Codice di Procedura Civile art. 669 ter - Competenza anteriore alla causa (1).

Vito Amendolagine

Competenza anteriore alla causa (1).

[I]. Prima dell'inizio della causa di merito la domanda si propone al giudice competente a conoscere del merito [8 ss., 18 ss., 688 1].

[II]. Se competente per la causa di merito è il giudice di pace, la domanda si propone al tribunale (2).

[III]. Se il giudice italiano non è competente a conoscere la causa di merito [4], la domanda si propone al giudice, che sarebbe competente per materia o valore, del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare [669-duodecies].

[IV]. A seguito della presentazione del ricorso il cancelliere forma il fascicolo d'ufficio [36 att.] e lo presenta senza ritardo al presidente del tribunale il quale designa il magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento (3).

(1) La sezione (comprendente gli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies ) è stata inserita dall'art. 74, comma 2, l. 26 novembre 1990, n. 353, entrata in vigore il 1° gennaio 1993. L' art. 92 stabilisce inoltre: « Ai giudizi pendenti a tale data si applicano, fino al 30 aprile 1995, le disposizioni anteriormente vigenti ». L'art. 90, comma 1, l. n. 353, cit., come sostituito dall'art. 9 d.l. 18 ottobre 1995, n. 432, conv., con modif., nella l. 20 dicembre 1995, n. 534, estende ulteriormente l'applicabilità delle disposizioni ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995.

(2) Comma modificato dapprima dall'art. 39 l. 21 novembre 1991, n. 374, e successivamente dall'art. 107 1a d.lg. 19 febbraio 1998, n. 51, con effetto, ai sensi dell'art. 247 comma 1 dello stesso decreto quale modificato dall'art. 1 l. 16 giugno 1998, n. 188, dal 2 giugno 1999.

(3) Comma così modificato dall'art. 107 1b d.lg. n. 51, cit., con effetto, ai sensi dell'art. 247, comma 1, dello stesso decreto quale modificato dall'art. 1 l. 16 giugno 1998, n. 188, cit., dal 2 giugno 1999.

Inquadramento

Un requisito peculiare al ricorso ante causam consiste nell'indicazione della futura domanda che si intenderà proporre nell'eventuale giudizio di merito.

Il requisito anzidetto, pur non essendo prescritto da un'espressa disposizione di legge sembra essere condiviso in dottrina (Carratta, 127; Verde, 223; Vullo, 26), atteso che, il suo fondamento risiede nella strumentalità della tutela cautelare rispetto al giudizio di merito, in ossequio all'esigenza di palesare a quale azione dichiarativa la tutela cautelare è strumentale (Turroni, 8).

L'indicazione della causa di merito è imprescindibile anche nel modificato quadro della disciplina uniforme dei procedimenti cautelari, valendo anche per le misure anticipatorie emesse ante causam, perché anche rispetto a tale ipotesi, qualora un giudizio venga iniziato esso dovrà essere identificabile come giudizio di merito, allo scopo di consentire che le questioni da proporre necessariamente nel giudizio di merito vengano rappresentate in tale sede appropriata. E questo dato di riconoscibilità del giudizio di merito come tale non può che passare dalla previa indicazione già nella sede cautelare ante causam di quale sia tale causa, sia che essa venga effettivamente promossa da qualcuna delle parti, sia che ciò non avvenga, perché le norme devono funzionare in modo corretto in relazione a tutti i possibili sviluppi processuali dalle stesse previsti (Trib. Nola 29 luglio2011).

La domanda cautelare prima dell'inizio della causa di merito si propone al giudice competente a conoscere quest'ultima, eccetto se trattasi del giudice di pace, perché in quest'ultima ipotesi la domanda cautelare si propone dinanzi al tribunale. Nel caso in cui non sia competente il giudice italiano a conoscere la causa di merito, la domanda cautelare si propone al giudice, che sarebbe competente per materia o valore, del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare.

Nel cautelare ante causam a seguito della presentazione del ricorso ex art. 669-bis c.p.c. – che sebbene non preveda il contenuto della domanda, si è ritenuto che debba farsi riferimento all'art. 125 c.p.c. il quale, atteso che essendo una norma contenuta nelle disposizioni generali del libro I, è applicabile alle fattispecie contemplate nei libri successivi – il cancelliere forma il fascicolo d'ufficio e lo presenta senza ritardo al presidente del tribunale, il quale designa il magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento cautelare. Il ricorso cautelare dovrà, pertanto, contenere l'indicazione dell'ufficio giudiziario davanti al quale si propone la domanda, delle parti, dell'oggetto, delle ragioni della domanda, unitamente alle conclusioni che la parte sottopone al giudice e alla procura. In particolare, poi, dovrà indicarsi il provvedimento cautelare che si vuole ottenere dal giudice, il c.d. petitum immediato. Anche nel caso di domanda cautelare proposta ante causam, si ritiene che debbano indicarsi, da parte del ricorrente, le conclusioni che saranno oggetto della successiva domanda di merito. Tale soluzione poggia sul rapporto di strumentalità esistente tra il giudizio cautelare e il giudizio principale ed è utile anche al fine di individuare la competenza cautelare, nonché la presenza del requisito del fumus boni iuris.

Invero, l'indicazione nel ricorso cautelare dell'azione sostanziale che si intende proporre è funzionale a consentire al giudice di verificare la propria giurisdizione e competenza, di accertare l'esistenza del fumus boni iuris, prima ancora del periculum permettendogli di emanare un provvedimento cautelare che attribuisca una tutela che non sia più ampia di quella ottenibile con la sentenza di merito, e di verificare se nel termine di cui all'art. 669-octies c.p.c. venga iniziato il giudizio di merito.

Secondo l'orientamento maggioritario della giurisprudenza di merito, la mancata indicazione della domanda di merito comporta la nullità del ricorso cautelare, la quale non è sanabile attraverso l'applicazione dell'art. 164 c.p.c., in quanto tale norma, dettata per l'ordinario processo di cognizione, non è compatibile con la ratio che informa il processo cautelare (Trib. Lecce 29 marzo 2019; Trib. Catania 12 giugno2001; Trib. Napoli 30 aprile1997).

Il procedimento cautelare ante causam

Nel procedimento cautelare proposto ante causam, è necessario che il soggetto che invoca tutela espliciti la causa petendi ed il petitum che formeranno oggetto del conseguente giudizio di merito, onde consentire alla controparte di poter adeguatamente difendersi in relazione alla cautela invocata ed al giudice di compiere un idoneo accertamento sulla propria competenza a provvedere sulla relativa domanda – al giudice della cautela sono conferiti ampi poteri interpretativi al fine di acclarare, caso per caso, sulla base di un esame complessivo dell'atto introduttivo, se dalla sua formulazione possano desumersi, anche solo implicitamente, attraverso il normale sforzo interpretativo, quale sia la futura causa di merito – (Trib. Milano 7 luglio 2014; Trib. Monza 24 gennaio2000; Trib. Trieste 24 luglio1999), sulla strumentalità della misura rispetto al diritto da cautelare, nonché, in seguito, sull'eventuale inefficacia del provvedimento per il mancato azionamento della domanda di merito inerente lo stesso diritto cautelato ex art. 669-novies c.p.c. quando la misura cautelare richiesta abbia contenuto, non anticipatorio, ma conservativo, connotandosi, rispetto al successivo giudizio di merito, da un rapporto a «strumentalità rigida» (Trib. Campobasso 20 gennaio 2021; Trib. Nola 20 maggio 2020; Trib. Lecce 29 marzo 2019; Trib. Roma 10 marzo2016; Trib. Modena 5 giugno2015; Trib. Milano 11 novembre 2011; Trib. Bari 30 settembre 2010; Trib. Isernia 15 settembre2009; Trib. Castrovillari 4 ottobre 2007; Trib. Modena 13 settembre 2007).

In base all'interpretazione emersa in dottrina e tra i giudici di merito, siffatta esigenza non è venuta meno ed anzi apparerafforzata dalla potenziale stabilità del provvedimento cautelare sancita dall'art. 669-octies c.p.c., che impone che il provvedimento cautelare richiesto riproduca l'assetto degli interessi tracciato dal diritto sostanziale, per verificare che il primo sia servente e strumentale rispetto alle statuizioni di merito che s'intendono in seguito conseguire nel giudizio a cognizione piena, dal momento che è pacifico che la strumentalità costituisce una caratteristica strutturale di tutte le misure cautelari, nel senso che esse – come posto in luce da una autorevolissima dottrina – non sono mai fine a se stesse, ma sono immancabilmente preordinate all'emanazione di un ulteriore provvedimento definitivo, di cui esse provvisoriamente assicurano la fruttuosità pratica, in quanto solo tale indicazione consente di accertare il carattere strumentale, rispetto al diritto cautelando, della misura richiesta.

L'autonomia tra fase cautelare e quella di merito consente che in quest'ultima siano formulate domande nuove ed ulteriori rispetto a quanto dedotto nella fase cautelare e, dunque, consente che l'oggetto e l'ambito sia più ampio perché il giudizio di merito, che segue a quello cautelare, non è un atipico giudizio «chiuso» ed irreversibilmente fissato dalla precedente fase cautelare (Cass. III, n.22830/2010).

Pertanto, il carattere strumentale della tutela cautelare ante causam pone, in capo alla parte ricorrente, l'onere di instaurare il giudizio, azionando la domanda di merito cui il rimedio cautelare inerisce, senza però esigere l'esclusività della relativa azione e, dunque, senza porre limiti alla proposizione di eventuali ulteriori domande, giacché una diversa interpretazione si porrebbe in palese contrasto con i principi della concentrazione processuale e del diritto di agire in sede giurisdizionale a tutela dei propri diritti (Trib. Bolzano 30 ottobre 2018).

In particolare, seppure con una portata attenuata rispetto a quanto previsto dalla disciplina previgente, la strumentalità e la provvisorietà rimangono elementi tipizzanti i provvedimenti cautelari, tra cui quelli d'urgenza e, insieme alle altre caratteristiche della residualità ed atipicità ed ai requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora, contribuiscono a delinearne i profili di ammissibilità e di contenuto nonché l'ambito di applicazione, attesa la strumentalità funzionale o di scopo, essendo il provvedimento comunque emanato in attesa od in vista di un provvedimento principale di merito, ragione per cui la strumentalità funzionale non viene meno per l'ultrattività che caratterizza i provvedimenti anticipatori, poiché, anche se destinati a rimanere efficaci se il giudizio di merito non viene iniziato – oppure se successivamente al suo inizio si estingue – continuano ad essere provvisori, per cui resta inalterato il rapporto, di carattere funzionale, tra procedimento cautelare e procedimento di merito (Trib. Campobasso 20 gennaio 2021 cit.).

L'art. 2476, comma 3, c.c. consente di disporre, anche ante causam, di uno strumento cautelare utile a prevenire danni potenziali al patrimonio ed all'organizzazione sociale derivanti da gravi irregolarità gestorie, e la suddetta domanda va ricondotta nel novero delle misure cautelari anticipatorie (Trib. Milano 21 aprile 2017; Trib. Bologna 18 aprile 2017).

Conseguentemente, in tema di provvedimento d'urgenza ante causam, l'indicazione della causa petendi e del petitum afferente il successivo ed eventuale giudizio di merito ha come finalità ulteriore quella di verificare il rispetto del principio di residualità il quale, costituisce una peculiarità propria di detta misura cautelare, atteso che, in forza del principio di residualità non possono conseguirsi effetti propri di altre misure cautelari tipiche mediante il ricorso ai provvedimenti d'urgenza, nel senso che non si può ricorrere a tale strumento per interferire con l'efficacia di una misura cautelare tipica riducendone od integrandone la sfera d'azione (Trib. Nola 29 gennaio 2013).

L'individuazione dell'ufficio giudiziario

La competenza cautelare ha natura tendenzialmente funzionale al giudizio di merito (Cass. III, n. 2505/2010) sulla cui scorta, in generale, le regole di competenza, anche interna, laddove attinenti al riparto delle controversie tra i diversi giudici di uno stesso ufficio giudiziario in relazione ai vigenti criteri tabellari, sono preordinate all'attuazione del principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge sancito dall'art. 25 Cost., di talché non potrebbe in alcun modo essere derogata la disciplina posta dall'art. 669-ter c.p.c. che stabilisce il criterio di collegamento della competenza nell'ipotesi di ricorso cautelare proposto ante causam.

Il codice di rito non contempla alcuna norma esplicitamente intesa ad imporre che la causa di merito sia radicata dinanzi al giudice della cautela, posto che, a fronte dell'art. 669-ter, comma 1, c.p.c. a termini del quale, prima dell'inizio della causa di merito la domanda si propone al giudice competente a conoscere del merito, l'art. 669-octies, comma 1, c.p.c., si limita a statuire che l'ordinanza di accoglimento, ove la domanda sia stata proposta prima dell'inizio della causa di merito, deve fissare un termine perentorio non superiore a sessanta giorni per l'inizio della causa di merito, e parimenti l'art. 669 novies comma 1 c.p.c., si limita a suggellare la perentorietà del suddetto termine, stabilendo che, se il procedimento di merito non è iniziato nel termine perentorio di cui all'art. 669-octies c.p.c. ovvero se successivamente al suo inizio si estingue, il provvedimento cautelare perde la sua efficacia (Trib. Milano 27 aprile 2005).

Al riguardo, si è quindi statuito che sebbene, da un lato, la mancanza di alcuna disposizione atta a sancire la competenza funzionale del giudice della cautela in relazione alla causa di merito non è di per se stessa decisiva nel senso della negazione di una siffatta competenza, potendosi ritenere che, al contrario, valga ad imporla la logica intrinseca del procedimento cautelare, dall'altro, la strumentalità del procedimento cautelare rispetto al giudizio di merito non si spinge sino al punto di esigere che il giudice del merito debba necessariamente coincidere con quello della cautela (Trib. Milano 27 aprile 2005).

Tuttavia, secondo Cass. III, n. 2505/2010, il giudice adìto ha il potere di rilevare d'ufficio la propria incompetenza anche per ragioni di territorio derogabile, essendo la sua competenza cautelare funzionalmente collegata a quella sul merito essendo, sotto tale profilo e limitatamente al giudizio cautelare scrutinabile anche d'ufficio.

Ciò in quanto il giudizio espresso dal giudice della fase cautelare, esplicitamente od implicitamente, in ordine alla propria competenza, non può in alcun modo vincolare il giudice del merito, precludendogli di giudicare sulla propria competenza, tanto se il medesimo giudice non lo abbia in alcun modo indicato nel provvedimento cautelare emesso, quanto se, esorbitando dai suoi poteri, lo abbia specificamente individuato e dinanzi a lui abbia rimesso le parti (Cass. III, n. 5760/1992, in una fattispecie in cui si era statuito che il giudice competente a conoscere del giudizio di merito successivo alla procedura di urgenza ex art. 700 c.p.c. va stabilito in base alle norme generali senza che una preclusione possa derivare dal provvedimento cautelare che contenga anche la determinazione di tale giudice).

A deporre in tale senso sovviene anche l'osservazione secondo cui la l. n. 353/1990, riformulando la sezione I del capo III del titolo I del libro IV del codice di procedura civile, dedicata, come si evince dalla stessa rubrica, ai procedimenti cautelari in generale, ha originato un'evidente soluzione di continuità rispetto al passato, perché ha delineato la disciplina di un procedimento cautelare uniforme, strumentale sì al giudizio di merito, ma nel contempo autonomo da esso, sorretto da proprie regole e proprie logiche, a tale punto da rimarcare al massimo grado la differenza che corre tra l'azione cautelare e quella di merito sia sul piano del petitum che, in certo qual modo, della causa petendi.

Invero, i commi 2 e 3 dell'art. 669-ter c.p.c. contemplano due casi in cui il giudice del merito è diverso da quello della cautela: il comma 2 si occupa del giudice di pace, cui è preclusa la materia cautelare, prevedendo che, se competente per la causa di merito è il giudice di pace, la domanda si propone al tribunale, mentre il comma 3 si occupa del giudice straniero, il quale nell'ipotesi abbia giurisdizione sulla controversia, prevede che, se il giudice italiano non è competente a conoscere la causa di merito, la domanda si propone al giudice, che sarebbe competente per materia o valore, del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare. Inoltre, l'art. 669-quinquies c.p.c., contemplando il caso che la controversia sia oggetto di clausola compromissoria o compromessa in arbitri o che sia pendente il giudizio arbitrale, dispone che la domanda si proponga al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito.

