Codice di Procedura Civile art. 669 duodecies - Attuazione (1).Attuazione (1). [I]. Salvo quanto disposto dagli articoli 677 e seguenti in ordine ai sequestri, l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto somme di denaro avviene nelle forme degli articoli 491 e seguenti in quanto compatibili, mentre l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare [2930, 2931, 2933 1 c.c.] avviene sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare [669-ter, 669-quater, 669-quinquies] il quale ne determina anche le modalità di attuazione e, ove sorgano difficoltà o contestazioni [610, 613], dà con ordinanza i provvedimenti opportuni, sentite le parti. Ogni altra questione va proposta nel giudizio di merito. (1) La sezione (comprendente gli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies ) è stata inserita dall'art. 74, comma 2, l. 26 novembre 1990, n. 353, entrata in vigore il 1° gennaio 1993. L' art. 92 stabilisce inoltre: « Ai giudizi pendenti a tale data si applicano, fino al 30 aprile 1995, le disposizioni anteriormente vigenti ». L'art. 90, comma 1, l. n. 353, cit., come sostituito dall'art. 9 d.l. 18 ottobre 1995, n. 432, conv., con modif., nella l. 20 dicembre 1995, n. 534, estende ulteriormente l'applicabilità delle disposizioni ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995. InquadramentoLa «attuazione» dei provvedimenti cautelari resi dal giudice civile è disciplinata nell'ambito degli artt. 669-bis – 669-quaterdecies del codice di procedura civile che, sostituendo una precedente normativa frammentaria e parziale, disegnano un processo cautelare di applicazione pressoché generalizzata (art. 669-quaterdecies c.p.c.). L'art. 669-duodecies c.p.c., specificamente dedicato proprio alla «attuazione», come recita la sua rubrica, ha radici lontane. Esso trae, infatti, la sua filosofia da quelle correnti di pensiero, poi attecchite anche nella giurisprudenza di merito che, in difetto di una lex generalis, avevano forgiato la fase esecutiva delle cautele conosciute dall'ordinamento in via ermeneutica. Già nel vigore del codice di rito del 1865, la dottrina aveva enucleato l'essenza della tutela cautelare nella protezione da un pericolo, nella necessità cioè di rimediare allo stato di incertezza e/o violazione del diritto nel tempo occorrente al suo accertamento attraverso il processo dichiarativo. Fu in particolare un celebre autore (Calamandrei, 18) a formulare compiutamente quel concetto di periculum in mora che tanta fortuna ha riscosso presso la dottrina successiva. Il pericolo rilevante ai fini della concessione della cautela andava rintracciato, secondo l'autore, in quello per ovviare al quale la tutela ordinaria si rivelava troppo lenta, sicché bisognava provvedere in via d'urgenza ad impedire con misure provvisorie che il danno minacciato si producesse o si aggravasse proprio a causa di quell'attesa. Il pericolo cautelare era perciò concepito come «quell'ulteriore danno marginale che potrebbe derivare dal ritardo del provvedimento definitivo». Connaturata perché indispensabile alla sua funzione era perciò la natura sommaria che si ascriveva alla cognizione necessaria per la concessione del provvedimento. Si deve alla stessa dottrina (Calamandrei, 20) la definizione dei provvedimenti cautelari come conciliazione tra opposte esigenze della giustizia: il far presto ma male, e il far bene ma tardi. Questi provvedimenti mirano infatti anzitutto a far presto, lasciando che il problema del bene e del male, cioè della giustizia intrinseca della decisione, sia risolto successivamente e con la necessaria ponderatezza nelle riposate forme del giudizio di cognizione ordinaria, che abbandona cioè le forme della superficialità tipiche della valutazione non dell'esistenza del diritto, ma solo del suo fumus (e del periculum, naturalmente). Gli anni ‘50 del novecento videro la dottrina (Liebman, 256) elaborare la c.d. teoria dell'unità del procedimento cautelare, che tanta parte avrà nella storia dell'attuazione cautelare. Partendo dall'esame delle caratteristiche strutturali e funzionali dei sequestri, si fece strada l'idea che la fase dichiarativa del procedimento, funzionale alla pronuncia sull'istanza di concessione, non era da sé sola in grado di dare al beneficiario alcun risultato utile, questo derivando solo dalla concreta esecuzione del provvedimento autorizzativo delle misure. L'interesse ad agire del beneficiario, il «risultato utile» cui egli aspirava, si sarebbe infatti realizzato, a differenza di quanto accadeva nella tutela ordinaria, solo attraverso la «attuazione» della cautela. Nel procedimento cautelare, cioè, non aveva alcun pregio la distinzione, tipica della tutela dei diritti in via ordinaria, tra fase dichiarativa e fase esecutiva, essendo quel procedimento piuttosto un unicum dove cognizione ed esecuzione cospiravano al solo scopo di porre in esecuzione, per l'appunto, il provvedimento. Sul pianto tecnico-processuale ne conseguiva allora l'impossibilità di scindere il processo di cognizione da quello di esecuzione: il processo cautelare veniva dunque (ri)definendosi quale tertium genus rispetto all'esecuzione ed alla cognizione. L'idea fece breccia nella dottrina e nella giurisprudenza successive (Cass. III, n. 2823/1966; Cass. III, n. 955/1976; Cass. III, n. 1427/1977; Cass. III, n. 2169/1974; Cass. III, n. 292/1979; Cass. III, n. 616/1979), che forgiarono in via pretoria una esecuzione cautelare prima dei sequestri, sui quali l'unità del procedimento era stata immaginata, e poi anche dei provvedimenti cautelari di facere-dare, che venne definita «attuazione» o «esecuzione in via breve». La dottrina escluse così per i provvedimenti cautelari la qualifica di titoli esecutivi. Si affermò, invece (Montesano 1955, 118) che il provvedimento di urgenza non fosse un atto di accertamento giurisdizionale e titolo esecutivo della successiva esecuzione forzata, ma fosse esso stesso atto di esecuzione forzata. Il contenuto del provvedimento del giudice corrispondeva cioè, per questa lettura, non soltanto a quello di una sentenza di condanna, ma anche a quello dell'ordinanza con la quale il giudice, a norma dell'art. 612 c.p.c., determinava le modalità dell'esecuzione forzata di un obbligo di fare o di non fare. L'esecuzione forzata doveva perciò ritenersi consentita dalla legge senza l'osservanza delle forme prescritte dal codice di procedura civile per l'esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare. Sul piano procedimentale si escluse così l'applicabilità delle disposizioni sull'esecuzione forzata di cui al libro III del codice di procedura civile con la conseguenza che: a) era lo stesso giudice della cautela a gestirne anche l'attuazione, e b) era esclusa l'esperibilità delle opposizioni esecutive degli artt. 615 ss. e 617 ss. c.p.c., restando ogni contestazione dell'intimato attratta alla cognizione dello stesso giudice della cautela o di quello del merito. Il background dell'attuale normativa.La progressiva emersione della rilevanza costituzionale della tutela cautelare ebbe un forte impatto su questo scenario. La Corte Costituzionale (Corte cost., n. 190/1985) venne investita della questione di illegittimità costituzionale dell'art. 700 c.p.c., nella parte in cui non consentiva al giudice ordinario di tutelare in via d'urgenza diritti soggettivi derivanti da comportamenti omissivi della Pubblica Amministrazione e devoluti in via di merito alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per contrasto con gli artt. 24, comma 1, e 3, comma 1, Cost. (oltre che con l'art. 113 Cost.). Venne altresì investita della questione di incostituzionalità, in riferimento agli artt. 3 e 113 Cost., dell'art. 21, ultimo comma («Se il ricorrente, allegando danni gravi e irreparabili derivanti dall'esecuzione dell'atto, ne chiede la sospensione, sull'istanza il tribunale amministrativo regionale pronuncia con ordinanza emessa in camera di consiglio. I difensori delle parti debbono essere sentiti in camera di consiglio, ove ne facciano richiesta») della l. 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui, limitando l'intervento d'urgenza del giudice amministrativo alla mera sospensione dell'esecutività dell'atto impugnato, non consentiva a tale giudice di intervenire d'urgenza nelle controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva. La Corte rileva che, per assicurare che non si perpeti l'inammissibile disuguaglianza di trattamento tra dipendenti pubblici e privati, il sospetto d'incostituzionalità dell'art. 21, ultimo comma, della l. n. 1034/1971 sia da ritenersi fondato in base al principio, per il quale la durata del processo non deve andare a danno dell'attore che ha ragione. Principio prosegue la Corte, “(...) di cui la dottrina non solo italiana fin dagli inizi del corrente secolo ha dimostrato la validità desumendola e al contempo confortandola con richiami di disposizioni normative e provocando l'inserzione nel codice di rito civile del 1942 dell'art. 700 c.p.c. («Fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d'urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito»)”. La tutela d'urgenza appare insomma, nella logica della Consulta,quale espressione di direttiva di razionalità tutelata dall'art. 3, comma 1, e, in subiecta materia, dall'art. 113 Cost. Prosegue dunque la Corte: “Scrittori e giudici di merito (non escluso il Consiglio di Stato) non hanno esitato ad estendere la direttiva desumibile dall'art. 700 alla giurisdizione esclusiva dei T.A.R., ma, se il tentativo non ha riscosso l'assenso del giudice della nomofilachia quel che è precluso dal diritto vivente ben può e deve essere realizzato dalla Corte. Né, così rescrivendo, si pone la Corte in contrasto con l'orientamento seguito nel campo tributario (sent. n. 63/1982), nel quale il potere di sospendere la riscossione è attribuito all'intendente di finanza e può darsi parziale iscrivibilità a ruolo dei tributi contestati. Per contro, la normativa di fresca data esibisce per chiari segni la direttiva, espressa dall'art. 700 c.p.c. e, sol in limitata area, dall'art. 21, ultimo comma, vuoi nell'art. 28 (Tutela giurisdizionale) della l. 29 marzo 1983, n. 93 (Legge quadro sul pubblico impiego) il quale, al comma 1, ammonisce che «In sede di revisione dell'ordinamento della giurisdizione amministrativa si provvederà all'emanazione di norme che si ispirino, per la tutela giurisdizionale del pubblico impiego, ai principi contenuti nelle leggi 20 maggio 1970, n. 300 e 11 agosto 1973, n. 533», vuoi nell'art. 31 (Tutela giurisdizionale) del d.P.R. 24 marzo 1981, n. 145 (Ordinamento dell'Azienda autonoma di assistenza al volo per il traffico aereo generale), il quale, dopo aver assegnato le controversie di lavoro relative al personale comunque in servizio alla esclusiva giurisdizione dei tribunali amministrativi regionali, dispone che, «in detti giudizi trova applicazione l'art. 28 della l. 20 maggio 1970, n. 300, ed, in quanto applicabili, le disposizioni di cui alla l. 11 agosto 1973, n. 533», ed è appena il caso di sottolineare che il richiamo della l. n. 533/1973 vuol dire inserzione nel tessuto della giurisdizione esclusiva dei primi tre commi del novellato art. 423 c.p.c., sol per la concreta inapplicabilità dei quali entra in gioco, come norma di chiusura, l'art. 700 c.p.c.: elasticità la quale, in difetto dell'art. 423, commi 1 e 3, c.p.c., in linea generale inapplicabile al settore pubblico, opera senza limiti a favore dei dipendenti pubblici”. Su questa premessa, i giudici della Consulta arrivarono, dunque, ad affermare che, tutte le volte in cui un diritto assistito da fumus boni iuris fosse minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile nel tempo occorrente a farlo valere in via ordinaria, il giudice aveva il potere di adottare i provvedimenti che apparissero, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito. Il giudice delle leggi, cioè, richiamandosi al principio che la durata del processo non deve andare a danno della parte che ha ragione, vide nella tutela d'urgenza l'espressione di una direttiva di razionalità tutelata dall'art. 3, comma 1 e, in subiecta materia, dall'art. 113 Cost. Per la prima volta, emerse dunque il rapporto tra effettività della tutela giurisdizionale e tutela cautelare, entrambe ricondotte alla comune matrice dell'art. 24 Cost. L'aggancio della tutela d'urgenza ai valori costituzionali aggregantisi intorno ad una tutela «effettiva» fu ribadito ancora dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 249/1996; Corte cost., n. 427/1999), la quale affermò che «la disponibilità di misure cautelari è strumentale all'effettività della tutela giurisdizionale e costituisce espressione del principio per cui la durata del processo non deve andare a danno della parte che ha ragione, in applicazione dell'art. 24 Cost.». Va, altresì, rilevato che la Corte di Giustizia UE ha nel tempo fornito un notevole contributo all'affermazione del principio di effettività della tutela cautelare all'interno degli Stati membri. La giurisprudenza della Corte si è, infatti, costantemente mossa nella direzione di un rafforzamento delle concrete possibilità di intervento dei giudici nazionali, in modo da offrire alle situazioni giuridiche di origine comunitaria un ampio spettro di tutela interinale, indispensabile all'effettività della tutela giurisdizionale stessa. Si è, ad esempio, affermato (Corte Giustizia UE 19 giugno 1990, causa C-213-89 resa nel caso Factortame) il dovere dei giudici nazionali di disapplicare le norme di diritto interno ostative alla concessione dei provvedimenti cautelari necessari ad assicurare la piena efficacia della pronuncia giurisdizionale avente ad oggetto posizioni soggettive di derivazione comunitaria. Ancora oltre è andata quella giurisprudenza (Corte Giustizia 21 febbraio 1991, cause riunite C-143/88 e C-92/89, caso Zuckerfabrick) che ha riconosciuto il potere del giudice nazionale di disporre la sospensione dell'esecuzione di un provvedimento nazionale basato su un regolamento comunitario la cui legittimità sia in contestazione, in base all'assunto che «la tutela cautelare garantita dal diritto comunitario ai privati davanti ai giudici nazionali non può variare a seconda che sia in contestazione la compatibilità di norme di diritto nazionale con il diritto comunitario o la validità di atti comunitari di diritto derivato, dal momento che, in entrambi i casi, la contestazione si basa sul diritto comunitario». Tali principi vengono sostanzialmente ribaditi (da Corte Giustizia 9 novembre 1995, causa C-465/93, caso Atlanta) affermando «la tutela cautelare che i giudici debbono garantire ai singoli in forza del diritto comunitario non può variare a seconda che questi ultimi chiedano la sospensione dell'esecuzione di un provvedimento nazionale adottato sulla base di un regolamento comunitario, o la concessione di provvedimenti provvisori che modifichino o disciplinino a loro vantaggio situazioni di diritto o rapporti giuridici controversi». La sentenza è fondamentale, e merita di essere ricordata, perché ammette che la tutela cautelare sia da valutare come indispensabile all'effettività della tutela giurisdizionale, anche ove ciò comporti, in limine, l'esclusione provvisoria dell'efficacia del diritto comunitario. La sentenza riconosce inoltre la possibilità che le misure interinali abbiano non solo contenuto sospensivo, ma anche contenuti positivi. La mutata sensibilità dei tempi, ad un tempo causa ed effetto della valorizzazione costituzionale di importanti aspetti della tutela giurisdizionale, catalizzò anche il mutamento della tradizionale concezione dell'irreparabilità del pregiudizio di cui all'art. 700 c.p.c. Nel clima culturale che vide l'introduzione della norma nel codice di rito del 1940, i diritti di obbligazione si consideravano infatti (Satta 1953, 132) in linea di principio, estranei allo spettro di operatività del provvedimento d'urgenza, in quanto asseritamente insuscettibili di essere pregiudicati, e men che mai in modo irreparabile, nelle more del giudizio. L'irreparabilità del pregiudizio, percepita come «permanente offesa della propria situazione giuridica durante il processo, più precisamente, godimento da parte del convenuto di una situazione che è incompatibile, perché ne costituisce la negazione, con la situazione giuridica, col diritto del ricorrente», si riteneva cioè predicabile solo per i diritti assoluti. Accanto alle aperture della Corte Costituzionale di cui si è appena detto, cominciò invece ad emergere la diversa idea (Andrioli 1964, 251; Proto Pisani, 380) che ad avere bisogno di protezione cautelare non dovevano ritenersi solo diritti assoluti a contenuto e funzione non patrimoniale (quelli della personalità, delle libertà costituzionali, ecc.), ma anche a diritti relativi a contenuto patrimoniale, ma a funzione non patrimoniale, come il diritto alla retribuzione, legato alla possibilità di una esistenza libera e dignitosa per il lavoratore e la sua famiglia, ed in qualche caso anche a diritti di credito in quanto tali. Ciò sul presupposto che l'irreparabilità andasse valutata come esistenza di un obiettivo scarto qualitativo tra il risultato ottenibile all'esito del processo ordinario e quello che si sarebbe ottenuto con l'adempimento volontario. Il risultato di questo mutamento di prospettiva fu l'aumento sempre maggiore di provvedimenti d'urgenza recanti condanna al pagamento di somme di denaro. Si pose allora, per la prima volta, il problema pratico della loro eseguibilità forzata. E fu rispetto ad esso, fino ad allora inedito, che la corrente interpretazione dell'attuazione cautelare come aliquid novi rispetto alle esecuzioni forzate del libro III del codice di procedura civile subì una significativa svolta (Vullo, 71, passim). La riflessione si appuntò, infatti, sull'identificazione del pagamento, anche se ordinato in via cautelare, con l'adempimento dell'obbligazione pecuniaria. Poiché cioè il pagamento, anche se veicolato da un provvedimento cautelare, estingue il credito, esso assume una fisiologica definitività che non è dato invece riscontrare negli ordini cautelari di facere-dare. Si ritenne allora imprescindibile l'assetto normativo dell'adempimento coatto dell'obbligazione, ed in particolare l'applicazione dei meccanismi funzionali, nel Libro III del cpc, alla par condicio creditorum (Verde, 734; Capponi 1989, 114). La necessità che il pagamento coatto non escludesse gli altri creditori del debitore cautelare, aggirando i principi degli artt. 2740 e 2741 c.c., impose perciò la conclusione che anche l'esecuzione cautelare, se relativa ad ordini di pagamento, dovesse seguire le uniche forme processuali in grado di realizzare quelle esigenze, cioè le forme dell'espropriazione forzata del libro III del codice di procedura civile. Venne così rimeditata in modo radicale la teoria della «unità del procedimento cautelare», e tale rimeditazione non investì solo le cautele di pagamento ma altresì tutte le misure cautelari per le quali si rendesse necessaria, per la relativa attuazione, una modifica della realtà materiale. La conclusione che si fece progressivamente strada fu, dunque, quella che fase dichiarativa e fase esecutiva fossero diverse e come tali dovessero essere trattate, che il provvedimento in questione fosse reso in via ordinaria o avesse consistenza solo cautelare (Verde, 734; Vullo, 71). Si ritenne così plausibile che, al fine di evitare il pregiudizio imminente ed irreparabile cui è funzionale il provvedimento d'urgenza, le forme esecutive dovessero essere caratterizzate da particolare celerità e speditezza, e quindi, ad esempio, prescindessero dagli adempimenti preliminari all'esecuzione e/o fossero affidate allo stesso giudice della cautela. D'altra parte, però, non furono ritenuti eludibili altri principi, come quello della par condicio creditorum o quello della necessità di assicurare il contraddittorio ed il diritto di difesa ai soggetti coinvolti nell'esecuzione nelle forme, ritenute più distese e garantiste, delle opposizioni esecutive. È in questo clima che nasce l'art. 669-duodecies c.p.c., ove, in ossequio alla storia, il richiamo al modello esecutivo «in via breve» per gli ordini cautelari di facere-dare si affianca, per gli ordini di pagamento, al richiamo agli artt. 491 ss. c.p.c. «in quanto compatibili». La «attuazione» nell'art. 669-duodecies c.p.c.Alla «attuazione», regolata dall'art. 669-duodecies c.p.c., occorre guardare da un duplice punto di vista. Il primo è quello adottato dalla rubrica, che si riferisce senz'altro all'attuazione stessa come segmento del processo cautelare basato su specifici presupposti, inaugurato da un autonomo atto ed avente sue proprie regole, diverse da quelle che governano la fase di concessione della cautela. Il secondo è, invece, quello che ispira il contenuto precettivo della disposizione, che proprio in questo segmento processuale colloca due fenomeni profondamente diversi: l'attuazione dei sequestri e l'attuazione delle cautele anticipatorie. È per questo che vengono individuate fonti di disciplina diverse e con tecniche diverse: rinvio puro e semplice agli artt. 677 ss. c.p.c. quanto ai sequestri; rinvio agli artt. 491 ss. c.p.c. solo in quanto compatibili per i provvedimenti cautelari recanti condanne pecuniarie; autonoma regolamentazione, infine, quanto alle cautele di fare-non fare-dare. Complessità di fenomeni regolati e frammentarietà di discipline applicabili, dunque, alla cui origine vi è la diversità tra provvedimenti cautelari c.d. «conservativi», di cui i sequestri costituiscono l'archetipo, e provvedimenti cautelari «anticipatori», a loro volta distinguibili tra quelli recanti ordini di fare-non fare-dare e quelli recanti invece ordini di pagamento. A ciascuno di essi corrisponde, infatti, un retroterra peculiare di storia, ed in parte di sistema, da cui originano i diversi modelli processuali apprestati dall'art. 669-duodecies c.p.c. per provvedimenti pur tutti accomunati dall'identica funzione di paralisi del periculum. Segue. I provvedimenti «conservativi» I sequestri giudiziario e conservativo sono funzionali a neutralizzare i pericula c.d. da infruttuosità della tutela finale tipizzati dagli artt. 670 e 671 c.p.c. attraverso la creazione di un vincolo giuridico sui beni che ne sono oggetto. Per questa ragione essi sono strutturati, dal punto di vista processuale, in due fasi. La prima di esse è la fase di autorizzazione, che culmina nel provvedimento autorizzativo ed ha quale scopo di fornire allo stesso richiedente il potere di attivare gli organi pubblici preposti alla creazione del vincolo, o di realizzare egli stesso le formalità all'uopo necessarie. La seconda fase invece attiene al perfezionamento del vincolo stesso. Mezzo al fine è, nel sequestro giudiziario, l'apprensione delle res che ne formano oggetto e la loro consegna ad un custode così sottraendo ad una delle parti del rapporto in contestazione il potere di fatto sulle stesse. Custode può essere nominato anche chi ha già la materiale disponibilità del bene ed in tal caso, pur restando uguale la situazione di fatto, muta il titolo del possesso che si trasforma in munus publiucum, con ogni conseguenza del caso (bastando, sul piano del quomodo, notificare il provvedimento di sequestro al custode-possessore). Per le res incorporales, in virtù della loro inidoneità a costituire oggetto di materiale apprensione, operano invece meccanismi diversi generalmente imperniati su formalità imposte al beneficiario e/o a terzi, anche con la partecipazione dell'ufficiale giudiziario (v., amplius, Corsini, 2005, 884 e passim, anche in riferimento alla problematica se sia possibile il sequestro di res incorporales). Nel sequestro conservativo, il vincolo si perfeziona, invece, nelle forme del pignoramento poiché il periculum di dispersione della garanzia patrimoniale che è teso a scongiurare si risolve nella probabilità che (legittimi) atti di disposizione giuridica di beni depauperino il patrimonio del debitore rendendolo inidoneo a soddisfare, attraverso l'espropriazione forzata, le ragioni creditorie. Esso non può, dunque, che contrastarsi attraverso la tecnica dell'inopponibilità al sequestrante degli atti di disposizione eventualmente compiuti dal (presunto) debitore (art. 2906 c.c.). Ne deriva che il provvedimento autorizzativo è solo una tappa del più ampio procedimento culminante nel perfezionamento del vincolo, al quale soltanto è possibile ascrivere la rimozione del periculum cui la cautela è strumentale. Segue. I provvedimenti «anticipatori» I provvedimenti anticipatori dettano, invece, una norma agendi tratta dal diritto sostanziale, che si impone direttamente all'obbligato prima ed a prescindere dall'accertamento con efficacia di giudicato delle relazioni intercorrenti con la controparte ed è tale da paralizzare il periculum che minaccia l'interesse materiale del ricorrente. Nella giurisprudenza di merito, in particolare, il periculum è visto quale relazione tra eventi. Esso assume, dunque, consistenza materiale niente affatto riconducibile alla «durata», in sé, del giudizio di merito. La prassi considera, infatti, il periculum in mora come probabilità di concreta lesione dell'interesse del ricorrente sotteso al diritto vantato, a prescindere dal dato formale della prognosi sulla durata del processo dichiarativo. Fatto generatore di tale pericolo è quasi sempre l'inadempimento di obblighi derivanti da un rapporto giuridico con il beneficiario della cautela. Sono noti, ad esempio, i casi in cui è ordinato l'adempimento urgente di un credito in denaro sul presupposto che il protrarsi dell'insoddisfazione comporterebbe il fallimento del ricorrente o sue serie difficoltà nel far fronte alle proprie obbligazioni con terzi (v., ad esempio, Pret. Roma, 14 febbraio 1983; Pret. Roma, 31 luglio 1986). Stessa logica ispira l'ordine di non sospendere la somministrazione di gas ed energia elettrica per impedire la chiusura dell'impresa del somministrato, con conseguente pregiudizio irreparabile alla produzione (Pret. Caltagirone 10 marzo 1993). In queste fattispecie, il perpetuarsi del comportamento inadempiente genera infatti, per il giudice, una lesione dell'interesse del beneficiario (rispettivamente, il creditore ed il somministrato titolari a loro volta di una impresa), che a sua volta si pone come fonte di una serie di pregiudizi non riparabili né a seguito della pronuncia definitiva del giudice, né di un eventuale adempimento volontario successivo ad essa né maiori causa con l'esecuzione forzata della sentenza (Trib. Milano 14 agosto 1997). La tutela d'urgenza è, tuttavia, praticata anche nell'ambito dell'affidamento dei minori. Si è, infatti, deciso che il giudice può, con provvedimento d'urgenza, anche prima dell'instaurazione del contradditorio, statuire sull'affidamento di un minore, al fine di assicurargli tutela piena e immediata (Trib. Roma 4 dicembre 2017, in fattispecie in cui è stato disposto l'affido esclusivo alla madre di una minore, figlia di genitori non coniugati, il cui padre, del tutto estraneo alla sua vita, viveva da anni all'estero ed al quale per questo non era stato possibile notificare tempestivamente il ricorso introduttivo). L'emersione dei profili più squisitamente materiali del periculum caratterizza anche molte pronunce a tutela del diritto alla salute e delle varie posizioni afferenti allo status di prestatore di lavoro. Quanto al primo aspetto (diritto alla salute), possono citarsi le pronunce che ordinano ad una A.S.L. esborsi in danaro per consentire al beneficiario di sottoporsi ad intervento chirurgico o ad altro trattamento terapeutico (anche in attesa dell'accertamento se quel trattamento è a carico del Servizio sanitario nazionale: v., a titolo esemplificativo, Trib. Napoli 5 marzo 1986; Pret. Lecce 4 febbraio 1998, in riferimento al c.d. «caso Di Bella»; Pret. Maglie 10 dicembre 1997 e Pret. Prato 26 gennaio 1998; Pret. Catanzaro 26 gennaio 1998 e Pret. Macerata 12 gennaio 1998, sempre in riferimento alla somministrazione di somatostatina per la c.d. cura Di Bella; Pret. Modica, 13 agosto 1990, con cui è stato autorizzato un trattamento sanitario ad un paziente che rifiutava immotivatamente di sottoporvisi; Pret. Torino, 25 marzo 1991, in un caso di paziente che chiedeva di farsi operare all'estero), o che ordinano al responsabile di lesioni gravi o gravissime esborsi di denaro in favore della vittima, per consentire a quest'ultima di attendere, medio tempore, alle proprie esigenze di vita (Trib. Milano 23 dicembre 1993). La tutela d'urgenza è stata, poi, concessa (Trib. Milano 20 maggio 2006) in termini di ordine di immediata attivazione della fornitura di energia elettrica e di gas a favore di persona occupante abusiva di immobile di edilizia pubblica, alla luce della presenza di un minore di soli cinque mesi e dell'assoluta preminenza dell'esigenza primaria di salvaguardare le condizioni minimali di una sopravvivenza decorosa e dignitosa. Sempre in via urgente, è stato, inoltre, disposto l'impianto intrauterino di embrioni crioconservati su istanza della moglie rimasta vedova dopo la formazione degli embrioni stessi (Trib. Bologna 25 agosto 2018). Il danno alla salute assume particolare rilievo anche nella giurisprudenza chiamata a far fronte, in via urgente, al pregiudizio nascente da immissioni moleste (Trib. Venezia 27 luglio 2007, in fattispecie in cui si lamentava la presenza costante di immissioni di odori e suoni gravemente disturbanti per l'equilibrio psico-fisico del ricorrente). Acquisita la prova di tali immissioni e le conseguenze patite da parte ricorrente in termini di alterazione del sonno, lieve labilità emotiva, stress, esasperazione, riduzione della capacità di concentrazione, il giudicante rileva come «non è possibile revocare che in dubbio che, pur non essendo ipotizzabile un danno alla salute attuale, la prolungata esposizione alle plurime fonti disturbanti esponga ad un pregiudizio, oltre che imminente, irreparabile (non foss'altro per il carattere ampiamente non compensativo del risarcimento per equivalente pecuniario al cospetto di un interesse non patrimoniale) il diritto del ... a poter vivere all'interno della sua abitazione». Ne consegue la piena inibitoria, pronunciata nei confronti di parte resistente, alla continuazione delle immissioni moleste così come provate in giudizio. Quanto al secondo aspetto, il provvedimento di reintegra è stato concesso anche a prescindere dalla valutazione dell'aspetto retributivo, e quindi dello stato di bisogno del lavoratore, ma a tutela della sua dignità professionale, cioè dell'interesse ad utilizzare il suo bagaglio di conoscenze operando concretamente nel mondo del lavoro (Pret. Parma, 11 febbraio 1992; Trib. Roma 14 ottobre 2003). In queste ipotesi, si è cioè riconosciuta l'esistenza del periculum in mora, ad esempio, nel probabile aggravamento delle condizioni di depressione del lavoratore a causa dell'esautoramento dalle mansioni dirigenziali prima espletate (Trib. Roma 14 ottobre 2003). Il carattere irreparabile del periculum emerge qui come insieme dei riflessi negativi proiettati su tutta la sfera (patrimoniale e non) del soggetto leso dall'inadempimento, e che solo mediatamente sono riconducibili ad esso. La stessa logica si riscontra anche nelle ipotesi in cui il pregiudizio appare rimediabile, attraverso la tutela ordinaria, solo per il futuro, mentre l'attuale interesse del ricorrente è medio tempore irrimediabilmente frustrato o, al più, valutato sotto il profilo risarcitorio (v., in tal senso, Trib. Avezzano 18 giugno 2004, il quale ha ordinato in via urgente l'immediato rilascio dei locali dell'azienda e la cessazione di ogni atto di ingerenza nelle attività di amministrazione e gestione della società, nei confronti del socio accomandatario che aveva assunto comportamenti tali da determinare un pregiudizio imminente ed irreparabile per l'immagine, gli interessi ed il corretto funzionamento della società stessa). Particolare attenzione al carattere materiale del periculum ispira anche quella giurisprudenza di merito (Trib. Foggia 28 luglio 2018), per la quale è ammissibile il ricorso alla tutela d'urgenza exart. 700 c.p.c. per ottenere la riduzione dell'ipoteca giudiziale, in quanto il disposto di cui all'art. 2884 c.c. trova applicazione nella sola ipotesi della cancellazione, dalla quale la prima si differenzia per essere una mera rettifica tendente a correggere l'eccedenza dell'iscrizione. Ritiene questa giurisprudenza, più in particolare, che l'art. 2884 c.c., laddove stabilisce che «la cancellazione deve essere eseguita dal conservatore, quando ordinata con sentenza passata in giudicato o con altro provvedimento definitivo emesso dalle autorità competenti», non può trovare applicazione anche nell'ipotesi di riduzione dell'ipoteca, poiché la stessa non equivale ad una cancellazione, bensì ad una «rettifica» volta a correggere l'eccedenza dell'iscrizione. L'equiparazione tra riduzione e cancellazione ipotecaria non è allora predicabile, secondo questa lettura, data la differenza sul piano della causa petendi che, nel primo caso, è inverata dalla contestazione del credito o del diritto alla garanzia, e nel secondo caso dalla asserita sproporzione tra il valore dei beni oggetto di iscrizione ipotecaria e l'importo del credito da garantire. E, del resto, aderire all'opposta opzione ermeneutica condurrebbe a ritenere che il legislatore, nel disciplinare la riduzione ipotecaria, non abbia ritenuto necessario un provvedimento definitivo, il che non è sostenibile. Questa lettura richiama i principi espressi dalla Consulta (Corte cost.,n. 271/2017) la quale ha statuito che, qualora sia richiesta in via giudiziale la riduzione d'ipoteca per restrizione dei beni sui quali è avvenuta l'originaria iscrizione, è ammissibile il ricorso alla tutela in via d'urgenza. Ciò in quanto tale riduzione – per un verso – non integra un'ipotesi di cancellazione parziale, essendo per converso riconducibile ad una vicenda modificativa del diritto reale di garanzia, e – per altro verso – esige la mera pronuncia con il provvedimento conclusivo del giudizio instaurato, che non necessariamente deve assumere la forma della sentenza, ben potendo identificarsi con l'ordinanza che accorda un provvedimento cautelare anticipatorio. Va, poi, ricordata quella recente giurisprudenza (Trib. Rimini 25 maggio 2020), per la quale sussistono i presupposti per concedere, con decreto inaudita altera parte, la tutela d'urgenza invocata dall'affittuario di un'azienda alberghiera rimasta inattiva a causa dell'emergenza epidemiologica da Covid-19 e, per l'effetto, ordinare alla controparte di non mettere all'incasso gli assegni bancari postdatati o privi di data, che erano stati rilasciati a garanzia del pagamento del canone (nello stesso senso, v. anche Trib. Bologna 12 maggio 2020). I provvedimenti cautelari «anticipatori», per come si mostrano nella prassi applicativa soprattutto della tutela d'urgenza, si caratterizzano perciò come idonei a dettare una regula di diritto sostanziale alle parti che può corrispondere, in tutto o in parte, a quella (che presumibilmente sarà) risultante dal provvedimento dichiarativo che impartisce la tutela finale. La realtà applicativa mostra come, soprattutto attraverso i provvedimenti ex art. 700 c.p.c., siano «anticipati» contenuti in tutto corrispondenti a quelli della tutela finale, come accade ove siano richieste cautele d'urgenza autorizzative (v., ad esempio, Trib. Roma 17 febbraio 2000, il quale, in riferimento alla tematica della cd. maternità surrogata, dichiara la liceità e meritevolezza di un accordo tra moglie, marito ed un medico, avente ad oggetto il trasferimento di embrioni crio-conservati per l'impianto nell'utero di donna consenziente; e ancora Trib. Roma 10 febbraio 1999, il quale dichiara in via urgente l'infondatezza di una notizia lesiva dell'immagine di un imprenditore, ed autorizza la pubblicizzazione di tale provvedimento; o ancora Trib. Foggia 28 luglio 2018, cit., il quale ha ritenuto ammissibile ordinare in via urgente la riduzione dell'ipoteca giudiziale). Struttura «anticipatoria» assumono, tuttavia, anche quelle cautele di contenuto non corrispondente alla regola di diritto sostanziale applicabile al rapporto tra le parti, ma addirittura diverso. È il caso, emblematico, dell'ordine urgente di pagamento reso nei confronti di una A.S.L. al fine di consentire al richiedente di sottoporsi a trattamento terapeutico in attesa dell'accertamento che il trattamento stesso è a carico del servizio sanitario nazionale (v. la giurisprudenza citata in tema di diritto alla salute). In altre ipotesi, poi, il contenuto della cautela si presenta quale contemperamento degli opposti interessi perché impone, ad esempio, limiti o correttivi all'esercizio della situazione giuridica sostanziale contesa oppure una regolamentazione provvisoria della situazione litigiosa, diversa da quella di diritto sostanziale (v., ad esempio, Pret. Roma 11 giugno 1984, cheha ordinato ex art. 700 c.p.c. la continuazione, fino ad esaurimento delle scorte, di un rapporto di franchising in relazione alla produzione e distribuzione di prodotti tra società italiana ed altra società licenziataria del marchio, che si trovava in liquidazione; Pret. Roma, 15 dicembre 1982 e Pret. Roma, 14 febbraio 1983, che hanno ordinato al debitore il pagamento solo di una parte del credito, cioè nei limiti necessari ad evitare il pregiudizio irreparabile lamentato dal creditore). La «anticipatorietà» cautelare quale risposta ai bisogni di tutela urgente emersi nella pratica dunque, lungi dal caratterizzarsi sempre come (ri)produzione anticipata della regula sostanziale (che sarà resa in sede di tutela dichiarativa), esibisce spesso un contenuto altro, che nondimeno: a) ha sempre la consistenza di una norma agendi tratta dal diritto sostanziale, che si impone direttamente all'obbligato prima ed a prescindere dall'accertamento con efficacia di giudicato delle relazioni intercorrenti con la controparte; b) è tale da paralizzare il periculum che minaccia l'interesse materiale del ricorrente. Delle regulae fissate nel provvedimento cautelare assume allora rilievo, per la caratterizzazione in senso «anticipatorio», la idoneità a paralizzare il periculum allegato piuttosto che la coincidenza con quelle che risulteranno dal provvedimento che impartisce la tutela finale. Per questi motivi, struttura anticipatoria può riconoscersi, ai nostri fini, anche ad alcune tipologie di cautele cui si tende invece spesso ad annettere carattere conservativo. Dell'inibitoria alla continuazione di un comportamento asseritamene illegittimo e tale da causare un pregiudizio irreparabile – inibitoria che può, peraltro, anche assumere segno positivo, concretandosi in un ordine di facere (è il caso risolto da Trib. Torino 17 maggio 2002, per il quale l'ordine di cessazione in via urgente di qualsiasi violazione dei diritti dei consumatori e degli utenti, cioè l'inibitoria richiesta dalle associazioni di categoria, comprende in senso ampio non solo proibizioni, ma anche l'adozione di misure positive, idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate, nella specie l'immissione di gas di scarico nell'abitacolo della autovetture) – e della sospensioneexart. 