentendo l'adeguamento del loro contenuto precettivo alle sopravvenienze emergenti nel corso del giudizio di merito. In aggiunta a tale previsione, il legislatore aveva altresì, secondo la Consulta, consentito il reclamo avverso i provvedimenti (olim solo) concessivi della misura richiesta. Prosegue, dunque, la Corte, con motivazione che è opportuno riportare per esteso: «La revisio prioris instantiae, in cui si concreta detto reclamo – il quale consente, da parte di un giudice diverso e collegiale, il controllo sugli errores in procedendo e in iudicando eventualmente commessi dal giudice della cautela – è invece negata alla parte che subisca la situazione assunta come lesiva del proprio diritto e che abbia richiesto senza successo una cautela anticipatoria o conservativa. Si realizza così un'amputazione del diritto di difesa, in quanto si attribuisce maggiore possibilità di far valere le proprie ragioni a chi resiste alla richiesta di provvedimento cautelare rispetto a chi tale richiesta propone. E ciò non ha giustificazione di sorta, giacché le due parti si trovano, nei confronti dell'ordinamento processuale, in posizione simmetricamente equivalente. Infatti, il provvedimento, positivo o negativo che sia, incide comunque sulla sfera personale o patrimoniale di entrambe le parti, arrecando pregiudizio agli interessi dell'una o dell'altra in misura non valutabile astrattamente; né vi è possibilità logica di ritenere a priori più probabile il fondamento giuridico dei provvedimenti di rigetto rispetto a quelli di accoglimento. Lo squilibrio che la norma impugnata introduce tra i poteri processuali delle parti nel procedimento cautelare non può ragionevolmente ricondursi neppure a un'asserita differenza tra la situazione determinata dal provvedimento positivo e quella che consegue al provvedimento di rigetto per il fatto che solo il primo determina un mutamento della situazione preesistente. Ed invero l'istanza cautelare può essere diretta non soltanto ad ottenere un mutamento della situazione di fatto, ma anche ad evitare che tale mutamento si verifichi. D'altronde, la situazione di fatto esistente tra le parti appare inidonea, di per sé, a giustificare qualsivoglia privilegio processuale, essendo il processo diretto appunto a verificare ed eventualmente a ripristinare la conformità di essa al diritto. Prestare una considerazione privilegiata allo status quo, sarebbe quindi contrario alla stessa garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti. La sperequazione determinata dalla reclamabilità dei soli provvedimenti che concedono il provvedimento cautelare non può nemmeno considerarsi compensata dal fatto che, a norma dell'art. 669-septies, comma 1, c.p.c. il provvedimento negativo non preclude la riproposizione dell'istanza di provvedimento cautelare quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto e di diritto. È evidente, infatti, che tra i due rimedi non vi è rapporto di equivalenza in termini di garanzia, posto che sul reclamo di cui all'art. 669-terdecies c.p.c. è chiamato a decidere un giudice diverso da quello che ha pronunziato il provvedimento impugnato, mentre la riproposizione dell'istanza ai sensi dell'art. 669-septies c.p.c. si rivolge al medesimo giudice che ha già respinto la richiesta di misura cautelare. E l'alterità del giudice dell'impugnazione rappresenta – secondo l'ordinamento, ma anche secondo il comune sentire – un fattore di maggior garanzia. A tale rilievo – di per sé decisivo – deve aggiungersi la considerazione dei limiti di ammissibilità che pur sempre l'art. 669-septies c.p.c. pone alla riproposizione dell'istanza, così escludendo che lo stesso giudice possa comunque pronunziarsi nuovamente su una domanda riproposta negli identici termini e in costanza della medesima situazione di fatto, al fine di eliminare un proprio eventuale precedente errore. Limiti, codesti, la cui presenza contribuisce a rendere ancor più grave la indicata sperequazione, la quale non potrebbe non produrre i suoi effetti anche per tutto il corso del giudizio di merito (ove instaurato dopo il provvedimento di rigetto della domanda cautelare ante causam), risolvendosi, sempre in mancanza di nuove prospettazioni e di sopravvenute circostanze, nella definitiva perdita del potere di chiedere la tutela cautelare dei diritti che si assumono lesi». È allora proprio la generalizzazione dell'istituto del reclamo, la possibilità cioè che il potere di decidere sull'esistenza dei presupposti della tutela cautelare, fumus e periculum, sia sempre e comunque sottoposto a controllo da parte di un diverso giudice a deporre a favore della tesi che ammette la generale reclamabilità anche