Le tre ipotesi citate sembrerebbero quindi dimostrare che il procedimento cautelare segue il suo corso a prescindere dall'impossibilità che il giudice del merito coincida con quello della cautela, fermo restando che, stante il principio generale di cui agli artt. 669-octies, commi 1 e 4, e 669-novies, commi 1 e 4, c.p.c., la validità ed efficacia del provvedimento cautelare ottenuto ante causam è subordinata all'introduzione del giudizio di merito, nel noto termine perentorio previsto ex lege.

A ciò aggiungasi che il provvedimento cautelare conserva la propria validità ed efficacia quand'anche la causa di merito venisse radicata davanti ad un giudice incompetente per territorio, atteso che la misura cautelare non diversamente da quanto accadrebbe ove fosse adìto proprio l'ufficio che la emise e successivamente fosse dichiarata la sua incompetenza, una volta concessa ed esauritasi, non sembra, infatti sensibile alle evenienze del giudizio di merito sulla competenza. La dichiarazione di incompetenza da parte del giudice adìto per il merito, sia esso coincidente con quello che emise la fase cautelare, sia esso diverso, non sembra, infatti, idonea a determinare il venire meno della misura cautelare (Cass. III, n. 2505/2010).

Sotto tale specifico aspetto, la sopra richiamata pronuncia non si pone in contrasto con Cass. I, n. 5335/2007, dalla quale, invece, dissente in ordine all'omessa rilevazione dell'incompetenza ad opera del giudice della cautela che non consuma la possibilità di esercitare il correlato potere da parte del giudice del merito, non operando nel giudizio cautelare il regime delle preclusioni relativo alle eccezioni e al rilievo d'ufficio dell'incompetenza, stabilito dall'art. 38 c.p.c., in quanto applicabile esclusivamente al giudizio a cognizione piena (conforme Cass. III, n. 24869/2010; e in motivazione Cass. VI, n. 10832/2011, laddove il collegio, condividendo le osservazioni svolte dal relatore ex art. 380-bis c.p.c., ha affermato che l'omessa rilevazione dell'incompetenza derogabile o inderogabile da parte del giudice o l'omessa proposizione della relativa eccezione ad opera delle parti nel procedimento cautelare ante causam non determina il definitivo consolidamento della competenza in capo all'ufficio adìto anche ai fini del successivo giudizio di merito, non operando nel giudizio cautelare il regime delle preclusioni relativo alle eccezioni e al rilievo d'ufficio dell'incompetenza, stabilito dall'art. 38 c.p.c., in quanto applicabile esclusivamente al giudizio a cognizione piena).

Infatti, se il rilievo d'incompetenza nel giudizio di merito è tempestivo, soccorre il disposto dell'art. 50, comma 1, c.p.c., il quale, in costanza di riassunzione, sancisce che il processo continua davanti al nuovo giudice, mentre se invece tale rilievo è tardivo, la competenza per il merito si radica definitivamente davanti al giudice adito, sebbene incompetente per territorio, senza interferire con il provvedimento cautelare, siccome a suo tempo reso da un giudice che era competente a conoscere del merito. Più precisamente, con riguardo a tale seconda evenienza, ciò che rileva è che il giudice della cautela fosse competente a conoscere del merito ex art. 669-ter, comma 1, c.p.c. a prescindere dalla successiva incompetenza del giudice del merito.

Ciò non toglie, però, che, se il processo di cognizione ordinaria – o speciale a cognizione piena, come quello lavoristico, locativo, agrario – deve considerarsi il modello processuale costituzionalmente corretto quanto alla tutela dei diritti alla stregua del principio del giusto processo, non sembra ad esso conforme un'interpretazione che sottragga, anche solo potenzialmente per effetto del silenzio del convenuto nella fase cautelare, la possibilità di avvalersi dei termini a difesa sulle questioni di competenza rilevanti non agli effetti della cognizione cautelare, bensì agli effetti del successivo giudizio di merito.

In definitiva, l'atteggiamento delle parti in sede cautelare, nonché quello del giudice adito, nell'avere omesso la rilevazione della propria incompetenza, intesa quale non coincidenza fra quest'ultimo giudice della cautela ed il giudice competente per il merito, è un'evenienza che non può comportare la cancellazione dell'applicabilità davanti al giudice adito successivamente per il merito, sia esso lo stesso ufficio che ha emesso la misura cautelare od altro ufficio, della disciplina dell'art. 38 c.p.c.

L'idea che al silenzio delle parti e del giudice nel procedimento cautelare si debba ricollegare, una volta emessa la misura cautelare, la definitiva consolidazione della competenza sul giudizio di merito in testa all'ufficio adito in sede cautelare, non è sostenibile nemmeno in caso di una competenza «debole» come quella territoriale derogabile, perché nell'ipotesi qui considerata, non potrebbe basarsi sulla circostanza che tale competenza possa essere derogata per accordo delle parti ex art. 29 c.p.c. e che, dunque, il loro silenzio nel procedimento cautelare si sia risolto in un accordo di deroga sulla competenza valido anche per il giudizio di merito al solo limitato effetto di escludere il rilievo di alcuni dei fori eventualmente concorrenti. L'art. 29 c.p.c. richiede, infatti, che l'accordo in parola debba attribuire espressamente la competenza esclusiva al giudice individuato, non a comportamenti taciti (Cass. III, n. 2505/2010, in cui si precisa che tale soluzione ha quindi il pregio di lasciare intatti i poteri delle parti e del giudice davanti al quale il giudizio di merito venga successivamente introdotto in ordine alla rilevazione delle questioni di competenza, secondo le regole fissate dall'art. 38 c.p.c.).

Tuttavia, muovendo dall'assunto che la presentazione del ricorso cautelare ante causam, ogni qualvolta ad esso abbia fatto seguito un provvedimento di accoglimento, ben può essere ricondotta al novero degli atti introduttivi del giudizio idonei a segnare la prevenzione della lite secondo il disposto dell'art. 39 c.p.c., posto che il tenore letterale della norma da un lato, non esclude atti diversi dalla citazione, e dall'altro lato, la ratio dell'art. 669-ter c.p.c. è da ricollegare all'esigenza di individuazione del giudice del merito, ciò che per definizione avviene al momento della presentazione del ricorso cautelare (Cass. IV, n. 3119/2009; Cass. IV, n. 12895/2004, in cui si è statuito il principio che ai fini della prevenzione deve necessariamente tenersi conto della data di instaurazione del procedimento cautelare, atteso l'inequivocabile collegamento che la norma impone tra l'ordinanza di accoglimento e l'inizio della causa di merito), ragione per cui si è affermato che, l'individuazione del giudice competente sulla misura cautelare richiesta ante causam determina anche per la parte che abbia ottenuto il provvedimento cautelare richiesto e che voglia conservarne gli effetti, l'individuazione del giudice che della causa dovrà conoscere nel merito, a nulla rilevando in contrario che la parte destinataria della misura cautelare possa eventualmente promuovere un'azione di accertamento negativo avanti ad altro giudice, anche laddove in ipotesi alternativamente competente, tale scelta non potendo privare colui che abbia ottenuto il provvedimento cautelare del diritto di iniziare la causa di merito avanti all'ufficio del giudice preventivamente individuato come quello competente a pronunciarsi sulla domanda cautelare (Cass. I, n. 16328/2007).

Secondo Trib. Milano 9 luglio 2008, una volta proposto il giudizio cautelare innanzi al giudice competente per il merito, detta competenza permarrebbe anche nell'eventuale fase successiva, posto che in mancanza di proposizione nel corso del procedimento cautelare di eccezioni in ordine alla competenza del giudice adito, questa si radica in capo a detto giudice, anche con riferimento al giudizio di merito.

In tale contesto, va poi precisato che, l'eventuale celebrazione del giudizio di merito davanti ad un giudice diverso da quello che ha concesso la cautela ante causam non viola il disegno perseguito dal legislatore della novella del 1990 di adeguare le sorti del provvedimento cautelare alle vicende del giudizio di merito, né spezza la coerenza interna del sistema del processo cautelare uniforme, perché la necessaria unificazione tra giudice della cautela e giudice del merito è prevista soltanto qualora sia già stato radicato il giudizio di merito, e ciò precisamente sotto il duplice profilo della competenza, disponendo l'art. 669-quater, comma 1, c.p.c. che, quando vi è causa pendente per il merito, la domanda deve essere proposta al giudice della stessa (salve peraltro le eccezioni di cui agli ultimi quattro commi del medesimo articolo), e della revoca e modifica del provvedimento cautelare, disponendo l'art. 669-decies, comma 1, c.p.c., che nel corso dell'istruzione il giudice istruttore della causa di merito può modificare o revocare con ordinanza il provvedimento cautelare anche se emesso anteriormente alla causa, purché si verifichi un mutamento nelle circostanze.

Inoltre, laddove per il merito venga adito un giudice diverso da quello della cautela richiesta e concessa ante causam, le considerazioni che precedono neutralizzano in radice anche il pericolo degli effetti di un forum shopping sia perché i criteri di collegamento per la scelta del giudice del merito non sono ulteriori e diversi rispetto a quelli di competenza ordinaria, sia perché il provvedimento cautelare di cui trattasi non è intangibile dal giudice del merito, il quale può sempre revocarlo e modificarlo ove ricorrano i presupposti di legge.

Il principio anzidetto è stato affermato da una giurisprudenza di merito in relazione alla ripartizione di «competenze» per i procedimenti cautelari instaurati prima del giudizio di merito ed anche ai sensi dell'art. 669-quater c.p.c., in cui per la prima volta è stata individuata la ratio della natura funzionale della competenza cautelare di cui si discorre anche sulla base delle tabelle approvate dal Consiglio Superiore della Magistratura, essendosi ritenuto che l'attuazione del principio del giudice naturale non avvenga più soltanto per la legge, ma anche attraverso l'importante sistema tabellare predisposto dal C.S.M. (Trib. Latina 26 ottobre 2010).

Sul tema, v. D'Amico, Arconzio, 531; Senese, 232; Romboli, 105.

In particolare, Costantino, 2021, 10, osserva che, in ordine alla richiesta di concessione dei provvedimenti cautelari di cui all'art. 7 del d.l. n. 118/2021, la designazione del magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento è effettuata ai sensi dell'art. 669-ter, comma 4, c.p.c.

Esistono delle eccezioni al generale principio raccordo della competenza cautelare ante causam con quella per il giudizio di merito, come nel caso previsto dall'art. 693, comma 2, c.p.c. in cui l'istanza può anche proporsi al tribunale del luogo in cui la prova deve essere assunta, oppure nel caso di denuncia di nuova opera o di danno temuto che, ai sensi dell'art. 21 c.p.c. cui rinvia l'art. 688, comma 1, c.p.c. va proposta al giudice del luogo dove è posto l'immobile, mentre nell'ipotesi in cui la causa di merito rientri nella competenza del giudice di pace ad essere competente è il tribunale.

La proposizione della domanda

La domanda cautelare ex art. 669-bis c.p.c. si propone con ricorso diretto all'ufficio giudiziario adìto territorialmente competente atteso che, a norma dell'art. 669-ter, comma 1, c.p.c. prima dell'inizio della causa di merito, la domanda si propone al giudice competente, in base agli ordinari criteri, a conoscere del merito.

La denuncia di nuova opera e di danno temuto proposte ante causam vanno proposte nel luogo in cui è posto l'immobile ex art. 688, comma 1, c.p.c.

La domanda cautelare ante causam, dovendo essere proposta al giudice competente a conoscere del merito, preannuncia una scelta processuale che, per il principio di autoresponsabilità e di affidamento processuale, vincola la parte ricorrente ed onera quella resistente ad eccepire l'incompetenza già in sede cautelare (Cass. VI, n. 11949/2015).

Pertanto, in mancanza di proposizione, nel corso del procedimento cautelare, di eccezioni in ordine alla competenza del giudice adito, questa si radica in capo a detto giudice, e vi permane anche con riferimento al giudizio di merito, né contrasta con siffatta conclusione l'autonomia che connota il giudizio cautelare, rendendolo del tutto indipendente da quello di merito.

Al riguardo, è vero che, in base al disposto dell'art. 669-octies c.p.c., il procedimento cautelare non costituisce la prima fase di un unico procedimento che comprende il merito, bensì un procedimento distinto ed autonomo rispetto a quello, con la conseguenza che, ottenuta la pronuncia sulla istanza cautelare, si deve iniziare un nuovo procedimento di merito, perdendo altrimenti il provvedimento cautelare la sua efficacia, ma occorre altresì considerare che il giudizio di merito è diretto alla conferma, ovvero alla riforma, del provvedimento adottato in sede cautelare, che costituisce un effetto anticipatorio del primo, ragione per cui non può negarsi il carattere di strumentalità della domanda cautelare rispetto al giudizio di merito, il quale dà ragione della permanenza, in capo al giudice della cautela, della competenza anche per tale giudizio.

A tale conclusione, non osta neppure l'ultrattività o stabilità del provvedimento cautelare – che costituisce un'espressione dell'autonomia del procedimento di cui trattasi e rende non inevitabile lo sbocco del giudizio di merito – e risulta un elemento idoneo ad escludere la configurabilità del sottolineato vincolo di strumentalità rispetto al predetto giudizio, che costituisce pur sempre la naturale, anche se non necessaria, prosecuzione della fase cautelare (Cass. I, n. 5335/2007).

La motivazione adottata da Cass. I, n. 5335/2007 non è stata condivisa da Cass. III, n. 2505/2010, avendo statuito quest'ultima pronuncia che, l'idea secondo cui al silenzio delle parti e del giudice nel procedimento cautelare si debba ricollegare, una volta emessa la misura cautelare, la definitiva consolidazione della competenza sul giudizio di merito in testa all'ufficio adito in sede cautelare, non è sostenibile nemmeno a proposito di una competenza debole come quella territoriale derogabile.

La richiamata pronuncia giunge ad un ulteriore approdo ermeneutico, laddove constata che ben può la parte intraprendere il giudizio di merito dinanzi al giudice effettivamente competente, anche se risulti diverso da quello della fase cautelare ante causam, sostenendo che, in ogni caso, la decisione del giudice del merito sulla propria incompetenza non travolge il provvedimento cautelare, anche se emesso da un giudice incompetente.

La questione scrutinata dalla Suprema Corte è se l'omessa rilevazione dell'incompetenza ad opera del giudice della cautela consumi il correlativo potere del giudice del merito, in modo che sia inevitabile l'identità fra l'ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento cautelare e quello che deve in seguito delibare il merito della causa.

L'omessa rilevazione dell'incompetenza derogabile od inderogabile, da parte del giudice o l'omessa proposizione della relativa eccezione ad opera delle parti nel procedimento cautelare ante causam non determina il definitivo consolidamento della competenza in capo all'ufficio adìto anche ai fini del successivo giudizio di merito, non operando nel giudizio cautelare il regime delle preclusioni relativo alle eccezioni e al rilievo d'ufficio dell'incompetenza, stabilito dall'art. 38 c.p.c., in quanto applicabile esclusivamente al giudizio a cognizione piena. Ne consegue che il giudizio proposto ai sensi degli artt. 669-octies e novies c.p.c., all'esito della fase cautelare ante causam, può essere validamente instaurato davanti al giudice competente, ancorché diverso da quello della cautela.

In tema di competenza cautelare, alla volontà del legislatore di dettare regole uniformi non possono attribuirsi effetti vincolanti per il giudizio di merito derivanti dalla possibilità di scegliere tra i fori concorrenti compiuta in sede cautelare (Merlin, 394).

Ai fini dell'individuazione del giudice preventivamente adito, anche ai sensi dell'art. 39 c.p.c. in tema di continenza, nel contesto del nuovo testo dell'art. 669-octies, comma 6, c.p.c., che ha previsto una strumentalità attenuata per i provvedimenti a contenuto anticipatorio, deve necessariamente tenersi conto della data di instaurazione del procedimento cautelare, atteso l'inequivocabile collegamento che la norma anzidetta impone tra l'ordinanza di accoglimento e l'inizio della causa di merito (Cass. VI, n. 11949/2015; Cass. I, n. 16328/2007).

Nel caso in cui un giudizio di merito sia preceduto da una fase cautelare, conclusasi con un provvedimento di accoglimento del ricorso, la prevenzione deve essere determinata tenendo conto della data in cui è stato instaurato il procedimento cautelare ante causam e non di quella del successivo giudizio di merito (Carpi, Taruffo, 208; Picardi, 271).