2378, comma 3, c.c. si tende spesso a riconoscere l'appartenenza o quantomeno la vicinanza all'ambito della conservazione, per la loro idoneità a cristallizzare lo stato di fatto modificato dall'illegittimo comportamento o dalla delibera impugnata. Quanto ai provvedimenti resi su denuncia di nuova opera e danno temuto, connotazione «conservativa» è invece ascritta al tipico contenuto inibitorio della continuazione dell'opera o permissivo con particolari cautele. Occorre, tuttavia, riflettere sulla circostanza che la conservazione dello status quo che può indubbiamente associarsi a tali provvedimenti appare proprio consequenziale all'applicazione della norma agendi sostanziale che essi impartiscono al responsabile della condotta illegittima. Di questi provvedimenti può, cioè, ben dirsi che sortiscano l'effetto di preservare lo stato di fatto precedente, rispettivamente, alla delibera impugnata o ai comportamenti violativi del nome o dell'immagine. Ma ciò accade proprio in seguito alla realizzazione della norma agendi sostanziale che consente l'eliminazione della lamentata lesione. Il discorso può essere ripetuto anche per i provvedimenti resi su denuncia di nuova opera e danno temuto. L'effetto di preservare lo status quo precedente alla nuova opera deriva qui dall'applicazione di regulae iuris idonee a neutralizzare – sia pure in modi molto diversi tra loro (l'imposizione della cauzione in denaro o di fideiussioni si accompagna alla possibilità di completare l'opera, ed è finalizzata a tenere la controparte indenne dai danni eventualmente provocati dalla nuova opera conclusa; le prescrizioni tecniche, viceversa, tendono proprio a fare in modo che la nuova opera venga ultimata «a regola d'arte», senza arrecare alcun danno al fondo del vicino) – il pregiudizio lamentato dall'istante. È, infatti, la capacità di neutralizzare il pericolo a dare la misura di quanto il parametro utilizzato siano le norme sostanziali, laddove prescrivono regole il cui rispetto impedisce appunto di arrecare danni al fondo altrui o impongono che il danno causato venga risarcito. Viceversa, nei sequestri (exartt. 670 e 671 c.p.c., ma anche in quelli extravaganti o atipici), la conservazione fisica e giuridica del bene su cui incidono, e che ne costituisce il contenuto, è del tutto estranea al rapporto sostanziale. Sicché come per le cautele «anticipatorie» può rintracciarsi, nei termini appena riferiti, un profilo conservativo dello status quo violato, ben potrà sostenersi che il sequestro giudiziario «anticipi» l'esecuzione per consegna o rilascio, e quello conservativo il pignoramento. Né l'uno né l'altro sono tuttavia «anticipatori» nel senso che questo aggettivo assume nelle cautele precedentemente descritte. La concessione di provvedimenti «anticipatori» dà, perciò, vita ad un possibile duplice sviluppo: l'adempimento volontario da parte dell'obbligato o, in difetto, l'esecuzione forzata se le prestazioni individuate nel provvedimento sono fungibili. Sotto il profilo della struttura processuale, al procedimento di cognizione segue, solo in subordine all'inottemperanza e sempre che le prestazioni siano fungibili, una esecuzione forzata. Segue. Un duplice modo di intendere la «attuazione» «Attuazione» è, dunque, secondo il contenuto precettivo dell'art. 669-duodecies c.p.c., espressione che evoca un duplice fenomeno ed assume, perciò, anche un duplice significato. Applicata ai sequestri, essa rimanda, anzitutto, all'espletamento di formalità estranee alla sfera del resistente, poiché il perfezionamento della sequenza procedimentale appare necessario e promana da atti di impulso dello stesso beneficiario. È, poi, evidente il riferimento al vincolo stesso nella sua dimensione di durata, che si protrae fino al sopraggiungere di una delle cause che ne determinano il venir meno e che vede entrambe le parti del rapporto sostanziale in eguale posizione di soggezione. Applicata alle cautele «anticipatorie», l'attuazione evoca invece prima di tutto l'esecuzione volontaria del provvedimento da parte dell'obbligato, controparte del beneficiario, e poi l'esecuzione forzata in senso tecnico. Ne consegue che la disciplina processuale dell'attuazione dei sequestri va ricostruita secondo una logica diversa da quella dell'esecuzione forzata e il rinvio operato dall'art. 669-duodecies c.p.c. agli artt. 677 ss. c.p.c., nella parte in cui a loro volta rinviano proprio alle disposizioni sull'esecuzione forzata, va letto cum grano salis sia quanto ai profili regolati sia quanto a quelli non regolati e che necessitano di integrazione normativa, le cui fonti vanno perciò attinte all'esterno del libro III del codice di procedura civile. L'art. 669-duodecies c.p.c. utilizza, infatti, alcune delle tecniche del libro III del codice di rito, poiché i sequestri si perfezionano attraverso le stesse tecniche che realizzano la consegna-rilascio dei beni ed il pignoramento, ed è perciò a tali profili che il rinvio alla disciplina dell'esecuzione forzata va limitato. Visti quali vincoli pubblicistici per loro natura perduranti nel tempo, i sequestri si prestano, invece, ad essere inquadrati, sia pure con diverse modulazioni in ragione del carattere giudiziario o conservativo e nel contesto del processo di cui essa «attuazione» è pur sempre una fase, negli schemi e conseguentemente nella disciplina della custodia. Sicché, in definitiva, l'art. 669-duodecies c.p.c. finisce con il fornire un contributo molto limitato alla fisionomia della «attuazione» di queste cautele, che va ricostruita per lo più in via interpretativa. Quanto, invece, ai provvedimenti «anticipatori», l'attuazione regolata dall'art. 669-duodecies c.p.c. assume i connotati di un vero e proprio fenomeno esecutivo, anche se poi proprio la natura di processo esecutivo è l'unico elemento che accomuna, nell'art. 669-duodecies c.p.c. le cautele di fare-non fare-dare e quelle di pagamento. Quanto alle cautele che ordinano prestazioni di fare-non fare o dare, l'intera gestione dell'esecuzione, dalla fissazione delle modalità esecutive alla risoluzione delle difficoltà e contestazioni, è infatti affidata al «giudice che ha emanato il provvedimento cautelare», fino al limite ultimo di «ogni questione» che, per essere altra rispetto a quelle già enumerate, resta «riservata al giudizio di merito». La tecnica utilizzata è quella della regolamentazione autonomamente dettata. Per i provvedimenti che condannano al pagamento di somme il processo esecutivo, è invece regolato dagli artt. 491 ss. c.p.c., cioè dalle disposizioni che, nel libro III del codice di procedura civile, regolano il pignoramento e la vendita forzata nonché le opposizioni esecutive, sia pure solo in quanto compatibili. Le ragioni di così profonde differenze affondano, almeno in buona parte, nella storia della tutela cautelare e dell'elaborazione della sua struttura processuale in particolare sotto il profilo esecutivo. Una storia che, nell'àmbito della giustizia (amministrata dal giudice) civile, si è sviluppata – come già accennato – intorno al costante confronto con le esecuzioni forzate del libro III del codice di procedura civile e con la summa divisio tra esecuzioni c.d. in forma specifica, funzionali alle condanne di fare-disfare-dare, ed espropriazione forzata, funzionale invece alle condanne pecuniarie e per questo costruita in modo da assicurare il concorso dei creditori in ossequio all'art. 2741 c.c. È stata quest'ultima necessità, tradizionalmente percepita come imprescindibile anche per le condanne pecuniarie consacrate in un provvedimento cautelare, a costituire il retroterra culturale dell'art. 669-duodecies c.p.c. Proprio per preservare le regole sul concorso dei creditori la disposizione ha infatti richiamato le disposizioni sull'espropriazione forzata. Occorre, tuttavia, rilevare che il rinvio al libro III del codice di procedura civile, che disciplina compiutamente ogni aspetto di quel tipo di esecuzione forzata, ma che è applicabile solo nei limiti della compatibilità, crea una serie di problemi. Sta, infatti, all'interprete la verifica di quali segmenti normativi siano in concreto esportabili in un contesto così diverso quale quello cautelare, ove occorre confrontarsi con la restante disciplina del processo disegnato dagli artt. 669-bis – 669-terdecies c.p.c. e con la ratio di paralisi del periculum che la ispira. Il problema è dei più seri e si pone anche per le cautele di fare-non fare-dare in relazione a quei numerosi e delicati profili che, non espressamente regolati, necessitano di integrazione ermeneutica. E, tuttavia, la necessità di distinguere tra le due tipologie di misure anticipatorie si ripropone. Per i provvedimenti cautelari che recano condanne ad un facere-dare, infatti, a differenza che per quelli di condanna pecuniaria, l'art. 669-duodecies c.p.c. ha apprestato una autonoma disciplina e l'ha dotata di una struttura particolarmente elastica. Ne consegue che, se per l'esecuzione delle cautele di condanna pecuniaria, il costante confronto con il libro III del codice di procedura civile è imposto dalla rigida prospettiva del richiamo agli artt. 491 ss. c.p.c., per l'esecuzione delle altre cautele anticipatorie, la ricostruzione della disciplina applicabile può avvalersi di una più ampia prospettiva. In particolare, è possibile prendere spunto da altri modelli processuali che con quello cautelare hanno in comune il carattere di esecuzione forzata vera e propria. Nell'àmbito delle soluzioni apprestate in quei modelli per i problemi non espressamente regolati dall'art. 669-duodecies c.p.c., sarà così possibile scegliere quelle adottate nei processi più «vicini», sotto il profilo strutturale, al contesto cautelare che si sta qui esaminando. I sequestri e la disciplina applicabile.Si è già visto come l'art. 669-duodecies c.p.c. rinvii, per l'attuazione dei sequestri giudiziario e conservativo, agli artt. 677 ss. c.p.c. Prima di entrare nel vivo della ricostruzione della disciplina applicabile, è tuttavia opportuno considerare i mutamenti indotti dall'entrata in vigore della l. n. 353/1990 (e dei successivi interventi di modifica del 2005), che ha operato su un duplice fronte. Da un lato, la riforma ha infatti apprestato, per tutte le misure cautelari almeno previste dal codice di rito (v. l'art. 669-quaterdecies c.p.c., al cui commento si rinvia), una disciplina procedimentale uniforme. Dall'altra, ha modificato significativamente proprio la normativa specificamente dedicata ai sequestri. Sotto quest'ultimo profilo, è stato eliminato il giudizio di convalida e sono state abrogate le norme sulla competenza a disporre la misura, sicché le lacune createsi a seguito dall'abrogazione di quelle specifiche norme sono oggi colmate proprio dalle disposizioni sul cd. procedimento cautelare uniforme. In particolare, la disciplina dei sequestri è oggi caratterizzata: a) dalla reclamabilità del provvedimento sia positivo che negativo (art. 669-terdecies c.p.c., al cui commento si rinvia); b) dalla previsione, assente nel previgente regime, che anche il provvedimento reso inaudita altera parte deve essere confermato, modificato o revocato in contraddittorio con la controparte, in una fase ancora cautelare (art. 669-sexies c.p.c., al cui commento si rinvia), senza attenderne la revoca con sentenza passata in giudicato; c) dalla possibilità di modifica/revoca al verificarsi di mutamenti nelle circostanze o in seguito all'allegazione di nova (art. 669-decies c.p.c., al cui commento si rinvia); d) dalla cessazione degli effetti giuridici al sopravvenire della sentenza anche di primo grado (art. 669-novies c.p.c., al cui commento si rinvia). All'abrogazione è, invece, sopravvissuto l'art. 675 c.p.c., a mente del quale il provvedimento che autorizza il sequestro perde efficacia se non è eseguito nel termine di trenta giorni dalla pronuncia. Il riferimento alla «esecuzione» deve intendersi operato alla «attuazione» come regolata dall'art. 669-duodecies c.p.c. Il termine è comunemente considerato di perenzione e non invece di decadenza né di prescrizione. La differenza è sostanziale perché la decadenza, una volta verificatasi, determina la perdita definitiva della facoltà non esercitata. La prescrizione, a sua volta, sanziona con l'impossibilità di farlo valere in futuro il mancato esercizio di un diritto sostanziale per un determinato tempo. La perenzione, invece, sancisce solo l'impossibilità, per chi ha ottenuto il provvedimento autorizzativo del sequestro, di ottenerne la «attuazione», ferma restando la facoltà di chiedere un nuovo provvedimento da far eseguire nel termine dell'art. 675 c.p.c. La decorrenza del termine di trenta giorni per l'efficacia del sequestro va agganciata al momento della pronuncia del provvedimento autorizzativo e non già al momento della comunicazione alla parte onerata dell'inizio dell'esecuzione (Trib. Ivrea 8 settembre 2004; Trib. Roma 23 gennaio 1995). Se il provvedimento autorizzativo del sequestro giudiziario non reca la nomina di un custode, in violazione dell'art. 676 c.p.c., la parte, per evitare l'inefficacia del provvedimento ex art. 675 c.p.c., nel termine di trenta giorni deve provvedere ad attivarsi o attuando il sequestro rivolgendosi comunque all'ufficiale giudiziario, ovvero richiedendo al giudice l'integrazione del provvedimento (Trib. Reggio Emilia 13 ottobre 2012). Al fine della verifica del rispetto del termine di trenta giorni, dovrà aversi riguardo al momento nel quale è iniziata l'esecuzione forzata, quindi quello del pignoramento per l'espropriazione e quello della notifica del preavviso di rilascio per l'esecuzione exartt. 605 ss. c.p.c. (v., peraltro, con riguardo all'esecuzione per rilascio, Cass. III, n. 13775/2007, per la quale, «ai fini dell'osservanza del termine perentorio di trenta giorni, stabilito nell'art. 675c.p.c. entro il quale deve essere iniziata l'esecuzione del sequestro giudiziario di bene immobile, non può ritenersi primo atto esecutivo la notificazione dell'avviso di rilascio, essendo tale formalità espressamente omessa, ai sensi dell'art. 677, comma 1, c.p.c., quando il custode non sia persona diversa dal detentore; conseguentemente, la misura cautelare diviene inefficace se, decorsi trenta giorni dall'emissione o dal deposito del provvedimento si sia provveduto solo alla notificazione dell'avviso, trattandosi di un adempimento non richiesto dalla legge»). In ogni caso, è consolidato, anche in sede di legittimità, il principio per il quale per evitare l'inefficacia del sequestro sancita dall'art. 675 c.p.c. è sufficiente dare inizio all'esecuzione entro il termine di trenta giorni e ciò anche se l'esito sia infruttuoso e venga quindi redatto un verbale negativo di sequestro, restando sempre ferma la possibilità di compiere successivamente ulteriori atti di esecuzione (Cass. III, n. 3679/1999). L'inefficacia del sequestro riguarda il solo caso della mancata esecuzione cui consegue, ex art. 675 c.p.c., un effetto riflesso sulla stessa efficacia del provvedimento autorizzativo, mentre, allorché il sequestro abbia avuto una esecuzione tempestiva e si discuta della inammissibilità di ulteriori atti esecutivi posti in essere dopo il termine di cui all'art. 675 c.p.c., deve ritenersi salva l'efficacia del provvedimento (Trib. Monza 24 giugno 2002). La giurisprudenza ha, altresì, affrontato il tema se l'inefficacia del sequestro per inutile decorso del termine dell'art. 675 c.p.c. vada dichiarata ai sensi dell'art. 669-novies c.p.c. (al cui commento si rinvia), che disciplina, in generale, proprio l'inefficacia dei provvedimenti cautelari. In particolare, secondo un primo e minoritario orientamento, la perenzione del sequestro ai sensi dell'art. 675 c.p.c.matura de iure senza necessità della declaratoria giudiziale di cui all'art. 669novies, comma 2 (al cui commento si rinvia) e non preclude la riproposizione dell'istanza cautelare (Trib. Viterbo 9 febbraio 1996). Secondo altro (e prevalente) orientamento, invece, sebbene l'art. 669-novies c.p.c. non menzioni espressamente l'art. 675 c.p.c., l'analogia della fattispecie ivi disciplinata con quelle previste dal comma 1 dell'art. 669-novies c.p.c. (atteso che nell'uno e negli altri la perdita di efficacia consegue ad un'inerzia della parte interessata) ed il carattere di previsione generale della norma disciplinante le forme e le modalità della dichiarazione di inefficacia, inducono a ritenere applicabili tali forme e modalità anche al caso dell'inefficacia del sequestro conseguente alla mancata esecuzione nel termine dettato dall'art. 675 c.p.c. (Trib. Reggio Calabria 8 agosto 2003; Trib. Verona 19 giugno 2003). Si è, poi, deciso che, al fine di individuare il giudice competente a pronunziare la declaratoria di inefficacia di un sequestro giudiziario concesso ante causam e non eseguito nel termine di legge, occorre distinguere l'ipotesi in cui il sequestrante, oltre a non avere eseguito in termine, non abbia neppure introdotto il giudizio di merito, dall'ipotesi in cui il sequestrante, pur non avendo eseguito il provvedimento autorizzativo nel termine, abbia però introdotto il giudizio di merito. Occorre, infatti, tenere presente la disomogeneità tra l'ipotesi della mancata introduzione del giudizio di merito, contemplata dall'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. ed il contenuto dell'art. 675 c.p.c. Queste premesse di metodo inducono a concludere che, nel primo caso, l'inefficacia non può che essere pronunciata dal giudice della cautela, mentre nel secondo caso, essendosi radicato il giudizio di merito, è in esso che devono naturalmente confluire tutte le questioni attinenti all'attuazione del provvedimento cautelare (Trib. Trani 17 gennaio 2012). Segue. L'attuazione del sequestro giudiziario: giudice competente, custode, controllo sull'attuazione.Dopo questa necessaria premessa, e tornando alla disciplina apprestata per i sequestri dall'art. 669-duodecies c.p.c. si può partire dalla constatazione che la «attuazione» del sequestro giudiziario è affidata al rinvio agli artt. 605 ss. c.p.c. in quanto applicabili, omessa la notifica del precetto nonché la comunicazione del preavviso di rilascio se il custode non è persona diversa dal detentore dell'immobile (così l'art. 677, comma 2, c.p.c.). L'art. 669-duodecies c.p.c. contiene, dunque, due limiti testuali. Il primo è specifico e consiste nell'esclusione di alcune formalità. Il secondo, viceversa, assume carattere generale: l'operatività delle norme sull'esecuzione in forma specifica non è, cioè, né automatica né generalizzata, ma da valutarsi caso per caso in chiave di compatibilità con le caratteristiche del sequestro stesso. La natura selettiva del rinvio alle norme sull'esecuzione in forma specifica si spiega con la circostanza che la «attuazione» del sequestro non integra una ipotesi di esecuzione forzata, consistendo nel diverso fenomeno della costituzione di un vincolo pubblicistico di custodia sui beni che ne sono colpiti. Infatti, la differenza tra sequestro e pignoramento consiste (Calamandrei, 26) nella circostanza che, mentre il creditore pignorante «è sicuro di riprendere il cammino, e può riprenderlo, se vuole, anche subito, perché è munito di titolo esecutivo, il sequestrante, pur avendo fatto la stessa strada del pignorante, non sa se potrà continuare il viaggio, perché gli manca finora l'accertamento definitivo del suo diritto». Tra le norme sull'esecuzione in forma specifica richiamate, ve ne sono tre aventi ad oggetto la competenza: l'art. 610 c.p.c. che, per l'esecuzione per consegna o rilascio, disciplina le difficoltà che non ammettono dilazione; e gli artt. 612 e 613 c.p.c. che, per l'esecuzione di obblighi di fare/non fare, regolano rispettivamente la fissazione delle modalità di esecuzione e la risoluzione delle difficoltà insorte durante le operazioni affidandone la cura al giudice dell'esecuzione. Per valutarne la compatibilità con il sequestro giudiziario, è tuttavia imprescindibile la considerazione degli aspetti strutturali e funzionali del sequestro giudiziario, partendo dalle due componenti fondamentali: il bene da sottoporre a custodia o gestione temporanea (art. 670, n. 1, c.p.c.), e chi tale gestione deve curare, cioè il custode. Proprio quest'ultimo, titolare di un munus publicum, è il simbolo della stretta interdipendenza che ne lega la concessione all'attuazione, in quanto è nominato nel provvedimento autorizzativo (art. 676, comma 1, c.p.c.), ma acquista tale qualità solo con l'apprensione dei beni sequestrati. La conclusione riposa su varie premesse. Anzitutto, vi è il principio generale ricavabile sia dal contenuto del potere (conservazione ed amministrazione di beni determinati) sia dalla disciplina degli aspetti sostanziali non regolati, che devono essere integrati con le norme civilistiche sul deposito. Vi è poi il profilo della disciplina processuale, che prevede: a) la conoscibilità dell'avvenuta investitura (esempio, artt. 555 e 559 c.p.c.) e la materiale immissione in possesso qualora sia nominata persona diversa dall'attuale detentore; b) oppure la semplice interversione del titolo nella contraria ipotesi di coincidenza tra queste due persone. Stretto è il legame del custode con il giudice della cautela. Anzitutto, è proprio questo giudice a nominare il custode facendo uso di un potere discrezionale, salvo che decida di nominare uno dei contendenti, caso nel quale incontra le limitazioni previste dall'art. 676 c.p.c. (valutazione delle garanzie offerte). Ed è sempre il giudice della cautela a fissare nel provvedimento i criteri ed i limiti dell'amministrazione dei beni sequestrati, e a risolvere le difficoltà materiali che eventualmente ostacolino il custode nella relativa fase di apprensione. L'art. 677 c.p.c. prevede infatti espressamente, al comma 3, che il giudice, anche in fase di attuazione, ordini al terzo detentore del bene sequestrato di esibirlo (al fine di consegnarlo al custode), o di consentire l'immediata immissione di possesso del custode stesso. Ma proprio per questo le dinamiche della «attuazione», a partire dall'investitura materiale del custode (o dall'interversione del titolo del possesso) si risolvono, nella sostanza, in rapporti tra il giudice della cautela, cioè colui che ha reso il provvedimento autorizzativo, ed un suo ausiliare, cioè il custode da lui stesso nominato nel provvedimento. I poteri del giudice che ha reso il provvedimento si proiettano, dunque, direttamente in fase «attuativa». Lungi dall'esaurirsi nell'autorizzazione della cautela, essi continuano ad esplicarsi (sia pure) sub specie di controllo, prima, su modi e termini dell'investitura del custode e, poi, sul suo operato per tutta la durata (efficacia) del vincolo: è, dunque, il combinato disposto degli artt. 65,66,670,676 e 677, comma 3, c.p.c. ad imporre la concentrazione dei poteri di fissazione delle modalità di realizzazione del vincolo e di controllo sull'attuazione in un unico giudice, identificato in quello che ha autorizzato il sequestro. La giurisprudenza di merito – Trib. Massa 2 aprile 2019, cit., in relazione all'ammissibilità, nella fase di attuazione dei sequestri, dei rimedi cognitivi tipici dell'esecuzione forzata, quali le opposizioni all'esecuzione e agli atti esecutivi, nonché quelle di terzo, tenuto conto del silenzio del legislatore, successivamente all'abolizione del giudizio di convalida da parte della l. n. 353/1990; Trib. Trani 17 settembre 2009 – ricostruito il quadro di riferimento, è tuttavia andata in contrario avviso nei termini che seguono: «L'art. 669-duodecies c.p.c., nel dettare la disciplina relativa all'attuazione dei sequestri, richiama il disposto degli artt. 677 ss. c.p.c., introducendo una marcata distinzione tra le modalità esecutive di tali misure e quelle che caratterizzano gli altri provvedimenti cautelari. Gli artt. 677 ss. c.p.c., però, regolano solamente le forme con cui eseguire i provvedimenti di sequestro, senza nulla disporre relativamente ai rimedi esperibili contro tale esecuzione, evidenziando così una lacuna normativa, a seguito dell'abrogazione, ad opera della l. n. 353/1990, del giudizio di convalida, sede allora deputata alla proposizione di tutte le eventuali questioni circa la regolarità dell'esecuzione del sequestro: infatti, l'art. 669-duodecies c.p.c., norma regolatrice del procedimento di attuazione delle misure cautelari, non solo nulla dispone in merito alla competenza a conoscere degli eventuali incidenti di cognizione ai sensi degli artt. 615,617 e 619 c.p.c., ma neppure statuisce sulla esperibilità di tali forme di opposizione nell'ambito della disciplina dei provvedimenti cautelari». La dottrina si è, quindi, preliminarmente interrogata sulla compatibilità tra l'art. 669-duodecies (norma che costituisce il modello paradigmatico a cui fare riferimento ogniqualvolta non vi siano disposizioni specifiche relative all'attuazione della singola misura cautelare, attesa la sua portata assolutamente generale) e gli artt. 615,617 e 619 c.p.c. e, dunque, sulla individuazione delle forme e dell'organo giudiziario al quale deve rivolgersi la parte che intenda far valere la sussistenza di vizi o irregolarità nel procedimento di attuazione della misura cautelare o il terzo che lamenti una lesione dei propri diritti. In particolare, per quanto riguarda i provvedimenti di condanna al pagamento di somme di denaro, si fronteggiano diversi orientamenti in materia. a) Secondo un primo indirizzo, è stato rilevato come l'organo deputato a sovraintendere all'attuazione del provvedimento ed anche a risolvere le eventuali contestazioni debba essere individuato nel giudice dell'esecuzione, e non già in quello che abbia emesso il provvedimento cautelare stesso: dunque, si afferma la competenza del giudice dell'esecuzione a conoscere, in sede di opposizione ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c., di tutte le questioni relative alla attuazione dei sequestri conservativi e giudiziari, in quanto la competenza del giudice dell'esecuzione per l'attuazione del sequestro conservativo comporta, quale naturale conseguenza, la competenza di questo giudice relativamente a tutte le questioni che sorgono con riferimento a tale fase e che non riguardano il merito del provvedimento cautelare medesimo, tenuto conto che l'art. 669-duodecies c.p.c. richiama in via più generale gli artt. 491 ss. c.p.c. (Trib. Milano 27 febbraio 2008), e ritenuto che il rinvio compiuto dagli artt. 677 ss. c.p.c. alle norme del libro III del codice di rito sia da intendersi riferito all'intero apparato normativo che disciplina l'esecuzione forzata per espropriazione. b) Secondo un diverso filone interpretativo, la competenza dovrebbe essere attribuita al giudice della causa di merito, dovendo trovare applicazione le regole contenute nell'art. 669-duodecies c.p.c. e, precisamente, l'ultimo inciso, per cui tutte le possibili contestazioni sulla validità dell'esecuzione e dei singoli atti esecutivi devono essere fatte valere nel giudizio di merito: dunque, l'attuazione delle misure cautelari conservative, pur avvenendo nelle forme previste dal libro III del codice di rito, non trasforma i provvedimenti stessi in atti di esecuzione forzata, né li assoggetta alla specifica competenza del giudice dell'esecuzione, dovendosi ritenere che il richiamo effettuato dagli artt. 677 ss. c.p.c. vada riferito alle sole modalità con cui deve avvenire l'attuazione e non all'intera disciplina dell'esecuzione forzata (Cass. III, n. 19101/2003; Cass. III, n. 9925/2001); c) di contro, secondo altro orientamento, la competenza dovrebbe essere invece attribuita al giudice che ha emanato il provvedimento cautelare. d) Ancora, secondo un'ulteriore impostazione, il rimedio più idoneo e coerente con il sistema sia costituito dal procedimento volto a dichiarare l'inefficacia del sequestro ex art. 669-novies c.p.c., senza che vi sia spazio, dunque, per il sistema delle opposizioni, ritenendo che le questioni che eventualmente insorgano si concretizzano infatti in motivi di invalidità del sequestro, che a loro volta si riflettono sulla sua stessa efficacia. e) Infine, secondo un differente approccio, il rimedio deve differenziarsi in funzione delle diverse questioni che possano eventualmente sorgere: si esclude così la proponibilità delle opposizioni ogni qual volta sia possibile far valere la questione con il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., o mediante l'istanza di revoca o modifica ex art. 669-decies c.p.c., o attraverso il procedimento di inefficacia ex art. 669-novies c.p.c., mentre sarebbe possibile la proposizione di opposizione all'esecuzione nel caso di inidoneità del titolo a fondare l'attuazione, o la proposizione di opposizione agli atti esecutivi per vizio formale di un atto del procedimento successivo a quello iniziale. Nel contesto di questo complesso quadro, questa giurisprudenza ritiene perciò di aderire all'interpretazione, fatta propria anche dalla Suprema Corte, secondo cui tutte le possibili contestazioni sulla validità dell'esecuzione e dei singoli atti esecutivi devono essere fatte valere nel giudizio di merito. Questi i motivi della scelta: «Va richiamata, a tale proposito, la consolidata giurisprudenza in tema di sequestri, formatasi anteriormente all'introduzione del procedimento cautelare uniforme, secondo cui l'attuazione di tali misure cautelari, pur avvenendo nelle forme previste per il pignoramento (sequestro conservativo), non trasforma i provvedimenti stessi in atti di esecuzione forzata né li assoggetta alla specifica competenza del giudice dell'esecuzione, trattandosi di mero richiamo della legge alle operazioni esecutive e non all'intero sistema di tutela giurisdizionale stabilito in materia, con la conseguenza che la competenza a decidere sulla regolarità e validità del sequestro appartiene al giudice investito del giudizio sulla convalida e sul merito e non al giudice dell'esecuzione (Cass. III, n. 4635/1993; Cass. III, n. 1407/1992; Cass. III, nn. 26, 28, 29 e 30/1988; Cass. III, n. 319/1976; Cass. III, n. 1784/1969). Tale orientamento va confermato anche alla luce della nuova disciplina del procedimento cautelare uniforme, in quanto l'art. 669-duodecies c.p.c., che regola l'attuazione dei provvedimenti cautelari, fa salva la normativa sui sequestri (artt. 677 ss. c.p.c.) in base alla quale si è formata la giurisprudenza ricordata, mentre l'abrogazione della disciplina della convalida non ha sottratto al giudice del merito (...) ogni competenza sul sequestro già disposto: infatti, l'art. 669-decies c.p.c. prevede che, nel corso dell'istruzione, il giudice istruttore della causa di merito possa, su istanza di parte, modificare o revocare il provvedimento cautelare, anche emesso anteriormente alla causa, qualora si verifichino mutamenti nelle circostanze, mentre lo stesso art. 669-duodecies c.p.c., con disposizione di chiusura avente carattere generale, applicabile (art. 669-quaterdecies c.p.c.) anche ai sequestri, stabilisce che ogni altra questione in ordine all'attuazione della misura cautelare, diversa da quelle in precedenza esaminate nel medesimo articolo (concernenti le mere difficoltà materiali insorte nel corso dell'esecuzione: art. 610 c.p.c.), va proposta nel giudizio di merito (Cass. III, n. 19101/2003). Non deve, difatti, dimenticarsi che l'esecuzione del sequestro costituisce un momento imprescindibile per la stessa esistenza della misura cautelare: un momento di una fattispecie costitutiva complessa che si perfeziona attraverso la sequenza autorizzazione-esecuzione: per questo si è parlato – da parte di accreditata dottrina – di unicità del procedimento cautelare. Chiarito quanto precede, l'orientamento che nega l'ammissibilità delle opposizioni esecutive nella fase di attuazione dei sequestri ha, dunque, ritenuto che la norma a cui fare riferimento per individuare – in via generale e nei limiti previsti dalle disposizioni sopra richiamate – i rimedi a disposizione delle parti e dei terzi, nonché il giudice competente a risolvere le controversie in esame, sia l'art. 669-duodeciesc.p.c. (in questo senso Cass. III, n. 19101/2003, cit., nonché Trib. Salerno 1° agosto 2007; Trib. Trani 17 settembre 2009; Trib. Milano 25 novembre 2002). Ne discende che le contestazioni mosse in ordine all'esecuzione del sequestro non assumono natura di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, ma conservano la loro natura di eccezioni del soggetto che ha subito la misura cautelare, idonee soltanto a sollecitare l'esercizio, da parte del giudice di merito di poteri di modifica, integrazione, precisazione o revoca del provvedimento (Cass. III, n. 19101/2003). La riconosciuta incompatibilità tra tale disciplina e il regime delle opposizioni previste dagli artt. 615 ss. c.p.c. determina