in riferimento al provvedimento con cui il giudice pronuncia sulla domanda di revoca/modifica ex art. 669-decies c.p.c. Del resto, il potere di revoca e modifica non è qualitativamente diverso dal potere cautelare esplicatosi con il provvedimento che ha pronunciato per la prima volta sulla domanda di tutela cautelare. E se quel potere è sottoposto a controllo impugnatorio sia che la domanda sia accolta che rigettata, deve ragionevolmente esserlo anche il potere esercitato dal giudice chiamato ad accogliere o rigettare la domanda di modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c. Ha, dunque, un suo peso l'argomento basato sulle similitudini tra rigetto e revoca. La sent. n. 253/1994 con cui la Consulta ha esteso la reclamabilità anche avverso il provvedimento di rigetto della domanda in prime cure ha cioè eliminato l'obiezione principale alla reclamabilità del provvedimento di revoca, fondata proprio sull'analogia tra rigetto e revoca. Il che del resto è anche pienamente coerente con l'idea che, a fronte di un provvedimento reso ex art. 669-decies c.p.c., il giudice del reclamo possa sindacare solo la valutazione operata dal giudice istruttore della causa di merito in ordine alla persistente meritevolezza della tutela cautelare (originariamente concessa), alla luce delle risultanze processuali o delle sopravvenienze materiali progressivamente emerse nel tempo occorrente ad ottenere una pronuncia dichiarativa sul diritto cautelato. In materia di procedimenti di separazione, l'art. 2 della l. n. 54/2006 è intervenuto sull'art. 708 del codice di procedura civile (già riscritto dal c.d. «decreto competitività» d.l. n. 35/2005, convertito in l. n. 80/2005 – art. 2, comma 3 lett. e-ter – senza peraltro subire sostanziali modificazioni rispetto alla formulazione originaria), aggiungendo, alla disciplina dettata per la fase introduttiva del processo di separazione personale, il comma 4 che prevede espressamente l'ammissibilità del reclamo avverso i provvedimenti presidenziali. La disposizione continua, tuttavia, a non prevedere l'ammissibilità del reclamo avverso i provvedimenti del giudice istruttore sulle istanze di revoca o modifica dei provvedimenti presidenziali. Né impugnazioni di sorta sono previste dal successivo art. 709 c.p.c. che, nell'attuale formulazione del comma 4, ammette la revoca o la modifica da parte del giudice istruttore dei provvedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente anche in assenza di mutamenti delle circostanze. La mancata espressa previsione di regole specifiche sull'ammissibilità del reclamo avverso i provvedimenti che pronunciano sulle istanze di revoca o modifica pone il problema interpretativo su cui ci si è appena soffermati: è ammissibile anche in tale contesto il reclamo? La possibile risposta sconta, inevitabilmente, la condivisione degli argomenti utilizzati in dottrina e giurisprudenza per ammettere o negare (in tutto o in parte) il rimedio impugnatorio avverso i provvedimenti resi ex art. 669-decies c.p.c., e del cui catalogo si è dato conto supra. Revocabilità o modificabilità del provvedimento reso in sede di reclamo avverso la decisione ex art. 669-deciesLa tesi favorevole alla reclamabilità dei provvedimenti resi in esito a domanda ex art. 669-decies c.p.c. pone un ulteriore problema: il provvedimento reso in esito a reclamo è a sua volta revocabile/modificabile ex art. 669-decies c.p.c.? La risposta positiva riposa sulla constatazione che sia la modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c. sia il reclamo avverso il relativo provvedimento si basano non su una rivalutazione complessiva degli stessi presupposti (fumus boni iuris e periculum in mora) che originariamente giustificarono l'emissione della cautela (come oggi può accadere, ad esempio, per i provvedimenti nell'interesse dei coniugi e della prole exartt. 708 e 709 c.p.c.), ma sulla valutazione di nova. Questi ultimi, nella duplice morfologia di sopravvenienze materiali o processuali in senso tecnico, o di fatti preesistenti ma ignorati al tempo dell'emissione della originaria misura cautelare, vengono in rilievo per la loro idoneità a modificare il bilanciamento di interessi compiuto dal giudice per emettere quella misura, che nella sua originaria consistenza, dunque, non si giustifica più. Né la modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c., né il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia), se collocati in questo contesto, appaiono dunque in grado di produrre un corto circuito nel sistema complessivo della stabilità del provvedimento cautelare, che mostra una naturale cedevolezza proprio rispetto al mutamento del quadro