A questa conclusione, la giurisprudenza di legittimità (Cass. IV, n. 12895/2004) perviene sulla base di due argomentazioni.

La prima è che la presentazione del ricorso cautelare ante causam può essere ricondotta al novero degli atti introduttivi del giudizio idonei a segnare la prevenzione della lite secondo il disposto dell'art. 39 c.p.c., posto che il tenore letterale della norma non esclude atti diversi dalla citazione.

La seconda è che la ratio dell'art. 39 c.p.c., nella parte in cui fa riferimento alla prevenzione, è da ricollegare all'esigenza di individuazione del giudice del merito, ciò che per definizione avviene al momento della presentazione del ricorso cautelare, questo dovendo per l'appunto essere presentato – per esplicita previsione normativa – innanzi al giudice competente per il merito.

Il giudice competente

L'individuazione del giudice competente per la proposizione della domanda cautelare è rimessa agli artt. 669-ter e 669-quater c.p.c., i quali considerano distintamente le ipotesi in cui la cautela venga richiesta prima dell'inizio della causa di merito da quella in cui la domanda cautelare venga invece proposta quando il giudizio di merito risulta già pendente, ispirandosi al principio generale sottostante – sebbene non espresso formalmente – della maggiore possibile coincidenza tra il giudice della cautela ed il giudice del merito.

In particolare, a norma dell'art. 669-ter, comma 1, c.p.c. prima dell'inizio della causa di merito, la domanda si propone al giudice competente a conoscere del merito in base ai criteri ordinari.

Il tribunale in composizione monocratica è competente a pronunciare il provvedimento cautelare ex art. 669-ter c.p.c. nell'ipotesi in cui la causa di merito è di competenza del giudice di pace o dello stesso tribunale in composizione monocratica.

Il giudice di pace non ha la competenza per decidere su una richiesta di concessione del provvedimento cautelare, né prima dell'introduzione del giudizio di merito, e neppure in pendenza dello stesso (Trib. Foggia 7 aprile 2014).

La competenza cautelare appartiene invece al tribunale in composizione collegiale quando il giudizio di primo grado è integralmente di competenza del medesimo organo in composizione collegiale, come accade per le controversie rientranti nella competenza della sezione specializzata agraria.

La disciplina della competenza cautelare muove dalla tendenziale coincidenza tra il giudice della fase cautelare ante causam e quello successivamente aditoper la trattazione del giudizio di merito (Carpi, 1258).

In caso di fori alternativi, quello competente è scelto sempre dall'attore ed a tale scelta il convenuto deve soggiacere, rispondendo, l'alternatività, a valutazioni di opportunità compiute dal legislatore e dirette ad assicurare una più razionale ed economica gestione del processo attraverso la rimessione all'attore dell'individuazione di quello che, nell'ambito di una predeterminata molteplicità di criteri, tutti potenzialmente dotati di idoneità a consentire il più efficace svolgimento del processo e la massima effettività del diritto di difesa, gli appaia in concreto destinato a sovvenire al meglio alle esigenze dell'azione da intraprendere. Ciò vale anche nell'àmbito del ricorso cautelare ante litem atteso che il ricorrente nel momento in cui propone la domanda cautelare determina anche il giudice competente a conoscerla, ferma restando ovviamente la valutazione della correttezza della scelta che deve essere effettuata dal giudice stesso della cautela, anche alla luce di eventuali eccezioni della controparte.

Infatti, nel caso di fori alternativi, l'enunciazione dei caratteri concernenti il fumus boni juris necessariamente riferito anche all'instauranda causa di merito si rivela coerente con il principio secondo cui sussiste a carico del medesimo ricorrente l'onere di indicare i fatti in base ai quali ha scelto il giudice alternativamente competente.

Orbene, poiché la tutela cautelare anche quando risulti attenuata la sua strumentalità, resta comunque funzionale al diritto controverso, l'osservanza dell'art. 669-ter, comma 1, c.p.c. preannuncia una scelta processuale che, per il principio di autoresponsabilità e di affidamento processuale, da un lato, vincola la parte ricorrente e dall'altro, onera quella resistente ad eccepire l'eventuale incompetenza del giudice adito in sede cautelare.

Nell'ipotesi del simultaneus processus, quest'ultimo per quanto attiene alle domande connesse, ai sensi dell'art. 33 c.p.c., si radica nel foro generale d'uno dei litisconsorti convenuti, ragione per cui il suddetto foro è quello competente per l'istanza cautelare proposta ante causam nei confronti degli stessi litisconsorti (Trib. Chieti 7 dicembre 2004).

L'eccezione pregiudiziale di incompetenza territoriale dell'ufficio giudiziario adito in un procedimento cautelare ante causam si reputa validamente proposta se diretta a contestare tutti i fori per cui sussiste la competenza concorrente od alternativa in relazione all'instauranda domanda di merito, posto che, anche nella fase cautelare trovano applicazione i principi generali che presiedono il processo ordinario di cognizione, da cui consegue il radicamento della competenza del giudice adito in sede cautelare in relazione al non contestato criterio di determinazione della competenza territoriale (Trib. Roma 18 ottobre 2004, relativo ad una fattispecie riferita al locus contractus, quale foro concorrente con quello della sede della persona giuridica, ed alternativo a quello di esecuzione dell'obbligazione contrattuale).

La regola di individuazione della competenza territoriale, prevista dall'art. 120, comma 6, c.p.i., secondo cui le azioni fondate su fatti prospettati come lesivi di un diritto di proprietà industriale possono essere proposte anche dinanzi all'autorità giudiziaria dotata di una sezione specializzata nella cui circoscrizione i fatti sono stati commessi, configura una disciplina speciale ed autonoma rispetto a quella prevista dal codice di rito, sicché, anche nel caso di cumulo soggettivo, occorre avere riguardo esclusivamente al locus commissi delicti, senza che l'operatività del criterio possa essere inficiata nei confronti dei litisconsorti facoltativi dal limite sancito dall'art. 33 c.p.c., che in caso di cumulo soggettivo consente di derogare al foro generale dei litisconsorti solo a patto che la controversia sia proposta dinanzi al foro generale di uno di essi. Conseguentemente, per innescare la competenza di cui all'art. 120, comma 6, c.p.i., è allora necessaria la prospettazione da parte del ricorrente in sede cautelare di una condotta lesiva attribuita alla controparte e posta in essere nella circoscrizione territoriale del giudice adito (Cass. VI, n. 21192/2011; Trib. Torino 11 aprile 2011).

Ai sensi dell'art. 120 c.p.i., deve accogliersi l'eccezione di incompetenza formulata dal resistente con riguardo alla misura cautelare richiesta, quando il giudice adito non coincida con quello del foro generale del convenuto, né con quello del locus commissi delicti (Trib. Catania 20 luglio 2007).

In considerazione della circostanza che l'ultimo comma dell'art. 669-ter c.p.c. sembra optare a favore della scelta del giudice monocratico, qualora l'organo giudiziario operi collegialmente, sull'individuazione della persona della figura monocratica o collegiale del giudice competente a trattare il procedimento cautelare ante causam è sorto un dibattito, non essendovi uniformità di opinioni in giurisprudenza.

La competenza del tribunale in composizione collegiale deve essere riconosciuta tutte le volte in cui il rito dell'instaurando merito non preveda la nomina di un giudice istruttore (Dalmotto, 1104; nel giudizio di primo grado integralmente collegiale, ad essere collegiale è anche la pronuncia cautelare ante causam v. Consolo 1996, 586; Frus, 1992, 626; Guarnieri, 1993, 302; Attardi, 230).

Infatti, l'ultimo comma dell'art. 669-ter c.p.c. potrebbe trovare applicazione anche quando il giudizio di merito non contempli la nomina di un istruttore, posto che altro è il giudice designato ai sensi dell'art. 669-ter c.p.c. altro è il giudice istruttore, né pare vietato trarne la conseguenza della designabilità di un giudice singolo a cui affidare il cautelare pur in mancanza di un singolo in funzione di istruttore nel successivo giudizio di merito (Dalmotto, 1104, il quale, tiene altresì a sottolineare che questo ragionamento è avvalorato dalla mancanza di un esplicito legame tra la figura del giudice designato per la cautela e quello nominato per il merito, in quanto, è sempre possibile che il presidente del tribunale designi un magistrato per la cautela ed in séguito indichi un soggetto diverso quale giudice istruttore per la causa di merito, realizzando una dissociazione simile a quella che si avrebbe nel caso del procedimento cautelare affidato al singolo magistrato ed il merito integralmente riservato al collegio).

Sembra, tuttavia, più ragionevole pensare che prevalga un'esigenza di simmetria con quanto avviene in corso di causa. Se infatti la scelta legislativa di prevedere per determinati procedimenti dinanzi al tribunale la riserva di collegialità si spiega con la volontà di fare pienamente operare i benefici di maggiore ponderatezza e di apporto di esperienze plurime propri del collegio, e se tale scelta comporta la conseguenza di attrarre alla collegialità i cautelari in corso di causa, non si vede per quale motivo questa attrazione con i correlativi benefici non operi anche per i cautelari chiesti ante causam (Dalmotto, 1105).

Come evidenziato in dottrina, la giurisprudenza si era infatti divisa tra coloro che ritengono la competenza cautelare ante causam appartenesse sempre alla corte d'appello in composizione collegiale e chi invece ha sostenuto che la competenza appartenesse al consigliere istruttore nominato dal presidente della corte, sulla scorta dell'assunto che quando la corte d'appello opera in qualità di giudice in unico grado, debbano trovare applicazione le norme del procedimento vigenti per il giudizio dinanzi al tribunale, compreso l'art. 669-ter ultimo comma c.p.c., salva l'ipotesi in cui il relativo giudizio di merito sia interamente collegiale, come nel caso di controversia rientrante nella competenza della sezione specializzata agraria, in cui anche la competenza sulla pronuncia cautelare appartiene al tribunale in composizione collegiale (Celeste, 76).

In tale senso, l'orientamento emerso nella precedente giurisprudenza di merito.

Nei procedimenti cautelari ante causam deve designarsi un giudice singolo a cui è affidata la trattazione anche quando il rito dell'instaurando giudizio di merito preveda la trattazione collegiale (App. Venezia 17 ottobre 1998).

Nei giudizi di merito devoluti alla corte d'appello quale giudice di unico grado per il riconoscimento dei lodi stranieri, il ricorso cautelare ante causam – nella fattispecie scrutinata si trattava di un ricorso per sequestro conservativo – va proposto al presidente, il quale designa il singolo magistrato per la trattazione del procedimento (App. Roma 15 luglio 2003).

Nello stesso senso, si era precedentemente espressa altra giurisprudenza di merito, in occasione della perdurante vigenza degli artt. 796,797 e 798 c.p.c., sulla cui scorta aveva affermato che la competenza ad emettere un provvedimento di sequestro conservativo a cautela di un diritto riconosciuto da una sentenza straniera passata in giudicato, nell'attesa della sua delibazione, va riconosciuta ex art. 669-ter c.p.c. alla corte d'appello, la quale è funzionalmente competente per la futura, instauranda causa di merito avente ad oggetto la delibazione medesima (Trib. Parma 30 aprile 1996).

La soluzione non è stata, però, condivisa in giurisprudenza, atteso che qualora la cognizione della controversia appartenga all'organo collegiale, come nel caso della corte d'appello quale giudice di unico grado ai sensi dell'art. 33 della l. n. 287/1990, si è statuito che il giudice competente ad adottare misure cautelari ante causam doveva essere il collegio (App. Catanzaro 3 luglio 1998).

Spetta al collegio la competenza ad emettere il provvedimento cautelare ove il relativo giudizio di merito sia integralmente collegiale (Trib. Milano 11 luglio 1994).

Interpretazioni diversificate sul tema qui considerato si sono riscontrate anche in dottrina.

All'opinione di chi ha ritenuto che quando la corte d'appello giudica in unico grado la competenza a concedere i provvedimenti cautelari richiesti ante causam appartenga all'organo collegiale (Olivieri, 698), si è contrapposta quella di coloro che invece privilegiano la soluzione favorevole al giudice istruttore delegato alla cognizione della trattazione del procedimento cautelare, dovendosi applicare le norme relative al procedimento cautelare davanti al tribunale, compreso l'art. 669-ter c.p.c. ai sensi del quale, il presidente dell'organo collegiale deve nominare il giudice istruttore (Consolo, 586; Saletti, 361; Merlin, 395).

Vi è, poi, la posizione di chi ritiene che se il giudizio di merito in primo grado sia interamente collegiale mancando la figura del giudice istruttore, come nel caso di controversia rientrante nella competenza della sezione specializzata agraria, anche la pronuncia cautelare ante causam sarà collegiale (Attardi, 230). Sulla proponibilità del ricorso cautelare ante causam dinanzi alla sezione specializzata agraria, v., altresì, Auletta, 286.

In giurisprudenza, sulla competenza ante causam della sezione specializzata agraria, v. Trib. Rieti 18 maggio 1993.

La questione concernente la proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione in sede cautelare

Nell'immediatezza dell'entrata in vigore del codice di procedura civile, la giurisprudenza di legittimità ritenne inapplicabile l'istituto del regolamento preventivo di giurisdizione nei procedimenti cautelari, sequestro, denunzia di nuova opera e di danno temuto, istruzione preventiva e provvedimenti urgenti, ritenendo che essi non avessero natura giurisdizionale, e, quindi, mancasse il presupposto necessario per l'ammissibilità della relativa istanza (Cass. 30 novembre 1950, n. 2663).

La Cassazione, successivamente, accolse invece la tesi dell'ammissibilità del suddetto regolamento, avendo riconosciuto che, con il ricorso con cui il procedimento cautelare è instaurato, in funzione strumentale rispetto al giudizio di merito, è pur sempre sollecitata una tutela giurisdizionale, anche se preventiva, di un interesse protetto da una determinata norma giuridica (Cass. n. 1914/1960; Cass. n. 1355/1963; Cass. n. 2619/1964; Cass. n. 379/1965), mantenendo quest'ultimo più recente orientamento nel corso degli anni fino a prima dell'entrata in vigore della l. n. 353/1990 sul procedimento cautelare uniforme, con la sola eccezione dell'inammissibilità del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione proposto durante la pendenza dei procedimenti di giurisdizione volontaria, sul rilievo che quest'ultimi hanno natura amministrativa.

Nel confermare la tesi dell'ammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione in materia cautelare, la Cassazione aveva anche replicato all'obiezione sollevata da una parte della dottrina, desunta dall'art. 41 c.p.c., secondo cui tale rimedio sarebbe esperibile soltanto nel corso dei procedimenti destinati a concludersi con una pronuncia di merito, osservando che la sua mancata statuizione, costituente il presupposto negativo, richiesto per la proposizione del ricorso per regolamento, sussiste non solo nel giudizio ordinario, in cui non sia stata ancora emanata una sentenza di merito, ma anche nei procedimenti cautelari, perché questi giudizi non si esauriscono mai con un provvedimento di tale natura, essendo sempre definiti con decreto o con ordinanza.

In ordine alla questione concernente l'ammissibilità del regolamento di giurisdizione in sede cautelare, sia nel corso del procedimento ante causam sia una volta concesso il provvedimento richiesto al giudice della cautela, l'orientamento più recente della giurisprudenza, re melius perpensa, ritiene invece inammissibile il ricorso allo strumento di cui all'art. 41 c.p.c. non essendo contemplata la possibilità che, in sede cautelare il giudice di legittimità possa essere investito della questione concernente la giurisdizione. Diversa è l'ipotesi del giudizio di merito che segue alla richiesta di concessione della misura cautelare (Celeste, 74).

Com'è noto, le Sezioni unite, muovendo dalla l. n. 353/1990 e dalle innovazioni con essa introdotte, mutando l'indirizzo in precedenza seguito, hanno statuito che il regolamento preventivo di giurisdizione è inammissibile nel sistemadelineato dal nuovo procedimento cautelare (Cass. S.U., n. 2465/1996), il cui art. 74 ha introdotto, nel codice di procedura civile, una serie di norme – dall'art. 669-bis all'art. 669-quaterdecies – sotto la prima sezione del capo terzo, titolo primo del quarto libro, intitolata «dei procedimenti cautelari in generale», allo scopo di predisporre una disciplina che, per la sua organicità ed uniformità, superasse la regolamentazione in vigore, da più parti giudicata frammentaria, lacunosa ed irrazionale.