l'esclusione di ogni competenza in capo al giudice dell'esecuzione. Le questioni riguardanti la ritualità dell'attuazione di tali misure non possono costituire oggetto di opposizione davanti al giudice dell'esecuzione, ma devono essere risolte dal giudice che ha emesso il provvedimento o da quello del merito. Neppure le contestazioni mosse in ordine all'attuazione del sequestro conservativo assumono natura di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, ma sono qualificabili come eccezioni del soggetto che ha subito la misura cautelare, idonee soltanto a sollecitare l'esercizio da parte del giudice della causa di merito dei poteri di modifica, integrazione, precisazione o revoca del provvedimento (Trib. Ravenna 11 marzo 2016; Trib. Salerno 1° agosto 2007; Trib. Trani 17 settembre 2009). Tale orientamento appare confermato da una ancor più recente pronuncia della Suprema Corte, secondo cui sono proponibili dinanzi al giudice di merito, a norma dell'art. 669-duodecies c.p.c., le contestazioni inerenti all'esecuzione della cautela (nella specie, sequestro conservativo), richiamando Cass. III, n. 19101/2003, cit. (Cass. I, n. 13903/2014: nella fattispecie, è stata perciò dichiarata l'inammissibilità dell'opposizione agli atti esecutivi proposta in ordine alla regolarità formale dell'esecuzione dell'autorizzato sequestro conservativo)». Cosa accade invece nell'evenienza che il provvedimento autorizzativo non rechi la designazione del custode? La giurisprudenza più risalente (Cass. III, n. 491/1960; in senso contrario, v. Trib. Nuoro 8 maggio 1948) tende a ritenere che ciò renda il sequestro ineseguibile. La giurisprudenza più recente, viceversa, pare diversamente orientata. Il tema si è posto (Trib. Reggio Emilia 13 ottobre 2012, cit.) in fattispecie di provvedimento autorizzativo di sequestro giudiziario senza la nomina del custode, individuato solo in sede di reclamo proposto dalla parte soccombente, ed il sequestro era stato eseguito entro il termine di trenta giorni decorrente dal provvedimento del collegio, non dal provvedimento del giudice di prime cure. Richiesta la declaratoria di inefficacia per il decorso del termine di perenzione dell'art. 675 c.p.c., la controparte resisteva argomentando che solo a seguito del provvedimento del collegio di nomina del custode il sequestro era divenuto eseguibile, essendo l'originario provvedimento incompleto e come tale ineseguibile. L'argomentazione non trova, tuttavia, accoglimento. Rileva, infatti, il Tribunale che, «fermo restando che il giudice allora procedente ha certamente errato nell'omettere di nominare il custode, trattandosi di nomina dovuta ex art. 676 c.p.c., per un verso può già essere revocato in dubbio il fatto che, in assenza di tale nomina, l'esecuzione del provvedimento neppure possa essere iniziata: infatti, se è vero che il cuore del sequestro giudiziario risiede certamente nell'affidare il bene ad un custode che lo gestisca in attesa del merito; è altrettanto vero che il rinvio dell'art. 677 c.p.c. agli artt. 605 ss. c.p.c. comprova che si seguono le norme sul pignoramento, ciò che consente di ritenere come la procedura possa comunque iniziare, quantomeno con l'identificazione del bene e la richiesta di rilascio da parte dell'ufficiale giudiziario, prima della nomina del custode, essendo ben possibile che l'apprensione, per la presenza di uno iato temporale, non corrisponda illico et immediate alla consegna ad un custode. In ogni caso e comunque, anche a volere in ipotesi diversamente opinare, dirimente e decisiva sul punto è la considerazione che, nel termine previsto dalla legge per l'esecuzione, la parte avrebbe quantomeno dovuto attivarsi per richiedere l'integrazione del provvedimento monocratico, laddove ritenuto non sufficiente per l'esecuzione del sequestro. Invece, nel termine di legge (omissis) non ha proceduto a richiedere un'integrazione del provvedimento con la nomina del custode, né nelle forme di un incidente di esecuzione ex art. 669-duodecies c.p.c., né nelle forme di un reclamo incidentale al collegio adìto in via principale da controparte. Non avendo, quindi, la (omissis) nel termine previsto dalla legge, iniziato l'esecuzione del sequestro rivolgendosi ad un ufficiale giudiziario, e neppure quantomeno richiesto al giudice o al collegio di integrare il provvedimento, e non essendovi quindi stata alcuna forma di attivazione ad opera della parte nel termine di legge, si è verificata una situazione di inerzia addebitabile alla parte stessa, ciò che impone l'accoglimento della richiesta di declaratoria di inefficacia ex art. 675 c.p.c.». Ne consegue, perciò, la dichiarazione di inefficacia del sequestro. Quanto ai rimedi, la dottrina esclude sia la reclamabilità del provvedimento che la possibilità di nomina del custode da parte dell'ufficiale giudiziario in sede di «attuazione» della misura, e ritiene preferibile, invece, rimettere alla parte la facoltà di chiedere l'integrazione del provvedimento ai sensi dell'art. 289 c.p.c. (Corsini 2005, 935). L'esclusione della nomina da parte dell'ufficiale giudiziario appare condivisibile poiché l'indicazione del custode, così come quella del bene da sottoporre al vincolo, non attiene all'attività amministrativa ed ancillare surrogabile, all'occorrenza e per motivi d'urgenza, dall'ufficiale giudiziario in fase di accesso in loco per l'attuazione del sequestro. La custodia o gestione temporanea è, infatti, la tecnica che la legge predispone per ovviare ai pericula tipizzati dall'art. 670, n. 1), c.p.c.: essa, da un lato, entra ex lege nel contenuto del provvedimento autorizzativo (art. 676, comma 1, c.p.c.: il giudice nomina il custode nel provvedimento autorizzativo); dall'altro, è indispensabile all'acquisto dell'efficacia giuridica finale, cioè ai fini dell'esistenza stessa del vincolo. Il sequestro-vincolo (risultante cioè dal completamento della sequenza procedimentale autorizzazione-attuazione) è, dunque, la custodia: autorizzare il sequestro significa (anche) disporre la custodia, id est nominare il custode. Queste ragioni inducono a vedere nel reclamo, oggi mezzo generale di controllo di tutti i provvedimenti cautelari, la sede più adatta per lamentare tale vizio, che inficia il provvedimento autorizzativo fino a renderlo inidoneo a realizzare il sequestro-vincolo. Solo a far data dalla pronuncia con cui in sede di reclamo, e previa conferma del provvedimento di prime cure, sia designato il custode, decorrerà poi il termine per l'attuazioneex art. 675 c.p.c. Alla luce della ricostruzione dei rapporti tra giudice della cautela, custode ed efficacia del sequestro appena evidenziati, va poi affrontato il profilo della competenza a disporre la sostituzione del custode. Se infatti il sequestro-vincolo «è la custodia», il controllo sull'attuazione non è che il controllo del giudice nei confronti dell'operato di un suo ausiliare, il che implica che anche la sua sostituzione non è che una porzione della relativa «attuazione». In primis, vanno dunque applicate le disposizioni sulla custodia, alle quali, ut supra, si deve la regolamentazione dell'efficacia globale del vincolo di sequestro sui beni. L'art. 66 c.p.c. prevede la sostituzione del custode da parte del giudice che lo ha nominato, a mezzo del richiamo all'art. 65, comma 2, c.p.c. La ratio della scelta riposa sul fatto che il potere di sostituzione è inscindibilmente legato a quello di vigilanza sulla gestione, attività complessa che involge non solo la valutazione degli atti della gestione stessa, ma anche, come nel caso di sequestro di un complesso di beni produttivi, l'interpretazione del programma di massima fissato nel provvedimento. Riassumendo, sia le disposizioni generali sulla custodia (artt. 65,66 e 67 c.p.c.), sia gli artt. 676 e 677 c.p.c. confluiscono verso la soluzione di concentrare tutti i poteri nel giudice della cautela, in quanto giudice che ha nominato il custode. Infine, a differenza di quanto accade nel sequestro conservativo, in cui la funzione della misura è individuata in una norma del codice civile cui si riconosce portata sostanziale (l'art. 2906 c.c.), nel sequestro giudiziario la legge non configura in alcuna norma ad hoc un effetto di indisponibilità dei beni. L'efficacia della misura va ricondotta, perciò, «direttamente» alle norme che disciplinano la custodia ed a quelle che sanzionano penalmente la loro violazione o la sottrazione ed il deterioramento delle cose sottoposte a custodia o pignoramento. La giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 22860/2007) ha avuto modo di precisare che: «Il custode sequestratario giudiziario va qualificato come ausiliario del giudice, da cui ripete l'investitura oltre ai poteri e sotto la cui direzione e controllo opera e può compiere tutti gli atti di ordinaria e, con l'autorizzazione del giudice, di straordinaria amministrazione. L'attribuzione a tale custode degli indicati poteri, in vista del perseguimento delle finalità proprie del suo ufficio, presuppone lo ‘spossessamento' anche del creditore pignoratizio, il cui diritto di prelazione, che rappresenta il contenuto del diritto di pegno, non può essere esercitato ove privo di oggetto, il che si verifica nell'ipotesi in cui il creditore pignoratizio perda il possesso della cosa, e fino a quando non lo riacquisti con l'esperimento delle apposite azioni recuperative (in via possessoria o petitoria). Pertanto, nell'ipotesi in cui i beni pignorati costituiscano oggetto di sequestro giudiziario, è imprescindibile farsi luogo allo ‘spossessamento' del bene in capo al possessore o detentore, al fine della relativa attribuzione al custode sequestratario». Laddove, perciò, il giudice abbia disposto l'immissione in possesso del custode sequestratario nominato con lo stesso provvedimento di sequestro, il terzo detentore può fare direttamente opposizione ai sensi dell'art. 211, comma 2, c.p.c. Se il terzo creditore pignoratizio detentore del bene oggetto del provvedimento di sequestro giudiziario non acconsente a consegnarlo spontaneamente all'ufficiale giudiziario procedente, si rende necessario l'intervento del giudice, che può ordinare al terzo di esibire il bene o di consentire la relativa immediata immissione in possesso in favore del custode sequestratario, con le garanzie di cui all'art. 211 c.p.c., atteso che, a fronte di tale opposizione, l'ufficiale giudiziario non ha il potere di vincere con la forza il rifiuto del terzo di consegnare il bene, essendo necessario un apposito ordine del giudice, ai sensi dell'art. 677, commi 2 e 3, c.p.c. Infine, si è discussa in giurisprudenza la possibilità di trascrivere il sequestro giudiziario avente ad oggetto beni immobili o beni mobili registrati. La soluzione fornita è per lo più negativa, considerato il richiamo agli artt. 605 ss. c.p.c. (Trib. Bergamo 15 aprile 2002; Trib. Alba 24 luglio 1974; Trib. Milano 20 gennaio 1965; contra, Trib. Pescara 7 agosto 1995; Trib. Modena 5 maggio 1995). Segue. L'attuazione del sequestro giudiziario di azienda.La giurisprudenza di legittimità (Cass. II, n. 22945/2019) è intervenuta a chiarire le modalità di attuazione del sequestro giudiziario di un'azienda che abbia ad oggetto tanto beni mobili quanto beni immobili, qualora il custode sia persona diversa dal detentore dei beni. La Corte era stata chiamata a pronunciarsi su due diverse questioni: a) se sia sufficiente, al fine di evitare l'inefficacia del sequestro giudiziario di immobili, la notifica dell'avviso di rilascio ex art. 608 c.p.c. o è richiesto altresì l'accesso dell'ufficiale giudiziario, allorché sia nominato custode una persona diversa dal detentore del bene; b) se anche l'attuazione del sequestro di azienda è disciplinata dall'art. 677 c.p.c. Ne sono seguiti due principi di diritto: 1) «Qualora il sequestro giudiziario ex art. 670, comma 2, c.p.c., abbia ad oggetto un'azienda composta anche di beni immobili ed il custode sia persona diversa dal detentore, al fine di impedire l'inefficacia della misura relativamente a tali beni è sufficiente che il sequestrante consegni all'ufficiale giudiziario l'avviso ex art. 608, comma 1, c.p.c., richiamato dall'art. 677, comma 2, c.p.c., entro il termine perentorio di trenta giorni dalla pronuncia, ai sensi dell'art. 675 c.p.c.»; 2) «Se il custode è persona diversa dal detentore e l'azienda è composta da beni mobili e immobili, l'attuazione del sequestro è regolata dall'art. 677 c.p.c. e può compiersi con le formalità di cui agli artt. 605 ss. c.p.c. per i beni mobili e quelle di cui all'art. 608 c.p.c. per gli immobili». Segue. L'attuazione del sequestro conservativo: la competenza ed il procedimento.a ) Premessa. Il discorso sulle modalità di attuazione del sequestro conservativo presuppone una sia pur breve disamina delle caratteristiche peculiari di questa misura cautelare anche nei profili che la distanziano rispetto al (pur) contiguo sequestro giudiziario. La misura, regolata dall'art. 671 c.p.c., costituisce uno dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale c.d. generica del creditore, mostra cioè la vocazione a preservare la fruttuosità dell'esecuzione forzata una volta concluso il giudizio di merito. La concessione del sequestro conservativo comporta, dunque, sul piano giuridico, un vincolo di indisponibilità sul bene sequestrato, gli eventuali atti di disposizione relativi al quale, infatti, sono inefficaci nei confronti del creditore sequestrante. Come accade per ogni misura cautelare, anche per l'emissione di un provvedimento che autorizza il sequestro conservativo occorre la previa valutazione positiva del fumus boni iuris e del periculum in mora. La giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 6336/1998) ha, infatti, chiarito che: «L'emanazione (e, nel regime anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 90 della l. n. 353/1990, la convalida) di un provvedimento di sequestro conservativo presuppone la sussistenza sia del periculum in mora, e cioè del fondato timore di perdere le garanzie del credito vantato sia del fumus boni iuris, e cioè di una situazione che consenta di ritenere probabile la fondatezza della pretesa in contestazione, con l'ulteriore conseguenza che la carenza soltanto di una delle suddette condizioni impedisce la concessione della misura cautelare o della sua convalida. Pertanto, la circostanza che (in fattispecie sottratta ratione temporis all'applicazione della disciplina regolante il procedimento cautelare uniforme) concesso un sequestro conservativo, ne sia stata poi negata la convalida, non assume alcun rilievo ai fini di ritenere non provata la domanda di merito e, perciò, contraddittoria la sentenza che la abbia accolta». Sulla base della premessa che debbono congiuntamente sussistere il fumus ed il periculum si è altresì deciso (Cass. III, n. 8729/1997) che: «La carenza anche di una soltanto delle suddette condizioni impedisce la concessione della misura cautelare, e, ove questa sia stata concessa, il giudizio di convalida deve avere ad oggetto la sussistenza di entrambe le condizioni. Pertanto, inerendo le dette condizioni alla convalidabilità del sequestro, in sede di gravame il giudice d'appello deve riscontrarne d'ufficio la ricorrenza, onde la dedotta insussistenza di una di esse non costituisce eccezione in senso proprio da riproporsi espressamente ex art. 346 c.p.c.». Poiché il sequestro conservativo è volto a tutelare il creditore dal pericolo di perdere la garanzia del proprio credito mediante l'imposizione di un vincolo sul patrimonio complessivamente inteso, agli effetti dell'art. 2740 c.c., la giurisprudenza più recente ritiene inammissibile il sequestro conservativo richiesto con riferimento ad uno o più beni specifici singolarmente individuati. Il giudice, infatti, nel concedere il provvedimento, non deve far riferimento a specifici beni, ma deve limitarsi a determinare il valore fino a concorrenza del quale il sequestro può essere eseguito sui beni del debitore (in tal senso, v. Trib. Lecce 29 marzo 2019; Trib. Bologna 18 luglio 2017; Trib. Nola 26 luglio, 2010; Trib. Modena 20 dicembre 2007). Si è, perciò, coerentemente con tale premessa, deciso che «il sequestro conservativo di un'autovettura è inammissibile quando non è volto a cautelare uno specifico diritto al pagamento di una somma di danaro, come previsto dall'art. 671 c.p.c., ma ad aggredire un determinato bene del debitore nella sua individualità, mentre il sequestro conservativo può determinare soltanto il valore del credito fino a concorrenza del quale esso può essere eseguito su qualsiasi bene di quegli» (così Trib. Nocera Inferiore 23 giugno 2005). b ) Fumus boni iuris e periculum in mora. Con riferimento al profilo del fumus, è il giudice della cautela a doverne valutare la sussistenza, e tanto deve fare in base alla natura del credito ed ai fatti costitutivi del medesimo, al grado di probabilità e verosimiglianza della pretesa creditoria (Cass. III, n. 2248/1998, in riferimento ad ipotesi ricadente sotto il regime precedente alla riforma del 1990, ha infatti statuito che, qualora il giudizio di convalida di un sequestro sia separato da quello di merito, la cognizione del fumus boni iuris dev'essere circoscritta ad un accertamento delibativo del diritto, fondato sulla ritenuta probabilità della sua esistenza, senza pregiudizio del successivo riesame, con giudizio di certezza e nella completezza delle acquisizioni istruttorie, delle stesse questioni ai fini sostanziali; è sufficiente, quindi, perché sia soddisfatto l'obbligo di motivazione del provvedimento di convalida, che il giudice dia sommaria ragione degli elementi essenziali su cui trovi fondamento la ritenuta probabilità dell'esistenza del diritto). Ne consegue, perciò, che, per concedere il sequestro conservativo, non occorre riscontrare, nel credito che ne fonda il presupposto, gli stessi caratteri previsti per il titolo esecutivo, vale a dire certezza, liquidità ed esigibilità essendo sufficiente che il credito sia attuale e non meramente ipotetico ed eventuale (Trib. Roma 10 agosto 2017; Trib. Monza 31 gennaio 2013; Trib. Nola 23 marzo 2011). La prassi applicativa conosce, tuttavia, anche la concessione del sequestro conservativo a tutela di ragioni di credito non ancora attuali, ma di probabile insorgenza, se al momento della domanda cautelare sia già in essere il rapporto da cui origina il futuro credito, si sia già verificata la situazione di fatto che lo determina e sia possibile esperire un giudizio di probabilità in ordine all'attualità del diritto al tempo dell'esito del giudizio di merito (Trib. Alessandria 7 gennaio 2019). Il periculum in mora è disegnato dall'art. 671, c.p.c. come fondato timore di perdere la garanzia del credito. La scelta normativa realizza il contemperamento tra due opposte esigenze: a) quella del creditore, che non è costretto ad attendere il depauperamento effettivo del patrimonio dell'obbligato ma può agire allegando il timore che ciò avvenga; e b) quella del debitore, che soggiace al vincolo di indisponibilità solo se il timore del creditore è vagliato come fondato, poiché il giudice deve basarsi su elementi tali da rendere concreto ed attuale il pericolo di perdere la garanzia in capo alla controparte. La necessità del riscontro del fondato timore di perdere la garanzia generica di cui all'art. 2741 c.c. impone di considerare quali condizioni rivelatrici del periculum in mora: a) che la garanzia, rispetto al momento in cui il credito è sorto, si sia assottigliata ovvero si stia o almeno rischi di assottigliarsi quantitativamente e qualitativamente, e questo causa di condotte dispositive del debitore o per l'aggressione che dei suoi beni abbiano fatto o stiano per fare altri creditori; b) che il timore sia, appunto, fondato, si basi cioè su elementi oggettivamente attinenti alla sfera giuridica del debitore stesso o all'indole fraudolenta desumibile dalle sue condotte. La Suprema Corte (Cass. III, n. 2081/2002) ha, quindi, precisato che il periculum in mora può essere desunto sia da elementi oggettivi, concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all'entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati dal comportamento del debitore, il quale lasci fondatamente presumere che, al fine di sottrarsi all'adempimento, ponga in essere atti dispositivi, idonei a provocare l'eventuale depauperamento del suo patrimonio (Cass. III, n. 6042/1999; Cass. III, n. 6460/1996). Costituisce in particolare elemento oggettivo «per valutare il pericolo nel ritardo, condizione di ammissibilità per la concessione del sequestro conservativo, il rapporto di proporzione, quantitativo e qualitativo, tra patrimonio del debitore e presunto ammontare del credito da tutelare, nella cui valutazione occorre tener conto che è insufficiente la sussistenza dell'idoneità del patrimonio del debitore a garantire il credito al momento in cui la misura cautelare è richiesta, essendo invece necessario che tale garanzia permanga fino al momento in cui potrebbero realizzarsi le condizioni per il soddisfacimento coattivo del credito stesso» (così Cass. III, n. 13400/2001). È sul filo di questa logica che si è deciso: a) che il sequestro conservativo può essere concesso anche se le garanzie del credito sono ancora intatte e ciò in quanto lo scopo perseguito da tale misura cautelare è proprio quello di evitare, conservando il patrimonio del debitore alla soddisfazione dei suoi creditori, la diminuzione delle garanzie patrimoniali e la conseguente insolvenza del debitore (Trib. Torre Annunziata 27 marzo 2018); b) che il periculum in mora è da escludersi nell'ipotesi in cui nel patrimonio della resistente siano presenti degli immobili, di valore di gran lunga superiore all'ammontare del debito e non siano state dedotte dalla ricorrente eventuali condotte della resistente che rendano verosimile l'eventualità di un depauperamento del suo patrimonio ed esprimano la sua intenzione di sottrarsi all'adempimento di suoi obblighi verso il creditore (Trib. Bari 28 ottobre 2012); c) che il periculum non può consistere nel mero timore soggettivo del creditore di perdere la garanzia del proprio credito, ma deve invece corrispondere ad una situazione di pericolo reale ed obiettiva, in cui si concreti la possibilità che il patrimonio del debitore venga sottratto o diminuito in modo da non soddisfare più la funzione di garanzia che gli è propria (Trib. Modena 23 febbraio 2011: nella specie, il sequestro veniva negato perché richiesto soltanto a fronte di un inadempimento contrattuale del debitore, che aveva omesso di pagare una mensilità di canone di affitto di azienda nonché di fornire al creditore la fidejussione bancaria contrattualmente prevista). La giurisprudenza di legittimità ha poi, da tempo, ritenuto che non è sufficiente, per dedurre la sussistenza del periculum in mora, il mero rifiuto di adempiere, ma occorre che tale rifiuto si collochi nel più ampio contesto di un comportamento, processuale o extraprocessuale, dell'obbligato, che renda verosimile l'eventualità di un depauperamento del suo patrimonio e fondato il timore del creditore di perdere le garanzie del credito. (Cass. I, n. 4906/1988; Cass. I, n. 5691/1984). c ) Effetti del sequestro conservativo. L'art. 2906 c.c. stabilisce che, eseguito il sequestro, non hanno effetto in pregiudizio del creditore sequestrante (e solo di lui) le alienazioni e gli altri atti che hanno per oggetto la cosa sequestrata, in conformità alle regole stabilite per il pignoramento. Una volta intervenuta, invece, la sentenza di condanna nel giudizio deputato all'accertamento del credito cautelato, il sequestro si converte in pignoramento, ai sensi dell'art. 686 c.p.c. La conversione del sequestro conservativo in pignoramento opera ipso iure nel momento in cui il sequestrante ottiene sentenza di condanna esecutiva. È, infatti, in quel momento che inizia il processo esecutivo, di cui il sequestro stesso, una volta convertitosi in pignoramento, costituisce il primo atto. L'attività imposta al sequestrante dall'art. 156 disp. att. c.p.c. (deposito della sentenza di condanna esecutiva nella cancelleria del giudice competente per l'esecuzione) da eseguirsi nel termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza di condanna esecutiva, integra invece quell'impulso processuale cui il sequestrante, divenuto creditore pignorante, è tenuto nel detto termine perentorio e la cui mancanza comporta l'inefficacia del pignoramento. Quest'ultima opera di diritto, ma deve essere eccepita dal debitore esecutato prima di ogni altra difesa (artt. 630 e 562 c.p.c.) nell'ambito del processo esecutivo promosso dal creditore procedente. Alla stregua di tali principi si deduce che un soggetto estraneo alla procedura esecutiva non ha, di regola, interesse a chiedere al giudice dell'esecuzione di dichiarare l'inefficacia del pignoramento derivata da quella del precedente sequestro, fatta salva l'ipotesi in cui il creditore procedente, avvalendosi della sentenza di condanna come titolo esecutivo, inizi un'azione esecutiva contro di lui oppure in una sede diversa come azione dichiarativa, poiché in questo caso egli avrebbe interesse ad un accertamento negativo della pretesa esecutiva (Cass. III, n. 18536/2007; Cass. III, n. 8615/2004). La giurisprudenza di legittimità ha, però, precisato che il sequestro conservativo si converte automaticamente in pignoramento quando il creditore sequestrante ottenga sentenza di condanna esecutiva «ma solo nei limiti del credito per il quale è intervenuta la condanna e non anche per l'importo, eventualmente maggiore, fino al quale il sequestro è stato autorizzato, perché gli effetti che l'art. 2906 c.c. riconosce in favore del creditore sequestrante sono equiparati a quelli che lo stesso otterrebbe in caso di pignoramento; né, per l'importo per il quale non è intervenuta condanna esecutiva, il sequestro può conservare efficacia in quanto non ricorre alcuna delle ipotesi di cui all'art. 669-novies c.p.c., atteso che in tema di conversione del sequestro in pignoramento la norma di riferimento è esclusivamente l'art. 686 c.p.c. (Cass. III, n. 10871/2012: in applicazione di questo principio, si è esclusa l'opponibilità ad altro creditore, che aveva successivamente iscritto ipoteca sui medesimi beni, del sequestro ottenuto a tutela di un credito per un importo maggiore rispetto a quello successivamente oggetto di condanna, anche se accertato nella medesima sede come esistente nella misura più ampia, rilevando che, per questa parte, la sentenza non costituisce titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c.). Sotto altro, ma connesso profilo, la stessa Suprema Corte (Cass. VI, n. 54/2016) ha, altresì, precisato che «il pignoramento derivante dalla conversione di un sequestro conservativo non retroagisce, quanto ai suoi effetti, al momento della concessione della misura cautelare, sicché il creditore intervenuto nella successiva esecuzione – promossa dallo stesso sequestrante o da altri – non può opporre gli effetti del pignoramento, di cui agli artt. 2913 e ss. c.c., agli atti pregiudizievoli sui beni del debitore intervenuti tra la concessione del sequestro e il pignoramento, restando l'ipoteca iscritta sull'immobile dopo la trascrizione del sequestro conservativo inopponibile unicamente al creditore sequestrante e non anche ai creditori intervenuti nell'esecuzione» (cui adde Cass. III, n. 7218/1997). Si è anche (Cass. III, n. 21481/2016) che il sequestro conservativo sui beni dell'imputato non perde automaticamente efficacia laddove il processo penale si concluda con una sentenza di condanna generica e con la rimessione delle parti davanti al giudice civile ai sensi dell'art. 539, comma 1, c.p.p., dovendo il giudizio ivi proseguire per la determinazione del quantum dell'importo dovuto alla parte civile. Il sequestro non perde perciò efficacia neppure, in caso di sentenza generica con riconoscimento di una provvisionale ai sensi del comma 2 dell'art. 539 c.p.p.; in tale ipotesi, esso si converte, infatti, in pignoramento nei limiti della condanna provvisionale, ma conserva i suoi effetti per l'importo residuo. I giudici di legittimità (Cass. III, n. 22835/2017) hanno, poi, precisato che il creditore che abbia ottenuto la autorizzazione ad eseguire un sequestro conservativo su un bene immobile conserva l'interesse ad agire con l'azione revocatoria ex art. 2901 c.c., qualora il medesimo bene venga in seguito alienato dal debitore ad un terzo. L'azione revocatoria consente infatti di ottenere una tutela non equivalente e tendenzialmente più ampia rispetto a quella assicurata dal sequestro, in quanto ha ad oggetto l'intero immobile, senza soffrire dei limiti derivanti dall'importo fino a concorrenza del quale sia stata autorizzata la misura cautelare, esclude il concorso con gli altri creditori (che si realizza, invece, per effetto della conversione del sequestro in pignoramento), e non è condizionata dagli esiti del giudizio di merito sulla sussistenza del diritto cautelato. Infine, i magistrati di Piazza Cavour (Cass. III, n. 15308/2019) hanno chiarito che, in caso di sequestro conservativo o di pignoramento di crediti, il terzo sequestratario o pignorato, costituito ex lege custode delle somme pignorate, è tenuto alla corresponsione degli interessi nella misura e con le decorrenze previste dal rapporto da cui origina il credito pignorato, aggiungendosi gli interessi così maturati al compendio sequestrato o pignorato ai sensi dell'art. 2912 c.c. quali frutti civili. d ) Esecuzione del sequestro conservativo. Sia pure in modo diverso da quanto accade nel sequestro giudiziario, anche nel sequestro conservativo l'attuazione nella sua dimensione dinamica coincide, in riferimento ai beni colpiti dal vincolo, con la custodia. La conclusione si giustifica perché è vero che una eventuale disposizione giuridica dei beni è inopponibile al creditore sequestrante, ma è altrettanto vero che il vincolo sui beni presuppone la loro materiale custodia, che è indispensabile ai fini giuridici della conservazione della garanzia patrimoniale, la quale non è certo assicurata dalla trascrizione. E se ciò vale per gli immobili, è ancor più evidente per i beni mobili, ove la custodia assume la funzione cruciale già evidenziata per il sequestro giudiziario: l'eventuale perfezionamento della fattispecie di acquisto a titolo originario ex art. 1153 c.c. comporta, infatti, la sopravvenuta inefficacia del vincolo. Da questo punto di vista, dunque, si apprezza appieno la vicinanza funzionale tra sequestro giudiziario e sequestro conservativo. Ne consegue che, anche per l'attuazione del sequestro conservativo, deve ritenersi che il rinvio operato dall'incipit dell'art. 669-duodecies c.p.c. agli artt. 678 e 679 c.p.c. (rispettivamente, dettati per il pignoramento dei beni mobili e crediti e degli immobili) non coinvolga la disciplina generale dell'espropriazione, ma le sole formalità necessarie alla costituzione del vincolo. La conclusione è confermata dal fatto che per il sequestro presso terzi è dettata una disciplina in parte diversa e per il sequestro immobiliare addirittura una disciplina specifica, corredata dal richiamo all'art. 559 c.p.c. per la custodia dell'immobile, richiamo che non sarebbe stato affatto necessario se il rinvio alle disposizioni sull'espropriazione fosse stato concepito come generalizzato. Ciò si spiega, ancora una volta, con il rilievo che il sequestro conservativo, a differenza del pignoramento, non è funzionale alla vendita dei beni ma solo a preservarne la consistenza all'interno del patrimonio del debitore ed in favore del solo creditore sequestrante. Così, quanto all'attuazione del sequestro conservativo sui beni mobili ed i crediti, il giudice competente a gestire l'intera vicenda attuativa sarà quello della cautela e non quello dell'esecuzione e non saranno necessarie le c.d. formalità preliminari della notifica del provvedimento e del precetto. Queste ultime potrebbero, anzi, rivelarsi addirittura contrarie, in certi casi, allo spirito di altre norme del procedimento cautelare uniforme applicabili alla fattispecie come, ad esempio, l'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. (al cui commento si rinvia). Questa disposizione prevede, infatti, la concedibilità della misura in assenza di contraddittorio se la convocazione della controparte possa pregiudicarne l'attuazione. Una notifica del provvedimento che la preannunci vanificherebbe, dunque, lo scopo dell'istituto. I rapporti tra il giudice che ha reso il provvedimento autorizzativo del sequestro conservativo ed il custode si presentano in modo più complesso ed articolato rispetto a quanto accade nel sequestro giudiziario e di quanto pare emergere dalla stessa lex generalis degli artt. 65 e 66 c.p.c., poiché operano qui le regole del pignoramento. Le formalità di costituzione del vincolo sono, infatti, predeterminate dalla legge proprio secondo queste regole sicché il custode, pure figura imprescindibile, non è nominato dal giudice nel provvedimento autorizzativo. Ed invero nel sequestro conservativo di beni mobili è prevista la nomina da parte dell'ufficiale giudiziario ai sensi dell'art. 521 c.p.c., mentre il sequestro di beni immobili vede quale custode, ai sensi dell'art. 559 c.p.c., il debitore. Infine, nel sequestro di (cose e) crediti presso il terzo è proprio quest'ultimo, ai sensi dell'art. 546 c.p.c., ad assumere il ruolo di custode a far data dalla notifica dell'atto di sequestro, divenendo solo in senso molto lato ausiliare del giudice. Ciò nondimeno, il custode resta sempre un ausiliare del giudice avente i medesimi obblighi del custode dei beni sottoposti a sequestro giudiziario e a pignoramento (si pensi all'obbligo di rendere il conto, alla sostituzione, alla latitudine dei poteri ed ai profili della responsabilità) ed è dunque soggetto, comunque, al suo costante controllo (Vellani 2002, 48; Franchi 1973, 735). E poiché le questioni relative alla regolarità della nomina, al compenso e alla sostituzione, ed in generale agli atti del suo ufficio, altro non rappresentano che tale controllo, esse restano attratte, come accade nel sequestro giudiziario, allo stesso giudice della cautela. Per il resto, si applicano gli artt. 513 ss. c.p.c. e quindi, ad esempio, gli artt. 514 e 515 c.p.c., che prevedono limiti assoluti o relativi alla pignorabilità dei beni, ponendo il problema della competenza a decidere le relative contestazioni. La considerazione dei profili strutturali e funzionali del sequestro impone di ricorrere alla figura dell'inefficacia: l'errore consistente nella scelta di beni impignorabili comporta infatti la sottrazione dei beni stessi al vincolo e, quindi, senz'altro la mancata attuazione tout court nel termine di perenzione. Ove la dedotta impignorabilità riguardi tutti i beni in concreto sequestrati, la misura sarà inefficace in toto, mentre ove riguardi solo una parte di essi, si tradurrà in concreto, nella sottrazione di quegli specifici beni al vincolo. Quanto all'attuazione del sequestro presso terzi, l'art. 678 c.p.c. rinvia alle norme sul relativo pignoramento. Trovano applicazione, perciò, le norme dettate dall'art. 545 c.p.c.sull'impignorabilità di alcuni crediti e il sequestrante dovrà citare il terzo a comparire davanti al tribunale del luogo in cui risiede per rendere la dichiarazione di cui all'art. 547 c.p.c. A questo punto, però, i due modelli si divaricano, perché quello speciale prevede la sospensione del processo di accertamento dell'obbligo del terzo fino all'esito del giudizio sul credito cautelato, salvo che sia il terzo stesso a chiedere l'accertamento immediato dei propri obblighi. Occorre, tuttavia, rilevare un difetto di coordinamento tra l'art. 678 c.p.c. e l'art. 548 c.p.c. Quest'ultima disposizione è stata, infatti, sostituita e poi di nuovo modificata (rispettivamente dalla l. n. 228/2012, e poi dal d.l. n. 132/2014, convertito, con modificazioni, in l. n. 162/2014) ed oggi non prevede più un giudizio ordinario di accertamento dell'obbligo del terzo. Il rifiuto o la mancata dichiarazione o comparizione all'udienza da parte del terzo comporta, infatti, che «il credito pignorato o il possesso del bene di appartenenza del debitore, nei termini indicati dal creditore, si considera non contestato ai fini del procedimento in corso e dell'esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione se l'allegazione del creditore consente l'identificazione del credito o dei beni di appartenenza del debitore in possesso del terzo»: così l'art. 548, comma 1, c.p.c. In caso di contestata dichiarazione del terzo, invece, l'art. 549 c.p.c. prevede che «il giudice dell'esecuzione, su istanza di parte, provvede con ordinanza, compiuti i necessari accertamenti nel contraddittorio delle parti e con il terzo». Le possibili conclusioni (Luiso, 265) sono perciò due. O si considera abrogato l'art. 678 c.p.c. per venir meno del suo oggetto (il giudizio di accertamento, appunto), o invece si prende atto che il «giudizio di accertamento» è stato sostituito dagli «accertamenti» del giudice dell'esecuzione e che alla mancata dichiarazione o al suo rifiuto corrisponde, sempre che i crediti ed il bene siano identificabili dalle indicazioni del creditore, la non contestazione. Con la conseguenza ulteriore che se il terzo non rende la dichiarazione o la rende in modo conforme alle indicazioni del creditore il sequestro si perfeziona. Se, invece, sorgono contestazioni in ordine alla dichiarazione, il processo esecutivo è sospeso in attesa dell'«accertamento» dell'obbligo del terzo nelle nuove modalità previste dall'art. 549 c.p.c. La soluzione è considerata in dottrina la più ragionevole, anche se sconta una ipotesi di sospensione del processo esecutivo che il sistema ignora (Luiso, 265). Anche in riferimento alla dichiarazione del terzo occorre tenere presente l'influenza diretta, sulle modalità di attuazione del sequestro in discorso, della modifica dell'art. 543, c.p.c., comma 2, n. 4), c.p.c. (da parte del d.l. n. 132/2014, convertito, con modificazioni, in l. n. 162/2014), a mente del quale oggi il terzo è invitato a comunicare la dichiarazione stessa al creditore procedente a mezzo di raccomandata o posta elettronica certificata, con l'avvertimento che, in caso di mancata comunicazione, la dichiarazione dovrà essere resa a mezzo di comparizione in apposita udienza. Tale udienza è quella davanti al giudice del luogo di residenza, domicilio, dimora o sede del debitore esecutato (art. 26-bis, comma 2, c.p.c.). La giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 20115/2009) ha chiarito che il debitor debitoris non è parte necessaria,exart. 