fattuale e giuridico che ne aveva giustificato l'originario contenuto precettivo (mutamento che a sua volta giustifica un controllo impugnatorio). Se, dunque, di cedevolezza ragionevole si tratta, non si può escludere che anche rispetto ad un provvedimento prima modificato ex art. 669-decies c.p.c. e poi sottoposto a reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. per la verifica della corretta gestione dei presupposti richiesti dall'art. 669-decies c.p.c., si profilino nova capaci di incidere sul suo attuale contenuto precettivo e tali da fondare una ulteriore domanda proprio, ed ancora una volta, ex art. 669-decies c.p.c. Ed è appena il caso di notare che proprio questa logica escluderebbe qualsiasi pericolo di aggiramento di un assetto, quello appunto del doppio grado di giurisdizione cautelare, in cui il provvedimento finale, reso cioè in esito all'unica impugnazione proponibile, il reclamo appunto, non è ulteriormente impugnabile (né ricorribile in cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., attesa l'assenza di carattere «decisorio»: v, ex multis, Cass. I, n. 8178/1996, per la quale l'ordinanza de qua ha carattere strumentale e provvisorio, è suscettibile di successiva modificazione o revoca anche sulla scorta di un riesame della situazione fattuale, ha efficacia condizionata all'instaurazione del procedimento di merito ed è destinata ad essere superata o assorbita dalla pronuncia che lo concluda. Ne consegue che, presentando connotazioni di precarietà, coinvolge posizioni di diritto soggettivo ma non statuisce su di esse con la forza dell'atto giurisdizionale idoneo ad assumere autorità vincolante di giudicato. Identica natura deve essere attribuita all'ordinanza, di segno positivo o negativo, emessa dal tribunale sul reclamo, la quale sì sostituisce al provvedimento denunciato, con pari funzione, e non si sottrae alle indicate ulteriori vicende, comportanti provvisorietà ed emendabilità). In dottrina, trova perciò seguito l'idea che l'istanza di revoca o modifica ex art. 669-decies c.p.c. sia proponibile anche avverso l'ordinanza con la quale il giudice del reclamo conferma o modifica la misura (Attardi, 256; Andolina, 79), nonché in riferimento al provvedimento che abbia accolto il reclamo promosso contro un provvedimento di rigetto (Cecchella 1997, 150). Viceversa, si esclude il rimedio ex art. 669-decies c.p.c. in caso di accoglimento integrale del reclamo proposto avverso il provvedimento di accoglimento, con conseguente integrale eliminazione del provvedimento cautelare stesso (Frus 1992), dal momento che la revoca o la modifica concernono solo il provvedimento positivo e non anche quello negativo. Con la conseguenza che, in tale ultima evenienza, l'unica strada è la riproposizione della domanda di cautela ex art. 669-septies c.p.c. (Vullo, 354). La conclusione si giustifica in base all'assunto che il provvedimento di rigetto della domanda cautelare non ne preclude, appunto, la riproponibilità poiché esibisce effetti meramente interlocutori, senza alcuna definitiva incidenza sui contrapposti interessi dei contendenti. Quanto alla competenza, spetta al giudice istruttore la competenza a disporre la revoca e modifica del provvedimento cautelare emesso in tutto o in parte dal collegio in sede di reclamo (Trib. Udine 14 dicembre 1994). Qualora la causa di merito sia, invece, devoluta ad arbitri, la competenza per la modifica o revoca del provvedimento cautelare emanato dal collegio di tribunale in sede di reclamo spetta al giudice singolo e non al giudice collegiale (Trib. Bassano Grappa 19 marzo 1999). Nel caso di istanza proposta con riferimento a misura cautelare a strumentalità attenuata confermata o concessa in sede di reclamo (e sempre che non vi abbia fatto seguito l'instaurazione della controversia di merito), la competenza non potrà che spettare al giudice del reclamo che ha confermato o emanato il provvedimento (Vullo, 355; Merlin 2008, 479). La decorrenza degli effetti del provvedimento ex art. 669-decies c.p.c.Profilo estremamente rilevante legato all'adozione di un provvedimento di modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c. è quello della decorrenza degli effetti del nuovo provvedimento, in virtù della caducazione della misura originaria o comunque, in senso più generale, del mutamento del suo contenuto precettivo in senso limitativo o estensivo. E poiché funzione della cautela, nella sua dimensione dinamica anche legata all'adeguamento ai nova nei termini più volte descritti, è la protezione dal periculum nel tempo occorrente ad ottenere la tutela finale dichiarativa, la domanda è: quali sono i limiti temporali di operatività