Questa conclusione è confermata dall'art. 669-terdecies c.p.c. introdotto dalla citata l. n. 353/1990, con il quale, è stato introdotto nell'ordinamento processuale il rimedio del reclamo avverso i provvedimenti di accoglimento dell'istanza cautelare, che è in seguito divenuto ammissibile, anche nei confronti dei provvedimenti di rigetto, per effetto della pronuncia della Consulta (Corte cost., n. 253/1994), che, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., ha dichiarato l'illegittimità di detta norma nella parte in cui limitava il reclamo all'ipotesi di concessione della cautela, sulla cui scorta, non sussistendo alcun motivo per limitare l'esperibilità del reclamo ad alcune ipotesi, si è quindi ritenuto che la questione di giurisdizione possa con esso dedursi, e, in conseguenza della citata pronuncia del giudice costituzionale, non solo in caso di accoglimento, ma anche di rigetto dell'istanza proposta per promuovere il procedimento cautelare.

Pertanto, l'ammissibilità del reclamo e la possibilità di ottenere con esso la pronuncia sulla giurisdizione in termini brevissimi, stabiliti dall'art. 739 c.p.c., espressamente richiamato dall'art. 669-terdecies c.p.c. e non più nei lunghi tempi previsti per la proposizione dell'appello, hanno indotto a negare l'esperibilità del ricorso per regolamento preventivo sia nel caso in cui sia già stato emanato il provvedimento cautelare (Cass. S.U., n. 6595/1995), sia durante lo svolgimento del relativo procedimento.

A tale riguardo, va altresì sottolineato che è stata recepita dal c.d. «diritto vivente» la regola secondo la quale, il regolamento preventivo di giurisdizione è proponibile con riguardo al giudizio di merito, che sia già pendente e prima che in esso sia emessa una sentenza, anche soltanto sulla giurisdizione, mentre invece non è proponibile – essendosi in presenza di una diversa fattispecie – allorquando il provvedimento sia reso in sede cautelare, pur se ai fini della sua pronuncia sia stata risolta, in senso affermativo o negativo, una questione attinente alla giurisdizione stessa (Cass. S.U., n. 10464/2003; Cass. S.U. , n. 785/2001; Cass. S.U., n. 11351/1998; Cass. S.U., n. 6228/1997), essendosi al riguardo precisato anche come il provvedimento dato su un'istanza cautelare esperita nell'ambito di un giudizio di merito – entro il quale il regolamento ex art. 41 c.p.c. si inserisce – non costituisce una sentenza neppure quando ai fini della pronuncia su detta istanza, abbia risolto, in senso positivo o negativo, una questione di giurisdizione (Cass. S.U., n. 20128/2005; Cass. S.U., n. 6954/2003; Cass. S.U., n. 6040/2002).

In tal senso, si è recentemente affermato il principio che, l'istanza di regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell'art. 41 c.p.c., è inammissibile finché l'istante non abbia iniziato il giudizio di merito per il quale sorge l'oggetto del procedimento, unitamente all'interesse concreto ed attuale a conoscere il giudice dinanzi al quale lo stesso deve eventualmente proseguire (Cass. S.U., n. 6039/2019; Cass. S.U., n. 21579/2011; Cass. S.U., n. 27187/2007), anche se diverso da quello che ha emesso il provvedimento urgente in via anticipatoria e cautelare.

La ragione è semplice, laddove si consideri che il procedimento di cui all'art. 41 c.p.c. esclude la conformità al modello normativo di un regolamento di giurisdizione relativo ad una causa ormai esaurita, quale è la procedura cautelare anteriore alla domanda di merito, ovvero ad una causa non ancora iniziata e da decidere in rapporto ad un giudizio, che potrebbe anche non esservi mai, mancando comunque in tale caso la domanda su cui valutare la giurisdizione e l'oggetto stesso del procedimento incidentale introdotto con il ricorso per regolamento.

In tale contesto, la natura solo «eventuale» del giudizio di merito esclude nella fattispecie l'attualità dell'interesse all'istanza di regolamento preventivo non preceduta dalla domanda introduttiva di una causa iscritta a ruolo e pendente alla data del ricorso, giacché è solo in rapporto alla cognizione della causa instaurata con tale domanda che può prospettarsi il dubbio del difetto di giurisdizione del giudice adìto, che, altrimenti non sarebbe ancora individuabile in difetto degli elementi che consentano di individuare causa petendi e petitum alla base del giudizio per il quale accertare a quale giudice appartiene la relativa cognizione.

Infatti, sebbene l'azione di merito sia autonoma, comunque la fase cautelare precedente ad essa in tanto è funzionale e connessa a quella successiva, in quanto quest'ultima, che è appunto, solo «eventuale», sia iniziata, ragione per cui, fino all'introduzione della causa di merito non si può chiedere dinanzi a quale giudice proporla, rimanendo sempre e solo «possibile» e non «certa» l'instaurazione del giudizio conseguente a quello cautelare ante causam.

Ciò spiega la diversità di trattamento dell'istanza di regolamento di giurisdizione con riferimento al procedimento cautelare disciplinato dall'art. 669-ter c.p.c. rispetto a quello individuato dall'art. 669-quater c.p.c., potendosi proporre in quest'ultima ipotesi e non anche nella prima, la cui ratio è ravvisabile non solo nel dato letterale di cui all'art. 41 c.p.c., per cui solo se vi sia un giudizio di merito iniziato e fino alla sentenza di primo grado, anche quando vi sia stato un provvedimento cautelare, può proporsi il regolamento preventivo di giurisdizione, che diversamente, è e resta inammissibile, senza una causa nella quale sorge la questione, essendo irrilevante in rapporto ad un giudizio di merito la cui proposizione risulti essere solo eventuale ed astratta.

Conseguentemente, nel caso di emissione di un provvedimento cautelare nel corso del giudizio di merito già iniziato, il regolamento è ovviamente invece ammissibile.

In tale ottica, gli intenti deflattivi delle novelle normative succedutesi in materia cautelare, inducono quindi a ritenere che nulla è innovato rispetto alla possibilità di esperire il regolamento preventivo di giurisdizione, anche se non è più necessaria la proposizione di una successiva causa di merito, allorché prima di iniziare la stessa si ottengano provvedimenti anticipatori ai sensi dell'art. 700 c.p.c., sorgendo l'interesse alla risoluzione della questione di giurisdizione, solo se una delle parti della fase sommaria abbia già iniziato la causa a cognizione piena.

Più recentemente, le Sezioni unite hanno affermato il principio che  nell'ambito di un procedimento cautelare instaurato ante causam.trova applicazione il principio secondo il quale il regolamento preventivo di giurisdizione non è ammissibile in riferimento ai procedimenti cautelari di tale genere, poiché, non essendo consentito, neanche ex art. 111 Cost., il ricorso per cassazione contro i provvedimenti conclusivi dei relativi procedimenti, non può ammettersi che la questione di giurisdizione sia sottoposta per altra via alla cognizione della Suprema Corte (Cass. S.U. n. 16764/2022).

In questa prospettiva è stato in particolare affermato che anche nel sistema processuale delineatosi, in tema di procedimenti cautelari, a seguito delle modifiche di cui all'art. 2, comma 3, lett. e bis, del d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. in l. n. 80/2005, contro i provvedimenti urgenti anticipatori degli effettì della sentenza di merito, emessi ante causam ai sensi dell'art. 700 c.p.c., non è proponibile il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., in quanto detti provvedimenti sono privi di stabilità e inidonei al giudicato, ancorché nessuna delle parti del procedimento cautelare abbia interesse ad iniziare l'azione di merito. Tale ricorso non può valutarsi neppure come istanza di regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell'art. 41 c.p.c., da qualificare anch'essa inammissibile finché l'istante non abbia iniziato il giudizio di merito per il quale sorge l'oggetto del procedimento, unitamente all'interesse concreto ed attuale a conoscere il giudice dinanzi al quale lo stesso deve eventualmente proseguire (Cass. S.U. n. 16764/2022).

L'efficacia della domanda cautelare ante causam per l'applicabilità della perpetuatio iurisdictionis

In base alla disciplina vigente del procedimento cautelare uniforme, sembrerebbe potersi ritenere che, al fine di stabilire l'applicabilità del principio della perpetuatio iurisdictionis ac competentiae alle domande cautelari proposte ante causam, occorre preliminarmente distinguere la loro natura conservativa od anticipatoria, atteso che, escludere in toto l'applicabilità dell'art. 5 c.p.c. al procedimento cautelare, significherebbe consentire al resistente di sottrarsi alla misura cautelare, semplicemente invocando il sopravvenuto mutamento dello stato di fatto rilevante ai fini della determinazione della giurisdizione e della competenza il giudice della cautela adito ante causam, il quale dovrebbe dichiararsi incompetente o declinare la giurisdizione in presenza dei suddetti mutamenti della legge o dello stato di fatto tali da fare venire meno la competenza o la giurisdizione, precedentemente sussistenti (Finocchiaro, 1821).

Tale possibilità è stata considerata dalla Consulta, la quale, sebbene non si sia pronunciata direttamente su tale quaestio, non ha mancato di rilevare la rilevanza di una questione di legittimità costituzionale afferente ad una norma che in una determinata materia attribuisca la giurisdizione al giudice amministrativo, laddove entrata in vigore nella pendenza davanti al giudice ordinario di un procedimento cautelare ante causam, in quanto il giudice rimettente, in forza dell'art. 5 c.p.c., avrebbe conservato la giurisdizione attribuitagli dalla normativa vigente al momento della proposizione della domanda, non essendo implausibile che la stessa norma denunciata di illegittimità costituzionale, modificativa della giurisdizione, possa comunque essere rilevante, in quanto il provvedimento cautelare eventualmente concesso potrebbe essere destinato a divenire inefficace per l'impossibilità di promuovere successivamente il giudizio di merito (Corte cost., n. 140/2007).

In particolare, posto che, nel codice di rito, non si rinvengono elementi idonei in modo univoco a consigliare quale scelta intraprendere, è necessario valutare singolarmente la migliore soluzione coerente con il rispetto dei principi di effettività ed efficienza, immanenti al sistema processuale, in tale ottica, scrutinando il nesso più o meno accentuato di strumentalità esistente tra procedimento cautelare e la causa di merito, può ragionevolmente pervenirsi alla conclusione che se il ricorrente formula una richiesta di concessione di un provvedimento cautelare conservativo ante causam, la giurisdizione e la competenza sia del procedimento cautelare sia del successivo giudizio di merito dovrebbero determinarsi avendo riguardo alla legge vigente ed alla situazione di fatto esistenti al momento della proposizione della domanda cautelare ante causam, restando così irrilevanti gli eventuali successivi mutamenti della legge o della situazione di fatto.

In questo caso, è evidente che il principio della perpetuatio iurisdictionis ac competentiae dovrebbe operare esclusivamente in relazione al procedimento cautelare ante causam, rimanendo invece inerte con riguardo al successivo processo di merito a cognizione piena.

Qualora, invece, il ricorrente formuli una domanda per la concessione di una misura cautelare anticipatoria prima dell'instaurazione del giudizio di merito, la legge vigente e la situazione di fatto esistenti al momento del deposito del ricorso cautelare ante causam dovrebbero considerarsi rilevanti soltanto al fine dell'individuazione del giudice designato alla trattazione del relativo procedimento cautelare, mentre i mutamenti della legge e della situazione di fatto assumerebbero rilevanza per la determinazione della giurisdizione e della competenza per l'eventuale successiva instaurazione del processo di merito a cognizione piena.

In particolare, seguendo quest'ultima linea interpretativa, dovrebbe concludersi che, qualora venga proposta una domanda cautelare ante causam a contenuto anticipatorio, debba aversi riguardo esclusivamente alla legge vigente ed alla situazione di fatto esistenti al momento della sua proposizione, restando irrilevanti tutti gli eventuali successivi mutamenti, al fine della determinazione della giurisdizione e della competenza non soltanto del giudice cautelare, ma anche di quello del processo di merito (Recchioni, 2005, 313, ed in particolare, 362).

Sul tema analogo a quello qui considerato, la giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio che riguardo ai procedimenti pendenti cui risulti ancora applicabile, ratione temporis, la norma di cui all'abrogato art. 672 c.c., il luogo in cui il sequestro giudiziario di cosa mobile deve essere eseguito, nell'ipotesi di controversia non rientrante nella cognizione del giudice ordinario perché devoluta ad arbitri, è soltanto quello in cui la cosa stessa si trovi, giudice competente ad autorizzarne il sequestro giudiziario essendo, conseguentemente, unicamente il giudice di tale luogo, né si appalesa idonea a modificare il radicamento di tale competenza o ad incidere sulla disciplina dell'esecuzione del sequestro, dettata dall'art. 677 c.p.c. la circostanza della detenzione del bene da parte di un terzo anziché del debitore. Ad evitare il pericolo che, individuata l'autorità giudiziaria competente ad autorizzare il sequestro in quella del luogo ove si trovano le cose da sottoporre a sequestro, la stessa possibilità di ottenere il provvedimento cautelare possa venire frustrata mediante il continuo spostamento delle cose da sequestrare, è sufficiente il richiamo all'art. 5 c.p.c., a mente del quale, i mutamenti della situazione di fatto successivi alla presentazione della domanda cautelare – nella fattispecie scrutinata dal giudice di legittimità riguardante un sequestro giudiziario – non possono spiegare alcuna influenza sulla competenza ad emanare il provvedimento invocato (Cass. I, n. 1716/1998).

La questione circa le conseguenze della modifica delle norme attributive della giurisdizione nelle more tra due distinte fasi del processo è stata discussa in dottrina con riferimento alla modifica delle regole in materia di giurisdizione tra il momento della proposizione del ricorso cautelare e quello della causa di merito successivamente introdotta tra le stesse parti (Finocchiaro, 1823).

Sull'argomento qui considerato, si confrontano sostanzialmente tre diverse tesi: una «sostanzialista», che fissa la giurisdizione con piena efficacia del principio della perpetuatio jurisdictionis, a partire dal momento in cui la fattispecie della posizione giuridica soggettiva controversa sia per la prima volta portata davanti ad una autorità giurisdizionale, con la richiesta di emanazione di una qualche forma di tutela, anche cautelare; una tesi «processualistica», secondo la quale, il momento della proposizione della domanda, ai sensi dell'art. 5 c.p.c., andrebbe invece fissato con riferimento a ciascun atto introduttivo di una fase o di uno strumento di tutela processuale, potendo differenziarsi la competenza-giurisdizionale tra la fase della proposizione del ricorso cautelare e quella dell'introduzione del giudizio di merito; ed una tesi «intermedia» che distingue le varie ipotesi sulla base del rapporto tra il tipo di tutela richiesta e l'azione in senso sostanziale, nonché in ragione del tipo di rapporto, avuto riguardo all'azione in senso sostanziale, tra le diverse fasi del procedimento o i diversi strumenti di tutela approntati ed esplicati in successione.

Questa terza impostazione non può che condurre a concludere che, per quanto concerne i rapporti fra la domanda cautelare e quella di merito, vada esaltata l'autonomia tra i due giudizi anche sotto il profilo della regolazione della giurisdizione, attesa da un lato la diversità dei presupposti occorrenti per la proposizione della domanda cautelare rispetto a quelli della domanda di merito, non esigendo quest'ultima il periculum in mora, necessario, invece, per la concessione del provvedimento cautelare, e dall'altro l'autonomia tra il giudizio cautelare e quello di merito, come si evince, in generale, dalla non necessità della proposizione di quest'ultimo per i cautelari a strumentalità attenuata, e nell'ipotesi di un rigetto dell'istanza cautelare, dalla sua stessa riproponibilità entro certi limiti.

Quest'ultime considerazioni hanno condotto ad affermare che la giurisdizione si determina con riferimento alla legge vigente al momento della proposizione della domanda di merito, a prescindere dallo stato di fatto o dalla legge vigente al momento del deposito del ricorso cautelare proposto ante causam, da cui consegue che è configurabile un'autonoma valutazione della giurisdizione per il giudizio ordinario di cognizione, per effetto di una modifica delle norme attributive della giurisdizione tra il giudice ordinario ed il giudice amministrativo nelle more tra l'instaurazione del giudizio cautelare ante causam e l'eventuale giudizio di merito (Trib. Reggio Emilia 1° dicembre 2011).

Il regolamento di competenza

Il giudice di legittimità ha in plurime occasioni ribadito il principio dell'inammissibilità del regolamento di competenza avverso provvedimenti aventi natura cautelare.