102 c.p.c., del giudizio cautelare di sequestro e di quello inerente al merito del diritto cautelando. Escluso, infatti, che la partecipazione necessaria del terzo sia prevista da una qualche norma, la sua situazione di soggetto che è in posizione di debitore verso la parte, che a sua volta è debitrice di altri, non consente di individuare una ragione per cui la sentenza sulla domanda di accertamento del rapporto tra il suo creditore a sua volta debitore di altri, e costui, non possa essere pronunciata senza il suo coinvolgimento, cioè anche nei suoi confronti. Quanto alla portata del richiamo, operato dall'ultimo comma dell'art. 678 c.p.c., all'art. 610 c.p.c. nel caso sorgano difficoltà che non ammettono dilazione nel corso dell'esecuzione del sequestro, occorre sempre considerarlo alla luce dei dati normativi che individuano nel giudice della cautela l'unico competente a gestire ogni aspetto dell'iter «attuativo». La «attuazione» del sequestro conservativo sugli immobili è affidata, dal laconico disposto dell'art. 679 c.p.c., alla trascrizione del provvedimento nei Registri Immobiliari del luogo dove i beni si trovano ed al già rilevato richiamo, quanto agli obblighi di custodia, all'art. 559 c.p.c. A differenza che nell'art. 678 c.p.c., il modus operandi è, per il sequestro conservativo, direttamente stabilito, senza alcun rinvio alle norme sul pignoramento immobiliare se non quanto al profilo della custodia. Con la trascrizione, si realizzerà solo l'effetto di inopponibilità degli atti di disposizione degli immobili sequestrati al creditore sequestrante (Cass. III, n. 5870/1994, per la quale il creditore che abbia ottenuto sentenza di condanna esecutiva e di convalida del sequestro, nel processo di esecuzione, che segue la conversione del sequestro in pignoramento, non può giovarsi degli effetti del sequestro in relazione a bene immobile acquistato da un terzo cui il debitore lo abbia alienato con atto trascritto dopo la trascrizione del provvedimento di autorizzazione del sequestro, quante volte, ancorché dopo la trascrizione dell'acquisto, sia stata eseguita la cancellazione della trascrizione del sequestro). La giurisprudenza di legittimità ha, poi, chiarito che la questione della legittimità dell'esecuzione del sequestro conservativo sugli immobili, nel caso di genericità delle relative indicazioni, non prevedendo il codice di rito ipotesi di nullità del pignoramento, va risolta con il ricorso al disposto dell'art. 156 c.p.c. Occorrerà, cioè, accertare se manchino requisiti necessari ed essenziali per il raggiungimento dello scopo mediante l'utilizzazione in via analogica, quanto al caso dell'incertezza soggettiva ed oggettiva della costituzione del vincolo, del disposto dell'art. 2841 c.c. che, sotto il secondo profilo, sancisce la nullità dell'iscrizione ipotecaria solo se l'omissione o l'incompletezza di alcune delle indicazioni richieste induca incertezza sull'identità dei singoli beni gravati (Cass. III, n. 643/1980). Per la custodia dell'immobile, occorre invece aver riguardo alla disciplina dettata dall'art. 559 c.p.c. in tema di espropriazione immobiliare. Nella prassi applicativa, si è affermato, tuttavia, che, qualora sia stato concesso un sequestro conservativo su un immobile, competente a disporre la sostituzione del custode in pendenza della causa di merito, è il giudice istruttore della stessa (Trib. Cagliari 28 novembre 1996). Il sequestro conservativo in mani proprie del creditore è caratterizzato dal fatto che le somme sequestrate sono già nella disponibilità del creditore sequestrante, il quale le deve al suo debitore, soggetto nei cui confronti il sequestro deve essere eseguito. In tal caso, perciò, il richiamo alle disposizioni sul pignoramento presso terzi non va inteso nel senso che il creditore debba citare se stesso ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 547 c.p.c. La stessa istanza di sequestro in mani proprie, infatti, integra ed esaurisce la funzione ricognitiva dell'oggetto della misura cautelare, mentre eventuali contestazioni relative alla natura del credito e dirette a farne valere la parziale insequestrabilità esorbitano dallo schema del giudizio di cui all'art. 548 c.p.c., oggi art. 549 c.p.c. – schema concernente soltanto quelle contestazioni che coinvolgono situazioni giuridiche facenti capo al terzo debitore e che devono essere accertate anche nei suoi confronti – e si risolvono in mezzo di opposizione alla disposta cautela per il quale è competente il giudice della convalida (rectius, del merito) e non quello dell'esecuzione (Cass. III, n. 1407/1992). La giurisprudenza di legittimità (Cass. I, n. 13903/2014) ha, poi, statuito che, poiché per le quote di società a responsabilità limitata l'art. 2471, comma 1, c.c., prevede che il pignoramento si esegue (non già nelle forme del pignoramento presso terzi ma) a mezzo dell'iscrizione del provvedimento nel registro delle imprese senza che sia necessaria la notifica al debitore o alla società, quando quest'ultima sia stata parte del procedimento cautelare la forma corretta di attuazione del sequestro è quella dell'esecuzione presso il debitore. Sotto un distinto profilo, in sede applicativa, si è ritenuto che non potesse trovare accoglimento, nella fase di attuazione di provvedimento di sequestro conservativo di quote di società a responsabilità limitata, l'istanza del creditore sequestrante, di autorizzare il custode a richiedere la convocazione dell'assemblea al fine di proporre e votare la sostituzione dell'amministratore in carica, poiché in tal modo la custodia delle quote si trasformerebbe in custodia della società (Trib. Bologna 3 agosto 1999). Si è, altresì, chiarito (Cass. III, n. 20170/2017), sempre in tema di pignoramento della partecipazione a società a responsabilità limitata, che il conflitto tra il creditore pignorante e l'acquirente della partecipazione stessa va risolto a norma dell'art. 2914, n. 1), c.c., con la conseguenza che non hanno effetto in pregiudizio del primo le alienazioni che siano state iscritte nel registro delle imprese successivamente all'iscrizione del pignoramento, senza che rilevi lo stato soggettivo di buona fede, non essendo applicabile l'art. 2470, comma 3, c.c. Il sequestro conservativo di azioni si esegue, con effetto nei confronti della società emittente e del debitore sequestrato, ai sensi dell'art. 678 c.p.c., con le modalità del pignoramento presso il debitore ex art. 518 e, dunque, mediante semplice notifica dell'ingiunzione di cui all'art. 492 c.p.c. alla società ed al debitore sequestrato. Si è, poi, chiarito che il sequestro conservativo del diritto incorporato in un titolo di credito va eseguito sul titolo stesso, pena l'inopponibilità del vincolo ai terzi cessionari. Tra le parti il vincolo conseguente al sequestro mantiene invece piena validità, con la conseguenza che il debitore sequestrato non può addurre la mancata attuazione sul titolo quale elemento idoneo a provocare una pronuncia di nullità o di inefficacia del sequestro ex art. 675 c.p.c. La Suprema Corte ha statuito, altresì, che, sempre nel caso di sequestro conservativo eseguito su titoli di credito, l'osservanza delle forme previste dall'art. 1997 c.c. per l'imposizione del vincolo non è richiesta per la validità del vincolo stesso tra le parti, ma al solo scopo di renderlo efficace rispetto ai terzi, affinché possa essere opposto ai nuovi possessori del titolo. Ne consegue che l'inosservanza delle forme richieste dal menzionato art. 1997 c.c. non può mai provocare l'invalidità del pignoramento e degli atti successivi, una volta verificatasi la conversione ai sensi dell'art. 686 c.p.c. (Cass. III, n. 3747/2001). Si è infine da ultimo posto, in giurisprudenza, il problema dell'identificazione dei mezzi di impugnazione di un provvedimento di attuazione del sequestro conservativo presso terzi, emesso dal giudice dell'esecuzione nei limiti del quinto della somma dichiarata dovuta dal terzo. Per la Cassazione (Cass. III, n. 27073/2021) è decisiva la natura del provvedimento emesso dal giudice dell'esecuzione. Occorre, cioè, stabilire «se il giudice ha semplicemente sospeso o se ha, al contrario, definito il procedimento pendente davanti a sé». Ne consegue, per la Corte, che laddove il giudice dell'esecuzione, in sede di attuazione di un sequestro conservativo presso terzi, dichiari attuato il sequestro nei limiti della ritenuta pignorabilità/sequestrabilità dei crediti dichiarati dal terzo, l'ordinanza da questi adottata, in via né sommaria né provvisoria, a definitiva chiusura della procedura di attuazione del provvedimento cautelare, è impugnabile esclusivamente con l'opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell'art. 617 c.p.c., anche in relazione alla corretta liquidazione delle spese dello stesso procedimento di attuazione. Se invece, a seguito di contestazioni del debitore affidate ad opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615 c.p.c., in relazione al quale il giudice abbia dichiarato di volersi pronunciare, il provvedimento sommario provvisorio di arresto del corso del procedimento di attuazione, che resta perciò pendente, è impugnabile con il reclamo ai sensi dell'art. 624 c.p.c. Infine, «in entrambi i casi, se (e solo se) è stata proposta dal debitore un'opposizione all'esecuzione, il giudice dell'esecuzione, con il provvedimento che sospende o chiude il procedimento di attuazione davanti a sé, deve contestualmente fissare (salvo che l'opponente stesso vi rinunzi) il termine per l'instaurazione della fase di merito del giudizio di opposizione». Di recente, la Suprema Corte (Cass. , I, n. 16441/2023) ha chiarito che il ricorso straordinario per Cassazione avverso il provvedimento autorizzativo di un sequestro (nella specie giudiziario) è inammissibile, poiché tale provvedimento invera una misura cautelare provvisoria che, pur coinvolgendo diritti soggettivi, non statuisce su di essi a definizione di una controversia, né ha attitudine ad acquisire autorità di giudicato sostanziale, essendo soltanto strumentale ad assicurare la fruttuosità di un differente provvedimento effettivamente decisorio (Cass. I, n. 23763/2016; Cass. I, n. 28673/2013; Cass. I, n. 1518/2012). Aggiunge la Corte che “(…) Analoghe considerazioni possono essere compiute rispetto al provvedimento volto ad attuare il sequestro già autorizzato (…).Infatti, non è ravvisabile il carattere della decisorietà nei provvedimenti emessi dal giudice, in forma diversa dalla sentenza, per regolare l'attuazione delle misure cautelari, avendo anche questi provvedimenti natura strumentale ed essendo, conseguentemente, gli stessi inidonei ad assumere efficacia di cosa giudicata, sia dal punto di vista formale, che da quello sostanziale, con conseguente inammissibilità del ricorso per Cassazione proposto, avverso i medesimi, ex art. 111 Cost. (v., in questo senso, Cass. I, n. 21034/2013; Cass. I, n. 24543/2009; Cass. I, n. 9808/2000; Cass. I, n. 10740/1998). Nei confronti di simili provvedimenti è, invece, ammesso reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. (anche nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv., con modif., in l. 14 maggio 2005, n. 80 e a seguito della sentenza della Corte cost., n. 253/1994; Cass. n. 4497/2009), che, nella specie, sarebbe stato proponibile ad altra sezione della Corte d'Appello, o alla Corte d'Appello viciniore, nel senso previsto dal capoverso di tale norma”. La revoca del sequestro conservativo. L'art. 684 c.p.c. prevede che: «Il debitore può ottenere dal giudice istruttore, con ordinanza non impugnabile, la revoca del sequestro conservativo, prestando idonea cauzione per l'ammontare del credito che ha dato causa al sequestro e per le spese, in ragione del valore delle cose sequestrate». Ci si domanda se la revoca consista in un ritiro, con effetto ex nunc, del provvedimento autorizzativo o, invece, in una semplice conversione di oggetto, diretta a consentire al debitore di ottenere la disponibilità dei beni sottoposti a vincolo. La risposta risiede nella considerazione di una duplice circostanza. La prima consiste nel rilievo che la ratio della norma consiste nel legittimare il debitore a liberare i propri beni dal vincolo del sequestro, prestando appunto le opportune garanzie. La seconda considerazione riposa sul rilievo che se la cauzione viene considerata quale nuovo oggetto di sequestro, appare pienamente rispettato il principio della par condicio creditorum di cui all'art. 2741 c.c., consentendo, in seguito alla conversione del sequestro conservativo in pignoramento ai sensi dell'art. 686 c.p.c., il concorso degli altri eventuali creditori nell'esecuzione forzata (Costabile, passim; Taraschi, passim). È per questo che pare prevalere in dottrina l'idea che l'art. 684 c.p.c. non codifichi una revoca in senso tecnico del provvedimento di autorizzazione al sequestro ma una ipotesi di conversione del suo oggetto, assimilabile alla conversione del pignoramento, che non implica in alcun modo il riconoscimento della legittimità della misura cautelare ma solo il trasferimento del vincolo sulla somma determinata dal giudice (Costabile, passim; Taraschi, passim). Anche la giurisprudenza (App. Lecce 12 gennaio 1995) è orientata per la seconda tesi. Essa afferma, infatti, che l'art. 684 c.p.c., integra un'ipotesi di conversione del sequestro in un deposito cauzionale che, non implicando il riconoscimento della legittimità del sequestro e concretandosi soltanto nell'adozione di una misura provvisoria diretta a consentire la disponibilità delle cose sequestrate senza perdita per il creditore della garanzia a tutela del suo credito, lascia intatta la necessità di tutti gli adempimenti successivi richiesti a pena di inefficacia della misura. Per parte sua la giurisprudenza di legittimità (Cass. I, n. 9291/1999) ha affermato che, in tema di procedimento di sequestro, secondo il regime normativo antecedente la riforma di cui alla l. n. 353/1990 e successive modifiche, l'accoglimento dell'istanza di revoca ex art. 684 c.p.c. di un sequestro conservativo autorizzato ante causam e la conseguente conversione del sequestro in un deposito cauzionale, non implicando il riconoscimento della legittimità del sequestro e concretandosi soltanto nell'adozione di una misura provvisoria diretta a consentire la disponibilità delle cose sequestrate senza perdita per il creditore della garanzia a tutela del suo credito, non comportava il venir meno delle incombenze successive alla concessione del sequestro, previste dall'art. 675 c.p.c., a proposito dell'esecuzione del sequestro entro il termine ivi previsto, e dall'ora abrogato art. 680 c.p.c., a proposito dell'instaurazione del giudizio di convalida (v., altresì, Cass. II, n. 18278/2007; Cass. I, n. 921/1999). Tale orientamento resta valido anche nell'assetto attuale pur dovendosi fare riferimento al giudizio di merito sul diritto cautelando. Si è, altresì, precisato che proprio l'art. 684 c.p.c., nel prevedere la revoca del sequestro in conseguenza della prestazione di idonea cauzione e nel commisurare quest'ultima all'ammontare del credito e delle spese (anche se in ragione delle cose sequestrate), realizza pur sempre – mediante il trasferimento del vincolo dai beni asserviti alla cauzione – la funzione primaria di garantire l'adempimento del credito azionato (Cass. I, n. 520/1995). In riferimento specifico alla quantificazione della cauzione, due tesi si contendono il campo. Per la prima la cauzione deve essere fissata nella minore somma tra l'importo del credito cautelato aumentato delle spese ed il valore delle cose sequestrate. Per la seconda tesi invece è maggiormente lineare, e più rispondente ad un equilibrio tra i contrapposti interessi delle parti, che il giudice si basi sullo stato degli atti, a prescindere dalla somma fino all'ammontare della quale è stato autorizzato il sequestro (Taraschi, passim). Quanto al giudice competente a provvedere sull'istanza di revoca ex art. 684 c.p.c., si è deciso che, prima dell'inizio della causa di merito e nelle more della instaurazione di questa, la stessa spetti al giudice che ha concesso il sequestro conservativo (Trib. Roma 26 aprile 1993), mentre se la richiesta è formulata nel corso del giudizio di merito debba essere indirizzata al giudice istruttore e, in sede di reclamo, al collegio (Trib. Modena 27 luglio 1998). La forma del provvedimento, ordinanza, presuppone la fissazione di un'udienza di comparizione delle parti. L'ordinanza non è impugnabile, tanto che, secondo la giurisprudenza, è inammissibile un reclamo nei confronti del provvedimento di revoca del sequestro conservativo pronunciato ai sensi dell'art. 684 c.p.c.(Trib. Lanciano 26 luglio 2002). Si è, infine, deciso che: «La revoca del sequestro conservativo dietro prestazione di idonea cauzione (nella specie, il giudice istruttore, nel revocare il sequestro, ha imposto la prestazione di fideiussione assicurativa), costituendo un provvedimento di mera amministrazione della misura cautelare, non ha natura decisoria, e quindi non è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. Perché tale caratteristica ricorra non è sufficiente, infatti, che il provvedimento incida su diritti soggettivi (ciò accadendo anche per la giurisdizione cautelare o esecutiva e anche per gli atti non giurisdizionali), ma occorre che esso decida una controversia su diritti soggettivi o status, con attitudine al giudicato o, quanto meno, con preclusione pro iudicato (così Cass. I, n. 10254/1994). E neppure appare praticabile il regolamento di competenza (Cass. n. 436/1997). Le opposizioni esecutive ex artt. 615 e 617 c.p.c. e la tutela delle parti.Occorre adesso esaminare il profilo delle contestazioni delle parti in merito all'attuazione dei sequestri riguardata nella duplice connotazione di costituzione del vincolo e di sua permanenza (e che nel previgente regime erano attratte al giudizio di convalida: così Vullo, 311; Zumpano, passim). Il contesto normativo di riferimento è ancora quello ove il richiamo dell'art. 669-duodecies c.p.c. agli artt. 677 ss. c.p.c., che, a loro volta, rinviano, per quanto qui di interesse, agli artt. 615 e 617 c.p.c. in quanto compatibili, si affianca all'art. 669-quaterdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia) che estende automaticamente ai sequestri l'applicabilità del rito cautelare. L'alternativa si pone dunque tra utilizzabilità delle opposizioni esecutive, in applicazione di quel richiamo; e rinvio dell'art. 669-quaterdecies c.p.c. (anche) all'art. 669-duodecies c.p.c., segnatamente nella parte in cui affida al giudice della cautela un triplice ordine di poteri: a) la determinazione delle modalità di attuazione; b) la risoluzione di difficoltà e contestazioni; c) il controllo sull'attuazione (al netto delle altre questioni riservate al giudizio di merito). Il dubbio è stato risolto in modo alternante, a volte optando per l'utilizzabilità dei rimedi di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c.(Santulli, 13, la quale ritiene le ordinarie opposizioni esecutive proponibili nei limiti in cui le relative questioni non possono essere risolte con i rimedi propri del procedimento cautelare uniforme), altre volte invece puntando sull'art. 669- duodeciesc.p.c. in parte qua (è questa la posizione espressa, sia pure con diversità di accenti, dalla maggioritaria dottrina: Merlin, 426, che ritiene le relative questioni prospettabili al giudice che ha emanato la cautela, affinché adotti i provvedimenti opportuni ex art. 669-duodecies c.p.c.; Luiso 1996, 686; Saletti, 393; in senso parzialmente difforme, v. Pototschnig 1993, 765). La possibile soluzione non può assumere carattere generalizzato, dovendo tener conto delle molte variabili che, nel contesto peculiare in esame, la influenzano. Appare, dunque, preferibile un approccio differenziato per ciascuno dei due volti che l'attuazione assume, costituzione del vincolo e sua durata nel tempo, e per i quali vengono in rilievo diverse fonti di disciplina. Le caratteristiche strutturali e funzionali più volte evidenziate hanno già consentito di riconoscere nel giudice che ha reso il provvedimento autorizzativo anche quello cui compete la gestione globale della vita della misura perché i suoi poteri si irradiano direttamente in fase «attuativa». Si è, inoltre, già rilevato come il controllo sull'attuazione sub specie di investitura del custode competa al giudice della cautela che il custode ha nominato. Ne consegue che se le parti lamentino invalidità o irregolarità nell'investitura o ancora la divergenza degli atti compiuti dallo schema fissato nel provvedimento autorizzativo, anche tali doglianze saranno attratte al medesimo giudice che, ex art. 669-duodecies c.p.c.in parte qua, le risolve con ordinanza. Se, poi, le irregolarità sono tali da inficiare la stessa costituzione del vincolo sui beni, il ricorso al giudice della cautela, verosimilmente teso alla correzione o ripetizione delle formalità, non esclude lo spirare, nel frattempo, del termine dell'art. 675 c.p.c. senza che il vincolo si perfezioni, aprendosi la strada alla procedura per la dichiarazione di inefficacia ex art. 669-novies c.p.c. (al cui commento si rinvia). Nel sequestro conservativo, le modalità di costituzione del vincolo sono invece predeterminate dalla legge in ragione del tipo di bene colpito, secondo modalità in buona sostanza assimilabili a quelle imposte per il pignoramento. Anche in tal caso, dunque, le doglianze delle parti sulla invalidità degli atti di costituzione del vincolo, intesa come divergenza dallo schema legale, possono ritenersi demandate al giudice della cautela che le risolve con ordinanza. Ed anche in tal caso se la correzione dell'iter di costituzione del vincolo non è possibile nel termine dell'art. 675 c.p.c., il provvedimento autorizzativo diviene inefficace e si apre la strada alla procedura ex art. 669-novies c.p.c. Le stesse considerazioni valgono quanto alle doglianze sulla corretta identificazione pratica del bene (così come indicato nel provvedimento autorizzativo) da sottoporre a sequestro giudiziario o a sequestro conservativo correlato ad una revocatoria ex art. 2905, comma 2, c.c.; o ancora sulla sottoposizione a sequestro conservativo ex art. 2905, comma 1, c.c. di un bene impignorabile. Occorre, tuttavia, rilevare che esiste una differenza rispetto a quanto accade nel sequestro giudiziario di un singolo bene o nel sequestro conservativo reso ai sensi dell'art. 2905, comma 2, c.c.: se l'invalidità riguarda solo alcuni beni e non tutti, non è possibile inferirne la sopravvenuta inefficacia globale perché il sequestro persiste sui residui beni. Occorre allora chiedersi se lo strumento reattivo da riconoscere al sequestrato possa comunque ritenersi quello previsto dall'art. 669-novies c.p.c., che reca la disciplina generale dell'inefficacia ed attiene, perciò, al vincolo nella sua interezza. La risposta preferibile appare quella positiva, perché tale ultimo rimedio è strutturato in modo tale da modularsi sul tipo di «resistenza» delle difese delle parti e da coinvolgere in prima battuta il giudice dell'attuazione. La norma prevede, infatti, sia la possibilità che, contestati la valida costituzione del vincolo o l'impignorabilità dei beni, si raggiunga un accordo delle parti; sia quella di un giudizio a cognizione piena che, in assenza di accordo, consenta il pieno accertamento della validità del vincolo o della pignorabilità dei beni, realizzando una logica in buona sostanza riconducibile a quella dell'opposizione dell'art. 615, comma 2, c.p.c. Quanto, invece, alle contestazioni relative all'esistenza delle condizioni di concedibilità del provvedimento, o alla circostanza che non sia stato correttamente individuato, nel provvedimento autorizzativo del sequestro giudiziario (o del sequestro conservativo ex art. 2905, comma 2, c.c.) il bene sottoposto a vincolo, esse sfuggono alla logica della sede «attuativa», trovando naturale collocazione nella sede deputata al riesame del provvedimento autorizzativo, cioè il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c.(al cui commento si rinvia). Le contestazioni sulla perdurante efficacia della misura per le altre ragioni previste dalla legge confluiscono invece nella sede dell'art. 669-novies c.p.c. e quelle sull'esistenza del diritto a cautela del quale fu concesso il sequestro nel giudizio di merito. Il quadro abbozzato consente, dunque, di ritenere che lo spazio di operatività delle opposizioni di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c., in teoria applicabili ai sequestri, sia eroso dalla struttura e funzione attribuite dalla legge ai sequestri. La più recente giurisprudenza di merito si mostra, tuttavia, molto meno incline alle distinzioni appena effettuate. Si è, infatti, deciso (Trib. Massa 2 aprile 2019) che le contestazioni mosse in ordine all'attuazione del sequestro conservativo non assumono natura di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, ma sono qualificabili come eccezioni del soggetto che ha subito la misura cautelare, idonee soltanto a sollecitare l'esercizio da parte del giudice della causa di merito dei poteri di modifica, integrazione, precisazione o revoca del provvedimento. Più in particolare, il Tribunale si è interrogato sulla possibilità di utilizzare, nella fase attuativa dei sequestri, i rimedi cognitivi tipici dell'esecuzione forzata, quali le opposizioni all'esecuzione e agli atti esecutivi, nonché quelle di terzo, tenuto conto del silenzio del legislatore successivamente all'abolizione del giudizio di convalida. Preso atto del frastagliato panorama interpretativo, il giudice toscano riprende quella giurisprudenza consolidatasi anteriormente all'introduzione del procedimento cautelare uniforme, secondo cui l'attuazione dei sequestri, pur avvenendo nelle forme previste per il pignoramento (sequestro conservativo), non trasforma i provvedimenti stessi in atti di esecuzione forzata né li assoggetta alla specifica competenza del giudice dell'esecuzione, trattandosi di mero richiamo della legge alle operazioni esecutive e non all'intero sistema di tutela esecutiva. Ne consegue che la competenza a decidere sulla regolarità e validità del sequestro appartiene al giudice investito del giudizio sulla convalida e sul merito e non al giudice dell'esecuzione (Cass. III, n. 4635/1993; Cass. III, n. 1407/1992; Cass. III, nn. 26, 28, 29 e 30/1988; Cass. III, n.319/1976; Cass. III, n. 1784/1969). Ebbene, per il Tribunale di Massa, l'impostazione va confermata anche alla luce della attuale disciplina del procedimento cautelare uniforme, in quanto l'art. 669-duodecies c.p.c., che regola l'attuazione dei provvedimenti cautelari, fa salvi gli artt. 677 ss. c.p.c. sui quali si è consolidata quella giurisprudenza di legittimità, mentre l'abrogazione della disciplina della convalida non ha sottratto al giudice del merito ogni competenza sul sequestro già disposto. L'art. 669-decies c.p.c. (al cui commento si rinvia) prevede, infatti, che, nel corso dell'istruzione, il giudice istruttore della causa di merito possa, su istanza di parte, modificare o revocare il provvedimento cautelare, anche emesso anteriormente alla causa, qualora si verifichino mutamenti nelle circostanze, mentre proprio l'art. 669-duodecies c.p.c., con disposizione di chiusura avente carattere generale ed applicabile anche ai sequestri (art. 669-quaterdecies c.p.c. al cui commento si rinvia), stabilisce che ogni altra questione in ordine all'attuazione della misura cautelare, diversa da quelle in precedenza esaminate nel medesimo articolo (concernenti le mere difficoltà materiali insorte nel corso dell'esecuzione ex art. 610 c.p.c.) vada proposta nel giudizio di merito (Cass. III, n. 19101/2003). Per il giudicante è allora dirimente la circostanza che l'esecuzione del sequestro costituisca un momento imprescindibile per la stessa esistenza della misura cautelare. Da tale premessa, deriva infatti che la norma cui fare riferimento per risolvere le contestazioni delle parti e dei terzi è proprio e solo l'art. 669-duodecies c.p.c. (in questo senso, v. anche Cass. III, n. 19101/2003, cit.; sul versante della giurisprudenza di merito, si segnalano: Trib. Salerno 1° agosto 2007; Trib. Trani 17 settembre 2009; Trib. Milano 25 novembre 2002). Le contestazioni mosse in ordine all'attuazione del sequestro conservativo non assumono, in conclusione, natura di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, ma sono qualificabili come eccezioni del soggetto che ha subito la misura cautelare, idonee soltanto a sollecitare l'esercizio da parte del giudice della causa di merito dei poteri di modifica, integrazione, precisazione o revoca del provvedimento (Trib. Ravenna 11 marzo 2016; Trib. Salerno 1° agosto 2007, cit.; Trib. Trani 17 settembre 2009, cit.). La conseguenza è che le opposizioni esecutive eventualmente proposte vanno dichiarate inammissibili (v., altresì, Cass. I, n. 13903/2014, con riferimento ai motivi che consentono la modifica/revoca del sequestro). Va, infine, rilevato che la recente giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 27073/2021) si è pronunciata in ordine al problema dell'identificazione dei mezzi di impugnazione di un provvedimento di attuazione del sequestro conservativo presso terzi, emesso dal giudice dell'esecuzione nei limiti del quinto della somma dichiarata dovuta dal terzo. Per la Suprema Corte, il problema va risolto in base alla natura del provvedimento emesso dal giudice dell'esecuzione, dovendosi preliminarmente stabilire «se il giudice ha semplicemente sospeso o se ha, al contrario, definito il procedimento pendente davanti a sé». In particolare, «nel caso in cui il giudice dell'esecuzione, in sede di attuazione di un sequestro conservativo presso terzi, dichiari attuato il sequestro nei limiti della ritenuta pignorabilità/sequestrabilità dei crediti dichiarati dal terzo, l'ordinanza da questi adottata, in via né sommaria né provvisoria, a definitiva chiusura della procedura di attuazione del provvedimento cautelare, è impugnabile esclusivamente con l'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. anche in relazione alla corretta liquidazione delle spese dello stesso procedimento di attuazione. Diversamente, se adottata a seguito di contestazioni del debitore mediante una formale opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615 c.p.c., in relazione alla quale il giudice abbia dichiarato di volersi pronunciare, il provvedimento sommario provvisorio di arresto del corso del procedimento di attuazione, che resta perciò pendente, è impugnabile con il reclamo ai sensi dell'art. 624 c.p.c.». Segue. La tutela dei terzi.L'attuazione di un sequestro giudiziario o conservativo (Pototschnig 1993, 783) può, per un errore nell'identificazione del bene, colpire un terzo che ne vanti la proprietà o altro diritto prevalente ed incompatibile. L'evenienza è stata oggetto d'indagine anche prima dell'introduzione del procedimento cautelare uniforme, quando l'intervento principale del terzo nel giudizio di convalida (oltre che un'azione di accertamento negativo o di rivendica dei beni sequestrati, evidentemente sempre possibile: Pret. Milano 19 agosto 1986; Cass. III, n. 1777/1981; Cass. III, n. 1709/1967) era soluzione privilegiata in giurisprudenza. Non era, invece, ritenuta ammissibile l'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c.(Vullo, 306). La soluzione al problema, assente nella legislazione anteriore al 1990, non trova espressione testuale neppure nell'attuale normativa e spetta dunque completamente all'interprete. La ricerca è oggi indirizzata verso strade in parte diverse da quelle già percorse sia per la scomparsa del giudizio di convalida, che sembrerebbe richiamare in causa proprio l'opposizione ex art. 619 c.p.c.; sia per la presenza degli artt. 669-novies c.p.c. e 669-duodecies c.p.c. (al cui commento si rinvia) che, senz'altro applicabili ai sequestri, si prestano alla tutela di terzi estranei al procedimento e tuttavia da esso pregiudicati(Pototschnig 1993, 788). Poiché l'art. 669-duodecies c.p.c. demanda al giudice della cautela, cui compete il controllo sull'attuazione, la risoluzione di difficoltà e contestazioni, in tale ambito può ricomprendersi anche lo spettro doglianze del terzo sull'errata identificazione del bene. Su tali doglianze, poi, il giudice, sentite anche le parti originarie, ben potrebbe in prima battuta rendere ordinanza (con cui eventualmente escludere il bene stesso dal vincolo). E poiché il pregiudizio del terzo non discende dal contenuto della misura ma da una aberratio nella sua «attuazione», l'intervento correttivo del giudice non incide sul contenuto del provvedimento, in caso di sequestro giudiziario e di sequestro conservativo ex art. 2905, comma 2, c.c. In caso di sequestro conservativo, attesa la diversa considerazione che i beni vi assumono, il problema neppure si pone, i beni essendo individuati solo al momento della costituzione del vincolo. Se, tuttavia, attorno alla questione della corretta identificazione del bene non si aggrega comunque il consenso delle parti e del terzo, la situazione si complica perché la sede «attuativa» diviene insufficiente. Qui si discute, infatti, della prevalenza/opponibilità del diritto di un terzo su un bene che un creditore pretende di sottoporre a vincolo almeno fino all'esito del giudizio di merito. Una sedes solo cautelare non appare, dunque, sufficiente, occorrendone una che consenta l'accertamento pieno dell'esistenza del diritto sul bene inciso in capo al terzo piuttosto che al presunto debitore (o anche solo dell'opponibilità al creditore sequestrante, in caso di sequestro conservativo). Nel processo esecutivo lo strumento ad hoc è quello dell'opposizioneexart. 