del provvedimento reso in esito a domanda di modifica/revoca? Il tema si pone negli stessi termini, evidentemente, sia che il provvedimento reso ex art. 669-decies c.p.c. abbia natura «anticipatoria» e prescinda perciò, ai fini della perdurante efficacia, dalla instaurazione del giudizio dichiarativo e dal perseguimento del provvedimento di merito (v. oggi gli artt. 669-octies e 669-novies c.p.c., al cui commento si rinvia), sia che esso abbia invece natura «conservativa» e veda la sua efficacia condizionata proprio a tali ultimi incombenti. Occorre, invece, tenere in opportuna considerazione il modo in cui gli effetti incidono sulla realtà giuridica e fattuale nei rapporti tra le parti, potendo la cautela esaurirsi uno acto e irradiare i propri effetti permanenti nel tempo. In dottrina, è diffusa l'opinione (Merlin 2008, 381) della tendenziale irretroattività degli effetti del provvedimento adottato ex art. 669-decies c.p.c., dovendosi, però, distinguere tra modifica e revoca. Quanto alla modifica la portata non retroattiva degli effetti (operatività ex nunc) pare giustificarsi in base al rilievo generale che sono proprio i nova che hanno giustificato la rimodulazione del contenuto precettivo della cautela originaria a fondare la necessità che gli effetti del nuovo provvedimento siano corretti per l'avvenire, ed a partire proprio dal momento in cui il mutamento rilevante è occorso. Per la revoca invece il discorso deve condursi in modo più aderente alle peculiarità dei singoli provvedimenti cautelari la cui efficacia è venuta definitivamente meno e la conclusione dell'irretroattività non è generalizzata perché dipenderà, ad esempio, dalla circostanza che l'effetto si esaurisca una tantum o si irradi nel tempo o ancora dalla natura e funzione di alcuni tipi cautelari. In riferimento alle modalità ed ai tempi con cui gli effetti si producono, si può fare capo, ad esempio, ad un provvedimento cautelare che ordini la consegna di un bene. Benché si esaurisca in un unico atto, la consegna irradia i propri effetti nel futuro poiché attribuisce al beneficiario un godimento per definizione durevole. Ne deriva perciò che: a) non sarebbe giuridicamente corretto sostenere che la revoca non possa operare essendosi esaurito ogni effetto attuale della cautela (gli effetti permanenti consistendo proprio nel godimento della cosa in capo al beneficiario); b) al contrario, l'esigenza che sta a base della revoca è attuale e concreta e suscettibile di essere soddisfatta proprio privando, con efficacia ex nunc, il beneficiario del godimento attuale della cosa consegnatagli in esecuzione della cautela poi revocata. In altri casi, invece, la funzione stessa della cautela impedisce di sostenere l'irretroattività degli effetti della revoca, che altrimenti non avrebbe senso. È tipicamente il caso del sequestro conservativo, il cui effetto è quello di rendere inopponibili al sequestrante gli atti dispositivi compiuti dopo la concessione del provvedimento. È evidente che se l'effetto di inopponibilità al sequestrante di atti compiuti anteriormente alla revoca non venisse meno retroattivamente, ma permanesse nonostante la revoca del sequestro stesso, si avrebbe la paradossale conseguenza di una perduranza degli effetti di inopponibilità degli atti anteriori alla revoca che finirebbe per vanificare gli effetti della revoca stessa. Conseguentemente, gli effetti della revoca, in questo caso non possono che prodursi retroattivamente. Revoca/modifica ex art. 69-decies c.p.c. ed attuazione ex art. 669-duodecies c.p.c.Occorre adesso esaminare il rapporto tra il complesso sistema di controlli apprestato, nell'ambito del rito cautelare uniforme, per i provvedimenti resi dal giudice della cautela nella sedes dell'art. 669-decies c.p.c. e l'altrettanto complesso sistema di controlli previsto invece dall'art. 669-duodecies c.p.c. (al cui commento si rinvia) nella fase di attuazione/ esecuzione del comando cautelare. Tale sistema è, segnatamente, conchiuso nel contenuto precettivo di tale ultima disposizione che, sotto le mentite spoglie di una lex brevis (un unico articolo disciplinante ogni aspetto dell'esecuzione/attuazione, appunto, di tutti i tipi cautelari), evoca una serie di discipline diverse per l'attuazione dei sequestri e per l'attuazione delle cautele anticipatorie. La diversità tra le misure cautelari della cui attuazione/esecuzione su tratta, infatti, impone il riferimento a fonti di disciplina diverse e con tecniche diverse: rinvio puro e semplice agli artt. 677 ss. c.p.c. quanto ai sequestri; rinvio agli artt. 491 ss. c.p.c. solo in quanto compatibili per i provvedimenti cautelari anticipatori recanti condanne