La Cassazione ha più volte affermato il principio secondo cui, in tema di procedimenti cautelari, è inammissibile la proposizione del regolamento di competenza, sia in ragione della natura giuridica dei provvedimenti declinatori della competenza – inidonei, in quella sede, ad instaurare la procedura di regolamento, in quanto caratterizzati dalla provvisorietà e dalla riproponibilità illimitata – sia perché l'eventuale decisione, pronunciata in esito al procedimento disciplinato dall'art. 47 c.p.c., sarebbe priva del requisito della definitività, atteso il peculiare regime giuridico del procedimento cautelare nel quale andrebbe ad inserirsi (Cass. VI, n. 12403/2020; Cass. VI, n. 1613/2017; Cass. S.U., n. 18189/2013; Cass. S.U., n. 16091/2009). Solo qualora, dichiaratosi incompetente il primo giudice, anche il secondo, successivamente adito, abbia pronunciato un analogo provvedimento negativo della propria competenza, la giurisprudenza di legittimità ha talvolta ritenuto applicabile, rispetto a tale decisione, la norma generale di cui all'art. 42 c.p.c. e, conseguentemente, ha ammesso l'istanza di regolamento di competenza, non essendo ipotizzabile che l'ordinamento non preveda alcuno strumento processuale attraverso il quale dirimere una situazione in cui non vi sia, di fatto, un giudice obbligato, alfine, a conoscere della domanda cautelare, a meno di non ipotizzare, nel sistema così delineato, un potenziale vulnus ai principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 Cost. (Cass. IV, n. 17299/2008).

In senso conforme, Cass. I, n. 18680/2003 – che richiama il principio di diritto precedentemente enunciato da Cass. II, n. 5264/1997 – da cui si evince che, l'art. 669-septies c.p.c., nel prevedere che l'ordinanza di incompetenza emessa nei procedimenti cautelari non preclude la riproposizione della medesima domanda, debba essere interpretata nel senso che essa esclude sì la formazione di un giudicato rendendo, di conseguenza, inammissibile l'istanza per regolamento di competenza, ma ciò limitatamente all'ipotesi in cui, dichiaratosi incompetente il primo giudice, quello indicato come competente, e successivamente adito, non declini, a sua volta, la propria competenza, trattenendo il processo innanzi a sé.

In particolare, secondo Cass. II, n. 5264/1997, la previsione contenuta nell'art. 669-septies c.p.c. è informata ad evidenti finalità di economia processuale, consentendo alla parte che aveva adito un giudice ritenutosi incompetente, di rivolgersi al giudice che secondo l'emesso provvedimento sarebbe tenuto a conoscere della controversia, ed evitando perciò, in un procedimento in cui è normale l'esigenza della tempestività della decisione giudiziale, di ricorrere alla più lunga procedura dell'impugnazione di cui all'art. 42 c.p.c.

Peraltro, in tale occasione, la stessa giurisprudenza di legittimità non ha mancato di osservare che, la questione, di apparente semplice soluzione normativa allorché il secondo giudice non contesti di essere competente, presenta aspetti di assai maggiore complessità se l'iter processuale non raggiunga la finalità che costituisce la reale ragion d'essere della norma anzidetta e se accada cioè che anche il secondo giudice declini la propria competenza. In tale caso, viene a realizzarsi una situazione almeno potenzialmente di stallo, venendo a mancare la certezza che uno dei giudici che hanno dato luogo al conflitto si dichiari competente e conosca della domanda, posto che non si può escludere che ciascuno di essi mantenga la propria posizione negativa, impedendo di fatto l'esame della domanda. Certo è che, se anche alla fine venga a cessare la situazione di conflitto, rischia di essere frustrata proprio quell'esigenza di economia processuale che è alla base della norma di cui all'art. 669-septies c.p.c., tenendo presente che in ogni caso non è accettabile che l'ordinamento non preveda lo strumento attraverso il quale venga a dirimersi con certezza quella situazione anomala in cui non vi sia di fatto un giudice che conosca della domanda cautelare, e la parte che l'abbia proposta sia privata dell'invocata tutela giurisdizionale.

Infatti, di fronte a tale situazione il giudice non ha che un'alternativa: o ritenere che la norma in questione presenti profili di incostituzionalità per contrasto con l'art. 24 Cost. ed investa la Corte Costituzionale della relativa decisione, o esaminare funditus la norma per accertare se sussista una sua diversa interpretazione che consenta di evitare l'inconveniente. Tale seconda strada potrebbe essere praticabile alla stregua della ratio che informa l'art. 669-septies c.p.c. essendo stata formulata dal legislatore nella previsione di quella che di regola costituisce la situazione normale, e che cioè non si crei, aderendo il secondo giudice all'indicazione di chi si sia dichiarato incompetente, un conflitto potenzialmente senza sbocco. Ragionando in tale ottica, la suddetta norma si riferirebbe soltanto alla decisione emessa dal primo giudice, trovando in tale caso la causa il suo sbocco nella riproposizione della domanda al giudice indicato nella decisione declinatoria della competenza, considerata dal legislatore lo strumento più idoneo e celere per la prosecuzione del giudizio, mentre se invece, l'impasse non venga superato, nell'ipotesi in cui vi sia un'ulteriore decisione declinatoria della competenza, ove ricorra tale eventualità il provvedimento è al di fuori della fattispecie normativa, trovando quest'ultima la sua ratio nell'esigenza di facilitare la decisione nella materia cautelare e dunque, né di ritardarla, né tanto meno di privare della tutela giurisdizionale prevista dalla legge la parte che intende avvalersene, onde nei confronti della seconda decisione negativa dovrebbe applicarsi la norma generale che sottopone a regolamento di competenza di cui all'art. 42 ss. c.p.c. i provvedimenti che decidano sulla sola competenza o che vengano impugnati soltanto sotto tale profilo.

In precedenza, prima della novella del 1990, la giurisprudenza era invece incline ad ammettere il regolamento di competenza per i provvedimenti emessi in sede cautelare che implicitamente o esplicitamente riguardassero la competenza (Nicita 2959, il quale ricorda come la dottrina era invece prevalentemente contraria all'ammissibilità del regolamento in sede cautelare; Andrioli, 165; Sandulli, 284; Massari, 487; più recentemente, sul tema, v. Mandrioli, 2002, I, 244; III, 350), anche se non mancava qualche autore che concordasse con la giurisprudenza (Satta, 281; Taranto, 1977, 425; Grasso, 58; Consolo, 1996, 58; Iaccheri, 2159.

Con l'entrata in vigore del nuovo processo cautelare uniforme, in ossequio alla chiara intenzione del legislatore – di snellire al massimo la procedura evitando ogni rilievo decisivo alla pronuncia sulla competenza ex art. 669-septies c.p.c. – la dottrina e la giurisprudenza, prima dei due ricordati arresti (Cass. I, n. 18680/2003; Cass. II, n. 5264/997), si erano pronunciate nel senso dell'inammissibilità di ogni istanza volta a sottoporre alla Corte regolatrice problemi di competenza attinenti alla pronuncia sulla domanda cautelare.

Inoltre, l'omessa rilevazione dell'incompetenza – derogabile od inderogabile – da parte del giudice nel procedimento cautelare ante causam non determina il definitivo consolidamento della competenza in capo all'ufficio adito anche ai fini del successivo giudizio di merito, non operando nel giudizio cautelare il regime delle preclusioni relativo alle eccezioni e al rilievo d'ufficio dell'incompetenza, stabilito dall'art. 38 c.p.c., in quanto applicabile esclusivamente al giudizio a cognizione piena (Cass. III, n. 2505/2010).

Eventuale competenza del giudice di pace per il giudizio di merito

Il legislatore del 1990 col nuovo procedimento cautelare uniforme, ha ripartito la competenza in tema di concedibilità dei provvedimenti cautelari in modo da escludere sempre quella del giudice di pace, e tale esclusione è stata ritenuta legittima dalla Consulta, che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 669-ter, comma 2, c.p.c. nella parte in cui prescrive che se competente per la causa di merito è il giudice di pace, la domanda si propone al pretore – attualmente dinanzi al tribunale – sollevata, in riferimento agli artt. 3,97, comma 1, 101,106, comma 2, e 107, comma 3, Cost., attesa la natura discrezionale della scelta legittimamente esercitata dal legislatore di escludere il giudice di pace dalla competenza cautelare (Corte cost., n. 63/1997).

Le riforme legislative del 2005 e del 2009 – anche in ordine a quanto sopra evidenziato – non hanno intaccato il sistema di individuazione della competenza cautelare allestito dal legislatore del 1990 negli artt. 669-ter e 669-quater c.p.c., radicato sullo stretto collegamento con la competenza in ordine al giudice della causa di merito, ragione per cui ai sensi dell'art. 669-ter, comma 2, c.p.c.se competente per la causa di merito è il giudice di pace, la domanda cautelare ante causam si propone al tribunale del luogo nel quale ha sede il giudice di pace che dovrà essere adìto per il merito.

Il giudice di pace non ha competenza per la decisione sui provvedimenti cautelari, né ex art. 669-ter c.p.c. prima dell'introduzione del giudizio di merito, e neppure in pendenza dello stesso ai sensi dell'art. 669-quater c.p.c. (Trib. Foggia 7 aprile 2014).

La competenza del giudice onorario per la concessione dei provvedimenti cautelari

Con riferimento alla materia civile, il dato normativo costituito ab origine dall'ormai abrogato art. 43-bis del r.d. n. 12/1941 escludeva espressamente che i g.o.t. (giudici onorari del tribunale) potessero essere chiamati a giudicare in procedimenti cautelari ante causam ed in quelli possessori.

L'art. 43-bis del r.d. n. 12/1941, aggiunto all'ordinamento giudiziario dall'art. 10d.lgs. n. 51/1998, e modifcato dall'art. 3-bis del d.l. n. 82/2000, conv., con mod., in l. n. 144/2000, prevedeva che nell'assegnare il lavoro giudiziario era seguito il criterio di non affidare ai giudici onorari nella materia civile, la trattazione di procedimenti cautelari e possessori, fatta eccezione per le domande proposte nel corso della causa di merito o del giudizio petitorio.

Con riferimento alla materia civile, mentre il dato normativo consentiva, quindi, di ritenere che, in assenza di specifici divieti di ordine sistematico, i g.o.t. potessero anche essere chiamati a fare parte dei collegi, eventualmente di appello, benché l'art. 106, comma 2, Cost., ne preveda la nomina per l'esercizio delle funzioni attribuite «a giudici singoli», diversamente doveva reputarsi esclusa dalla legge la possibilità che gli stessi g.o.t. potessero essere chiamati a giudicare in procedimenti cautelari ante causam ed in quelli possessori.

In tale ottica, si era quindi stabilito che l'esclusione della possibilità di assegnare ai giudici onorari della trattazione di specifici procedimenti non rientrasse tra le disposizioni amministrative dell'ordinamento giudiziario che dettavano i criteri di assegnazione del lavoro e le supplenze dei magistrati negli organi collegiali e che non determinano la nullità dei provvedimenti adottati, ma sotto l'aspetto passivo attivo si risolvevano in un'inammissibilità dell'assegnazione e, sotto quello passivo, in un difetto di capacità dei g.o.t. alla trattazione di essi. Ne è conseguito il vizio di costituzione del collegio che ha giudicato con la partecipazione del g.o.t. le controversie cautelari e possessorie oggetto dei procedimenti riuniti e la conseguente declaratoria, ai sensi dell'art. 158 c.p.c., e 161, comma 1, c.p.c., della nullità della sentenza dallo stesso pronunciata (Cass. III, n. 19660/2016; Cass. II, n. 18002/2010).

Secondo un orientamento di merito, ferma la nullità dell'ordinanza decisoria del cautelare eventualmente resa dal giudice onorario, tale nullità non si estendeva anche all'attività istruttoria svolta dal medesimo giudice (Trib. Salerno 26 luglio 2007; Trib. Napoli 25 ottobre 2005, in Corr. mer., 2006, 165).

Quello, tuttavia, concretizzato dalla sospensiva ex art. 1137 c.c. non è mai, per definizione, un provvedimento cautelare ante causam, costituendo esso piuttosto un'ipotesi di necessitata presentazione congiunta di domanda cautelare e di merito, posto che l'istanza di sospensione dell'esecuzione delle delibere assembleari condominiali come del resto di quella societaria, deve proporsi o con lo stesso ricorso od atto di citazione di impugnazione, o successivamente nel corso del giudizio di merito, mentre non è mai proponibile in via anteriore alla causa, secondo il disposto dell'art. 669-ter c.p.c., per essere la previa impugnativa un'indefettibile presupposto logico-giuridico della sospensione (Trib. Salerno 14 gennaio 2011; Trib. Nocera Inferiore 12 giugno 2000, in Arch. loc., 2001, 698; Trib. Reggio Calabria 9 maggio 1994).

A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 116/2017 – in attuazione della delega legislativa di cui alla l. n. 57/2016 – di riforma organica della magistratura onoraria, il cui art. 33, comma 1, lett. a), ha abrogato l'art. 43-bis del r.d. n. 12/1941, il divieto previsto in quest'ultima disposizione è stato integralmente trasfuso nell'art. 11, comma 6, del citato d.lgs. n. 116/2017, laddove prevede espressamente che per il settore civile non possono essere assegnati ai giudici onorari di pace i procedimenti cautelari e possessori, fatta eccezione per le domande proposte nel corso della causa di merito e del giudizio petitorio.

In buona sostanza, come si evince dall'art. 2 della citata delega legislativa di cui alla l. n. 57/2016 recante i principi e criteri direttivi – in cui si era previsto il superamento della distinzione tra giudici onorari di tribunale e giudici di pace, denominandoli «giudici onorari di pace» e facendoli confluire tutti nell'ufficio del giudice di pace – non è cambiato nulla per effetto della riforma, al di là del semplice mutamento «lessicale» che vede formalmente unificate le precedenti figure del giudice onorario di tribunale e di giudice di pace, attualmente denominata «giudice onorario di pace», destinatario di una triplice funzione: ufficio del processo; ufficio del giudice di pace; assegnatario in tribunale della trattazione di procedimenti civili e penali di competenza del giudice monocratico e collegiale.

La ratio che ha da sempre fondato la privazione in capo al giudice onorario del potere cautelare, è stata individuata nell'intento di evitare che un giudice non togato, non necessariamente esperto di diritto, eserciti poteri così delicati, suscettibili di alterare la parità delle armi (Violante, 90).

L'inderogabilità del foro competente nei procedimenti cautelari ante causam

La competenza in materia cautelare è disciplinata dagli artt. 669-ter c.p.c. (competenza anteriore alla causa), 669-quater c.p.c. (competenza in corso di causa) e 669-quinquies c.p.c. (competenza in caso di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza del giudizio arbitrale).

I criteri ispiratori di tale competenza – i quali, hanno – carattere funzionale ed inderogabile come risulta dal combinalo disposto degli artt. 28 e 38 c.p.c. la cui violazione è rilevabile anche di ufficio – sono: a) devoluzione della misura cautelare richiesta ante causam, unicamente al giudice che sarebbe competente a conoscere la causa di merito; b) devoluzione della misura cautelare richiesta in pendenza della causa di merito, unicamente al giudice della stessa; c) attribuzione al giudice monocratico del potere cautelare anche quando la competenza per merito spetti ad un organo collegiale.

Una rilevante eccezione alla regola secondo la quale la domanda cautelare si propone al solo giudice competente a conoscere del merito è contemplata dall'art. 669-ter, comma 2, c.p.c., che nell'eventualità in cui la cognizione sul giudizio di merito spetti al giudice di pace prevede l'attribuzione della competenza cautelare al tribunale (Celeste, 66), non essendo però l'unica, in quanto ad essa si accompagnano anche quelle ulteriori previste dagli artt. 669-ter, comma 3, c.p.c., 669-quater, comma 4, c.p.c., 669-quater, comma 6, c.p.c. e 669-quinquies c.p.c.

A questi casi, si aggiunge anche quello in cui la misura cautelare è richiesta quando il giudizio di merito penda in Cassazione (Saletti 2001, 840; Consolo 1996, 725; Guarnieri 1993, 305).

In questo caso, secondo un risalente ma ancora attuale orientamento giurisprudenziale di merito, il giudice competente a conoscere delle istanze cautelari durante la pendenza del giudizio di cassazione è quello che ha pronunciato la sentenza impugnata, ai sensi dell'art. 669-quater c.p.c. L'insussistenza della competenza cautelare del giudice di legittimità si evince dall'incompatibilità strutturale e funzionale del procedimento dinanzi al giudice nomofilattico con il compimento di atti di istruzione probatoria, di cui all'art. 669-sexies, comma 1, c.p.c., nonché dalla mancata previsione all'art. 669-terdecies c.p.c. del reclamo avverso i provvedimenti cautelari emanati dalla Cassazione (App. Genova 11 luglio 1997).