619 c.p.c. (Vaccarella, 315) che, proposta al giudice dell'esecuzione (perché è davanti a lui che si svolge l'esecuzione diretta fonte del pregiudizio del terzo) consente, in primis, la possibile sospensione delle operazioni e, poi, sia lo sbocco dell'accordo tra le parti che, in difetto, l'accertamento pieno delle posizioni coinvolte. L'alternativa è tra opposizione ex art. 619 c.p.c. che sembra richiamata in causa proprio dalla scomparsa del giudizio di convalida, e utilizzo, sia pure in via estensiva, della dichiarazione di inefficacia prevista dall'art. 669-noviesc.p.c. (al cui commento si rinvia). La soluzione preferibile appare quest'ultima, perché valorizza uno strumento endocautelare, malgrado comporti una interpretazione estensiva dell'art. 669-novies c.p.c. Non sempre, infatti, la sottrazione del bene al vincolo, scopo perseguito dal terzo, ridonda in causa dell'inefficacia dell'intero sequestro, che ben potrebbe ancora legittimamente insistere su altri beni (è il caso del sequestro conservativo ove solo uno o alcuni dei beni colpiti si assumano di un terzo, mentre il vincolo è correttamente posto su altri beni). Nel caso in esame, l'inefficacia è cioè limitata solo al terzo, realizzando una logica più vicina a quella dell'opposizione dell'art. 619 c.p.c. (ma anche dell'opposizione ex art. 615, comma 2, c.p.c., rispetto all'esecutato) che a quella immaginata dall'art. 669-novies c.p.c. che, nel riferirsi ad ogni causa di inefficacia della misura, ha riguardo al venir meno del vincolo nella sua interezza. La procedura per la declaratoria di inefficacia offre comunque, come l'opposizione degli artt. 615, comma 2 c.p.c. e 619 c.p.c., un duplice sbocco: l'immediata esclusione del bene dal vincolo con ordinanza esecutiva se vi è consenso delle parti sulla causa di inefficacia; e un ordinario giudizio di cognizione se la presenza di contestazioni rende necessario l'accertamento sul diritto del terzo (con la connessa possibilità di ottenere l'anticipazione della decisione favorevole al terzo ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c.: così l'art. 669-novies, comma 2, c.p.c.). In tale ultimo caso, è inoltre possibile l'anticipazione del provvedimento finale di inefficacia in virtù del richiamo dell'art. 669-novies, comma 2, c.p.c. all'art. 669-decies c.p.c. Riassumendo, dunque, l'esito del procedimento ex art. 669-novies c.p.c. è la sottrazione del bene al vincolo, con il vantaggio però che le contestazioni in ordine al diritto del terzo confluiscono nella adeguata sede di un giudizio dichiarativo. Le cautele di condanna pecuniaria e il rinvio al libro III del codice di rito: una premessa di metodo.L'attuazione delle cautele di condanna al pagamento di somme di denaro è disciplinata, in virtù del rinvio operato dall'art. 669-duodecies c.p.c. agli artt. 491 ss. c.p.c. «in quanto compatibili», dalle disposizioni sul pignoramento e la vendita forzata. Non si tratta di semplice rinvio ad un segmento normativo attinto dal libro III del codice di procedura civile, per di più solo «in quanto compatibile», ma di un più ampio riferimento alla disciplina sostanziale che del pignoramento e della vendita stessi rappresenta il presupposto, e che in buona sostanza si aggrega intorno ai principi che regolano la responsabilità patrimoniale(artt. 2740,2741,2910 c.c.). Sotto le mentite spoglie del rinvio selettivo, si cela dunque il ben più ampio richiamo ad un intero sistema di regole, quelle di diritto sostanziale che disegnano la responsabilità patrimoniale ed i modi dell'accesso dei creditori al patrimonio del debitore. L'art. 669-duodecies c.p.c. si pone, quindi, nel solco delle pronunce con cui la Corte Costituzionale ha stabilito che l'accesso al patrimonio va inteso quale elemento indispensabile della tutela giurisdizionale del credito, se l'inottemperanza volontaria dell'obbligato lo rende necessario (v., ad esempio, Corte cost., n. 419/1995, per la quale gli artt. 3 e 24 Cost. garantiscono il soddisfacimento effettivo dei diritti e degli interessi accertati in giudizio nei confronti di qualsiasi soggetto, mediante l'effettiva esecuzione della sentenza). La Consulta era stata in particolare chiamata, in sede di conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, a giudicare della sottoponibilità degli atti amministrativi del C.S.M. alla giurisdizione estesa al merito che il giudice amministrativo esercita in sede di ottemperanza. Nel fornire risposta positiva al quesito, il giudice delle leggi ha avuto l'occasione di precisare che neppure la titolarità delle specifiche competenze attribuite dall'art. 105 Cost. al Consiglio Superiore della Magistratura può comportare, quale conseguenza automatica, franchigie dal sindacato giurisdizionale, comprensivo della fase di esecuzione forzata delle decisioni. Il principio di legalità dell'azione amministrativa (artt. 97,98 e 28 Cost.), unitamente al principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24,101,103 e 113 Cost.) comportano, infatti, esplicitamente l'assoggettamento del Consiglio Superiore della Magistratura, come di ogni altra amministrazione, a tutti i vincoli posti dagli organi legittimati a creare diritto, fra i quali, evidentemente, gli organi giurisdizionali. Perciò, «una volta intervenuta una pronuncia giurisdizionale la quale riconosca come ingiustamente lesivo dell'interesse del cittadino un determinato comportamento dell'amministrazione, o che detti le misure cautelari ritenute opportune e strumentali all'effettività del la tutela giurisdizionale, incombe sull'amministrazione l'obbligo di conformarsi ad essa; ed il contenuto di tale obbligo consiste appunto nell'attuazione di quel risultato pratico, tangibile, riconosciuto come giusto e necessario dal giudice. Ma proprio in base al già ricordato principio di effettività della tutela giurisdizionale deve ritenersi connotato intrinseco della stessa funzione giurisdizionale, nonché dell'imprescindibile esigenza di credibilità collegata al suo esercizio, il potere di imporre, anche coattivamente in caso di necessità, il rispetto della statuizione contenuta nella pronuncia e, quindi, in definitiva, il rispetto della legge stessa. Una decisione di giustizia che non possa essere portata ad effettiva esecuzione (eccettuati i casi di impossibilità dell'esecuzione in forma specifica) altro non sarebbe che un'inutile enunciazione di principi, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 Cost., i quali garantiscono il soddisfacimento effettivo dei diritti e degli interessi accertati in giudizio nei confronti di qualsiasi soggetto; e quindi anche nei confronti di qualsiasi atto della pubblica autorità, senza distinzioni di sorta, pur se adottato da un organo avente rilievo costituzionale qual è il C.S.M.». La Consulta ha ribadito questi principi anche successivamente (Corte cost., n. 321/1998), pronunciandosi nel senso che il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ai sensi dell'art. 24, comma 1, cost. comprende la fase di esecuzione forzata, la quale è diretta a rendere effettiva l'attuazione dei provvedimenti giurisdizionali. Tutti gli istituti attraverso i quali l'espropriazione esprime le regole sostanziali sulla responsabilità patrimoniale sono perciò da ritenersi applicabili anche all'attuazione cautelare, a prescindere dal limite di compatibilità pure imposto dall'art. 669-duodecies c.p.c. e persino – come si vedrà – ove esulino dal novero delle disposizioni richiamate. Segue. Il ruolo della responsabilità patrimoniale.Ciò comporta, anzitutto, che il potere di aggressione forzosa del patrimonio del debitore riconosciuto al creditore cautelare dall'art. 669-duodecies c.p.c. non può porsi in rotta di collisione con quello riconosciuto ad un qualunque altro creditore provvisto di titolo esecutivo, o di altra cautela di pagamento, di intraprendere l'espropriazione degli stessi beni, ponendosi piuttosto il problema del coordinamento delle diverse azioni esecutive. L'assenza di ogni altra lex specialis richiama in causa gli artt. 491 ss. c.p.c. e dunque l'art. 493, comma 2, c.p.c.: il pignoramento compiuto per secondo deve cioè considerarsi quale pignoramento successivo, con conseguente riunione a quello precedentemente effettuato. Se, invece, a causa dell'assenza di altri beni, il creditore cautelare si veda costretto a pignorare beni già colpiti da altri creditori provvisti di titolo esecutivo o di cautela di pagamento, la riunione si imporrà con l'attrazione del pignoramento del creditore cautelare al vincolo imposto per primo. In entrambi i casi, la riunione è comunque imprescindibile perché i medesimi beni non possono essere venduti ed acquistati che una volta sola, in applicazione disciplina espropriativa del libro III del codice di procedura civile. Opera, dunque, la competenza del giudice dell'esecuzione malgrado l'art. 484 c.p.c., che tale competenza codifica, esuli norme richiamate dall'art. 669-duodecies c.p.c.in parte qua. È, infatti, il richiamo al corpus normativo che sovrintende al pignoramento-vendita forzata a portare naturalmente con sé ogni altro aspetto, anche non codificato dalle disposizioni espressamente richiamate ma da esse solo presupposto, come nel nostro caso accade per l'interferenza della vicenda attuativa cautelare con l'esecuzione che altri creditori, secondo le norme del codice di rito, intraprendono sugli stessi beni. L'applicabilità integrale della disciplina del libro III si impone altresì tutte le volte in cui: a) sui beni colpiti dall'attuazione cautelare gravino cause legittime di prelazione (concorso di azioni esecutive e di creditori muniti di cause legittime di prelazione appaiono, anche nella prospettiva storica, elementi costanti: così, già Carnelutti, 32; ma v. anche, nel medesimo senso, Andrioli 1972, 486; Garbagnati, 533; Carnacini, passim; Salanitro, 2), oppure, b) intervenga il pignoramento in base a titolo esecutivo oex art. 669- duodeciesc.p.c. sugli stessi beni sui quali è già stato attuato un sequestro conservativo. Il profilo sub a). Gli artt. 2741 e 2910 c.c., letti in combinato disposto con gli artt. 2745-2783-bis c.p.c. (che disciplinano i privilegi), 2784-2807 c.p.c. (che disciplinano il pegno), e 2808-2899 c.p.c. (che disciplinano l'ipoteca), impongono al legislatore processuale di congegnare l'espropriazione in modo da consentire ai creditori privilegiati di soddisfarsi per intero e con preferenza su tutti gli altri creditori (e salva la distribuzione percentuale se concorrono sugli stessi beni più cause di prelazione). Si spiega così l'intervento di questi creditori, anche provocato (artt. 498 e 499 c.p.c.). Anche in tale caso siamo di fronte ad un presupposto di sistema dell'art. 669-duodecies c.p.c., sicché la disciplina dell'attuazione cautelare che quel sistema evoca non può escludere dall'espropriazione i creditori che sui beni colpiti vantino un diritto di prelazione, avendo una fonte solo processuale (l'art. 669-duodecies c.p.c.) che, da sé sola, non può sovvertire il quadro sostanziale delle cause di prelazione. Ne consegue che, ove il pignoramento intrapreso in base ad una cautela di pagamento colpisca beni gravati da cause legittime di prelazione, deve ritenersi applicabile l'art. 498 c.p.c. e l'avviso ivi sancito per i creditori c.d. iscritti, i quali avranno l'onere di intervenire nella procedura per soddisfarsi con preferenza sul ricavato della vendita. Tra i creditori iscritti, vanno annoverati, naturalmente, anche quelli ex art. 2812, commi 1 e 2, c.c. Inoltre, sempre in applicazione dell'art. 498, comma 3, c.p.c. la vendita non potrà disporsi in carenza della prova dell'avvenuta notifica dell'avviso. Problematica appare, invece, la posizione dei creditori privilegiati non iscritti, atteso che è loro inibito, secondo l'attuale tenore dell'art. 499 c.p.c., l'intervento nel processo. Allo stato, tale intervento è dunque da escludersi anche nell'espropriazione iniziata in base a provvedimento cautelare, atteso il richiamo alle norme proprie di questa. Il profilo sub b ). La funzione del sequestro conservativo, quella cioè di conservare la garanzia patrimoniale attraverso un vincolo di inopponibilità qualitativamente identico a quello del pignoramento, impone il coordinamento tra l'iniziativa del creditore sequestrante e quella del pignorante, e ciò prima ed a prescindere dalla sentenza di condanna. Il sequestro conservativo affonda, infatti, le proprie radici nella regola della responsabilità patrimoniale allo stesso modo dell'azione esecutiva, di cui punta ad assicurare la fruttuosità ed in cui si converte ai sensi dell'art. 686, comma 1, c.p.c. Il creditore sequestrante ha dunque lo stesso diritto «di essere soddisfatto sui beni del debitore» del creditore pignorante. Ove, quindi, il pignoramento intrapreso in base a cautela di pagamento colpisca beni già vincolati in virtù di sequestro conservativo, si impone il coinvolgimento del creditore sequestrante nella procedura, ciò che del resto emerge chiaramente dagli artt. 158 disp. att. c.p.c. e 547 c.p.c., oltre che dal chiarissimo tenore dell'art. 686, comma 2, c.p.c. Trova, perciò, applicazione l'art. 499 c.p.c. che prevede l'intervento del sequestrante e la necessità della verifica imposta dal comma 6 della disposizione, con la conseguente alternativa tra l'accantonamento (alle condizioni e nella misura di cui allo stesso comma 6 ed all'art. 510, commi 2 e 3, c.p.c.) e la partecipazione alla distribuzione del ricavato. La dottrina (Conte, passim) lamenta, in proposito, l'assoluta inadeguatezza della scelta di mantenere l'accantonamento per un termine massimo di soli tre anni, poiché presuppone una efficienza della giustizia civile ben lontana dalla realtà. Spirato il termine senza che il giudizio di condanna intrapreso dal sequestrante verso il sequestrato abbia condotto a sentenza, ne consegue infatti una vanificazione del sequestro conservativo che diviene, nella sostanza, inidoneo a realizzare gli stessi scopi cui è destinato. L'impignorabilità. Applicabili sono, infine, tutte le disposizioni che sanciscono l'impignorabilità, sicché qui lo sbarramento all'accesso ad una porzione di patrimonio è insuperabile. L'impignorabilità, sia assoluta che relativa, è infatti, una limitazione che la legge sostanziale pone al principio della responsabilità universale del debitore. In assenza di una lex specialis che compia un diverso bilanciamento di interessi, i soli strumenti dell'ermeneutica non sono perciò in grado di sovvertire tale opzione normativa considerando prevalente l'interesse del beneficiario della cautela su quello del debitore a godere di quegli stessi beni in natura (ratio dell'impignorabilità: così Vaccarella, 349). Siamo cioè in presenza di quell'intreccio della disciplina processuale dell'espropriazione con la disciplina sostanziale sulla quale solo il legislatore avrebbe potuto incidere ponendo disposizioni di favore per il beneficiario della cautela. Ma ciò non è accaduto. Segue. Il limite di compatibilitàBen diversa prospettiva si apre, invece, per quelle disposizioni che aprono l'espropriazione alla partecipazione di creditori diversi dal procedente, e che né hanno intrapreso un sequestro conservativo o un'azione esecutiva sugli stessi beni su cui si è già perfezionato o è in corso un altro pignoramento, né sono titolari di cause legittime di prelazione, sempre su quegli stessi beni. Si tratta segnatamente, ai sensi dell'art. 499 c.p.c. nel testo attualmente vigente, dei creditori provvisti di titolo esecutivo e di quelli tenuti alle scritture contabili di cui all'art. 2214 c.c. L'intervento, solo in quanto tale, non è qui imposto da alcuna ragione di carattere sostanziale: l'art. 2910 c.c. si limita infatti a stabilire che il creditore può far espropriare i beni del debitore nei limiti posti dal codice di rito. In definitiva, perciò, le regole processuali dell'azione espropriativa (sia quanto a presupposti che a svolgimento) sono rimesse, e proprio dalla disciplina sostanziale, alla discrezionalità del legislatore processuale, che ha appunto ritenuto, con l'art. 499 c.p.c., che la pendenza di una espropriazione già da altri intrapresa possa innescare la semplice partecipazione di altri creditori. Neppure può dirsi che l'intervento dei creditori incarni, come pure sostiene un nutrito filone interpretativo (Ziino, 174, che riprende peraltro alcune posizioni già espresse da Tarzia 1984, 153 e 2005, 1, e da Costantino, 24) il diritto di azione garantito dagli artt. 3 e 24 Cost. e, per questa via, l'effettività della tutela giurisdizionale. È vero, infatti, che la Consulta (v. supra, §§ precedenti) afferma che la fase di esecuzione forzata è parte integrante del processo ai fini dell'effettività della tutela, pena l'illusorietà del ricorso alla giurisdizione. Proprio per questo, tuttavia, il principio si applica esclusivamente al rapporto tra il processo di cognizione che ha messo capo alla condanna e quello susseguente di esecuzione, alla cui efficienza è affidata l'effettività della tutela impartita nel giudizio dichiarativo. L'espropriazione è tuttavia fenomeno ben più ampio e frastagliato di un processo esecutivo posto esclusivamente al servizio della esecuzione del provvedimento di condanna pecuniaria. Proprio l'intervento, innescando il concorso di creditori che si legittimano in base ai più diversi presupposti, ne rappresenta il fattore di maggiore complicazione tecnica ed ineffettività della tutela del creditore procedente (anche in base a provvedimento di condanna): realizzando l'eguale trattamento processuale di situazioni radicalmente diverse l'espropriazione del libro III del codice di procedura civile finisce perciò per essere l'antitesi dell'effettività della tutela proprio di chi ha già ottenuto il provvedimento di condanna ed in base ad esso accede al patrimonio del debitore (Delle Donne 2012, 113 e passim). L'esistenza del limite di compatibilità posto dall'art. 669-duodecies c.p.c. diviene allora rilevante, ed impone di chiedersi se proprio l'intervento di queste categorie di creditori contrasti con la funzione di paralisi del periculum che la cautela assolve, e con le regole processuali che la assistono. La risposta sembra essere positiva alla luce della seguente considerazione. La cautela di pagamento è, per definizione, l'unico mezzo per scongiurare, nel caso specifico, il lamentato periculum. L'ordinamento consente oggi alle parti, attraverso l'art. 669-octies c.p.c. (al cui commento si rinvia) di evitare il giudizio di merito, riconoscendo autonomo rilievo all'interesse ad agire in via cautelare. Ottenuto il provvedimento cautelare di condanna pecuniaria l'iter attuativo non può dunque ritenersi condizionato all'esito di un giudizio dichiarativo (neppure) sul diritto cautelato. La disciplina del reclamo (art. 669-terdecies, comma 6, c.p.c., al cui commento si rinvia) non consente, inoltre, la sospensione dell'esecuzione del provvedimento se non in base all'allegazione di motivi sopravvenuti che potrebbero comportare un grave danno alla controparte, sicché l'unica sede deputata alla sospensione è quella del riesame. Se, poi, la cautela è concessa solo in sede di reclamo, nessuna sospensione appare ipotizzabile. Ma l'apertura dell'attuazione ex art. 669-duodecies c.p.c. ad altri creditori comporterebbe un risultato nella sostanza assimilabile proprio alla sospensione dell'esecuzione cautelare sub specie di attribuzione del ricavato al beneficiario. L'esecutato e gli altri creditori possono infatti, ai sensi dell'art. 512 c.p.c., contestarne le ragioni aprendo una parentesi di accertamento da parte del giudice dell'esecuzione. La decisione, assunta con ordinanza, è impugnabile con l'opposizione agli atti esecutivi dell'art. 617 c.p.c., che inaugura un giudizio vero e proprio sulle contestazioni all'interno del quale è possibile la sospensione della distribuzione delle somme in riferimento a tutti i creditori, se si profila la possibilità di una rimodulazione generale del riparto. Ne consegue che l'attuazione, che secondo la sua lex specialis è svincolata dal giudizio di merito sul credito tutelato in via cautelare ed entro certi limiti dallo stesso riesame del provvedimento cautelare finisce per essere subordinata all'esito dell'accertamento di un altro credito (exartt. 512 e 617 c.p.c.) che, per essere «concorrente» (criterio meramente processuale) con quello cautelare, con esso ha il solo nesso estrinseco e casuale di riguardare lo stesso debitore. L'intervento generalizzato di creditori non privilegiati né sequestranti è dunque incompatibile con la fase di attuazione di una cautela di condanna pecuniaria e con la logica stessa della tutela cautelare emergente dagli artt. 669 bis – 669-terdecies c.p.c. Queste premesse hanno precise ricadute sotto il profilo del valore da attribuire al limite di compatibilità. Poiché l'intervento dei creditori non privilegiati né sequestranti ha una fonte solo processuale, cioè l'art. 499 c.p.c.in parte qua, e al contempo si rivela inconciliabile sia con la ratio cautelare dell'ordine di pagamento che con le regole processuali che lo assistono, il limite di compatibilità posto da un'altra disposizione processuale per di più speciale, l'art. 669-duodecies c.p.c., appare sufficiente ad inibirne l'applicazione nel contesto di una espropriazione intrapresa dal beneficiario di una cautela. In sintesi: sono inapplicabili le disposizioni sulle formalità preliminari all'esecuzione degli artt. 479-482 c.p.c., che peraltro non sono comprese nel richiamo operato dall'art. 669-duodecies c.p.c.: non appare, dunque, necessaria né la notifica del provvedimento munito della formula esecutiva, né quella del precetto; neppure è imposto il rispetto del termine dilatorio dell'art. 482 c.p.c.; sotto il profilo dei particolari adattamenti necessari all'applicazione della normativa richiamata dall'art. 669-duodecies c.p.c., può poi rilevarsi come non sarebbe necessario procedere alla vendita in presenza, ad esempio, di un pagamento all'ufficiale giudiziario, circostanza peraltro ammessa dall'art. 494 c.p.c. anche per l'esecuzione forzata; sono altresì inapplicabili altre norme che, comprese nel richiamo agli artt. 491 ss. c.p.c., preparano e consentono il concorso dei creditori. È il caso del comma 3 dell'art. 494 c.p.c., che prevede il deposito di denaro nelle mani dell'ufficiale giudiziario quale oggetto di pignoramento, o dell'art. 495 c.p.c., che prevede la conversione del pignoramento di beni in pignoramento di somme nel corso della procedura. È evidente, infatti, che la presenza di denaro renderebbe superflua la restante procedura espropriativa se esso coprisse (come del resto le stesse norme testualmente prevedono) l'ammontare del (solo) credito cautelato. È verosimile supporre che per la conversione il debitore debba offrire una somma corrispondente al solo credito cautelato, sempre che però non si debba considerare l'intervento (necessario, come già rilevato) di creditori privilegiati o sequestranti. Applicabili appaiono invece l'istituto della riduzione del pignoramento di cui all'art. 496 c.p.c., e quello della cessazione della relativa efficacia, di cui all'art. 497 c.p.c. Benché la disciplina cautelare non preveda alcun limite di questo genere per l'attuazione delle misure diverse dai sequestri, il termine di cui all'art. 497 c.p.c. sembra, infatti, coerente con il carattere urgente del provvedimento e con l'interesse del creditore ad ottenere quanto prima soddisfazione. Al contempo, appare funzionale anche alla tutela degli interessi del debitore, impedendo che sul suo patrimonio gravi sine die un vincolo di inopponibilità, secondo una ratio assimilabile a quella dell'art. 675 c.p.c.; inapplicabili si rivelano, altresì, le disposizioni generali contenute negli artt. 499 («Intervento», ad esclusione, come più volte rilevato, che per il riferimento ai creditori privilegiati ed a quelli sequestranti), 500 («Effetti dell'intervento»), 510 («Distribuzione della somma ricavata»), 511 («Domande di sostituzione») e 512 c.p.c. («Risoluzione delle controversie»). Con particolare riguardo all'espropriazione mobiliare, sono inapplicabili gli artt. 525 («Condizione e tempo dell'intervento»), 526 («Facoltà dei creditori intervenuti»), 527 c.p.c. («Diritto dei creditori intervenuti alla distribuzione», articolo abrogato dalla l. n. 80/2005 ma il cui contenuto è confluito, come già rilevato, nella nuova formulazione dell'art. 499 c.p.c.), 528 («Intervento tardivo»), 541 («Distribuzione amichevole»), e 542 c.p.c. («Distribuzione giudiziale»). Con particolare riguardo all'espropriazione presso terzi, è inapplicabile l'art. 551 c.p.c. («Intervento»). Con particolare riguardo a quella immobiliare, sono infine inapplicabili gli artt. 563 («Condizioni e tempo dell'intervento», articolo abrogato dalla l. n. 80/2005, essendo oggi la disciplina generale dell'intervento contenuta nel nuovo art. 499 c.p.c.), 564 («Facoltà dei creditori intervenuti»), 565 («Intervento tardivo»), 596 («Formazione del progetto di distribuzione») 597 («Mancata comparizione»), e 598 c.p.c. («Approvazione del progetto»). L'art. 669-duodecies c.p.c. va allora letto nel senso che il creditore cautelare può, in assenza di pagamento da parte del debitore, far pignorare i suoi beni al fine di soddisfarsi sul ricavato della loro vendita forzata. Gli atti di disposizione eventualmente effettuati dal debitore nelle more tra il pignoramento e la vendita saranno perciò inopponibili al creditore cautelato (e solo a lui, salva l'estensione ai creditori intervenuti perché privilegiati), risolvendosi il conflitto con i diritti dei terzi secondo le regole ordinarie previste dagli artt. 491 c.p.c. e 2912 ss. c.c., come accade ex art. 2906 c.c. per il sequestro conservativo. Segue. Le parti ed i terzi: quali strumenti di tutela?Anche la tutela delle parti e dei terzi nei confronti dell'attuazione dei provvedimenti di condanna pecuniaria va collocata nel contesto del rinvio che l'art. 669-duodecies c.p.c. opera agli artt. 491 ss. c.p.c. (sia pure solo in quanto compatibili). Proprio tale rinvio complica il quadro di questa procedura esecutiva rispetto a quello delle altre cautele «anticipatorie» perché vi innesta un autonomo subprocedimento, quello di pignoramento/vendita forzata, in cui si intrecciano disciplina sostanziale e processuale e sono disciplinati effetti nei confronti dei terzi. Questo subprocedimento, pur essendo strumentale a realizzare la pretesa del creditore cautelare, si caratterizza quindi per avere vita e problemi propri, non afferenti direttamente e solamente alla verifica dell'attuale persistenza dell'inadempimento volontario e alla determinazione delle modalità di quello coatto, come accade nelle altre cautele «anticipatorie». Si ripropone, perciò, anche per gli artt. 615,617 e 619 c.p.c., compresi nel rinvio agli artt. 491 ss. c.p.c. e recanti la disciplina dello spettro di difese che l'esecutato ed i terzi a qualunque titolo coinvolti nella procedura possono svolgere, la necessità di distinguere: a) da un lato, i presupposti di sistema che allargano la prospettiva all'applicazione anche di norme non richiamate, e b) dall'altro, il limite di compatibilità con il contesto di riferimento, che invece la restringe. Il profilo sub a ). Tra i presupposti di sistema che vengono in immediato rilievo, vi è senz'altro quello del giudice dell'esecuzione, che sovrintende all'espropriazione in base a cautela di pagamento, ed i cui criteri di competenza territoriale si intrecciano con l'individuazione degli ausiliari che ne sono protagonisti. Il profilo sub b ). Il contesto in cui collocare il tema della tutela delle parti e dei terzi nei confronti dell'espropriazione forzata dell'art. 669-duodecies c.p.c. è, invece, quello del processo cautelare disegnato dagli artt. 669bis-669-terdecies c.p.c. Perciò nella verifica concreta di quali siano le difese spendibili ed i mezzi destinati ad ospitarle occorre anzitutto valutare se il processo cautelare non sia strutturato in modo tale da imporre regole diverse cui occorre fare capo. Partendo dall'applicabilità dell'art. 615 c.p.c. e dell'opposizione all'esecuzione che codifica, ci si avvede subito (Vullo, 168; Saletti 1992, 460) che l'àmbito di applicazione si profila come residuale in virtù della presenza di specifiche sedi, cautelari o di merito, idonee ad accogliere lo spettro di difese spendibili. Così, ad esempio, le cause sopravvenute di inefficacia della misura andranno rilevate ai sensi dell'art. 669-novies c.p.c. (in parte diversa è l'opinione di Merlin, 427, per la quale l'opposizione all'esecuzione sarebbe esperibile ove, venuta in essere una causa di inefficacia della misura, essa non sia stata ancora dichiarata ai sensi dell'art. 669-novies c.p.c.). Gli errores in procedendo e/o in iudicando che inficiano il provvedimento cautelare alla radice (e che lo rendono inidoneo a fondare l'esecuzione forzata) trovano, secondo un'impostazione generale che si rinviene anche nei rapporti tra titolo esecutivo giudiziale ed opposizione ex art. 615 c.p.c., nella sede deputata al riesame la loro fisiologica collocazione, e vanno perciò dedotti con il reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. (Merlin, 426; Vullo, 169; per l'affermazione del principio nei rapporti tra sentenza e giudizio di impugnazione, v., a titolo meramente esemplificativo, Furno, 1942; Garbagnati 1976, 1068; Vaccarella, 243; per il rilievo che, ove il fatto estintivo, modificativo o impeditivo sia sorto durante il termine per l'impugnazione, escluso il ricorso per cassazione, questa concorra con l'opposizione all'esecuzione, Oriani, 585). L'inesistenza del diritto a cautela del quale fu concesso il provvedimento è oggetto del giudizio di merito. I fatti sopravvenuti che incidono, elidendolo, sul diritto di procedere ad esecuzione forzata (ad esempio, il pagamento) esulano invece dalle sedi dichiarative cautelari perché rappresentano il tipico thema decidendum dell'esecuzione forzata. E poiché quest'ultima si svolge davanti al giudice dell'esecuzione che in quanto tale ha predeterminati e limitati poteri di valutazione del merito di questa e di ogni altra questione, non può che dedursene l'utilizzabilità dell'opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c. Va qui rilevato che il pagamento può configurarsi sia quale fatto estintivo del diritto cautelato sia quale fatto estintivo del diritto di procedere ad esecuzione forzata. Applicando lo schema dei rapporti tra allegazione delle sopravvenienze in sede impugnatoria (o di modifica/revoca, che secondo la lex specialis degli artt. 669-decies e 669-terdecies c.p.c., si pongono in successione) ed allegazione delle stesse in sede di opposizione all'esecuzione, può dedursene che: a) se il pagamento sopravviene in tempo utile perché si alleghi in sede di reclamo, va ivi allegato quale fatto estintivo del diritto cautelato e perciò causa di revoca della cautela (Vullo, 175); b) se invece sopravviene in corso di esecuzione e spirati i termini per il reclamo, occorre allegarlo in sede di opposizione all'esecuzione. Applicando, inoltre, la sistematica della c.d. inesistenza del provvedimento (derivante dalla mancata sottoscrizione del giudice, ma anche dalle altre ipotesi enucleate dalla giurisprudenza) anche al nostro contesto, occorre aggiungere che tale vizio, ove non allegato in sede impugnatoria, può indifferentemente farsi valere in ogni sede in cui venga in rilievo il profilo dell'(in)esistenza del provvedimento, e dunque anche in sede di opposizione all'esecuzione. Restano ancora come appartenenti all'(astratta) area di operatività di quest'ultima l'impignorabilità dei beni (Merlin, 426) e, secondo una dottrina (Andolina, 65) la eccessività del cumulo dei mezzi di espropriazione. Si tratta stavolta di due profili non afferenti al thema decidendum tipico dell'esecuzione forzata, ma al subprocedimento di pignoramento-vendita in cui questa particolare esecuzione forzata si risolve. In entrambi i casi, è perciò impossibile rintracciare una sede ad hoc interna al processo cautelare (reclamo, revoca-modifica, inefficacia) o al giudizio sul diritto cautelato, dovendosi senz'altro attingere al bacino di disciplina del libro III del codice di procedura civile; il che, applicato al profilo dell'eccessività del cumulo dei mezzi di espropriazione, chiama in causa l'art. 483 c.p.c. Ecco allora un'altra disposizione che, insieme a quella identificativa del giudice dell'esecuzione, pur non essendo compresa nel richiamo operato dall'art. 669-duodecies c.p.c. è da ritenersi applicabile per ragioni di funzionalità di un sistema che, identificando l'esecuzione coatta con l'espropriazione, impone l'adozione di ogni contromisura in grado, come quella qui in esame, di correggerne eventuali eccessi o squilibri. Per l'impignorabilità dei beni il discorso è in parte diverso. Qui, a differenza che nei sequestri (giudiziario e conservativo correlato ad una azione revocatoria ex art. 2905, comma 2, c.c. in riferimento al bene individuato, o conservativo in riferimento a tutti i beni illegittimamente/erroneamente colpiti dal vincolo) la doglianza dell'esecutato che chieda la esclusione del bene dal vincolo in virtù della sua particolare destinazione non ridonda a carico dell'efficacia della misura e non consente perciò l'utilizzo dello schema dell'inefficacia. Ne consegue che l'opposizione all'esecuzione ex art. 615, comma 2 c.p.c. appare l'unica sede in cui queste difese possono essere spese. Queste considerazioni valgono anche per l'opposizioneexart. 