pecuniarie; autonoma regolamentazione, infine, quanto ai provvedimenti anticipatori recanti condanne di fare-non fare-dare. Ora, è facile notare come, essendo il provvedimento reso ex art. 669-decies c.p.c. espressione di un potere cautelare della stessa natura di quello trasfuso nel provvedimento di prime cure e nel provvedimento reso in esito a reclamo, non può che conseguirne, per la relativa attuazione/esecuzione, l'applicabilità delle tecniche predisposte proprio dall'art. 669-duodecies c.p.c. Il che impone, evidentemente, una actio finium regundorum sia con le opposizioni esecutive richiamate per l'attuazione dei sequestri come per l'attuazione delle cautele recanti condanne pecuniarie (mercè in rinvio agli artt. 491 ss. c.p.c., in quanto compatibili), sia con i controlli e le contestazioni che, per le cautele recanti ordini di facere/non facere, consegna o rilascio, l'art. 669-duodecies c.p.c. colloca tra la fase davanti al giudice dell'attuazione ed il giudizio di merito, sedes deputata, altresì, in determinate circostanze, all'adozione dei provvedimenti ex art. 669-decies c.p.c., appunto. Della complessità dei profili di interferenza e differenziazione sono espressione esemplificativa alcuni riflessioni della dottrina e alcuni interventi della giurisprudenza di cui qui, fermo il rinvio al commento all'art. 669-duodecies c.p.c., occorre dare conto. Quanto alla dottrina, essa si è fatta carico di precisare che diversa dalla revoca per mutamenti delle circostanze sin qui descritta è quella che dipende dall'adattamento della situazione cautelata con riferimento alle modalità attuative del provvedimento (Tommaseo, 106). A mente dell'art. 669-duodecies c.p.c., che attribuisce al giudice il potere di non solo di controllare lo stato dell'attuazione, ma anche di determinare le modalità attuative e risolvere le difficoltà, può darsi la necessità per il giudice che ha pronunciato il comando cautelare di esercitare il controllo sull'attuazione dei provvedimenti aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio ovvero di determinare le modalità attuative e di risolvere, con i provvedimenti opportuni, le difficoltà eventualmente occorse. Anche la giurisprudenza di legittimità è intervenuta su questi delicati profili, evidenziando che l'art. 669-decies c.p.c. prevede che, nel corso dell'istruzione, il giudice istruttore della causa di merito possa, su istanza di parte, modificare o revocare il provvedimento cautelare, anche emesso anteriormente alla causa, qualora si verifichino mutamenti nelle circostanze, mentre l'art. 669-duodecies c.p.c., con disposizione di chiusura avente carattere generale, applicabile (art. 669-quaterdecies c.p.c.) anche ai sequestri, stabilisce che ogni altra questione in ordine all'attuazione della misura cautelare, diversa da quelle in precedenza esaminate nel medesimo articolo (concernenti le mere difficoltà materiali insorte nel corso dell'esecuzione: art. 610 c.p.c.), vada proposta nel giudizio di merito. Ne discende che le contestazioni mosse in ordine all'esecuzione del sequestro non assumono natura di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, ma conservano la loro natura di eccezioni del soggetto che ha subìto la misura cautelare, idonee soltanto a sollecitare l'esercizio, da parte del giudice di merito, dei poteri di modifica, integrazione, precisazione o revoca del provvedimento (Cass. III, n. 19101/2003). La Cassazione si è, altresì, confrontata con l'abrogazione della disciplina della convalida, stabilendo che tale evento non ha sottratto al giudice del merito ogni competenza sul sequestro già disposto proprio in virtù del contenuto precettivo dell'art. 669-decies c.p.c. nella parte in cui prevede che, nel corso dell'istruzione, il giudice istruttore della causa di merito possa, su istanza di parte, modificare o revocare il provvedimento cautelare al ricorrere dei presupposti ivi previsti. La disposizione va letta, cioè, in combinato disposto con l'art. 669-duodecies c.p.c. (v., oltre a Cass. III, n. 19101/2003 cit., anche Cass. III, n. 4635/1993; Cass. III, n. 1407/1992; Cass. III, nn. 26, 28, 29 e 30/1988; Cass. III, n. 319/1976; Cass. III, n. 1784/1969). Sempre in tema di sequestri, si è poi ritenuta inammissibile la domanda di modifica dell'ordinanza, ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c., avanzata sul presupposto dell'avvenuta sostituzione del custode giudiziario dal momento che la sostituzione del custode non può considerarsi un mutamento di circostanze idoneo a giustificare una rivisitazione del provvedimento di sequestro (Trib. Trani 8 gennaio 2008). 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