In linea generale, come peraltro rilevato dalla stessa dottrina (Celeste, 66), sono sorti varie problematiche circa l'individuazione della competenza territoriale dell'ufficio deputato alla cognizione del procedimento cautelare ante causam, assumendo prima di tutto rilevanza i noti criteri fondati sull'osservanza del foro generale di residenza del convenuto ovvero del luogo della condotta o dell'evento dannoso qualora il ricorso alla tutela cautelare si fondi su un fatto illecito, od ancora il luogo in cui il si è perfezionato il rapporto obbligatorio o deve trovare la sua esecuzione (Celeste, 66).

Ciò nonostante come rilevato acutamente in dottrina (Celeste, 68) l'effettiva identità del giudice della cautela e di quello del merito non è stato il vero obiettivo perseguito dal legislatore del 1990, atteso che l'introduzione del procedimento cautelare uniforme mirava essenzialmente alle competenze cautelari speciali contemplate dal frammentato sistema previgente, con specifico riferimento a quelle svincolate dalla competenza a conoscere del merito, e non certo ad introdurre una sorta di competenza inderogabile creata artificiosamente e comunque stravagante laddove manchi una precisa ed espressa previsione ad hoc nel sistema attuale, a meno di non volere introdurre surrettiziamente una competenza funzionale del giudice di merito ritagliata su quella del giudice della cautela, sulla falsariga di quanto invece accade con il procedimento monitorio (Celeste, 68).

L'opera del legislatore ha unificato le varie regole di competenza precedentemente previste, attraverso la riduzione dei casi di competenza concorrente, introducendo una disciplina improntata all'idea di fondo della coincidenza tra il giudice competente a pronunciare sulla cautela e quello chiamato a decidere il merito. Questa tendenziale identità, sancita dagli artt. 669-ter, comma 1, e 669-quarter, comma 1, c.p.c., non costituisce, però, una regola assoluta, sussistendo delle deroghe quando la misura cautelare venga richiesta prima dell'instaurazione della causa di merito ex art. 669-ter c.p.c., ed anche se quest'ultima risulti essere già pendente ai sensi dell'art. 669-quater c.p.c. (Saletti 2001, 840).

Infatti, anche a seguito della novella del 2005 che ha introdotto la strumentalità attenuata del procedimento cautelare, distinguendolo tra «anticipatorio» e «conservativo», ciò non toglie che, l'esclusione di un vincolo teso ad instaurare il giudizio di merito davanti allo stesso giudice della cautela ante causam, attraverso l'individuazione di altro foro concorrente, sembra trovare conforto proprio nella riforma dei primi anni duemila, laddove emerge l'autonomia del procedimento cautelare rispetto a quello di merito, nel senso dell'esclusione di ogni sorta di «automatismo» nel transitare dalla fase cautelare a quella – eventuale – di merito, e ciò a prescindere dall'esito di accoglimento o rigetto della misura cautelare richiesta ante causam (Celeste, 69).

Secondo un orientamento di legittimità emerso negli ultimi anni, poiché la riforma del 2005 non avrebbe intaccato il sistema di individuazione della competenza cautelare allestito negli artt. 669-ter e quater c.p.c., incentrato sullo stretto collegamento con la competenza in ordine alla causa di merito, quando il legislatore ha inteso prevedere eccezioni alla consonanza tra competenza cautelare e competenza di merito lo ha fatto espressamente, come nel caso dell'art. 669-ter, commi 1 e 3, c.p.c. per le ipotesi della causa di merito appartenente al giudice di pace e della giurisdizione straniera; dell'art. 688, comma 1, c.p.c. che rinvia all'art. 21 c.p.c., per le denunce di nuova opera e di danno temuto e dell'art. 693 comma 2 c.p.c., per le istanze di istruzione preventiva in caso di eccezionale urgenza, sulla cui scorta, si è quindi affermato il principio che per disposizione esplicita degli artt. 669-bis e 669-ter c.p.c., i quali, non sono stati attinti da alcun intervento modificativo, il ricorso ante causam ex art. 700 c.p.c. debba essere necessariamente presentato al giudice competente per il merito (Cass. VI, n. 18264/2017).

Secondo tale impostazione, ad essere attenuata è solo la relazione strutturale di strumentalità non quella funzionale. Ed infatti il provvedimento adottato in via cautelare è destinato a perdere efficacia qualora in sede di merito venga dichiarato inesistente il diritto a protezione del quale era stata concessa la cautela.

Al principio, quindi, della strumentalità necessaria, è venuto a sostituirsi il nuovo principio della «strumentalità ipotetica», che richiede comunque la connessione strumentale con il giudizio di merito senza tuttavia che quest'ultimo sia elevato al rango di requisito di persistenza dell'efficacia del provvedimento provvisorio.

La tutela cautelare resta, perciò, funzionale al diritto controverso, ancorché non più necessariamente strumentale al giudizio di merito, in quanto il provvedimento cautelare non è reso in attesa del provvedimento di merito, ma in funzione del diritto controverso.

A riprova delle considerazioni che precedono, si è affermato che il carattere strumentale della tutela cautelare ante causam in forza del quale, si pone in capo alla parte ricorrente l'onere di instaurare il giudizio, azionando la domanda di merito cui il rimedio cautelare inerisce, non esige anche l'esclusività della relativa azione e, dunque, non pone limiti alla proposizione di eventuali ulteriori domande nello stesso eventuale giudizio di merito, atteso che una diversa interpretazione si porrebbe in palese contrasto con i principi della concentrazione processuale e del diritto di agire del ricorrente in sede giurisdizionale a tutela dei propri diritti.

La Suprema Corte, invero, ha ripetutamente affermato l'autonomia tra i due giudizicautelare e di merito a cognizione piena – con il solo onere per l'istante di indicare nel procedimento cautelare la domanda che verrà azionata nel successivo ed eventuale procedimento di merito, ferma restando però la possibilità di proporre nuove domande e di coinvolgere ulteriori soggetti rispetto alle parti originarie che avevano partecipato al giudizio ante causam (Cass. III, n. 22830/2010; di recente, nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Bolzano 30 ottobre 2018).

Tale principio aveva trovato accoglimento nella giurisprudenza di legittimità fin dall'inizio dei primi anni 90 del secolo scorso, all'indomani dell'entrata in vigore del procedimento cautelare uniforme, con riferimento al procedimento d'urgenza strumentalmente finalizzato ad assicurare gli effetti della futura decisione del merito, così che, una volta rimesse le parti innanzi al giudice competente per il merito, la fase di cognizione sommaria – all'epoca dinanzi al pretore – poteva dirsi conclusa, mentre con l'atto introduttivo della fase di cognizione del merito inizia un nuovo giudizio, caratterizzato da un proprio petitum e da una propria causa petendi del tutto svincolata dalle condizioni cui era soggetta la prima nella fase cautelare, ragione per cui si arrivava alla conclusione che nel giudizio di merito potevano essere proposte tutte le possibili domande, anche riconvenzionali, attinenti al merito, anche se dirette a fare valere un diritto diverso da quello cui si riferivano le domande formulate nel procedimento cautelare, in quanto la decisione al termine del giudizio di merito viene totalmente a sostituirsi alla pronuncia del giudice della cautela, anche quando si conformi, in tutto od in parte, a quest'ultima (Cass. II, n. 49/1992).

La deroga convenzionale dei criteri legali per la determinazione della competenza territoriale

Una problematica diversa rispetto a quella concernente l'applicazione della regola generale enunciata dall'art. 669-ter c.p.c., secondo cui la domanda cautelare ante causam si propone al giudice competente a conoscere della causa nel merito è quella che invece riguarda la valutazione dell'impatto che può avere, ai fini della competenza cautelare ante causam, una clausola di deroga convenzionale della competenza territoriale ex artt. 28 e 29 c.p.c., in quanto – come già detto sopra – l'art. 669-ter c.p.c. non precisa se per giudice compente a conoscere del merito, dinanzi al quale va proposta anche la domanda cautelare ante causam, debba intendersi quello in astratto competente a decidere del merito ovvero, quello a ciò deputato in concreto, a seguito di un accordo delle parti volto a derogare alla regola generale in tema di competenza territoriale.

La dottrina, in ordine alla competenza cautelare, non ha espresso un'opinione condivisa in presenza di una deroga convenzionale della competenza territoriale, in quanto, alla tesi secondo cui qualora le parti abbiano convenuto una deroga convenzionale di competenza con riferimento al giudizio di merito, la stessa si riflette sulla competenza in ordine alla domanda cautelare proposta ante causam (Celeste, 67), si contrappone quella che invece ritiene che la competenza cautelare vada sempre individuata in base ai criteri legali e non a quello pattizio, perché la competenza territoriale è inderogabile dalle parti in materia cautelare ex art. 28 c.p.c.

Come evidenziato dalla stessa dottrina (Celeste, 67), il problema si pone sul necessario raccordo tra il giudice della cautela e quello del giudizio di merito, particolarmente «sentito» non solo nel caso in cui la deroga convenzionale non riguardi la competenza esclusiva di un solo foro, ma più fori concorrenti, come ad esempio nell'ipotesi di rapporti relativi a diritti di obbligazione cui si riferisce l'art. 20 c.p.c.

L'eccezione pregiudiziale di incompetenza territoriale dell'ufficio giudiziario adito in un procedimento cautelare ante causam si reputa validamente proposta se diretta a contestare tutti i fori per cui sussiste competenza concorrente od alternativa in relazione all'instauranda domanda di merito, posto che, anche nella fase cautelare trovano applicazione i principi generali che presiedono il processo ordinario di cognizione (Trib. Roma 18 ottobre 2004).

Infatti, secondo quanto enunciato dall'art. 28 c.p.c., la competenza territoriale in caso di ricorso cautelare ante causam non può subire deroghe per effetto dell'accordo tra le parti, in quanto detto accordo può derogare solo alla competenza per la causa di merito, e sempre che non si incorra nei divieti di cui agli artt. 6 e 28 c.p.c.

In senso contrario all'operatività della clausola di deroga convenzionale della competenza in materia cautelare, stante il principio di inderogabilità convenzionale della competenza sancito dall'art. 6 c.p.c. sono eccezionali i casi nei quali è possibile una deroga della stessa in forza di un accordo tra le parti (Montesano, Arieta, 124).

A ciò aggiungasi che l'art. 28 c.p.c. laddove pone il divieto di deroga della competenza per territorio in materia di procedimenti cautelari è ancora vigente, in quanto non può considerarsi implicitamente abrogato a seguito dell'introduzione del procedimento cautelare uniforme, atteso che nelle ipotesi in cui il legislatore ha manifestato la volontà di abrogare disposizioni in materia cautelare l'ha fatto espressamente (Simonelli, 1487), senza contare il fatto che attribuire la competenza cautelare anteriormente all'instaurazione del giudizio di merito al giudice scelto convenzionalmente dalle parti per siffatto giudizio, comporta un'indebita estensione dell'oggetto della convenzione tra le stesse parti che, ha invece riguardo soltanto alla deroga della competenza territoriale per la causa di merito.

A questa impostazione, si contrappone quella di chi invece, considera che avrebbe rilevanza la deroga pattizia della competenza per territorio (Capponi, 201), atteso che la ratio alla base delle disposizioni del procedimento cautelare uniforme, consente di affermare che debba sempre essere privilegiata l'interpretazione che favorisca un costante raccordo tra il procedimento cautelare ed il procedimento di merito, ovvero, una coincidenza tra il giudice della cautela ed il giudice del merito (Guarnieri, 299). Del resto, la problematica si era già posta già prima del 1990 per i sequestri e sussiste tutt'ora per quanto riguarda i provvedimenti di istruzione preventiva posto che un orientamento è incline a considerare validi, ai fini della proposizione del ricorso cautelare ante causam, gli accordi di deroga della competenza territoriale (Cecchella, 355).

I fautori della tesi dominante, favorevole all'operare della deroga pattizia alla competenza per territorio anche ai fini dell'individuazione del giudice competente a conoscere della domanda cautelare proposta ante causam giustificano l'apparente contrasto di tale opzione interpretativa con l'inderogabilità della competenza territoriale in tema di procedimenti cautelari sancita dall'art. 28 c.p.c.

In particolare, se alcuni conditores non esitano a ritenere che tale regola è stata implicitamente abrogata a seguito dell'introduzione del procedimento cautelare uniforme (Olivieri, 699), altri invece, tendo a rimarcare l'assunto che, attualmente, l'unica regola di competenza per territorio avente carattere funzionale, e, quindi, inderogabile è proprio quella sancita dall'art. 669-ter, comma 1, c.p.c., la quale, individua per relationem, anche nelle ipotesi di deroga pattizia della stessa, la competenza cautelare rispetto a quella per il giudizio di merito (Merlin, 394).

Nel caso del procedimento cautelare, se si aderisse alla tesi secondo la quale, qualora le parti abbiano convenuto una deroga convenzionale di competenza con riferimento al giudizio di merito, la stessa si rifletterebbe sulla competenza in ordine alla domanda cautelare proposta ante causam, si potrebbe verificare l'assurda situazione di un procedimento cautelare deciso dal giudice competente territorialmente per deroga convenzionale e procedimento di merito deciso dal giudice incompetente per deroga convenzionale ma competenza per omessa relativa eccezione o per adesione di controparte ex art. 38 comma 2 c.p.c. (Trib. Napoli 20 giugno 2008).

L'inderogabilità del foro per i procedimenti cautelari, prevista dall'art. 28 c.p.c. rinvia implicitamente alla previsione della necessaria coincidenza tra giudice competente per il merito e giudice competente per l'azione cautelare ante causam, essa vieta quindi alle parti di spezzare consensualmente tale legame funzionale, ma non impedisce che, invece, esse deroghino alla competenza territoriale per il merito, con la conseguente attrazione del processo cautelare presso il foro convenzionale (Trib. Roma 13 agosto 2018).

Tuttavia, si è anche affermato che la regola fondamentale in materia di competenza cautelare, enunciata dall'art. 669-ter c.p.c., oltre che dall'art. 669-quater c.p.c., fondata sulla corrispondenza fra giudice della cautela e giudice del merito, è una linea di tendenza, giacché vi sono diverse le situazioni in cui questa corrispondenza non viene realizzata come nel caso dei giudizi davanti al giudice di pace, o per i giudizi nei quali il giudice italiano non ha giurisdizione – ai sensi degli artt. 669-quater, comma 2, e 669-quinquies c.p.c. – sulla cui scorta, si è quindi affermato che la deroga convenzionale ai criteri ordinari di competenza per territorio, se inequivoca, debba estendersi anche alla fase cautelare (Trib. Torre Annunziata 1° dicembre 2009).

Del resto, come precisato dalla stessa giurisprudenza di legittimità (Cass. VI, n. 11949/2015), la previsione di una domanda cautelare ante causam, da proporsi necessariamente al giudice competente a conoscere del merito, preannuncia una scelta processuale che, per il principio di autoresponsabilità e di affidamento processuale, da un lato vincola la parte ricorrente e, dall'altro, onera quella resistente ad eccepire l'incompetenza già in sede cautelare. È infatti evidente come tale preannunciata scelta processuale sia tanto più vincolante laddove è lasciata alla parte che agisce la scelta tra i fori alternativi – come nel caso previsto dall'art. 413, comma 2, c.p.c. per controversia rientrante nell'àmbito del processo del lavoro – sussistendo a suo carico solo l'onere di dimostrare che di quello prescelto ricorrano gli elementi di fatto della fattispecie legale (Cass. IV, n. 13147/1999; Cass. IV, n. 700/1993).