619 c.p.c., il cui thema decidendum è strettamente collegato al subprocedimento pignoramento-vendita ed appare pertanto privo di una sedes di elezione all'interno del procedimento cautelare o del giudizio di merito. Il catalogo delle parentesi di cognizione del processo esecutivo comprese nel richiamo agli artt. 491 ss. c.p.c. si conclude con l'opposizione agli atti prevista dall'art. 617 c.p.c. Essa assurge nella realtà applicativa dei processi esecutivi del libro III del codice di procedura civile a generale mezzo di controllo della regolarità formale della procedura e della congruità ed opportunità delle scelte effettuate dal giudice e trasfuse in atti del processo, da parte di chiunque vi abbia interesse. Nel contesto dell'attuazione cautelare la regolarità della procedura, intesa come corrispondenza al modello descritto nelle norme che la disciplinano, assume specifico rilievo proprio in riferimento al subprocedimento di pignoramento/vendita, che ha una sua propria autonomia e coerenza interna in ragione dei molti profili di diritto sostanziale che involge sia sul piano oggettivo che soggettivo. L'opposizione dell'art. 617 c.p.c. si rivela allora l'unica sede nella quale questi profili estranei alle sedi «dichiarative» cautelari (reclamo, modifica-revoca, inefficacia) e di merito (esistenza del diritto cautelato) ma tipici della sola espropriazione, possono essere affrontati e risolti. Del pari, deve ritenersi possibile la sospensione della procedura ai sensi dell'art. 618, comma 2, c.p.c. L'attuazione delle cautele recanti condanna a consegna, rilascio, fare o non fare: il ruolo del giudice che le ha rese.La disciplina dell'attuazione dei provvedimenti cautelari recanti ordini di fare, non fare, consegna o rilascio, viene autonomamente disegnata dall'art. 669-duodecies c.p.c., il quale ne rimette la gestione globale al «giudice che ha emanato il provvedimento cautelare». Si tratta, perciò, di comprendere: a) se la disposizione si riferisca all'ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha reso la cautela, o invece al magistrato che ha concretamente provveduto; e b) se il reclamo, che devolve ad altro giudice la decisione, incida sulla paternità della cautela e dunque anche della sua attuazione. Il profilo sub a ). In riferimento al primo problema, la dottrina è apparsa divisa. Alcuni autori (Rapisarda Sassoon 1993, 542) hanno sostenuto che l'art. 669-duodecies c.p.c. sia norma sulla competenza, non potendosi fare dell'attuazione un prolungamento della fase di concessione del provvedimento. Altra opinione (Proto Pisani 1991, passim; Merlin 426; Vullo, 188) ha, invece, evidenziato i vantaggi che deriverebbero dall'identificazione tra il magistrato che ha reso il provvedimento e quello dell'attuazione, soprattutto in ragione dell'eventualità, tutt'altro che remota, che già in sede di concessione vengano fissate le modalità di attuazione. C'è, poi, chi opta (Montesano, Arieta 475; Dini, Mammone, 686) per la competenza del magistrato che ha disposto la cautela solo fino a quando non venga nominato il giudice istruttore, passando poi l'attuazione al controllo di quest'ultimo. Con la precisazione, però, che se l'attuazione è già iniziata davanti al giudice che ha concesso il provvedimento ante causam, essa rimane radicata presso di lui anche dopo la nomina dell'istruttore del giudizio di merito. Infine, vi è anche chi (Auletta 1998, passim) ritiene perfettamente legittimi entrami i capi dell'alternativa (per una prospettiva d'insieme, v. anche Giordano, 352). Intervenuta sul tema, la Cassazione (Cass. III, n.443/2005) ha avuto modo di precisare che secondo la disciplina attualmente in vigore l'attuazione di tutti i provvedimenti cautelari, ivi compresi i provvedimenti possessori e d'urgenza, avviene ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c. In particolare, il riferimento della disposizione al «giudice che ha emanato il provvedimento cautelare» va interpretato come riferibile non al giudice persona fisica, ma all'ufficio giudiziario, posto che la disposizione stessa si preoccupa di fissare soltanto la competenza in relazione all'attuazione del provvedimento cautelare, che costituisce solo una mera fase del procedimento cautelare demandato ad un ufficio. Nel caso, quindi, in cui il provvedimento cautelare e quello determinativo delle concrete modalità di attuazione siano stati emanati da magistrati diversi ma appartenenti allo stesso ufficio giudiziario, non vi è stata alcuna violazione dei criteri legali di competenza, ma solo una mera distribuzione degli affari all'interno dell'Ufficio giudiziario (in applicazione di questo principio, la Corte ha pertanto ritenuto inammissibile il ricorso per regolamento di competenza proposto proprio allo scopo di contestare la «competenza» del giudice investito della determinazione della modalità di attuazione; l'inammissibilità del regolamento di competenza avverso il provvedimento reso in sede di attuazione era già stata affermata anche da Cass. III, n. 6485/2004). Il profilo sub b ). L'altro punto di vista da cui guardare al «giudice che ha emanato il provvedimento cautelare» è legato all'eventualità che la pronuncia sia reclamata. Si impone, infatti, la verifica se proprio la devoluzione ad altro giudice consenta di considerare quest'ultimo, e non più quello di prime cure, come autore della decisione e dunque competente anche a gestirne l'attuazione. La soluzione di questo problema presuppone, infatti, quella in ordine alla natura del reclamo. Se si considera questa impugnazione come novum iudicium (v. l'ampia panoramica offerta da Corsini 132, da Lombardi 2797, e da Capponi 1994, 2005; v., altresì, sul reclamo come novum iudicium, Vaccarella 1995, 527) con carattere devolutivo e portata sostitutiva della prima pronuncia, come oggi indica l'art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia), si deve concludere che se la misura è concessa o modificata in sede di reclamo sarà il relativo collegio a fissarne anche le modalità di attuazione e a gestirne le dinamiche. Ed è proprio sulla base della ricostruzione del reclamo quale novum iudicium che parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto che la competenza a gestire l'attuazione appartenga al giudice del reclamo che ha reso la cautela (così Trib. Perugia 23 ottobre 1998; Trib. Messina 9 aprile 1998; Trib. Padova 22 novembre 1996; Pret. Latina, sez. dist. Gaeta, 14 gennaio 1999). Ed è a recepimento di un filone interpretativo sempre più consistente (Trib. Roma 13 dicembre 2004; Trib. Roma 9 marzo 2004; Trib. Catania 25 febbraio 2003; Trib. Belluno 22 ottobre 2002; Trib. Roma 7 luglio 2000; Trib. Modena 16 giugno 1999; Trib. Roma 13 maggio 1999; Trib. Napoli 30 aprile 1997) che la l. n. 80/2005, modificando l'art. 669-terdecies c.p.c. ha disegnato il reclamo come novum iudicium aperto anche a nuove prove ed ha escluso in ogni caso la rimessione al primo giudice. La riflessione sul giudice dell'attuazione ha, tuttavia, percorso anche altre strade. Un filone della giurisprudenza di merito (Pret. Trani, sez. dist. Molfetta, 5 dicembre 1995; Trib. Roma 24 settembre 1996; Trib. Lucca 2 ottobre 2000; Trib. Venezia 5 luglio 1997; Trib. S.M. Capua Vetere 12 dicembre 2002; Trib. Napoli 11 febbraio 2003; Trib. Napoli 5 febbraio 2003; Trib. Ravenna 25 luglio 2006, tutte in relazione a provvedimenti resi proprio dal giudice del reclamo) ha adottato, infatti, una chiave di lettura diversa. Questa giurisprudenza ha, in particolare, valorizzato il ruolo del giudice di prime cure nella gestione globale della vicenda cautelare, in base all'interpretazione sistematica delle norme sulla competenza cautelare. Ha cioè ritenuto che il legislatore, concentrando le principali vicende della vita del provvedimento come la modifica/revoca ex art. 669-decies c.p.c. (al cui commento si rinvia) e l'inefficacia ex art. 669-novies c.p.c. (al cui commento si rinvia) nel giudice di prime cure, avrebbe individuato proprio in costui il giudice naturale della cautela, competente in quanto tale anche a gestirne l'attuazione (in particolare, in fattispecie in cui si trattava di dare piena esecuzione ad un provvedimento cautelare, non ottemperato, di nullità di licenziamento con reintegrazione, v. Trib. Ravenna 25 luglio 2006, cit., ha statuito nel senso che è competente per l'attuazione delle misure cautelari il giudice che ha emanato il provvedimento e non il giudice del reclamo, essendo l'unità della giurisdizione cautelare intesa come concentrazione della cognizione e dell'esecuzione in capo allo stesso giudice di prime cure). Le soluzioni evocate, pur nella loro diversità, mostrano un denominatore comune: la lettura del «giudice che ha emanato il provvedimento cautelare» in termini astratti, cioè sotto il profilo formale del giudice che ha pronunciato sulla domanda di cautela per primo (prospettiva giurisprudenziale del giudice naturale della cautela) o per ultimo (prospettiva di chi attribuisce sempre la competenza al giudice del reclamo). Esiste, tuttavia, un altro possibile angolo di visuale, e cioè quello che privilegia la funzione dell'attuazione cautelare: la (migliore possibile) realizzazione del contenuto precettivo della cautela. Si tratta, segnatamente, del punto di vista che storicamente caratterizza l'esperienza del giudizio di ottemperanza alle sentenze del giudice amministrativo. L'art. 113, comma 1, c.p.a. prevede, infatti, che i ricorsi diretti ad ottenere l'adempimento dell'obbligo dell'amministrazione di conformarsi al decisum degli organi di giustizia amministrativa siano di competenza del Consiglio di Stato o del T.A.R. territorialmente competente secondo l'organo che ha emesso la decisione. La competenza resta, poi, del T.A.R. non solo quando ha emesso la decisione, ma anche quando questa sia confermata dal Consiglio di Stato. Questo dato normativo, che ha recepito una consolidata lettura pretoria della giurisprudenza amministrativa, ha confermato che ratio della disciplina è affidare l'esecuzione allo stesso giudice che, in qualità di autore della sentenza da eseguire, risulta il più idoneo ad interpretarla e a darne applicazione (v., amplius, sui termini del problema, Delle Donne 2012, 1243). Queste conclusioni, nate e consolidatesi nell'esperienza dell'ottemperanza alle sentenze (passate in giudicato) sono state poi estese prima in via pretoria e poi dalla legge anche all'ottemperanza (alle sentenze di primo grado esecutive e) alle ordinanze cautelari (art. 59 c.p.a.). L'esportabilità di questa soluzione interpretativa nel contesto dell'attuazione cautelare degli ordini di facere-dare è resa plausibile dalle similitudini strutturali tra il giudizio di ottemperanza e quello esecutivo disegnato dall'art. 669-duodecies c.p.c.in parte qua, entrambi caratterizzati da comune filiazione con l' actio iudicati (l'efficace illustrazione del fenomeno si deve a Sassani 1997, passim). In particolare, al giudice che ha reso la cautela il legislatore del 1990 attribuisce la gestione globale della relativa esecuzione, e dunque ogni profilo afferente non solo all'interpretazione del dictum ed all'esistenza attuale dell'inadempimento (o inesatto adempimento) volontario, ma anche ad ogni difficoltà e contestazione insorte nel corso del procedimento, proprio come accade per il giudizio di ottemperanza. Sicché, considerato che comunque il legislatore ha ripudiato, a monte, la prospettiva (del libro III del codice di procedura civile) della competenza radicata nel luogo ove l'esecuzione è destinata ad avvenire, delle due soluzioni in astratto prospettabili quella che identifica il giudice dell'attuazione con lo stesso magistrato che ha reso la cautela sembra essere la più coerente con gli ampi poteri riconosciuti a quest'ultimo nel contesto dell'attuazione disegnata dall'art. 669-duodecies c.p.c.in parte qua. Dato di partenza dovrebbe, perciò, essere quello dell'identità tra il giudice (singolo o collegiale) che ha reso la misura e quello chiamato a sovrintenderne l'attuazione, occorrendo poi verificare di volta in volta l'effettiva, e non solo formale, paternità del dictum. Così, se la cautela resa in primo grado è oggetto di reclamo ed ivi la domanda è rigettata per ragioni di rito o di merito, il giudice che per ultimo ha esaminato la domanda è quello del reclamo. Ad onta della natura devolutiva e sostitutiva del rimedio, l'autore sostanziale del provvedimento da eseguire resta però, dal punto di vista dell'art. 669-duodecies c.p.c., sempre il giudice di primo grado, ed a lui spetta perciò anche sovrintendere all'attuazione. Con la precisazione che, se si tratta di cautele il cui contenuto precettivo consiste in ordini di facere-dare-pagare, il rigetto del reclamo anche per motivi di merito non pone problemi di mutamento della reale portata del dictum, in quanto essa è tutta racchiusa nel dispositivo, e non ha bisogno di essere ricostruita attraverso la lettura integrata dai motivi della decisione. Non occorre dunque, in tal caso, a differenza di quanto accade per le cautele a contenuto complesso, indagare sulla possibilità che il collegio, rigettando il reclamo, abbia adottato altra motivazione incidendo comunque sul dictum da eseguire. Così, ancora, se la cautela è resa per la prima volta in sede di reclamo, è il medesimo collegio che deve sovrintendere all'attuazione (v., in tal senso, Trib. Piacenza 15 febbraio 2011; Trib. Parma 2 aprile 2005; Trib. Lucca 2 ottobre 2000; App. Milano 10 novembre 2005, scondo cui la competenza a disporre le modalità di attuazione della misura cautelare concessa in sede di reclamo avente ad oggetto obblighi di fare-non fare spetta alla corte d'appello in composizione collegiale). Alla giurisprudenza di merito (Trib. Piacenza 15 febbraio 2011, cit.) si deve anche l'aver chiarito che tale soluzione non è solo la più aderente al dato normativo («giudice che ha emanato il provvedimento» è l'organo che ha emesso la pronuncia che in concreto reca il contenuto precettivo che si vuole portare ad esecuzione e non quello che ha eventualmente confermato tale pronuncia, senza modificarlo in alcun modo). Essa, infatti, si mostra anche più coerente con la ratio dell'art. 669-duodecies c.p.c.in parte qua che, in ragione delle esigenze di celerità e snellezza cui è ispirata la stessa procedura sommaria, vuole garantire tali esigenze anche (ed a maggior ragione) per la fase esecutiva della medesima procedura. E tale fine viene perseguito proprio affidando questa fase al giudice che già conosce bene il contenuto dell'ordinanza da attuare, le sue motivazioni e le problematiche sottese e che è, quindi, in grado di darvi esecuzione con maggior rapidità ed efficacia (in tal senso, v., altresì, Trib. Roma 11 luglio 2016, il quale ha fissato le modalità di attuazione di un provvedimento cautelare contro una pubblica amministrazione, nella specie il MIUR, che esso stesso aveva emesso dopo il rigetto dell'istanza cautelare in prime cure). Anche la più recente giurisprudenza di legittimità si sofferma sulla necessità che la fase di attuazione delle cautele de quibus sia rimessa al giudice che le ha rese (v., in tal senso, Cass. III, n. 13175/2021). La Suprema Corte, pronunciatasi in riferimento alla fase di attuazione di un provvedimento possessorio, ha statuito, infatti, che essa dà luogo ad una ulteriore fase del procedimento possessorio, necessariamente devoluta, per imprescindibili esigenze di concentrazione ed effettività della peculiare tutela cautelare del caso e quindi in base ad inderogabile principio di ordine pubblico processuale, alla competenza dello stesso giudice che ha emesso il provvedimento e non già alla serie procedimentale della esecuzione forzata. Ne consegue, perciò, che non solo è superflua, ma anche priva di fondamento normativo la notificazione del precetto ed è preclusa la proposizione del ricorso ex art. 612 c.p.c. Così la legittimità dell'attuazione forzosa ex art. 669-duodecies c.p.c., può essere contestata solo nell'àmbito dello stesso giudizio possessorio e non invece con l'opposizione all'esecuzione od agli atti esecutivi. Pertanto, tutte le deduzioni svolte da chi la subisce hanno la natura di eccezioni che, inserendosi nel giudizio di merito, sono idonee soltanto a sollecitare l'esercizio dei poteri di modifica e/o di integrazione o revoca del provvedimento impugnato, spettanti al giudice del merito possessorio e non ad altri (in generale, v. già Cass. III, n. 8581/1994; Cass. III, n. 6621/2008). Le «modalità di attuazione»Al «giudice che ha emanato il provvedimento cautelare» l'art. 669-duodecies c.p.c. affida, tra l'altro, la fissazione delle modalità di attuazione della cautela. Che siano stabilite a seguito di apposito ricorso che inaugura la fase di esecuzione forzata oppure che siano già fissate nel provvedimento concessivo, esse sono sempre frutto di valutazioni giudiziali non condizionate dal contenuto delle istanze di parte. A differenza di quanto accade nella determinazione del contenuto precettivo del provvedimento, ove opera il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato dell'art. 112 c.p.c., qui i poteri giudiziali sono discrezionali e solo in senso lato orientati dalle indicazioni di parte (v., ad esempio, Trib. Arezzo 8 maggio 2015, che ha statuito che l'attuazione cautelare è fase la cui gestione è di competenza del giudice che ha reso la cautela, restando estranea l'applicabilità della disciplina che il libro III del c.p.c. detta per l'esecuzione delle sentenze di condanna ad un facere-dare; sulla diversità tra esecuzione forzata del libro III del c.p.c. ed attuazione cautelare v. anche; Cass. III, n. 5010/2008; v., altresì, Trib. Roma 3 dicembre 2018; Pret. Salerno, sez. dist. Eboli, 23 novembre 1993; Pret. Salerno 6 giugno 1991; Pret. Parma 13 febbraio 1992, che ritiene applicabili, in via analogica, le disposizioni dell'art. 612 c.p.c.; Pret. Brindisi sez. dist. Mesagne, 14 gennaio 1999; Trib. Perugia 31 luglio 1999; Trib. Torre Annunziata 10 novembre 1999; Pret. Siracusa 9 novembre 1994; Trib. Perugia 13 giugno 1997; Trib. Roma 6 novembre 2000; singolare, e sorprendente, Trib. Padova 22 novembre 1996, che propone una soluzione articolata in questi termini: l'attuazione avviene nelle forme dell'esecuzione in forma specifica, per cui spetta al pretore emanare i relativi provvedimenti, seppure sotto il controllo del giudice dell'attuazione. La questione, nel senso indicato nel testo, registra anche alcuni significativi interventi della Corte di Cassazione: v. Cass. III, n. 80/1996; Cass. III, n. 5672/1997; Cass. III, n. 481/2003). Si è, in particolare, deciso (Trib. Milano 6 febbraio 2017), in tema di esecuzione di un interdetto possessorio, che mentre la sentenza resa al termine della fase di merito del giudizio possessorio va posta in esecuzione nelle forme dell'art. 612 c.p.c., l'ordinanza interdittale emessa ai sensi dell'art. 703, commi 2 e 3, c.p.c. va attuata nelle forme di cui all'art. 669-duodecies c.p.c., costituendo l'attuazione di un provvedimento possessorio una fase dell'unitario procedimento cautelare, del tutto autonoma dal processo esecutivo disciplinato nel libro III del codice di rito, che invece è manifestazione di tutela ordinaria. Osserva il giudicante, in proposito, che, mentre nell'esecuzione di un ordine di fare il giudice deve conformarsi integralmente a quanto disposto nel titolo esecutivo, in forza dell'art. 669-duodecies c.p.c., «il giudice dell'attuazione cautelare «dà con ordinanza i provvedimenti opportuni», di tal che quest'ultimo ha un potere più pregnante di ‘calibrare' l'esecuzione del provvedimento cautelare al caso di specie, potere che, invece, manca al giudice dell'esecuzione, stante l'intangibilità da parte sua del titolo esecutivo». Questa giurisprudenza mette in luce, insomma, che in assenza di uno specifico dato normativo in tal senso, al provvedimento possessorio si potrebbe attribuire valore di titolo esecutivo solo in via interpretativa. Opzione che, però, si ritiene di non condividere. Recentemente la giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 13175/2021) è tornata sulla differenza intrinseca tra esecuzione forzata ed attuazione cautelare. Anzitutto gli Ermellini (Cass, III, n. 27392/2022) hanno statuito che” Poiché l'interdetto possessorio, a differenza della sentenza di condanna resa all'esito della successiva fase di merito, non è mai suscettibile di esecuzione, ma soltanto di attuazione ai sensi dell'art. 669 duodecies c.p.c., richiamato dal capoverso dell'art. 703 c.p.c., sono inammissibili sia l'attività del beneficiario volta a porlo in attuazione nelle forme previste per l'esecuzione e consistente nell'intimazione di un precetto non previsto dalla legge o dal giudice, sia il dispiegamento di contestazioni mediante opposizione a quest'ultimo, l'una e l'altra in violazione della competenza funzionale ed inderogabile del giudice che ha emanato il detto provvedimento possessorio, a questi dovendo rivolgersi il destinatario della notifica di quell'inammissibile precetto per contestare il diritto di conseguire l'attuazione del provvedimento interdittale”. Ma già in precedenza, chiamata a pronunciarsi proprio sulle modalità di esecuzione di un ordine di reintegra nel possesso, la Corte ha ribaditoaveva affermato che tali modalità sono esclusivamente quelle dell'art. 669- duodeciesc.p.c., che sono ben diverse da quelle dell'esecuzione forzata disciplinata dal libro III del codice di rito. La concreta realizzazione del comando impartito dal provvedimento possessorio si deve – ha chiarito la Suprema Corte – svolgere nell'ambito dello stesso giudizio e con le sole forme stabilite dal giudice che lo ha emesso, onde salvaguardare le peculiari esigenze cautelari e conservative che l'hanno determinato e che sono state valutate appunto da quel giudice ed a lui e soltanto a lui sono riservate. È proprio alla luce di queste esigenze che, per la Corte, «va data continuità al consolidato orientamento secondo cui i provvedimenti interinali di reintegrazione hanno il carattere della esecutività, ma non danno luogo ad esecuzione forzata, atteso che, con essi, non si realizza un'alternativa tra adempimento spontaneo ed esecuzione forzata, ma un fenomeno intrinsecamente coattivo di realizzazione forzosa che si svolge ex officio iudicis (Cass. III, n. 8581/1994; Cass. III, n. 481/2003; Cass. III, n. 7922/2007; Cass. III, n. 5010/2008; Cass. III, n. 6621/2008): la loro attuazione, pertanto, deve avvenire senza l'osservanza delle formalità dell'ordinario processo di esecuzione e, quindi, senza preventiva notificazione del precetto (con la conseguenza che le spese a questo relative, ove intimato, non sono neppure ripetibili; v., per tutte, Cass. III, n. 2460/1979; Cass. III, n. 407/2006)». Pertanto, «la forzosa realizzazione del comando contenuto nel provvedimento d'urgenza in materia possessoria dà luogo ad una ulteriore fase del procedimento possessorio, necessariamente devoluta, per imprescindibili esigenze di concentrazione ed effettività della peculiare tutela cautelare del caso e quindi in base ad inderogabile principio di ordine pubblico processuale, alla competenza dello stesso giudice che ha emesso il provvedimento e non già alla serie procedimentale della esecuzione forzata: è, dunque, non solo superflua, ma priva di fondamento normativo la notificazione del precetto ed è preclusa la proposizione del ricorso ex art. 612 c.p.c., ferma restando la facoltà per il giudice del merito di qualificare detto ricorso come semplice istanza al giudice del merito possessorio, ove però ne ricorrano tutti i presupposti». Queste premesse di metodo hanno precise ricadute sotto il profilo delle modalità di contestazione della legittimità della procedura. E, infatti, i magistrati di Piazza Cavour precisano che «la legittimità dell'attuazione forzosa ex art. 669-duodecies c.p.c., può essere contestata solo nell'àmbito dello stesso giudizio possessorio e non invece con l'opposizione all'esecuzione od agli atti esecutivi, sicché tutte le deduzioni svolte da chi la subisce hanno la natura di eccezioni che, inserendosi nel giudizio di merito, sono idonee soltanto a sollecitare l'esercizio dei poteri di modifica e/o di integrazione o revoca del provvedimento impugnato, spettanti al giudice del merito possessorio e non ad altri (v., in generale, Cass. III, n. 8581/1994; Cass. III, n. 25606/1997; Cass. III, n. 5672/1997; Cass. III, n. 6621/2008)». La pronuncia è particolarmente interessante perché prende posizione anche sul problema della scelta in ordine alle modalità di attuazione dell'interdetto possessorio. Rilevano, infatti, gli ermellini: «Neppure può ammettersi che l'attuazione forzosa nelle forme libere contemplate dall'art. 669-duodecies c.p.c., costituisca una modalità cui la parte creditrice può rinunciare optando per il modello ordinario dell'esecuzione forzata: l'esigenza di riconduzione del procedimento al giudizio possessorio è a tutela dell'effettività della tutela lato sensu cautelare (o, in ogni caso, interinale) disegnata dal legislatore come necessariamente concentrata in capo al giudice che ha emesso quel provvedimento ed esclude una disponibilità delle forme di tutela. La contraria soluzione adottata talvolta dalla giurisprudenza di questa Corte, nel senso dell'ammissibilità di un'opzione da parte del beneficiario, non solo non è prevalente né convincente, ma è per di più confinata ad ipotesi particolari, nella specie neppure configurabili (Cass. II, n. 5152/1993 per l'ipotesi in cui non sia pendente il giudizio di merito al momento della contestazione dell'interdetto; Cass. I, n. 3374/1998 per l'esecuzione dei provvedimenti del giudice della separazione personale, in relazione peraltro a normativa ormai superata). Tale indisponibilità delle forme dell'attuazione (o comunque delle forme come individuate in concreto dal giudice del possessorio) esclude la legittimità della condotta del beneficiario dell'interdetto il quale, attraverso la notificazione del precetto, volesse rendere operativa una modalità procedimentale alternativa a quella contemplata dall'art. 669-duodecies c.p.c., modalità che legittimasse, tra l'altro, anche l'esperibilità delle opposizioni esecutive. Ne consegue che i destinatari di quel – benché in quanto tale anch'esso illegittimo – precetto, neppure potendo con quello essere iniziato – per scolastica nozione integrando un atto anteriore o prodromico – in concreto alcun processo esecutivo od essendo individuabile un corrispondente giudice dell'esecuzione, non possono contestare il precetto loro intimato con il rimedio dell'art. 615 c.p.c.: ogni eventuale contestazione formale o sostanziale dell'attuazione loro minacciata avrebbe potuto e dovuto essere proposta esclusivamente al giudice della causa di merito possessorio, ferma l'irripetibilità delle spese contenute nella intimazione ex art. 480 c.p.c.». Interessante anche la pronuncia di merito (Trib. Napoli n. 5137/2022) che ha statuito che qualora l'Amministrazione ometta di dare esecuzione ad un provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c., il ricorrente è tenuto ad adire lo stesso giudice cautelare, con le modalità di cui all'art. 669 duodecies, c.p.c., non potendo invece invocare il rito dell'ottemperanza dinanzi al G.A., essendo lo stesso riservato alle sentenze del Giudice Ordinario passate in giudicato o agli altri provvedimenti di tale giudice aventi idoneità a passare in cosa giudicata. Il contenuto concreto che le modalità di attuazione possono assumere varia, evidentemente, in relazione al contenuto precettivo della cautela, sicché se l'obbligo da eseguire consiste semplicemente in una consegna o in un rilascio, piuttosto che in una o più prestazioni di fare-disfare esauribili una tantum, al giudice della cautela non resterà che disporne modalità e tempi. In questa ipotesi l'incidenza dell'attuazione sullo status quo è limitata a poche e predeterminabili attività materiali sul cui corretto compimento, che chiude la vicenda attuativa nel suo aspetto dinamico, il giudice si limita a vigilare dopo averne indicato, appunto, le modalità, non diversamente, in buona sostanza, da quanto è chiamato a fare il giudice dell'esecuzione exartt. 605 ss. c.p.c. Non così, invece, quando la cautela miri a ricostruire o vada ad incidere su un rapporto giuridico che è fonte di una complessa rete di obblighi e facoltà reciproci e permanenti tra le parti come nei casi, paradigmatici, dell'ordine di reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato (o dell'ordine di adibire il lavoratore stesso a mansioni identiche od equivalenti a quelle precedentemente svolte) adottato ex art. 700 c.p.c. o dell'annullamento delle delibere societarie adottato ex art. 2378, comma 3, c.c. In questa ipotesi, infatti, la natura sostanziale del rapporto cautelato mette l'obbligato in condizioni di ripetere (Sassani 1989, passim) ad nutum, l'atto o il comportamento che gli sono stati inibiti con il provvedimento cautelare, o di altrimenti eluderne (Sassani 1997, passim) il contenuto precettivo, rendendolo nella sostanza lettera morta. In particolare, l'elusione è un comportamento complesso che consiste nella sostanziale violazione degli obblighi posti dal provvedimento da eseguire dietro un formale adempimento. Si tratta, in sostanza, di uno dei comportamenti più difficili da reprimere soprattutto in presenza di provvedimenti come, ad esempio, quelli di annullamento delle delibere societarie, la cui portata precettiva non si esaurisce nel dispositivo di annullamento, avendo anche una più ampia portata conformativa. La fissazione delle modalità attuative ed il potere di controllo sull'attuazione assumono allora ben diversa fisionomia. La fissazione delle modalità richiede: a) una interpretazione del provvedimento necessaria a trarre da un dispositivo standardizzato e sinteticamente formulato (reintegra, sospensione) uno schema analitico dei singoli obblighi imposti e b) la successiva verifica dell'(in)adempimento ai fini delle conseguenti determinazioni. Il controllo sullo stato dell'attuazione comporta, invece, la fissazione di un termine entro il quale l'obbligato dovrà ottemperare pena la surrogazione coatta, nonché la fissazione di una o più udienze successive per verificare lo stato dell'adempimento (v., ad esempio, Trib. Roma 3 marzo 1998, che ha ordinato al datore di lavoro di astenersi da ogni comportamento in contrasto con l'obbligo di riassumere il lavoratore, entro tre giorni dalla notifica del provvedimento; Trib. Pisa 29 agosto 1994, cit., che assegna agli obbligati un termine di trenta giorni, sempre dalla notifica dell'ordinanza, entro il quale eseguire i lavori ivi previsti; Trib. Trani 21 novembre 2000, che ordina al provveditore di eseguire l'ordinanza entro cinque giorni). È nella giurisprudenza civile del lavoro (Trib. Roma 20 novembre 1995; Trib. Roma 28 maggio 1998; Trib. Roma 14 febbraio 1997; Trib. Latina 5 dicembre 1997) che si riscontra l'avocazione al giudice dell'attuazione, in virtù dei poteri di gestione globale della fase attuativa che l'art. 669-duodecies c.p.c.in parte qua gli rimette, della valutazione globale delle condotte che il datore di lavoro ha assunto dopo l'emissione dell'ordine di reintegra per appurarne da un lato il contrasto con il contenuto del provvedimento e dall'altro la non giustificabilità alla luce di obiettive, e perciò lecite, esigenze imprenditoriali. I provvedimenti adottati ex art. 669-duodecies c.p.c. recano dunque l'ordine di adozione di singole condotte di segno opposto a quelle commissive fino ad allora poste in essere dal datore, che il provvedimento attuativo indica analiticamente in quanto contenuto concreto della regula già sinteticamente posta dalla cautela. È in questo che consiste, nei casi esaminati, la fissazione delle modalità di attuazione. Ciò è evidente nella giurisprudenza formatasi in materia di rapporto di lavoro nei confronti dell'amministrazione (Trib. Catania 18 aprile 2001, il quale, peraltro, trattandosi di reintegra di dirigente, ha ritenuto sufficiente il solo accompagnamento dell'ufficiale giudiziario sul posto di lavoro; Trib. Roma 3 giugno 2003, in riferimento all'ordine di reintegra in equivalenti mansioni di un noto giornalista televisivo, già reso dal tribunale nei confronti della R.A.I., è sceso nel merito della valutazione delle proposte che l'azienda ha, in un arco di tempo successivo all'ordine, fatto al giornalista per valutarne la rispondenza alla portata precettiva del provvedimento di reintegra o la sostanziale elusione della stessa). Qui i provvedimenti resi ex art. 669-duodecies c.p.c. contengono infatti, oltre all'ordine specifico di adottare singole condotte riconducibili alla «reintegra» (nel posto di lavoro o nelle precedenti mansioni), anche un meccanismo surrogatorio in grado di scattare automaticamente in caso di ulteriore inottemperanza o elusione dell'ordine: la nomina dell'ausiliare che provvederà al posto dell'amministrazione. Essi appaiono dunque assolutamente autosufficienti, cioè in grado di fornire al beneficiario, proprio in sede di attuazione, il «bene della vita» riconosciutogli con il provvedimento cautelare. Si deve proprio a questa giurisprudenza (emblematico, in tal senso, Trib. Roma, 11 luglio 2016, cit.) la valorizzazione del meccanismo surrogatorio che rende il provvedimento attuativo autosufficiente. In un'ipotesi in cui il provvedimento cautelare aveva condannato il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca alla correzione delle graduatorie di riferimento indicando il punteggio da attribuire alla ricorrente vittoriosa con decorrenza da una certa data, ed a fronte della asserita inottemperanza del M.I.U.R., la beneficiaria della cautela chiede, ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c., la determinazione delle modalità di attuazione. Il Tribunale capitolino ha accolto la domanda sulla base di pochi, ma cruciali passaggi. Anzitutto, vi è la valutazione delle condotte imposte alla pubblica amministrazione dal provvedimento cautelare, che vengono considerate fungibili trattandosi di correzione di una graduatoria in modo predeterminato dal giudice della cautela e dunque senza attività discrezionali. Il tutto alla luce della previsione dell'art. 63 del d.lgs. n. 165/2001 che consente al giudice ordinario l'adozione di ogni provvedimento necessario alla tutela del lavoratore. Segue, poi, il duplice rilievo che la fase di esecuzione è coessenziale all'effettività della tutela, secondo le indicazioni della Corte Costituzionale, e che le decisioni rese dal giudice ordinario in sede attuativa devono essere autosufficienti, recare cioè, insieme all'indicazione delle condotte da tenere, anche il meccanismo surrogatorio per l'ipotesi di inottemperanza della P.A. Tale meccanismo consiste nell'individuazione di un organo pubblico che si attiverà in luogo dell'amministrazione in caso di sua inottemperanza volontaria. Si tratta di un ausiliare del giudice ex art. 68 c.p.c., delegato cioè di «funzioni di amministrazione giustiziale implicite nel sistema di esecuzione giudiziale e con lo stesso del tutto compatibili». Su tali premesse, il collegio ha nomina, dunque, il Direttore dell'ufficio scolastico regionale del Lazio, superiore dell'organo tenuto alla gestione delle graduatorie per il reclutamento del personale scolastico, perché provveda all'attuazione della cautela e fissa altresì una nuova udienza per la verifica dell'avvenuta attuazione. Interessanti pronunce si rinvengono anche in ordine al trattamento riservato alla reiterazione dell'atto illegittimo (licenziamento o assegnazione di mansioni inferiori a quelle precedentemente svolte) da parte del datore dopo l'emissione della cautela. Tale reiterazione non è, infatti, considerata come altra e diversa violazione, come tale attratta ad una nuova fase dichiarativa allo scopo di perseguirne una nuova dichiarazione di illegittimità. Essa è vista, al contrario, come violazione/elusione della cautela già resa e perciò attratta alla competenza del giudice dell'attuazione sub specie valutazione e controllo sullo stato dell'attuazione stessa (v., ad esempio, Trib. Roma 3 giugno 2003, cit., il quale, in riferimento all'ordine di reintegra in equivalenti mansioni di un noto giornalista televisivo, già reso dal Tribunale capitolino nei confronti della R.A.I., è sceso nel merito della valutazione delle proposte che l'azienda ha, in un arco di tempo successivo all'ordine, fatto al giornalista; valutato, dunque, che i programmi proposti non potevano ritenersi né per fasce orarie di messa in onda, né per durata, né per qualità, equivalenti a quelli affidati al giornalista prima della sua rimozione, ha ordinato alla R.A.I. l'affidamento di un programma di cui ha indicato analiticamente tutte le caratteristiche, specificando persino le dotazioni di mezzi e spazi all'uopo necessari; i provvedimento, nella sua portata iniziale, è stato modificato in sede di reclamo con ordinanza del 23 luglio 2003, tuttavia, il Tribunale ha pur sempre precisato che l'ordinanza ex art. 669-duodecies c.p.c. è legittima nella misura in cui l'indicazione delle modalità attuative si limiti a dare contenuto concreto al principio di equivalenza delle nuove mansioni rispetto alle precedenti, sancendo in tal modo la necessità di tale indicazione analitica). Il passaggio al giudice ordinario di gran parte della giurisdizione sui rapporti di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione, ha poi fatto emergere anche nella giurisprudenza civile, come appena rilevato, una figura di ausiliare in buona sostanza assimilabile al commissario ad acta noto all'esperienza del giudizio di ottemperanza, il cui apporto si è rivelato fondamentale proprio al cospetto della complessa attività giuridico-organizzativa (ove) necessaria al reinserimento del lavoratore nel tessuto dell'amministrazione da cui era stato allontanato (v., ad esempio, Trib. Trani 21 novembre 2000 e Trib. Catania 18 aprile 2001, che ritengono sufficiente la nomina dell'ufficiale giudiziario se non vi è bisogno, per la concreta reintegra, dell'adozione di veri e propri atti amministrativi; in particolare, il Tribunale etneo ritiene che il pubblico dipendente possa pretendere l'adozione di quei comportamenti imposti dalla cautela, servendosi sia del giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo, in caso di necessaria adozione di atti amministrativi presupposti, e come tali esterni al rapporto di lavoro, sia del processo esecutivo davanti al giudice ordinario). Si rinviene, altresì, in giurisprudenza (Trib. Ariano Irpino, 16 dicembre 2002) l'affermazione che la necessità di nominare un commissario ad acta ruota intorno al principio di effettività della tutela sancito dall'art. 24 Cost. Se, infatti, per attuare un provvedimento di reintegra nelle specifiche funzioni precedentemente svolte è necessario incidere sia sul provvedimento organizzativo di demansionamento sia su quelli con cui è stata riorganizzata l'attività complessiva dell'ufficio, il giudice ordinario può ha il potere di nominare un commissario ad acta che in tal senso provveda. In difetto, viceversa, ci si troverebbe di fronte ad una tutela dimidiata poiché il provvedimento cautelare resterebbe, nella sostanza, privo di esecuzione concreta. Si è poi ulteriormente precisato (Trib. Catania 18 aprile 2001, cit.,) che il pubblico dipendente reintegrato può pretendere l'adozione dei comportamenti datoriali imposti dal provvedimento di reintegra servendosi sia del giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo, in caso vengano in rilievo atti macro-organizzativi presupposti, sia dell'attuazione davanti al giudice ordinario. Posizioni più restrittive si rinvengono, invece, nella giurisprudenza relativa ai rapporti di lavoro privati, in cui la valutazione della incoercibilità dell'ordine di reintegra è considerato ostativo all'accoglibilità della domanda (v., ad esempio, Trib. Benevento 22 marzo 2001). Altre pronunce, invece, glissano apertamente il problema delle concrete modalità di attuazione in sede cautelare (v., ad esempio, Trib. Lecce 28 febbraio 2003, per il quale, sorprendentemente, tutto quanto attiene all'inadempimento degli obblighi imposti alla P.A. dall'ordine cautelare esula dal giudizio ex art. 669-duodecies c.p.c. Ciò in base all'assunto, altrettanto sorprendente, che, stabilite le modalità di attuazione, in caso di inadempimento, sarà il giudice dell'esecuzione a dare i relativi provvedimenti). Più recenti aperture sono invece presenti nella giurisprudenza di merito. Si è ad esempio deciso (Trib. Catania 4 maggio 2020) che il giudice del lavoro che ha emesso una misura cautelare recante ordini di fare rimasta inadempiuta può direttamente disporne le modalità di attuazione. Nel caso di specie il giudice ha disposto direttamente l’assegnazione del lavoratore alla sede più vicina, sostituendo in tal senso il datore di lavoro inottemperante. Segue. Le misure coercitive. Occorre, infine, chiedersi se, in applicazione di un modello oggi codificato dall'art. 114 c.p.a., l'irrogazione di una misura coercitiva possa rientrare tra i provvedimenti opportuni che l'art. 669-duodecies c.p.c. rimette alla discrezionalità del giudice dell'attuazione. La risposta si profila come negativa, perché l'art. 614-bis c.p.c., applicabile nell'àmbito della giurisdizione ordinaria, ha compiuto una netta scelta di campo a favore della esclusiva competenza a disporre la misura in capo giudice della tutela dichiarativa (v., in tal senso, ad esempio, Trib. Asti 17gennaio 2018, per il quale l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto somme di denaro, avviene nelle forme di cui agli artt. 491 ss. c.p.c., in quanto compatibili, mentre in sede di attuazione del provvedimento cautelare il giudice non può emettere misure coercitive ex art. 614-bis c.p.c.). È, tuttavia, da ritenere che, con il provvedimento cautelare recante condanna all'adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme, sia proprio il giudice della cautela a poter disporre, su istanza di parte, il pagamento di somme a titolo di misura coercitiva in caso di inottemperanza volontaria al dictum. Ciò in quanto l'ordine cautelare reso, ad esempio, ai sensi dell'art. 700 c.p.c. è un provvedimento di natura anticipatoria rispetto alla pronunzia di condanna ed è assimilabile a quest'ultima agli effetti dell'applicabilità della disciplina di cui all'art. 614-bisc.p.c. per l'attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare (così, in particolare, Trib. Cagliari 19 ottobre 2009, pronunciatosi in un procedimento d'urgenza in esito al quale Telecom è stata condannata a ripristinare le linee telefoniche di una azienda interessate da ripetuti malfunzionamenti culminanti nella totale inutilizzabilità). Ritenuta fondata la domanda cautelare di riattivazione delle utenze telefoniche, il giudice ha ritenuto fondata anche la domanda di misure coercitive ai sensi dell'art. 614-bis c.p.c. Per il Tribunale, infatti, «l'ordine cautelare dato ai sensi dell'art. 700 c.p.c. è un provvedimento di natura anticipatoria rispetto alla pronuncia di condanna ed è per questa ragione senz'altro assimilabile a quest'ultima agli effetti dell'applicabilità della disciplina richiamata; la misura prevista dall'art. 614-bisc.p.c. è volta ad assicurare l'attuazione sollecita del provvedimento e, come per la condanna, è quindi funzionale, innanzi tutto, a favorire la conformazione a diritto della condotta della parte inadempiente e, conseguentemente, ad evitare la produzione del danno o, quanto meno, a ridurre l'entità del possibile pregiudizio; la misura, in secondo luogo, assicura anche in sede cautelare l'esigenza di garantire un serio ristoro di fronte al perdurare dell'inadempimento, in funzione quindi deflattiva del possibile contenzioso successivo, limitato all'eventualità che si produca un danno non integralmente soddisfatto dalla statuizione giudiziale». In base a queste premesse, il magistrato sardo ha ritenuto allora di focalizzare l'attenzione sul carattere infungibile della prestazione richiesta all'obbligato, «non potendo la riattivazione delle linee telefoniche ed il mantenimento del servizio avvenire senza la necessaria e duratura cooperazione del debitore, nella duplice veste di gestore della rete e di operatore telefonico ... è necessario sottolineare, più specificamente, che può ravvisarsi una obbligazione di fare infungibile ogni volta che l'interesse del creditore alla prestazione non possa essere soddisfatto compiutamente senza la diretta cooperazione del soggetto obbligato, situazione che può dipendere, come nel caso in esame, dalla natura stessa dell'attività dedotta e dalle concrete circostanze in cui la stessa dovrebbe essere posta in essere, considerata specificamente la possibilità di sostituzione solo istantanea di soggetti terzi nell'esecuzione di singoli collegamenti o di eventuali riparazioni necessarie ma l'impossibilità, non solo naturale ma anche giuridica, di un'intromissione di maggiore ampiezza temporale per quanto riguarda gli interventi sulla rete, rimessi al soggetto chiamato a gestirla nell'interesse generale, e le attività di mantenimento del servizio». Oltre che con i provvedimenti ex art. 700 c.p.c., la misura coercitiva in discorso è stata considerata, all'indomani del varo dell'art. 614-bis c.p.c., compatibile con il procedimento introdotto da denuncia di danno temutoexart. 1172 c.c. (Trib. Terni, 6 agosto 2009: nella specie, era stato lamentato il pericolo di crollo di murature e di parte del tetto di un fabbricato limitrofo alla proprietà di parte ricorrente e di infiltrazioni di acqua legate all'assenza di un'adeguata copertura dell'immobile che si trovava in stato di forte degrado). A corredo della domanda, il ricorrente chiedeva disporsi il pagamento di una somma a titolo di misura coercitiva ex art. 614- bisc.p.c., appunto. Il magistrato umbro ha ritenuto fondata la richiesta in ragione della necessità di rendere effettivi i provvedimenti anticipatori della condanna, soprattutto dopo che l'efficacia dei provvedimenti anticipatori, quale quello reso su denuncia di nuova opera, è stata svincolata dall'onere di proporre la domanda di merito in un termine perentorio (v. artt. 669-octies e 669-novies c.p.c., al cui commento si rinvia). Per il giudicante, insomma, tutto depone a favore dell'accoglibilità della domanda. Infatti, «vi è la domanda di parte; siamo in tema di anticipazione cautelare di una condanna ad un fare infungibile; la misura non appare manifestamente iniqua poiché l'intimato ha omesso di adempiere a ben due ordinanze di eliminazione del pericolo; del resto una ulteriore attesa potrebbe cagionare danni ben più gravi sia alla proprietà dell'istante – ed è quello che rileva nel presente procedimento – sia anche all'incolumità pubblica – i passanti occasionali sotto il muro pericolante – o privata degli abitanti della casa dell'istante; inoltre, non sono emersi elementi che possano far ritenere ragionevolmente una impossibilità all'adempimento dell'obbligo di demolire». Un altro interessante esempio di utilizzo della misura coercitiva in sede cautelare attiene alle dinamiche del rapporto contrattuale (Trib. Messina, 7 luglio 2010), segnatamente, in ipotesi di sospensione a tempo indeterminato dell'account da parte di un gestore a danno dell'utilizzatore per la sussistenza di feed-back negativi non apprezzabili da un punto di vista quantitativo. Il magistrato siculo, ritenuto che la sospensione configura sostanzialmente un potere di recesso unilaterale equiparabile alla risoluzione per inadempimento, e come tale non esercitabile in assenza di effettivo e grave inadempimento, accoglie il ricorso ex art. 700 c.p.c. ed ordina al gestore dell'account di ripristinare il servizio. In riferimento poi alla domanda di condanna pecuniaria ai sensi dell'art. 614-bisc.p.c., la accoglie in base al rilievo che «l'eventuale adozione di un provvedimento avente ad oggetto un obbligo infungibile, attesa la coercibilità dello stesso, a seguito della previsione dell'astreintes, appare assolutamente legittima e non può essere considerato un attentato alla libertà contrattuale di un soggetto giuridico, atteso che tale libertà deve necessariamente venire meno di fronte a liberamente assunto». Ma la casistica è molto più ampia (v., ad esempio, Trib. Roma sez. dist. Ostia, 27 ottobre 2009, in materia di rapporti di vicinato; Trib. Torino 2 luglio 2010, in tema di cancellazione della trascrizione di un sequestro conservativo; Trib. Verona 9 marzo 2010; Trib. Trento 8 febbraio 2011, in materia di illegittima sublocazione ed installazione non autorizzata dal locatore di una stazione radio base; Trib. Varese 16 marzo 2011, in materia di obblighi di astensione dall'impedimento all'esercizio altrui di diritti reali; Trib. Bari 10 maggio 2011, in materia di riduzione di iscrizioni ipotecarie; Trib. Reggio Emilia 15 aprile 2015, in materia di pubblicazione di contenuti offensivi su Facebook). Va tuttavia rilevato che l’art. 614 bis c.p.c. è stato modificato dall’art. 3, comma 44, del D. Lgs. n. 149/2022. Il nuovo comma II della disposizione prevede oggi che se non è stata richiesta nel processo di cognizione, ovvero il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza o ritardo nell’esecuzione del provvedimento è determinata dal giudice dell’esecuzione su ricorso dell’avente diritto. L’ astreinte può dunque essere fissata anche per la prima volta in sede di esecuzione del provvedimento e questo avrà sicuramente importanti ricadute applicative anche in sede di attuazione cautelare. Al ricorrere dei presupposti di applicazione della misura coercitiva, però, occorrerà applicare le disposizioni del libro III del codice di rito e, quindi, le norme sull'espropriazione forzata, dovendosi riscuotere somme di denaro per le quali il capo del procedimento cautelare relativo è titolo esecutivo per espresso disposto di legge. Se, poi, l'obbligato ha interesse a contestare il provvedimento con cui è stata fissata la misura, ha l'alternativa tra proporre reclamo o sollecitarne modifiche da parte del giudice della cautela. Se invece egli voglia contestare il ricorrere delle circostanze legittimanti la riscossione della somma dovuta a titolo di misura coercitiva dovrà ricorrere all'opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c. (Consolo, Godio, 138 e 190; v., altresì, Tommaseo 2014, 267 e 276; ripercorre l'ampia tematica della compatibilità tra cautela e misura coercitiva Mazzamuto, 465). Le difficoltà/contestazioni ed i c.d. «provvedimenti opportuni»L'art. 669-duodecies c.p.c. è laconico tanto nel rimettere al giudice che ha emanato il provvedimento cautelare il potere di risoluzione di difficoltà e contestazioni, quanto nel sancire che «ogni altra questione è riservata al giudizio di merito». L'interprete si trova allora nella condizione di dover riempire di contenuti questa previsione estremamente elastica e di trovare soluzioni per i profili, per lo più proprio attinenti alle modalità di tutela delle parti e dei terzi, non regolati affatto. L'assenza di una struttura processuale rigida e predefinita e del rinvio ad uno specifico complesso normativo rendono le coordinate entro cui muoversi molto poco stringenti. Ciò che occorre tener presente è solo la natura di esecuzione forzata del fenomeno, sicché l'individuazione di una possibile disciplina può avvalersi dell'osservazione di quanto accade in altri fenomeni esecutivi noti all'ordinamento, e dell'utilizzazione delle regole e delle soluzioni tecniche ed ermeneutiche invalse in quelli che esibiscono struttura simile a quella disegnata dall'art. 669-duodecies c.p.c.in parte qua. Il tutto, evidentemente, calato nel contesto complessivo del processo cautelare degli artt. 669-bis-669-terdecies c.p.c., di cui l'attuazione è solo una fase. Proprio la bussola dell'attuazione come esecuzione forzata, letta quale semplice segmento del processo cautelare, consente di orientare, in via preliminare, la delimitazione dell'ambito delle contestazioni prospettabili al giudice dell'attuazione, escludendone anzitutto quelle relative all'ingiustizia o invalidità del provvedimento concessivo o reiettivo della cautela, o alla modifica-revoca in base a mutamenti nelle circostanze e/o sopravvenienze. In tali casi, la tutela è infatti assicurata dal legislatore cautelare in apposite sedi dichiarative (artt. 669-decies e 669-terdecies c.p.c., al cui commento si rinvia). Lo stesso è a dirsi per i profili attinenti all'esistenza del diritto cautelato, che sono oggetto del processo dichiarativo che mette capo alla tutela finale. Diverso è, invece, il caso in cui si contesta che il procedimento attuativo è in sé è viziato perché non adeguato alla situazione da realizzare oppure che l'interpretazione della cautela è scorretta ai fini della sua realizzazione pratica. Qui si discute, infatti, dell' an e/o quomodo di realizzazione della pretesa del beneficiario in assenza di adempimento volontario, che è il tipico thema decidendum dell'esecuzione forzata: sono dunque queste le contestazioni che l'art. 669-duodecies c.p.c. affida alla competenza del giudice dell'attuazione e che l'interprete non può sottrarre al loro alveo naturale in assenza di diversa scelta del legislatore. Sicché al giudizio dichiarativo in prospettiva del giudicato non appaiano automaticamente ascrivibili solo in quanto tali tutte le questioni che involgono attività cognitive se la cognizione ha, come nei casi appena esaminati, carattere funzionalmente esecutivo perché tale giudizio ha un oggetto diverso e giammai confondibile con quello tipico di ogni sede tecnicamente esecutiva. In senso diverso, si è però pronunciata recente giurisprudenza di merito (Trib. Massa 2 aprile 2019, cit.), per la quale le contestazioni mosse in ordine all'attuazione del sequestro conservativo non assumono natura di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, ma sono qualificabili come eccezioni del soggetto che ha subìto la misura cautelare, idonee soltanto a sollecitare l'esercizio da parte del giudice della causa di merito dei poteri di modifica, integrazione, precisazione o revoca del provvedimento. La Cassazione (Cass, III, n. 17426/2022) ha recentemente statuito, in tema di provvedimenti d'urgenza ex art. 700 c.p.c. che “ le contestazioni relative alla portata sostanziale del provvedimento cautelare non hanno natura di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, ma vanno proposte al giudice della causa di merito, la cui decisione è sindacabile in appello e in sede di legittimità per motivi concernenti l'accertamento compiuto e l'ordine impartito dal giudice nel provvedimento della cui attuazione si tratta, al fine di stabilire se questa sia conforme ai principi che regolano tale giudizio, nonché funzionale alla concreta attuazione del comando ivi formulato e se il procedimento interpretativo sia immune da vizi logici o errori di diritto”. Provvedimenti attuativi e reclamo: profili introduttivi.È nel contesto appena evocato che occorre valutare se esista un rimedio generale che consenta il riesame dei provvedimenti resi, ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c., dal giudice dell'attuazione. Si è già rilevato come quest'ultimo possa congegnare le modalità esecutive anche in modo completamente diverso dalle (solo) eventuali indicazioni di parte, scegliendo autonomamente quelle che ritiene più consone al concreto dictum da realizzare e senza che di ciò le parti abbiano uno specifico interesse a dolersi. È verosimilmente questa la ragione per la quale l'art. 669-duodecies c.p.c. non prevede alcun riesame del provvedimento che si limiti a fissare le modalità di attuazione, ritenendo sufficiente ad accogliere le osservazioni e proposte delle parti la sede dell'audizione preventiva del giudice dell'attuazione. Lo scenario muta, invece, significativamente quando si esce dalla dinamica appena illustrata, ciò che accade in due ordini di ipotesi. La prima di esse è quella del rigetto dell'istanza di fissazione delle modalità di esecuzione motivata dall'inesistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata per (asserito) difetto di uno qualunque dei suoi presupposti: ad esempio perché non sussiste l'inottemperanza o, come spesso si legge in materia di reintegra nel posto di lavoro, per incoercibilità dell'obbligo (v., ad esempio, Trib. Benevento 22 marzo 2001). Qui l'interesse del ricorrente al riesame non può misconoscersi se egli intende dimostrare che i presupposti per procedere ad esecuzione forzata invece esistono. La seconda ipotesi è speculare alla precedente e si verifica se il ricorso è accolto ma sia l'obbligato a contestare il diritto della parte istante di procedere ad esecuzione forzata, o siano invece il ricorrente e/o l'obbligato a lamentare una errata/aberrante interpretazione del dictum da parte del giudice dell'attuazione. L'interesse al riesame del provvedimento attuativo, assente se oggetto di contestazione sono le modalità di esecuzione solo in quanto tali, risorge dunque ove tale contestazione (non sia fine a sé stessa ma) veicoli quella di un'aberrante interpretazione del provvedimento o se si intenda dimostrare (da parte del ricorrente) o contestare (da parte dell'obbligato) l'esistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata (sub specie di attuazione ex art. 669-duodecies c.p.c.). Ed è in riferimento a tali ipotesi che il silenzio serbato dall'art. 669-duodecies c.p.c. impone la ricerca di adeguate soluzioni. In un nutrito filone della giurisprudenza di merito, è ampiamente sperimentata la soluzione della reclamabilità del provvedimento reso ex art. 669-duodecies c.p.c., in base alla premessa sistematica della inscindibilità/unitarietà della fase di concessione e di quella di attuazione della cautela, e dunque della intima compenetrazione tra quest'ultima ed il provvedimento attuativo, entrambi da sottoporre perciò allo stesso regime. La giurisprudenza ha perciò ritenuto: a) la reclamabilità del provvedimento di diniego della determinazione delle modalità di attuazione (v., ad esempio, Trib. Sala Consilina 16 novembre 2011, secondo il quale è ammissibile il reclamo nei confronti del provvedimento attuativo reso dal giudice ex art. 669-duodecies c.p.c. che abbia modificato o disatteso il comando giudiziale che dovrebbe eseguire; Trib. Latina 5 dicembre 1997; Trib. Bari 29 febbraio 1996); b) la irreclamabilità del provvedimento positivo reso ex art. 669-duodecies c.p.c. ma già in sede di reclamo, attesa la inoppugnabilità di quest'ultimo (Trib. Roma 17 aprile 1997); c) la non revocabilità-modificabilità ai sensi dell'art. 669-decies c.p.c., in assenza, nel caso di specie, dei presupposti previsti da quest'ultima norma (Trib. Padova 16 agosto 2002). La reclamabilità è stata sostenuta con particolare forza nell'ipotesi di rigetto del ricorsoex art. 669-duodecies c.p.c. La giurisprudenza di merito ha, infatti, intuitivamente avvertito che il giudice, pur non pronunciandosi formalmente sulla sussistenza dei presupposti di concedibilità del provvedimento finisce, nella sostanza, per incidervi perché, privandolo della coercitività, lo rende tamquam non esset (aspetto messo limpidamente in evidenza da Trib. Pisa, 29 agosto 1994 e da Trib. Latina 5 dicembre 1997, cit., che ha definito il diniego delle modalità attuative come revoca del precedente provvedimento di reintegra nel posto di lavoro; v., altresì, Trib. Bari 29 febbraio 1996). Il panorama giurisprudenziale è, peraltro, molto più vasto e frastagliato, rinvenendosi anche pronunce che si muovono lungo direttrici diverse da quelle appena abbozzate. Si è così ritenuta in generale l'inammissibilità del reclamo, sul presupposto della compenetrazione tra concessione ed attuazione della cautela, avverso provvedimenti attuativi che in alcun modo abbiano inciso sul contenuto del provvedimento da attuare (Trib. Reggio Calabria 11 aprile 2011; Trib. Trani 23 gennaio 2007; Trib. Roma 23 luglio 2003). Altra lettura pretoria ha, invece, fondato la non reclamabilità dei provvedimenti resi ex art. 669-duodecies sulla loro natura asseritamente non decisoria, essendo essi volti esclusivamente a precisare le modalità di esecuzione di un provvedimento cautelare già emesso (Trib. Modena 21 settembre 2011; Trib. Camerino 12 marzo 2009; Trib. Torino 2 dicembre 2005; secondo Trib. Salerno 6 maggio 2005, eventuali doglianze riguardanti l'ordinanza di attuazione della misura, essendo ormai chiusa la fase cautelare, devono essere fatte valere nel successivo giudizio di merito). Altra giurisprudenza (Trib. Napoli Nord 16 novembre 2017) ha, poi, ritenuto inammissibile il reclamo avverso i provvedimenti attuativi delle misure cautelari, sia perché aventi contenuto ordinatorio e non decisorio, sia perché il reclamo è diretto avverso i provvedimenti che concedono o negano la tutela cautelare e non anche avverso quelli che semplicemente la attuano, e che l'attuazione disciplinata dall'art. 669-duodecies c.p.c. non dà luogo all'instaurazione di un vero e proprio procedimento esecutivo. Infine, è stata sostenuta la reclamabilità dei provvedimenti resi ex art. 669-duodecies sulla base di diverse ragioni. Così, tale reclamabilità si è ammessa: a) in tema di attuazione di un provvedimento di reintegra in una servitù di passaggio, in base alla considerazione di esigenze di giustizia sostanziale, che impongono di ritenere reclamabili i provvedimenti resi in sede attuativa ex art. 669-duodecies qualora questi finiscano con il modificare o disattendere il comando giudiziale racchiuso nel provvedimento concessivo della cautela, occorrendo garantire ai beneficiari della cautela un rimedio per poter tutelare i propri diritti lesi dal provvedimento attuativo (Trib. Sala Consilina 16 novembre 2011); b) ritenendo che il provvedimento recante le modalità di attuazione di un obbligo di facere sia integrativo del provvedimento cautelare e come tale assoggettabile allo stesso mezzo di impugnazione (Trib. Savona 23 settembre 2020). La lettura è stata avallata in sede di legittimità (Cass. II, n. 10758/2019), in riferimento al capo di pronuncia sulle spese dell'attuazione. La Suprema Corte ha, infatti, affermato il principio che nei provvedimenti emessi dal giudice, in forma diversa dalla sentenza, per regolare l'attuazione delle misure cautelari – ai sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c. – non è ravvisabile il carattere della decisorietà, poiché detti provvedimenti hanno natura strumentale e sono inidonei al giudicato. Ne consegue che devono essere impugnati con i rimedi apprestati dal procedimento cautelare uniforme, ed in particolare con il reclamo anche in relazione al capo che regola le spese del procedimento (v. anche, in tal senso, Trib. Modena 13 giugno 2019). La dottrina ha, invece, equiparato il rigetto del ricorso ex art. 669-duodecies c.p.c. ad una sostanziale revoca della cautela stessa (v., ad esempio, ex multis, Corsini 2002, 236). Segue. Il reclamo come generale strumento di riesame.Dell'inscindibilità tra concessione ed attuazione della cautela predicata dalla giurisprudenza non vi è, tuttavia, traccia nella disciplina del processo cautelare. In essa, è anzi nettamente distinguibile una fase dichiarativa deputata all'emissione o al rigetto della misura, ed una squisitamente esecutiva, inaugurata da un autonomo atto e sottoposta ad autonome regole. Negli altri processi esecutivi noti al nostro ordinamento, il problema dei controlli sugli atti è risolto in modo diversificato. Partendo dall'ipotesi in cui si intenda dimostrare (per il ricorrente) o contestare (per l'obbligato) il diritto della parte istante di procedere ad esecuzione forzata, nei processi esecutivi del libro III del codice di procedura civile esistono l'opposizioneexart. 617 c.p.c. se è il ricorrente a contestare il rigetto dell'istanza di tutela esecutiva, o l'opposizioneexart. 615 c.p.c. se è, invece, l'obbligato a ritenere che l'esecuzione non avrebbe dovuto essere promossa o proseguita. Nel giudizio di ottemperanza alle sentenze del giudice amministrativo, tali contestazioni sono invece veicolate dall'appello che, ai sensi dell'art. 114, comma 9, c.p.a., è mezzo generale di controllo delle sentenze, e quindi anche di quelle rese in sede di ottemperanza (sulla scia della soluzione pretoria forgiata dalla giurisprudenza: v., solo per qualche esempio tra i più recenti, Cons. St., n. 4459/2000; Cons. St., n. 2106/1999; Cons. St., n. 632/1998). Dunque, si profila, netta, una conclusione. Il provvedimento del giudice dell'esecuzione che abbia risolto la questione dell'esistenza dei presupposti processuali speciali e delle condizioni legittimanti l'accesso o il successivo svolgersi della procedura è oggetto di riesame alla luce dell'unitaria ratio di tutela del diritto di procedere ad esecuzione forzata. Nella giurisprudenza amministrativa, se ne profila infatti la consistenza di pretesa giuridicamente rilevante cui corrisponde l'obbligo dell'ufficio di dar corso all'esecuzione in presenza delle condizioni legittimanti. Il che, evidentemente, esclude sia che il giudice possa rifiutare tout court la tutela esecutiva sia che i provvedimenti resi all'esito della relativa domanda restino privi di riesame su istanza di chi vi abbia interesse. La pretesa allo svolgimento dell'esecuzione trova infatti il suo limite proprio nell'assenza delle condizioni di legge, cui corrisponde la pretesa del (presunto) obbligato di ottenere la chiusura della procedura e l'obbligo dell'ufficio di disporla (in termini di «diritto all'esecuzione» si esprime, ad esempio, T.A.R. Veneto n. 464/2001; v. anche Cons. St., n. 120/1996, che mette in evidenza la rilevanza costituzionale del giudizio di ottemperanza, intesa come necessità che vi sia uno strumento di giustizia effettiva che permetta il conseguimento reale del bene o dell'utilità riconosciuti dal giudicato in assenza di un comportamento in tal senso del soccombente). Tornando in particolare al rigetto dell'istanza di tutela esecutiva, si può dunque concludere che la sua potenzialità lesiva non risieda in una presunta idoneità a revocare o disattendere, secondo il lessico immaginifico della giurisprudenza di merito, il provvedimento che impartisce la tutela dichiarativa. Si tratta, infatti, di una costante di tutti i processi esaminati, ove il rifiuto di tutela è soggetto a riesame perché, precludendo l'esecuzione e rendendo il provvedimento in concreto ineseguibile senza la collaborazione dell'obbligato, priva il beneficiario di quel diritto di procedere ad esecuzione che invece gli spetta. Che ciò si traduca in un'elisione dell'effettività della tutela è conseguenza della ratio ascrivibile alla predisposizione, da parte dell'ordinamento, di una fase di esecuzione forzata, dotata di copertura costituzionale, che assiste le pronunce giurisdizionali. Alla luce delle esperienze processuali illustrate e della struttura dell'attuazione cautelare, fase distinta sia strutturalmente che funzionalmente da quella di concessione della cautela, i provvedimenti resi ex art. 669-duodecies c.p.c.non appaiono integrativi di quelli resi in sede di cognizione. Neppure può affermarsi che nel procedimento cautelare non siano distinguibili la fase di cognizione da quella di attuazione, in virtù dell'unità del procedimento e poi, per questa via, concludersi che, partecipando della stessa natura di quelli concessivi, i provvedimenti resi in sede di attuazione siano sottoponibili al medesimo mezzo di riesame. E di ciò è riprova, appunto, la circostanza che i medesimi problemi si pongono anche in un ambito in cui nessuno mai ha adombrato contaminazioni tra tutela dichiarativa ed esecutiva: quello dei processi esecutivi del libro III del codice di procedura civile. Stessi problemi, stessa esigenza di riesame quale soluzione, dunque. Le peculiarità del processo cautelare vanno considerate perciò sotto il solo profilo dell'individuazione della tecnica di riesame, che deve considerarsi proprio quella impugnatoria del reclamo, in applicazione estensiva dell'art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia). Thema decidendum ne sarà, però, non il riesame della cautela (o l'esame degli eventuali vizi del provvedimento concessivo o del procedimento) ma quello del (diverso) provvedimento reso ex art. 669-duodecies c.p.c. sotto il profilo dell'errata valutazione dei presupposti legittimanti il ricorso all'esecuzione. Si tratterà cioè di un reclamo «esecutivo». Impostazione e conclusioni analoghe valgono per il diverso profilo dell'errata/aberrante interpretazione del dictum compiuta dal giudice dell'attuazione ai fini della determinazione delle relative modalità. Anche qui l'interesse, di entrambe le parti, a dedurre che la direzione data all'esecuzione è errata perché frutto di tale aberratio va salvaguardato attraverso il riesame del provvedimento, che nel nostro caso assume ancora la forma del reclamo. Ed anche qui la giustificazione non risiede in presunte peculiarità della tutela cautelare sub specie di capacità del provvedimento attuativo di modificare quello concessivo in virtù di una sua compenetrazione con esso, ma in una ben precisa caratteristica dell'esecuzione forzata in quanto tale. I provvedimenti resi dal giudice deputato a gestire l'esecuzione (giudice dell'esecuzione, dell'ottemperanza, ma anche dell'attuazione) sono, infatti, naturalmente funzionalizzati ad interpretare il provvedimento da eseguire e possono perciò incorrere in errore proprio sotto il profilo della corretta individuazione della sua portata precettiva. La dimostrazione di questi assunti risiede in quanto accade sia nei processi del libro III del codice di procedura civile che nel giudizio di ottemperanza. Nei primi l'ordinanza con cui il giudice dell'esecuzione fissa, exart. 