In caso di fori alternativi, il foro competente è scelto sempre dall'attore ed a tale scelta il convenuto deve soggiacere, rispondendo, l'alternatività, a valutazioni di opportunità compiute dal legislatore e dirette ad assicurare una più razionale ed economica gestione del processo attraverso la rimessione all'attore dell'individuazione di quello che, nell'ambito di una predeterminata molteplicità di criteri, tutti potenzialmente dotati di idoneità a consentire il più efficace svolgimento del processo e la massima effettività del diritto di difesa, gli appaia in concreto destinato a sovvenire al meglio alle esigenze dell'azione da intraprendere. Allo stesso modo, non potrebbe certo pretendersi che la parte vittoriosa nel procedimento cautelare debba per forza instaurare il giudizio di merito anche solo al fine di incardinare definitivamente la competenza dinanzi al foro prescelto tra quelli alternativi, in quanto, opinare diversamente, ponendo tale onere a carico della parte vittoriosa in sede cautelare, al mero scopo di impedire l'eventuale diversa scelta dell'altra parte nel giudizio di merito, significherebbe neutralizzare quell'intento di accelerazione dei tempi processuali e di semplificazione del meccanismo decisionale che è alla base delle stesse modifiche legislative succedutesi nel corso degli anni.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, si è quindi affermato che il giudizio proposto ai sensi degli artt. 669-octies e novies c.p.c. all'esito della fase cautelare ante causam, può essere validamente instaurato davanti al giudice competente, ancorché diverso da quello della cautela (Cass. VI, n. 11778/2014; Cass. VI, n. 9416/2012; Cass. III, n. 2505/2010; Cass. III, n. 24869/2010), sulla cui scorta può allora concludersi che il principio desumibile dai richiamati precedenti è quello secondo cui, ai fini dell'individuazione del giudice territorialmente competente per la fase del giudizio a cognizione piena, deve farsi riferimento, agli ordinari criteri, come quello riguardante la prevalenza della competenza immodificabile in caso di opposizione a decreto ingiuntivo anche rispetto ad una causa connessa – e riunita – restando privo di rilevanza il foro precedentemente individuato per l'instaurazione del procedimento cautelare ante causam (Cass. VI, n. 15618/2015).

Infatti, l'omessa rilevazione dell'incompetenza derogabile od inderogabile da parte del giudice nel procedimento cautelare ante causam non determina il definitivo consolidamento della competenza in capo all'ufficio adito anche ai fini del successivo giudizio di merito, non operando nel giudizio cautelare il regime delle preclusioni relativo alle eccezioni ed al rilievo d'ufficio dell'incompetenza, stabilito dall'art. 38 c.p.c., in quanto applicabile esclusivamente al giudizio a cognizione piena (Cass. VI, n. 12403/2020; Cass. VI, n. 797/2015; Cass. VI, n. 11778/2014; Cass. III, n. 24869/2010; Cass. III, n. 2505/2010).

La competenza del giudice diverso da quello italiano

In base all'art. 669-ter, comma 3, c.p.c., se il giudice italiano non è competente a conoscere la causa di merito, la domanda si propone al giudice, che sarebbe competente per materia o valore, del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare.

Nel procedimento cautelare uniforme, in punto di incompetenza del giudice della cautela adito ante causam si ricava l'esigenza della rilevabilità d'ufficio dell'incompetenza – di qualsiasi natura – per il semplice fatto che esista la possibilità che la misura cautelare richiesta venga concessa inaudita altera parte e che il resistente debba conseguentemente subire, per contestarne la legittimità, la competenza del giudice arbitrariamente scelto dalla parte ricorrente.

La giurisdizione del giudice italiano in ordine all'azione cautelare su beni appartenenti a Stati esteri o a loro enti pubblici non sussiste ove si tratti di beni destinati all'esercizio delle loro funzioni sovrane o, comunque, dei loro fini pubblicistici (Cass. III, n. 14885/2018; Cass. S.U., n. 173/1996).

La giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U., n. 2448/2006) ha infatti sancito il principio che ai sensi dell'art. 4 della l. n. 218/1995, di riforma del sistema italiano del diritto internazionale privato, la mancata proposizione, da parte del convenuto, dell'eccezione di carenza di giurisdizione nella fase del procedimento cautelare ante causam non comporta l'accettazione della giurisdizione del giudice italiano quanto al diverso ed autonomo giudizio di merito che segua a quello cautelare, e non preclude, pertanto, al medesimo convenuto di eccepire, in esso, nel primo atto difensivo, il suddetto difetto di giurisdizione del giudice adito (Trib. Lucca 5 luglio 2019).

In tale ottica, è stata dichiarata l'incompetenza del giudice italiano, per difetto dei criteri di collegamento relativamente alla domanda cautelare ante causam di inibitoria fondata sulla pretesa contraffazione del disegno/modello comunitario della ricorrente, avendo la società resistente sede legale in uno Stato estero extracomunitario e una succursale in uno Stato membro a cui appartiene la relativa competenza, unitamente al dichiarato difetto di giurisdizione del giudice italiano per difetto dei necessari criteri di collegamento con riferimento alla domanda cautelare fondata sui pretesi atti illeciti di concorrenza sleale commessi dalla resistente, società con sede nello Stato estero extracomunitario (Trib. Roma 28 aprile 2015).

Sebbene il criterio di competenza previsto dall'art. 90 del Reg. n. 6/2002 sgancia la competenza per i provvedimenti cautelari da quella relativa al giudizio di merito, consentendo la richiesta dei primi ad un giudice diverso senza ulteriori limitazioni di sorta, la giurisprudenza, comunitaria ed italiana ha tuttavia sempre letto l'anzidetta disposizione in senso restrittivo, consentendone l'applicazione, in un'ottica volta a disincentivare i fenomeni di forum shopping, solo in presenza di un preciso criterio di collegamento con il territorio dello Stato di riferimento del giudice adito, segnatamente consistente nell'eseguibilità dinanzi al medesimo dei provvedimenti richiesti (Delle Donne, 229).

Va, poi, considerato che ai sensi dell'art. 35 del Regolamento UE n. 1215/2012, i provvedimenti cautelari previsti dalla legge di uno Stato membro possono essere richiesti al giudice di detto Stato membro anche se la competenza a conoscere del merito è riconosciuta all'autorità giurisdizionale di un altro Stato membro, occupandosi detta norma della competenza giurisdizionale del giudice che non sia già competente per il merito, ovvero avanti al quale si voglia proporre un'istanza cautelare dopo l'inizio della causa di merito in un altro Stato membro.

A ciò aggiungasi che quando il provvedimento cautelare, sia emesso da un giudice che non è competente a conoscere nel merito, la sua efficacia dovrebbe limitarsi al territorio dello Stato membro interessato, sulla cui scorta, si deve allora ritenere che la competenza ad emettere il richiesto provvedimento cautelare sia subordinata alla condizione dell'esistenza di un nesso effettivo di collegamento fra l'oggetto del provvedimento richiesto e la competenza territoriale dello Stato del giudice adìto.

In tale ottica, il criterio di collegamento implicito nella norma in esame non può allora che avere una natura territoriale, attribuendo la giurisdizione al giudice del luogo in cui la misura cautelare ante causam debba essere eseguita (Trib. Bolzano 31 marzo 2015).

La giurisdizione in capo al giudice italiano è stata riconosciuta ai sensi dell'art. 5, n. 3), del Reg. CE 44/2001, a conoscere una domanda cautelare proposta dal ricorrente italiano contro una società inglese per conseguire l'inibitoria avverso un preteso illecito extracontrattuale compiuto attraverso un sito web, riguardante l'uso non autorizzato di una banca dati e di un segno distintivo, nonché per concorrenza sleale ex art. 2598, nn. 1) e 3), c.c. in quanto nella fattispecie scrutinata il sito della parte resistente era rivolto esclusivamente agli italiani ed era in diretta concorrenza con l'attività del ricorrente esclusivamente sullo specifico mercato italiano (Trib. Milano 16 marzo 2009).

La giurisdizione italiana è stata, inoltre, ritenuta sussistente ai sensi della medesima disposizione comunitaria, sempre in un caso riguardante condotte dichiarate illecite ex art. 2598, n. 3), c.c., poste in essere da imprese straniere presso soggetti aventi sede nel territorio dello Stato (Trib. Milano 16 luglio 2012; Trib. Milano 31 gennaio 2011; Trib. Genova 13 febbraio 2004; contra, Trib. Roma 23 maggio 2007, che ha invece applicato il principio generale della competenza dell'autorità giurisdizionale del domicilio della parte resistente).

Il fatto che la parte resistente non abbia stabilimenti o sedi in Italia nelle quali possa essere eseguito il provvedimento cautelare di sequestro richiesto dalla ricorrente, ovvero che la medesima resistente non abbia intrattenuto rapporti contrattuali diretti con il ricorrente, non impedisce né la proposizione del ricorso cautelare ante causam né la sua decisione nel merito da parte del giudice italiano, se è provato che è nel territorio italiano che sono commessi gli atti di contraffazione previsti dall'art. 120, commi 1 e 6, c.p.i. (Trib. Torino 11 luglio 2014).

  La proposizione di sequestro conservativo avente ad oggetto una nave comporta che laddove la collocazione della stessa nave risulti al di fuori delle acque territoriali, attesa da un lato, l'assenza di elementi precisi, riscontrabili, in modo univoco, in misura tale da supportare la tesi della ricorrente circa la collocazione della nave entro le 12 miglia alle ore 16:52 del 30 gennaio 2024, data della proposizione del ricorso, e dall'altro, che la resistente ha, al contrario, prodotto documentazione fondata sui dati AIS e le coordinate fornite dal capitano della nave, che la ricorrente si è limitata a contestare in maniera generica e aspecifica, da ciò discende il difetto di giurisdizione del giudice italiano, e conseguentemente l'inapplicabilità dell'art. 669 ter, comma 3, c.p.c. invocato dalla parte ricorrente per ottenere la concessione del richiesto provvedimento cautelare (Trib. Ravenna 10 febbraio 2024).

La competenza nel caso di giudizio di merito devoluto ad arbitri che pronunciano all'estero

La prima questione che si pone muove alla circostanza che, il giudice italiano adìto ha il potere-dovere di verificare, preliminarmente, la validità, operatività ed applicabilità della clausola compromissoria per arbitrato estero, in via di delibazione sommaria, e, all'esito favorevole di tale verifica, di rimettere le parti dinanzi agli arbitri.

Solo in caso di verifica negativa, il giudice si pronuncerà sulla giurisdizione propria o di altro giudice.

La delibazione sommaria effettuata dal giudice adito sulla validità, operatività ed applicabilità della clausola compromissoria, non essendo idonea a formare il giudicato, non vincolerà né il collegio arbitrale né il giudice straniero, di cui sia stata ritenuta la giurisdizione (Cass. S.U., n. 5601/1995).

La seconda questione che si pone è quella relativa alla legge applicabile, nel senso che occorre stabilire se il rinvio operato dalle parti attenga alla legge processuale dello Stato estero, tenendo presente che a deporre in tale senso può operare il rinvio «fisso» e generico riferito nel suo complesso alla legge dello Stato estero di cui trattasi in relazione alla controversia oggetto dell'istanza cautelare, laddove riguardi sia le norme sostanziali che quelle processuali.

L'art. 669-quinquies c.p.c. parla genericamente di giudizio arbitrale, senza distinguere tra arbitrato italiano e arbitrato estero, ragione per cui, secondo un'autorevole dottrina, ove per la controversia devoluta all'arbitrato estero sussista la giurisdizione del giudice italiano, la tutela cautelare andrà richiesta dinanzi al giudice che sarebbe stato competente per il merito se questo non fosse stato affidato all'arbitrato estero, mentre se invece per la controversia compromessa in arbitrato estero non sussista la giurisdizione del giudice italiano, la tutela cautelare andrà richiesta al giudice che sarebbe competente per materia o per valore del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare (Luiso 1991, 255).

La terza questione che si pone attiene alla sussistenza di una deroga pattizia alla giurisdizione del giudice italiano.

La devoluzione della controversia ad un arbitrato estero non determina di per sé la carenza di giurisdizione del giudice italiano in misura maggiore di quanto la determini la pendenza della lite sul merito di fronte ad un giudice straniero (Luiso 1991, 256). In quest'ultima eventualità, l'art. 669-quater, comma 5, c.p.c. prevede due ipotesi, a seconda che pendendo la lite dinanzi ad un giudice straniero quello italiano sia o non sia fornito di giurisdizione.

Nel primo caso, resta fermo il criterio generale della competenza cautelare e dunque, quello della competenza per il merito, mentre nel secondo caso si applica il criterio sussidiario dell'art. 669-ter comma 3 c.p.c., e quindi, la competenza per materia o valore del giudice del luogo in cui dovrà avere attuazione il provvedimento cautelare (Luiso 1991, 256). La stessa dottrina ha infatti precisato che non si vede perché la devoluzione della lite ad un arbitrato estero debba portare all'applicazione di regole di competenza cautelare diverse da quelle vigenti in caso di pendenza della lite davanti ad un giudice estero.

In via preliminare, va dunque chiarito che ove non si tratta di giudizio rimesso ad un collegio arbitrale avente sede all'estero ma chiamato a giudicare secondo la legge italiana, in tale ipotesi sussiste il divieto di cui all'art. 818 c.p.c., atteso che i provvedimenti cautelari possono essere chiesti solo dinanzi all'autorità giudiziaria italiana, e ricorrendo tale eventualità, potrebbe discutersi unicamente in ordine alla competenza per territorio e, in specifici casi, per materia.

Nella diversa ipotesi in cui da un lato, il collegio arbitrale risulti avere stabilito la propria sede all'estero, e dall'altro, le parti hanno pure rinviato alla legge dello Stato estero, consegue invece l'inapplicabilità dello specifico divieto sancito dall'art. 818 c.p.c.

Di fronte ad una convenzione arbitrale silente circa il radicamento nazionale dell'arbitrato ed al contempo priva di espressioni esplicite che neghino potestà cautelare ad un qualsiasi giudice statuale, sarà difficile immaginare che le parti abbiano volontariamente accettato il rischio di una totale rinuncia alla cautela, perché tale rischio potrebbe concretizzarsi, laddove per una successiva scelta di terzi che prescinda dalla concorde volontà dei compromittenti, l'arbitrato si radichi in un ordinamento che impedisca tout court o comunque limiti fortemente agli arbitri l'adozione di misure cautelari (Briguglio 2017, 780).

Una convenzione per arbitrato estero con radicamento originario e voluto dalle parti in un ordinamento che riserva ai soli arbitri la potestas cautelare con esclusione della concorrente potestas cautelare in capo al giudice dello Stato del foro, potrebbe dirsi indice di esclusione della potestas cautelare di ogni altro giudice statuale, perché se le parti hanno voluto un arbitrato escludente il potere cautelare del giudice per il quale quell'arbitrato è interno, accontentandosi della potestas cautelare esclusiva degli arbitri, ha ben poco senso che esse abbiano accettato l'idea di un potere cautelare esercitabile dal giudice statuale per cui quell'arbitrato è estero (Briguglio 2017, 781).

Del resto, in altri ordinamenti è ritenuto ammissibile un potere cautelare in capo agli arbitri, non essendo quello codificato nell'art. 818 c.p.c. dal legislatore italiano un divieto espressione di un principio universalmente riconosciuto (Luiso 1991, 254).

In ogni caso, la tendenziale coincidenza della competenza del giudice della cautela con quello del merito, può non funzionare quando le parti hanno prescelto la via arbitrale, posto che in tale ipotesi, il potere cautelare spetta al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito se non vi fosse stato il patto cautelare (Luiso 1991, 255).

Ciò premesso, sebbene la questione relativa all'individuazione del giudice competente – privato o pubblico – non attenga alla giurisdizione, ma al merito, la clausola compromissoria contenuta nel contratto intervenuto tra le parti comporta la rinuncia ad ogni tipo di giurisdizione, sia essa italiana o straniera, con la conseguenza che deve allora ritenersi sussistente una deroga sia alla giurisdizione di merito che a quella cautelare ante causam (Cass. S.U., n. 22236/2009; Cass. S.U., n. 35/2007; Cass. S.U., n. 1735/2005; Cass. S.U., n. 6349/2003; Cass. S.U., n. 10723/2002).

L'art. 4 della l. n. 218/1995, nel prevedere che la giurisdizione italiana può essere convenzionalmente derogata a favore di giudice straniero o di un arbitrato estero, dispone altresì che, quando vi sia tale deroga alla giurisdizione italiana, essa nondimeno sussiste se il convenuto compaia nel processo senza eccepire il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo.

In ordine all'applicabilità dell'art. 10 della l. n. 218/1995, secondo cui sussiste la giurisdizione del giudice italiano quando il provvedimento deve essere eseguito in Italia o quando il giudice italiano ha giurisdizione sul merito, e, dunque, dell'art. 669-ter, comma 3, c.p.c. nell'ipotesi di procedimento cautelare ante causam, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che tanto l'art. 10 che l'art. 669-ter, comma 3, c.p.c. citati non possono operare allorché le parti abbiano scelto di devolvere ogni controversia scaturente da un determinato rapporto alla cognizione di un arbitro estero, così rinunciando «a monte» e totalmente alla giurisdizione del giudice italiano.