612 c.p.c., le modalità esecutive è infatti per lo più ritenuta appellabile quando si lamenta che abbia travalicato i limiti precettivi della sentenza da eseguire. La giurisprudenza di legittimità applica, infatti, il consolidato principio, di cui essa stessa ha delineato i contorni, della prevalenza della sostanza sulla forma: poiché cioè l'ordinanza che il giudice dell'esecuzione ha reso ex art. 612 c.p.c. ha in concreto assunto un contenuto che va aldilà di quello suo proprio perché ha travisato la portata precettiva della sentenza da eseguire, essa assume la sostanza di una sentenza; e precisamente della sentenza resa all'esito del giudizio (strutturalmente di cognizione ma funzionalmente esecutivo) deputato all'interpretazione del dictum da eseguire, cioè l'opposizioneex art. 615 c.p.c. Come tale va dunque trattata quanto a regime di impugnazione (Cass. III, n. 3992/2003; Cass. III, n. 3990/2003; Cass. III, n. 1071/2000). In particolare, si è sostenuto nella giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 32196/2018) che, in materia di esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, spetta al giudice dell'esecuzione accertare la portata sostanziale della sentenza di cognizione e determinare le modalità di esecuzione dell'obbligazione idonee a ricondurre la situazione di fatto alla regolamentazione del rapporto ivi stabilita. Sempre al giudice dell'esecuzione spetta altresì verificare la corrispondenza a tale regolamentazione del risultato indicato dalla parte istante nel precetto, e, se del caso, disporre le opere necessarie a realizzarlo. Il relativo provvedimento è impugnabile con l'appello, là dove si discosti da quanto stabilito nel titolo da eseguire, giacché in tale caso esso non costituisce più manifestazione dei poteri del giudice dell'esecuzione e conseguentemente non è impugnabile nelle forme proprie degli atti esecutivi. Quanto, poi, alla sentenza che decide sull'appello in ordine a tale questione, essa è a sua volta ritenuta ricorribile per cassazione per motivi concernenti l'interpretazione fornita dal giudice del merito circa l'accertamento compiuto e l'ordine impartito dal giudice della cognizione nella sentenza della cui esecuzione si tratta, la cui disamina non attribuisce, tuttavia, alla Suprema Corte il potere di valutarne direttamente il contenuto, bensì solamente quello di stabilire se l'interpretazione della sentenza è conforme ai princìpi che regolano tale giudizio, nonché funzionale alla concreta attuazione del comando in essa contenuto. Nel giudizio di ottemperanza, è poi ritenuta appellabile la sentenza pronunciatasi, tra l'altro, sulla portata precettiva della sentenza di annullamento dell'atto illegittimo (Cons. St., n. 1329/1999; Cons. St., n. 153/1998). Conseguenze applicative.Le conseguenze applicative di questa lettura non sono di poco conto. Il reclamo deve, infatti, ritenersi esperibile, se ricorrono le condizioni appena indicate, non solo nei confronti dei provvedimenti attuativi resi dal giudice di prime cure ma anche nei confronti di quelli resi dal giudice del reclamo in ipotesi di sua competenza a gestire l'attuazione cautelare. Risvolto di non poco conto, dato che le esigenze sottese alla reclamabilità sussistono, identiche, anche se la cautela è stata resa solo in sede di riesame e sarebbero frustrate ove di ricostruisse il provvedimento ex art. 669-duodecies c.p.c. come integrativo della cautela e perciò sottoposto allo stesso regime di riesame. Poiché, infatti, il provvedimento ex art. 669-duodecies c.p.c. è diverso dalla cautela, non può ritenersi reso in sede di riesame (e, quindi, inimpugnabile) solo perché adottato dal giudice del reclamo. Competente sarà, dunque, il giudice che l'art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia) indica per i provvedimenti emessi da un giudice collegiale (quale è sempre quello del reclamo): e cioè, in alternativa, altro collegio dello stesso tribunale o tribunale più vicino. In giurisprudenza di legittimità (Cass. IV, n. 14819/2009), si è deciso che: «La corte d'appello divisa in più sezioni è competente a decidere il reclamo avverso il provvedimento cautelare emesso da una sezione della medesima corte, a nulla rilevando la circostanza che vi sia una sola sezione per le controversie di lavoro (nel caso in cui il provvedimento cautelare sia stato emesso da detta sezione), poiché l'art. 669-terdecies, comma 2, c.p.c. fa riferimento alla sola presenza di una pluralità di sezioni e non anche di una pluralità di sezioni specializzate. L'opportunità di attribuire il reclamo in materia di controversie di lavoro ad una sezione specializzata, ma appartenente ad altra corte d'appello piuttosto che ad altra sezione della stessa corte, è valutazione riservata al legislatore, il quale, non introducendo alcuna distinzione nella norma di riferimento, ha mostrato di voler optare per la seconda alternativa». Più di recente la giurisprdenza di legittimità (Cass., II, n. 10758/2019) ha affermato che il provvedimento emesso dal giudice monocratico, ai sensi dell'art. 669 duodecies c.p.c., per regolare l'attuazione delle misure cautelari è impugnabile mediante reclamo al collegio anche relativamente alla pronuncia sulle spese. Contro tale provvedimento, invece, è inammissibile il ricorso per cassazione, essendo esso privo del carattere della decisorietà e, quindi, non idoneo al giudicato. La premessa adottata in ordine ai rapporti tra cautela e provvedimento attuativo ex art. 669-duodecies c.p.c. consente, poi, di escludere che, una volta sottoposto a reclamo il provvedimento attuativo, l'ulteriore gestione globale dell'attuazione passi automaticamente al giudice del reclamo. Infatti, il giudice che ha emanato il provvedimento cautelare» di cui discorre l'art. 669-duodecies c.p.c. è e resta sempre quello di prime cure che ha reso la cautela, mentre invece il riesame attiene ad un diverso provvedimento (quello ex art. 669-duodecies c.p.c.) ed ha un diverso oggetto (l'interpretazione che l'ordinanza attuativa ha dato della cautela o la sussistenza del diritto di agire in executivis). Nei casi in cui al rigetto del ricorso ex art. 669-duodecies c.p.c. in prime cure corrisponde l'accoglimento del reclamo e la fissazione delle modalità di attuazione, la gestione della fase attuativa ritorna, dopo la parentesi impugnatoria esecutiva, al giudice di prime cure, il quale sarà vincolato alle modalità fissate dal collegio (che neppure le parti potranno più mettere in discussione) ed al quale competerà altresì il controllo sull'attuazione e l'ulteriore potere di risolvere (altre eventuali) difficoltà e contestazioni. Segue. La c.d. inesistenza del provvedimento. Occorre, infine, prendere in esame il caso in cui in sede attuativa vogliano contestarsi quei vizi del provvedimento concessivo della cautela (ad esempio, la mancata sottoscrizione) che, nell'àmbito della sistematica costruita intorno alla sentenza, si definiscono di inesistenza e tali, dunque, da sfuggire alla logica della conversione in motivi di impugnazione di cui all'art. 161, comma 1, c.p.c., restando allegabili in qualunque sede rilevi l'esistenza del provvedimento. Applicando la categoria dell'inesistenza e la sua disciplina anche in materia cautelare si può dedurre che tali vizi fondano di certo l'interesse al reclamo avverso il provvedimento concessivo in applicazione diretta dell'art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia). Scaduti i relativi termini, però, la questione dell'inesistenza non è preclusa, mantenendo tutta la sua rilevanza ai fini dell'an dell'attuazione, il che la attrae in prima battuta alla competenza del giudice dell'attuazione che provvederà sentite le parti, con ordinanza. Avverso quest'ultima, sarà poi esperibile il reclamo (in applicazione stavolta analogica dell'art. 669-terdecies c.p.c.). Attuazione e questioni di competenza.Tratti di forte peculiarità presenta, nell'àmbito dei presupposti processuali speciali dell'attuazione, la competenza. Ciò in quanto nel sistema processuale cautelare è assente l'istituto della c.d. translatio iudicii. Nel suo àmbito naturale di applicazione, la translatio consente – com'è noto – di affiancare alla declaratoria di incompetenza l'indicazione del diverso ufficio competente, indicazione vincolante ove il giudizio sia riassunto ai sensi dell'art. 50 c.p.c. e che, anche ove non vincolante, impone al secondo giudice di proporre il regolamento di competenza d'ufficio per individuare definitivamente il giudice competente. L'assenza del congegno nel nostro contesto comporta perciò che, in caso di rigetto del ricorsoex art. 669- duodecies c.p.c. per incompetenza, l'eventuale indicazione del diverso giudice ritenuto competente, effettuata nell'ordinanza di rigetto, non sarebbe vincolante per quest'ultimo, che ben potrebbe a sua volta adottare una pronuncia declinatoria dando vita ad un conflitto negativo di competenza. Si può, dunque, ben affermare che, a fronte di un rigetto del ricorso ex art 669-duodecies c.p.c. per incompetenza, il ricorrente abbia facoltà di proporre subito reclamo o di riproporre la domandaex art. 669-duodecies c.p.c. ad altro giudice e, a fronte di un nuovo diniego, reclamare questo secondo provvedimento. Occorre, tuttavia, anche prendere atto che il rimedio non appare sempre risolutivo. Infatti, solo se il giudice del reclamo accogliesse le doglianze del ricorrente affermando la competenza del giudice di prime cure si può ipotizzare che questi debba adeguarsi alla pronuncia del giudice superiore in applicazione dei principi generali sulle impugnazioni. Il che, peraltro, presuppone che il tenore dell'art. 669-terdecies c.p.c., a mente del quale non è mai ammesso il rinvio al primo giudice, consenta in tal caso di ritenere che il giudice del reclamo debba rimettere le parti davanti al giudice di prime cure che si era ritenuto incompetente. Se, invece, il reclamo è rigettato il problema resta insoluto dato che la decisione non è in parte qua più vincolante per gli altri giudici di quanto non lo sia quella del giudice dell'attuazione. E ciò per ragioni di sistema (la scelta tecnica di non utilizzare il congegno della translatio) che prescindono dalla natura e struttura del reclamo. La giurisprudenza di legittimità esclude, allo stato, l'esperibilità del regolamento di competenza nei confronti dei provvedimenti resi ex art. 669-duodecies c.p.c. proprio sull'assunto della loro naturale reclamabilità. La Suprema Corte si è, in particolare, pronunciata (Cass. I, n. 5739/2002) sul regolamento di competenza sollevato d'ufficio da un giudice dell'esecuzione, successivamente all'ordinanza con la quale il giudice che aveva autorizzato un sequestro conservativo aveva dichiarato la propria incompetenza, proprio a favore del giudice dell'esecuzione, in ordine ad un'istanza di riduzione, conversione e autorizzazione all'utilizzo del compendio sequestrato. In quella occasione, i magistrati di Piazza Cavour hanno avuto modo di ribadire che, «per consolidata giurisprudenza (Cass. I, n. 3888/1998; Cass. I, n. 6134/1998; Cass. I, n. 10710/1999), affinché si abbia una sentenza implicita sulla competenza, impugnabile con l'istanza di regolamento, è indispensabile un provvedimento che comporti una decisione irretrattabile e provenga da un organo giudiziario dotato di potere decisorio, con la conseguenza che non può configurarsi un'implicita statuizione al riguardo, nel caso di provvedimenti ritrattabili o comunque inidonei a pregiudicare la decisione della causa; sulla base di tale principio, si è ritenuto, in particolare (Cass. I, n. 5229/1997) che non è ammissibile, neanche in riferimento all'art. 111 Cost., il regolamento di competenza in ordine al procedimento di attuazione di misure cautelari (art. 669-duodecies c.p.c.), in quanto al principio della non ricorribilità in cassazione – stante la loro non decisorietà e non irretrattabilità – dei provvedimenti cautelari di accoglimento o di rigetto e delle declaratorie sulla competenza emanate nell'ambito dei relativi procedimenti è applicabile anche ai provvedimenti relativi alle istanze sull'attuazione delle misure cautelari, che hanno carattere strumentale rispetto a questi ultimi e sono anch'essi destinati a perdere efficacia a seguito della decisione di merito e a non produrre effetti sostanziali definitivi (in senso conforme, v. Cass. I, n. 2598/1999; Cass. I, n. 13652/1999); più specificamente, si è affermato che la natura non decisoria né irretrattabile dei provvedimenti assunti sulle richieste inerenti all'attuazione di un provvedimento cautelare può essere desunta dal disposto dell'art. 669-duodecies c.p.c., che stabilisce la riproposizione di ogni altra questione su tale attuazione nel giudizio di merito, ed inoltre che l'inammissibilità del regolamento di competenza non verrebbe meno inquadrando la specie nel processo esecutivo, perché le disposizioni del giudice dell'esecuzione sono rimediabili con l'opposizione agli atti esecutivi (Cass. I, n. 10108/2000); tale orientamento, affermato con riferimento al ricorso per regolamento di competenza, non può non valere anche per la richiesta d'ufficio di regolamento di competenza ex art. 45 c.p.c., da ritenersi ammissibile solo quando il primo giudice si sia pronunciato sulla competenza con sentenza o comunque con pronuncia a carattere decisorio e irretrattabile, suscettibile di acquistare efficacia definitiva (Cass. I, n. 1814/1991; Cass. I, n. 7145/1996; Cass. I, n. 15534/2000)». Su tali premesse, è fondata la conclusione che l'ordinanza resa in sede di attuazione cautelare non è suscettibile di regolamento di competenza, che va perciò dichiarato inammissibile (principio ribadito anche da Cass. III, n. 6485/2004 e da Cass. III, n. 443/2005). Non così altra giurisprudenza di legittimità (Cass. I, n. 18680/2003). La fattispecie riguardava una istanza di sequestro proposta davanti al tribunale competente sulla base di clausola derogatoria della competenza territoriale. Il giudice, ritenendo nulla la clausola, si era dichiarato incompetente in favore di altro tribunale che, a sua volta, aveva declinato la propria competenza considerando la stessa clausola valida. La Suprema Corte, adita in sede di regolamento di competenza d'ufficio, statuì che era ammissibile il regolamento di competenza d'ufficio sollevato dal secondo giudice cautelare adìto ante causam nell'ipotesi in cui il primo giudice della cautela avesse già declinato la propria competenza. Il contrasto è stato alfine risolto dalle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 16091/2009). Nella fattispecie, a seguito di reclamo contro un'ordinanza emessa in sede cautelare, il tribunale del lavoro in composizione collegiale aveva declinato la propria competenza a favore della corte d'appello che, a sua volta, si era dichiarata incompetente ed aveva richiesto, d'ufficio, il regolamento di competenza. Il massimo organo di nomofilachia ha statuito che, «in materia di procedimenti cautelari, è inammissibile la proposizione del regolamento di competenza, anche nell'ipotesi di duplice declaratoria d'incompetenza formulata in sede di giudizio di reclamo, sia in ragione della natura giuridica dei provvedimenti declinatori della competenza – che, in sede cautelare, non possono assurgere al genus della sentenza e sono, pertanto, inidonei ad instaurare la procedura di regolamento in quanto caratterizzati dalla provvisorietà e dalla riproponibilità illimitata – sia perché l'eventuale decisione, pronunciata in esito al procedimento disciplinato dall'art. 47 c.p.c., sarebbe priva del requisito della definitività, in ragione del peculiare regime giuridico del procedimento cautelare nel quale andrebbe ad inserirsi». Le conclusioni attinte in sede di legittimità appaiono plausibili in ordine ad ogni altro profilo di riesame e sono forse accettabili nella misura in cui di fatto il secondo giudice (adito in seguito alla pronuncia declinatoria) si ritenga competente. Esse non tengono, tuttavia, in adeguato conto proprio l'eventualità del conflitto negativo che il reclamo non è in grado di scongiurare per le già evidenziate ragioni di sistema. Neppure ha pregio l'argomento, nel 2009 assunto a sostegno della soluzione ostativa al regolamento d'ufficio anche in caso di doppia declinatoria resa in sede di cognizione, della natura non definitiva dell'ordinanza cautelare, a differenza di quanto accade per la sentenza o il provvedimento di forma diversa rispetto ai quali il rimedio è stato pensato (Delle Donne 2012, passim). Nell'àmbito del giudizio dichiarativo nella prospettiva del giudicato, l'ammissibilità del regolamento di competenza esclusivamente nei confronti provvedimento con cui la questione è decisa ha infatti una precisa ratio: consentire l'impugnazione solo quando il giudice si spoglia definitivamente del potere decisorio sulla questione stessa, che dunque o è sottoposta al giudice dell'impugnazione o si cristallizza per effetto del giudicato. Se, invece, il giudice deliba in senso non impediente la questione non è in alcun modo pregiudicata, perfezionandosi solo in sede decisoria la perdita definitiva del potere. Sarà, quindi, rispetto al provvedimento finale che andrà valutato l'interesse all'impugnazione. Tornando al processo cautelare, il provvedimento con il quale il giudice, in sede di cognizione o di attuazione, declina la propria competenza, è un'ordinanza che, in quanto chiude la fase processuale davanti al giudice adìto, è processualmente definitiva. Non essendovi dunque possibilità che il giudice ritorni sulla sua decisione, l'interesse all'impugnazione deve considerarsi attuale. E di questo la Cassazione stessa appare pienamente consapevole nel momento in cui ammette la generale reclamabilità del provvedimento declinatorio della competenza, sia reso in sede di cognizione che di attuazione cautelare. L'ammissibilità del reclamo non implica tuttavia l'esclusione del regolamento di competenza, in quanto tale forma di riesame non appare, ut supra, ad esso equivalente sul piano della stabilità e della vincolatività della decisione per il diverso giudice indicato come competente (giudice ad quem). Non appare, cioè, idonea allo scopo cui dovrebbe assolvere, lasciando la parte in balìa di un possibile conflitto negativo di competenza che le sbarra di fatto l'accesso alla tutela (sia sub specie di ottenimento della stessa che di attuazione). L'argomento della pretesa non definitività dell'ordinanza cautelare si rivela, dunque, formalistico sotto un duplice profilo. Esso non sembra correttamente individuare l'accezione della definitività presupposta dagli artt. 42-45 c.p.c. Di conseguenza, disconosce un dato incontestabile: e cioè che la declinatoria di competenza cautelare chiude il processo davanti al giudice adìto proprio come la declinatoria di competenza chiude il processo davanti al giudice della tutela dichiarativa. Che nel primo caso, a differenza che nel secondo, la domanda sia riproponibile ex art. 669-septies c.p.c. (al cui commento si rinvia) non muta i termini del problema, perché l'interessato non ha strumenti di riesame (né da parte dello stesso giudice né da parte di altri giudici) che gli rendano certezza in ordine all'individuazione del giudice cui compete la concessione o l'attuazione della cautela. Non è dunque la forma del provvedimento (che deriva da scelte del legislatore ordinario nell'organizzazione dei singoli processi) ad assumere rilievo, quanto la sua definitività intesa (in senso processuale, id est) come idoneità a chiudere la fase processuale davanti al giudice che l'ha resa. Nel giudizio dichiarativo ove il regolamento d'ufficio trova il suo ambito di applicazione, e nel giudizio cautelare, ricorre dunque una medesima ratio: quella di evitare il conflitto negativo e reale di competenza. Ad onta della soluzione negativa fornita dalla Cassazione, l'applicazione dell'art. 45 c.p.c. (almeno) in caso di doppia declinatoria di competenza in sede di attuazione cautelare trova dunque spazio in via analogica. Il regolamento d'ufficio dovrebbe, cioè, ritenersi praticabile sia da parte del secondo giudice, come testualmente prevede la norma, sia da parte del beneficiario della cautela, che si legittima in base all'allegazione di non avere in concreto un giudice che si dichiari competente a gestire l'attuazione. La soluzione non appare certo priva di inconvenienti, importando l'innesto, nell'àmbito di uno snodo molto delicato del processo cautelare, di un giudizio di cassazione caratterizzato da tempi notoriamente lunghi. Allo stato, tuttavia, occorre prendere atto che si tratta del minore dei mali, profilandosi in sua assenza seri problemi sul piano dell'effettività della cautela e, nel contesto della strumentalità attenuata dell'art. 669-octies c.p.c. (al cui commento si rinvia) della tutela giurisdizionale tout court. Attuazione e terzi incisi dal dictum e dalla procedura esecutiva: premessa.Uno dei più delicati problemi posti dall'attuazione delle cautele di fare-non fare-dare è quello della tutela dei terzi pregiudicati dal provvedimento cautelare o dalla sua attuazione. Pregiudiziale alla sua soluzione ermeneutica è la delimitazione del tipo di pregiudizio patito e del soggetto che lo lamenta. Una delimitazione che conosce soluzioni diversificate ed ispirate in molti casi proprio alla logica del caso concreto. Ne è esempio la giurisprudenza di merito, nella quale, ad esempio (Trib. Verona 30 maggio 2000) si è negato l'accesso al reclamo al terzo che rivendicava la proprietà della cosa oggetto del sequestro giudiziario reso inter alios. La conclusione riposava sull'assunto che questi, pur legittimato all'intervento in appello ex art. 344 c.p.c. e all'opposizione ex art. 404 c.p.c., non poteva considerarsi litisconsorte necessario pretermesso nel giudizio originario (contra, invece, per la legittimazione al reclamo in capo al terzo, v. Trib. Roma 29 maggio 2000; Trib. Torre Annunziata 5 maggio 2000). Altra giurisprudenza (Trib. Agrigento 11 ottobre 2000) ha riconosciuto la legittimazione al reclamo al lavoratore che si assumeva leso dalla pronuncia ex art. 700 resa inter alios, in materia di accertamento del diritto di precedenza nel trasferimento ai sensi dell'art. 33 della l. n. 104/1992, mentre ha dichiarato inammissibile (Trib. Roma, 27 marzo 2000) il reclamo proposto dal pubblico ministero, che nel caso specifico non era dotato di potere di azione, e che non aveva preso parte alla fase cautelare in prime cure. Limitando il discorso al solo interesse costituito dal pregiudizio alle proprie ragioni, si può partire dalla summa divisio operata da dottrina e giurisprudenza tra il pregiudizio derivante dalla stessa concessione del provvedimento e quello derivante invece solo dalla sua esecuzione. Ricorre la prima ipotesi quando il regolamento di interessi contenuto nel provvedimento cautelare incide negativamente sulla sfera giuridica di un soggetto che non ha partecipato alla relativa fase di concessione. La fattispecie è quella del c.d. pregiudizio da esecuzione individuato dalla dottrina cui si deve l'enucleazione dell'interesse all'impugnazione nelle forme dell'art. 404, comma 1, c.p.c. e ricorre qualora il provvedimento imponga un facere incompatibile con quello cui l'obbligato è tenuto nei confronti di un terzo, titolare di una posizione autonoma e prevalente rispetto a quella su cui si è formato il convincimento del giudice (Luiso 2021, 514). Si pensi, a titolo esemplificativo, al caso di un lavoratore che venga collocato (illegittimamente) a riposo, o in mobilità (Trib. Trani 21 novembre 2000) o sottratto alle sue originarie mansioni, con contestuale assegnazione del suo posto ad altro dipendente (Trib. Agrigento 11 ottobre 2000). Ma la situazione è identica nel caso di un litisconsorte necessario pretermesso in fase cautelare. Per terminare la breve carrellata sui terzi pregiudicati dalla misura, sembra possibile accedere alla tesi che fa rientrare in tale ambito anche gli aventi causa ed i creditori di una delle parti, che lamentino il dolo o la collusione a loro danno ai sensi dell'art. 404, comma 2, c.p.c., sempre che ciò si sia tradotto in una misura immediatamente lesiva dei loro interessi (si pensi al caso del locatore che, d'accordo con il conduttore, ottenga un provvedimento d'urgenza di immediato rilascio dell'immobile a danno del subconduttore). Il profilo del pregiudizio derivante direttamente e solo dall'attuazione della misura attiene invece all'invasione della sfera giuridica di terzi a causa di un errore materiale nel compimento delle attività di esecuzione. La domanda cui occorre trovare risposta è, dunque, la seguente: in che modo potranno tali soggetti lamentare il pregiudizio da essi subìto? Segue. La tutela dei terzi direttamente incisi dal dictum In riferimento alla prima delle ipotesi evocate, quella cioè del pregiudizio «da esecuzione», qualora esso derivi da una sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva, nel processo civile il problema è risolto legittimando il terzo all'opposizione dell'art. 404, comma 1, c.p.c. che consente anzitutto la sospensione delle operazioni esecutive da cui nasce il pregiudizio e poi la ridecisione, in contraddittorio delle parti originarie, della controversia decisa dalla sentenza impugnate. Il che ben si comprende: l'esecuzione forzata realizza il contenuto precettivo del provvedimento. È, dunque, quest'ultimo che deve essere rimodulato per una efficace e definitiva rimozione del pregiudizio, a nulla valendo contrastare solo l'esecuzione forzata in quanto tale. Progressivamente, la giurisprudenza costituzionale ha esteso il rimedio anche a provvedimenti diversi dalla sentenza (Corte cost., n. 167/1984, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 404 c.p.c. nella parte in cui non ammette il rimedio ivi previsto avverso l'ordinanza di convalida di sfratto per finita locazione, emanata per la mancata comparizione dell'intimato o per la sua mancata opposizione, pur comparso; Corte cost., n. 237/1985 e Corte cost., n. 192/1995 hanno fatto altrettanto in riferimento all'ordinanza di sfratto per morosità e a quella di convalida di licenza per finita locazione; infine, Corte cost., n. 1105/1988 si è pronunciata in riferimento all'ordinanza di affrancazione del fondo ex art. 4 della l. n. 607/1986) ed anche al di fuori del processo (davanti al giudice) civile, in particolare alle sentenze sia di primo grado che d'appello dei giudici amministrativi, per le quali non era testualmente previsto (Corte cost., n. 177/1995, richiamandosi agli artt. 3 e 24 Cost., ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 36 l. Tar, nella parte in cui non prevede l'opposizione di terzo ordinaria fra i mezzi di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato e dell'art. 28 della stessa legge, nella parte in cui non prevede l'opposizione di terzo fra i mezzi di impugnazione delle sentenze dei T.A.R. divenute giudicato. Oggi la revocazione e l'opposizione di terzo sono espressamente previste dagli artt. 106 ss. del codice del processo amministrativo). Occorre allora verificare se nel sistema processuale cautelare sia rintracciabile un rimedio che realizzi la ratio sottesa alla tutela che in altri processi riveste la forma dell'opposizione dell'art. 404 c.p.c.in parte qua. Considerato che occorre intaccare e rimodulare il contenuto del dictum cautelare, il rimedio appropriato sembra quello del reclamo del terzo che si legittimi in base all'allegazione del «pregiudizio da esecuzione» nei termini surriferiti. Una delle ipotesi di legittimazione del terzo al reclamo enucleata in sede applicativa è quella in cui, dopo l'ordine di reintegra del lavoratore, il datore abbia costituito un nuovo rapporto con un altro soggetto chiamato, al posto del beneficiario della reintegra stessa, ad espletare le mansioni che sarebbero spettate a quest'ultimo. La giurisprudenza di legittimità formatasi sull'esecuzione della sentenza di reintegra (così, in particolare, Cass. IV, n. 12123/2002, cit.; Cass. IV, n. 14142/2002; Cass. IV, n. 13727/2000; Cass. IV, n. 77/1998; Cass. IV, n. 2229/1997) ha, infatti, in più occasioni precisato che la sostituzione del lavoratore licenziato con un altro deve ritenersi provvisoria e condizionata alla definitiva reiezione dell'impugnativa del licenziamento, non potendo perciò costituire una delle ragioni tecnico-organizzative che consentono il trasferimento del lavoratore reintegrato ad altra sede. La posizione del sostituto appare dunque, se è davvero tale, recessiva rispetto a quella del lavoratore illegittimamente licenziato: la (ri)assegnazione del posto vacante non è infatti che la conseguenza della condotta datoriale censurata con il provvedimento di reintegra. Non varrebbe, perciò, a quest'ultimo aggredire il provvedimento attuativo con cui il giudice fissi, ex art. 669-duodecies c.p.c., le modalità di esecuzione dell'ordine di reintegra, anche disponendo la sua estromissione dal posto che occupa. Tale provvedimento mira, infatti, alla realizzazione del contenuto del dictum, sicché solo a quest'ultimo si può ascrivere portata pregiudizievole, se il controinteressato assume che la sua è una posizione prevalente rispetto a quella del lavoratore reintegrato. Di qui la riconosciuta legittimazione del controinteressato stesso al reclamo contro il provvedimento cautelare di reintegra. Fa eco la giurisprudenza di merito (Trib. Milano 22 febbraio 1997; Trib. Milano 29 novembre 1997), alla quale si deve l'affermazione che la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato può essere eseguita, nel rispetto dell'art. 18 della l. n. 300/1970, anche mediante l'adibizione a mansioni diverse da quelle svolte precedentemente quando, a norma dell'art. 2103 c.c., la nuova destinazione del lavoratore sia giustificata da ragioni tecniche, organizzative e produttive rigorosamente comprovate (nelle fattispecie decise, tuttavia, il tribunale ha ritenuto che non integrasse una ragione di tal tipo il fatto che il posto del lavoratore licenziato fosse stato nel frattempo coperto da altro dipendente). Il controinteressato potrà così proporre reclamo e, laddove il relativo giudizio sia in corso perché promosso da una delle parti originarie, potrà intervenirvi e chiedere, anche aderendo ad analoga richiesta già formulata dal reclamante, la sospensione dell'attuazione. Il reclamo andrà esperito entro quindici giorni dalla conoscenza che il terzo controinteressato acquisisca del provvedimento cautelare (nella specie, di reintegra). Qualora, invece, la presenza di un terzo controinteressato emerga nel corso dell'istruttoria cautelare, egli potrà esservi chiamato su istanza di parte o per ordine del giudice. In giurisprudenza (Trib. Roma 27 marzo 2000, in fattispecie di reclamo proposto dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri) si tende a ritenere inammissibile il reclamo proposto dal pubblico ministero che non abbia preso parte al primo grado di un giudizio cautelare incidente su questioni relative a stato e capacità delle persone ancorché il suo intervento fosse obbligatorio, ed inammissibile anche il reclamo proposto dal terzo che non possa ritenersi litisconsorte necessario pretermesso né terzo pregiudicato dal giudizio di primo grado (in tal senso, v. già Trib. Catanzaro 27 maggio 1997, il quale ha precisato che è ammissibile il reclamo proposto da un terzo avverso il provvedimento cautelare reso inter alios, solo qualora questi subisca un pregiudizio diretto e non meramente occasionale che si concreti nella lesione non di un generico interesse, ma di una situazione soggettiva tutelata come tale dall'ordinamento, dimodoché il terzo, appaia come il destinatario effettivo e sostanziale del provvedimento formalmente reso nei confronti di un'altra parte; v., altresì, Trib. Chieti 25 marzo 1994; Trib. Camerino 30 agosto 1993). Questa lettura si presta, tuttavia, ad una critica di fondo. Se, infatti, il destinatario passivo del provvedimento, che è stato già sentito, è legittimato al reclamo, maiori causa dovrà esserlo chi, parimenti inciso dal provvedimento, neppure abbia avuto l'opportunità di spiegare aliunde le sue difese. Diversamente argomentando, i terzi verrebbero altrimenti privati della tutela cautelare tout court. E tale carenza, a meno di non essere supplita da quella d'urgenza ex art. 700 c.p.c. per paralizzare gli effetti del provvedimento pregiudizievole, aprirebbe la strada ad un grave dubbio di costituzionalità dell'art. 669-terdecies c.p.c. (al cui commento si rinvia) per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. Neppure è possibile sostenere che la legittimazione del terzo pregiudicato al reclamo contrasti con i principi generali sulle impugnazioni, caratterizzati dalla summa divisio tra mezzi riservati alle parti e mezzi riservati ai terzi. Neppure nella sua sede naturale il distinguo tra appello ed opposizione di terzo appare infatti così netto quando il terzo lamenti un pregiudizio derivante da sentenza ancora appellabile o per la quale già pende l'appello, visto che gli è consentito l'intervento. Proprio l'art. 344 c.p.c., che tale intervento consente, è anzi la riprova di come un mezzo di impugnazione normalmente riservato alle parti possa aprirsi ad accogliere un thema decidendum più ampio in virtù del coinvolgimento di terzi. Si può, dunque, concludere che il reclamo: a) esperito dalle parti, assuma la sostanza dell'impugnazione a critica libera disegnata dall'art. 669-terdecies c.p.c.; b) esperito invece dai terzi, assuma la sostanza di una opposizione ex art. 404, comma 1, c.p.c. (con i dovuti distinguo, che derivano dal fatto che il riferimento all'opposizione di terzo riguarda i presupposti soggettivi ed i motivi dell'impugnazione disegnati dall'art. 404 c.p.c., non invece le relative forme processuali: così, ad esempio, il reclamo avente tale contenuto non andrà proposto al giudice che ha reso il provvedimento, ma secondo le regole previste dall'art. 669-terdecies c.p.c.). Ed in entrambi i casi, come conferma l'art. 344 c.p.c. nel sistema processuale che accoglie invece la summa divisio tra mezzi riservati alle parti e mezzi riservati ai terzi, motivi diversi e legittimazioni diverse sono ospitati all'interno di uno stesso contenitore processuale. La soluzione proposta ha varie ricadute pratiche (Corsini 2002, 264): ad esempio, lo «spezzettamento» della fase impugnatoria avverso la medesima misura; il fatto che il reclamo del terzo, se preceduto da quello della parte, andrebbe formalmente proposto contro un provvedimento del collegio, ad onta della espressa non riesaminabilità delle pronunce già rese in sede di reclamo. Le obiezioni, tuttavia, non convincono. Si è, infatti, già rilevato che ove riservato ai terzi il reclamo ospiti un oggetto che è nella sostanza quello di un'opposizione di terzoex art. 404, comma 1, c.p.c., mentre dell'impugnazione disegnata dall'art. 669-terdecies c.p.c. viene in rilievo solo la forma processuale (ivi compresi i termini, decorrenti dalla conoscenza del provvedimento, e la competenza) e non il thema decidendum. Inoltre, proprio l'opposizione di terzo, anche nel suo ambito di applicazione naturale disegnato dall'art. 404 e dalla giurisprudenza costituzionale, è un mezzo di impugnazione proponibile sine die, non essendo predeterminabile il momento in cui nasce il relativo interesse. Sembra perciò plausibile concludere nel senso che: a) se pende il giudizio di reclamo, il terzo può intervenirvi o essere chiamato; in tal caso, il thema decidendum originario si allarga ad accogliere le ragioni del terzo (come accade nell'appello ex art. 344 c.p.c.); b) se, invece, il termine per il reclamo è già spirato o il giudizio si è già concluso, il terzo potrà esperire l'impugnazione nel termine decorrente dalla conoscenza del provvedimento e davanti al giudice competente in caso di misura emessa da un collegio (che tale è sempre il giudice del reclamo). Parti del giudizio saranno sempre e comunque anche quelle originarie, a conferma del fatto che nelle forme processuali del reclamo si porta all'attenzione del giudice il tipico thema decidendum dell'opposizione di terzo. Segue. La tutela dei terzi incisi dalla procedura attuativa. Esaurito l'esame del pregiudizio provocato dal contenuto precettivo del provvedimento, rimane da affrontare quello del pregiudizio derivante invece dall'invasione della sfera giuridica di terzi a causa di un errore nel compimento delle attività esecutive. Qui, a differenza che nel caso precedente, non è la pronuncia in quanto tale a pregiudicare la sfera giuridica di un soggetto diverso dall'obbligato, ma un errore materiale nel corso della sua attuazione. Il soggetto che lamenti tale incisione troverà dunque anzitutto una sedes adeguata davanti al giudice dell'attuazione. La sua può, infatti, senz'altro considerarsi una contestazione relativa all'attuazione sulla quale il giudice rende ordinanza sentite anche le parti originarie. La dizione letterale dell'art. 669-duodecies c.p.c., che fa riferimento alle sole parti, non appare in alcun modo ostativa a questa conclusione trattandosi pur sempre di contestazioni sulle modalità esecutive il cui alveo naturale è quello dell'esecuzione stessa e si pone quale presupposto delle conseguenti opportune disposizioni correttive. Occorre, invece, chiedersi se avverso tale provvedimento sia ipotizzabile un riesame, ed in quale forma. Nei processi esecutivi del codice di rito, la valutazione delle ragioni del terzo è affidata all'opposizione ex art. 619 c.p.c. Nel giudizio di ottemperanza alle sentenze del giudice amministrativo, il terzo può invece lamentare davanti al giudice dell'ottemperanza l'errore in cui è incorso il commissario ad acta (cui è demandata la surrogazione dell'amministrazione e la richiesta delle opportune disposizioni correttive: v., ad esempio, Cons. St., n. 826/1997). Poiché nell'attuazione cautelare la cognizione (funzionalmente esecutiva) è interna alla procedura, proprio come si è più volte rilevato accadere nel giudizio di ottemperanza, alla fattispecie si attaglia il rimedio impugnatorio del reclamo. Si tratterà, tuttavia, di un'applicazione analogica dell'art. 669-terdecies c.p.c.: a) sia quanto al provvedimento reclamabile, che non è la cautela ma l'ordinanza resa ex art. 669-duodecies c.p.c. (il provvedimento attuativo che reca le determinazioni del giudice in ordine alle lamentele del terzo, previa audizione sua e delle parti originarie); b) sia quanto a legittimazione, che appartiene a chi allega l'incisione della sua sfera giuridica a causa di un errore materiale nell'attuazione del dictum (nella sostanza il meccanismo realizza perciò la stessa ratio dell'opposizione di terzo all'esecuzione ex art. 619 c.p.c.). Occorre, inoltre, precisare che l'impugnazione dei terzi sub specie di reclamo avverso l'ordinanza ex art. 669-duodecies c.p.c., come del resto la loro audizione in sede attuativa, riguarda esclusivamente i profili relativi all'identificazione del bene inciso dall'attuazione: dato l'interesse a difendersi sul punto specifico, il reclamo va riconosciuto anche alle parti, che dovranno inoltre partecipare (rectius essere chiamate) al relativo giudizio ove iniziato dal terzo (così come, al contrario, il terzo dovrà essere chiamato in caso di reclamo esperito da una delle parti originarie). Secondo il modello proposto, dunque, l'identificazione del bene è discussa in sede cautelare in doppio grado, e nel contraddittorio di tutti gli interessati, salva la valutazione dei profili di merito in autonomo giudizio. Deve, cioè, trattarsi di giudizio diverso da quello (eventualmente) già in corso sul diritto cautelato, per il semplice fatto che il terzo non vi ha interesse: questo giudizio ha infatti un oggetto diverso dal diritto sul bene erroneamente inciso dall'attuazione cautelare. BibliografiaAA.VV. La riforma Cartabia del processo civile. Commento al d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, Pisa, 2023; AA.VV., Spinte e controspinte della responsabilità patrimoniale, in suppl. di Giur. merito, luglio-agosto 2007, 7; Amendolagine, Attuazione dei provvedimenti cautelari, in Ilprocessocivile.it, bussola 5 novembre 2021; Andolina, Profili della nuova disciplina dei provvedimenti cautelari in generale, in Foro it., 1993, V, 65; Andrioli, Intorno agli «effetti sostanziali» del pignoramento e del sequestro conservativo immobiliare, in Foro it., 1951, I, 1598; Andrioli, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1964; Andrioli, voce Fallimento, in Enc. dir., vol. 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