Tali norme, infatti, sarebbero destinate ad operare solo qualora manchi ex lege la giurisdizione sul merito e non quando detta completa rinuncia vi sia stata, perché la stessa giurisprudenza è ormai pacifica nel ritenere che la rinuncia alla giurisdizione importa anche la rinuncia alla giurisdizione cautelare (in tale senso, oltre alle citate Cass. S.U., n. 22236/2009; Cass. S.U., n. 35/2007; Cass. S.U., n. 1735/2005; Cass. S.U., n. 6349/2003; Cass. S.U., n. 10723/2002, v. anche le più remote Cass. S.U., n. 9380/1992; Cass. S.U., n. 5049/1985).

Ciò comporta allora che bisogna distinguere fra arbitrati esteri che derogano in toto alla giurisdizione italiana ed arbitrati esteri che tale deroga totale invece non prevedono, perché hanno ad oggetto controversie comunque non appartenenti al giudice italiano, ragione per cui solo per queste ultime si deve ritenere che sussista la giurisdizione cautelare del giudice italiano.

Pertanto, in relazione alla richiesta di provvedimento cautelare ante causam ai sensi dell'art. 4 della l. n. 218/1995, la mancata proposizione, da parte del convenuto costituito, dell'eccezione di carenza di giurisdizione nella fase dello stesso procedimento cautelare ex art. 669-ter c.p.c., da cui è conseguita l'adozione di detto provvedimento da parte del giudice italiano, non comporta affatto l'accettazione della giurisdizione del giudice italiano quanto al diverso ed autonomo giudizio di merito che segua quello cautelare, e non preclude, pertanto, al medesimo convenuto di eccepire, in esso, nel primo atto difensivo, il difetto di giurisdizione del giudice adito. (Cass. S.U., n. 2448/2006).

Conseguentemente, si deve allora ritenere che, qualora tale eccezione sia invece formulata dalla parte resistente, in questa ipotesi, il giudice italiano deve astenersi dal provvedere sulla domanda cautelare, fermo restando che nulla osta alla proposizione della domanda di merito innanzi a detto giudice, il quale, in assenza di eccezioni del convenuto costituitosi, è comunque tenuto a provvedere sulla domanda cautelare.

In presenza di una deroga alla giurisdizione italiana conseguente all'opzione per un arbitrato estero contenuta nel patto compromissorio, da cui discende anche l'applicabilità generale della legge dello Stato estero, gli arbitri sono chiamati anche ad emettere provvedimenti cautelari non potendo ritenersi in tale ipotesi operante il divieto sancito dall'art. 818 c.p.c. (Trib. Frosinone 19 settembre 2017).

In precedenza, l'orientamento della giurisprudenza di merito ha ritenuto che la giurisdizione sull'istanza cautelare relativa a diritti tutelabili nel merito in base ad una clausola compromissoria per arbitrato estero, avente ad oggetto comportamenti da eseguirsi esclusivamente nel territorio dello Stato italiano, appartiene al giudice italiano, senza che rilevi la qualificazione rituale od irrituale dell'arbitrato (Trib. Roma 28 agosto 1999).

In presenza di una clausola compromissoria per arbitrato estero non è infatti possibile applicare le categorie giuridiche proprie della ritualità ed irritualità, ragione per cui, trattandosi di un'ipotesi di difetto di giurisdizione, la competenza cautelare del giudice italiano va determinata ai sensi dell'art. 669-ter c.p.c. (Trib. Palmi 9 luglio 1998; conforme Pret. Verona 18 aprile 1985, in cui si è statuito che il giudice italiano ha giurisdizione in materia di concessione di provvedimenti d'urgenza, da emanarsi a cautela di una controversia rimessa ad arbitrato estero).

La competenza per materia o valore del giudice del luogo in cui va eseguito il provvedimento cautelare

L'art. 669-ter, comma 3, c.p.c. prevede che se il giudice italiano non è competente a conoscere la causa di merito la domanda si propone al giudice che sarebbe competente per materia o valore del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare.

La novella del 1990 ha introdotto, nel procedimento cautelare uniforme, disposizioni specifiche intese a risolvere la questione della individuazione, nell'ambito della giurisdizione statale, del giudice territorialmente competente, ferma restando l'operatività dei criteri ordinari di determinazione della competenza per materia o valore. L'alternativa riguarda lo stesso giudice potenzialmente competente per il merito, ovvero – in assenza di giurisdizione italiana per il «merito» – il giudice del luogo ove il provvedimento cautelare deve essere eseguito (Siracusano, 782).

Inoltre, la verifica dell'ambito della giurisdizione cautelare del giudice italiano passa, attraverso l'analisi della disciplina dell' art. 31 del Regolamento CE n. 44/2001 abrogato dall'art. 80 del Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 1215 del 12 dicembre 2012 il quale all'art. 35 attualmente prevedeche il giudice italiano possa essere adito in via cautelare nella materia civile ed in quella commerciale disciplinate dal Regolamento, anche ove la competenza a conoscere il merito della controversia sia riconosciuta al giudice di un altro Stato membro.

Ai sensi delle convenzioni di Bruxelles del 27 settembre 1968 e di Lugano del 16 settembre 1988, il giudice italiano del forum actoris ha giurisdizione e competenza in ordine all'emissione di un provvedimento cautelare chiesto nei confronti di soggetti residenti in Germania e Svizzera (Trib. Rovereto 6 marzo 1998).

È possibile adire il giudice italiano anche qualora il procedimento di merito già penda all'estero, purché sussista in astratto la possibilità che la controversia ricada anche sotto la giurisdizione interna, ovvero la necessità di eseguire la misura cautelare in territorio italiano (Siracusano, 782).

Il criterio della competenza riferita al luogo di esecuzione del provvedimento cautelare, già adottato in materia di sequestri dall'abrogato art. 672, comma 3, c.p.c. attualmente è temperato dall'osservanza della competenza per materia e valore del giudice del luogo di esecuzione.

Tale disposizione che in ogni caso prescrive il rispetto della competenza territoriale interna, si riferisce all'ipotesi della misura cautelare richiesta ante causam, e secondo quanto emerge da un'opinione giurisprudenziale di merito, non può essere trasposta all'ipotesi della misura cautelare richiesta in corso di causa ai sensi dell'art. 669-quater c.p.c. davanti ad un giudice privo di giurisdizione (Trib. Udine 22 marzo 2013).

Tanto che l'art. 669-quater c.p.c., pur prevedendo che la domanda deve essere proposta al giudice della causa di merito, non dice che tale giudice è in ogni caso competente a pronunciarsi anche nell'ipotesi di difetto di giurisdizione e/o competenza, né fa alcuna menzione della possibilità del giudice di pronunciare misure cautelari anche se privo di giurisdizione, come invece è previsto con il rinvio all'art. 669-ter, comma 3, c.p.c. nell'ipotesi prevista dall'art. 669-ter, comma 5, c.p.c. di un giudizio pendente all'estero.

In entrambe le ipotesi disciplinate dagli artt. 669-ter e 669-quater c.p.c. per richiamo al primo, la potestà cautelare del giudice italiano privo di giurisdizione fa capo al giudice potenzialmente competente per materia e valore, quanto al merito, e territorialmente individuato con riguardo al luogo in cui il provvedimento deve essere eseguito.

Pertanto, nell'ipotesi in cui la causa di merito appartenga alla giurisdizione di uno Stato estero, la richiesta di concessione di un sequestro conservativo sui beni di proprietà della società debitrice che si trovino in Italia – come ad esempio le partecipazioni azionarie detenute in altra società con sede nel territorio italiano – giustifica la giurisdizione e competenza di quest'ultimo, quale giudice del luogo ove il creditore potrà eseguire la richiesta misura cautelare (Trib. Milano 14 settembre 2018).

La circostanza che il provvedimento cautelare debba eseguirsi in Italia consente dunque di ritenere sussistente la giurisdizione italiana per l'emissione della cautela, anche in presenza di attribuzione pattizia della giurisdizione ad altra autorità giudiziaria.

La potestà cautelare non potrebbe allora riconoscersi in capo all'ufficio giudiziario adito se il provvedimento cautelare richiesto dinanzi al medesimo, anche qualora risulti sorretto dal fumus e dal necessario collegamento con la causa di merito, risulti però destinato ad essere eseguito in Italia ma in un luogo in cui non sussiste la competenza territoriale dello stesso ufficio giudiziario adìto (Trib. Udine 22 marzo 2013).

Il riferimento al luogo dove la misura cautelare deve essere eseguita implica quindi l'impossibilità di richiedere al giudice italiano carente di giurisdizione la concessione di provvedimenti cautelari insuscettibili di attuazione coattiva nel territorio della Repubblica, con la precisazione che quando trattasi di provvedimenti da eseguire nei confronti di soggetti terzi rispetto alle parti in causa, tale impossibilità sussiste quantomeno con riferimento alla richiesta dei provvedimenti d'urgenza.

La tutela cautelare ante causam nel processo del lavoro

L'art. 669-bis c.p.c. prevede che la domanda debba proporsi con ricorso al giudice competente.

La norma, in quanto appartenente alla disciplina sul procedimento cautelare uniforme, applicabile alle diverse misure cautelari previste dal codice di rito, è considerata una previsione generale a cui fare riferimento per qualsivoglia istanza cautelare, compresa quella ante causam di cui all'art. 669-ter c.p.c.

Nel processo del lavoro, il ricorso alla tutela cautelare ante causam assume un'importanza cruciale, essendo strumentale all'effettività della tutela giurisdizionale, ragione per cui seppure variamente configurata e modulata, essa è necessaria e deve essere effettiva (Corte cost., n. 225/2017; Corte cost., n. 236/2010; Corte cost., n. 403/2007; Corte cost., n. 165/2000; Corte cost., n. 437/1995; Corte cost., n. 318/1995; Corte cost., n. 190/1985), costituendo espressione paradigmatica del principio per il quale la durata del processo non deve andare a danno dell'attore che ha ragione (Corte cost., n. 253/1994), atteso che, in quanto preordinata ad assicurare l'effettività della tutela giurisdizionale, ed in particolare a non lasciare vanificato l'accertamento del diritto, costituisce uno strumento fondamentale ed inerente a qualsiasi sistema processuale, anche indipendentemente da una previsione espressa (Corte cost., n. 403/2007).

Pertanto, anche dinanzi al giudice del lavoro, quando il diritto assistito dal fumus boni iuris è minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile provocato dalla cadenza dei tempi necessari per farlo valere in via ordinaria, la tutela cautelare ante causam è lo strumento più idoneo ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito, essendo pur sempre riconducibile all'esercizio della giurisdizione ed alla garanzia del giusto processo.

In particolare, anche nell'àmbito del processo del lavoro vale il principio che, ai sensi dell'art. 700 c.p.c. chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per fare valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d'urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito.

La norma introduce – come noto – un'azione cautelare atipica e residuale, a tutela di diritti soggettivi che, a causa della durata fisiologica del processo a cognizione piena, rischiano di essere irrimediabilmente lesi, perché l'eventuale provvedimento giudiziale che dovesse riconoscerli alla fine della causa di merito non potrebbe fare conseguire tutto quello e proprio quello che l'istante che ha ragione avrebbe diritto di conseguire a livello di diritto sostanziale.

Tale tipologia di danno può derivare dal sopraggiungere di fatti tali da porre in pericolo le concrete possibilità di attuazione della pronuncia che statuisce sul merito della controversia oppure dalla mera permanenza del diritto in uno stato di insoddisfazione per tutto il tempo necessario ad ottenere una sentenza esecutiva nel corso del processo a cognizione piena, in tale modo, delineandosi il c.d.«danno marginale» che la durata del processo produce o concorre a causare.

Conseguentemente, posto che l'azione d'urgenza è preordinata a tutelare il diritto del ricorrente avverso un periculum in mora atipico, il provvedimento che il giudice sarà chiamato ad emanare, previa valutazione sommaria del fumus boni iuris, potrà essere tanto di tipo conservativo quanto di tipo anticipatorio.

Pertanto, la circostanza che il lavoratore chieda in via d'urgenza la condanna del proprio datore al pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali ed assistenziali, quale tipico provvedimento anticipatorio, previo accertamento dell'illegittimità del licenziamento subito, non appare affatto incompatibile con la struttura dell'azione cautelare atipica, soprattutto laddove si consideri che, all'indomani della riforma del 2005, non è più obbligatoria l'introduzione del giudizio di merito a pena d'inefficacia dell'ordinanza cautelare emessa, ragione per cui, è ormai divenuta anacronistica l'affermazione che essendo connotato tipico dei provvedimenti d'urgenza la loro provvisorietà e strumentalità, deve ritenersi abnorme il provvedimento cautelare che producendo effetti non solo completamente satisfattivi, ma anche definitivi, sia sul piano della produzione degli effetti materiali che dell'accertamento del diritto, spezzi il nesso di strumentalità che il provvedimento di urgenza deve avere con quello a cognizione piena.

La giurisprudenza ha, quindi, affermato che essendo il diritto alle misure cautelari una dimensione essenziale del diritto alla tutela giurisdizionale garantito dall'art. 24 Cost., accedendo ad un'interpretazione costituzionalmente orientata, che non ammette vuoti cautelari, è ammissibile il ricorso d'urgenza riguardante il pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali ed assistenziali (Trib. Matera 2 marzo 2020), purché ricorrano, com'è ovvio, il fumus boni iuris ed il periculum in mora, essendo quest'ultimo ravvisabile nella concreta dimostrazione dell'irreparabilità delle possibili conseguenze, legate alla mancata adozione del provvedimento cautelare, attraverso l'indicazione di validi indici dai quali poter desumere in termini di piena oggettività la consistenza dell'eventuale nocumento legato alla condotta di controparte (Trib. Vasto 11 ottobre 2019).

A tale fine, tenendo presente che anche per la tutela cautelare invocata nell'ambito giuslavoristico, il periculum non può ritenersi sussistente in re ipsa, né può essere ravvisato in una qualsiasi violazione dei diritti del ricorrente in sé considerata, ma solo quando tale lesione, in quanto incidente su posizioni giuridiche soggettive a contenuto non patrimoniale ed a rilevanza costituzionale a quel diritto strettamente connesse, sia suscettibile di arrecare un pregiudizio non altrimenti ristorabile per equivalente, gravando sulla stessa parte ricorrente l'assolvimento del relativo onere probatorio, che non può consistere nel mero timore soggettivo di perdere la garanzia del proprio credito, dovendo corrispondere ad una situazione di pericolo reale ed obiettiva, in cui si concreti la possibilità che il patrimonio del debitore venga sottratto o diminuito in modo da non soddisfare più la funzione di garanzia che gli è propria (Trib. Lecce 29 marzo 2019).

Il periculum in mora non può, dunque, identificarsi, sic et sempliciter con il danno derivante dal provvedimento datoriale in sé considerato, ma è dato dal pregiudizio che può derivare al lavoratore dall'attesa della decisione di merito, ragione per cui spetta al medesimo istante che promuove il giudizio cautelare allegare e provare, in ordine a specifici fatti che, il protrarsi della situazione ritenuta antigiuridica possa arrecargli danni gravi, non ristorabili neppure successivamente se non per equivalente (Trib. Caltanissetta 20 settembre 2019).

Una diversa interpretazione verrebbe a delineare il ricorso al procedimento cautelare quale strumento ordinario per la risoluzione delle controversie connesse a tale tipologia di provvedimenti, in contrasto con la disciplina legislativa del processo del lavoro e con la previsione delle normali forme di tutela e quindi del ricorso ex art. 414 c.p.c. in relazione alla generalità dei conflitti tra datore e prestatore di lavoro.

In tale ottica, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, della l. n. 604/1966, come sostituito dall'art. 32, comma 1, della l. n. 183/2010, nella parte in cui non prevede che l'impugnazione del licenziamento è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, oltre che dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato, anche dal deposito del ricorso cautelare anteriore alla causa ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c. (Corte cost., n. 212/2020).

Conseguentemente, per effetto della citata pronuncia della Consulta, ai fini della conservazione dell'efficacia dell'impugnazione stragiudiziale del licenziamento ex art. 6, comma 2, della l. n. 604/1966, come modificato dall'art. 32, comma 1, della l. n. 183/2010, sono da considerare idonei sia il deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, sia il deposito del ricorso cautelare anteriore alla causa ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c. (Cass. IV, n. 3818/2021).

La mera eventualità che al giudizio cautelare atipico ex art. 700 c.p.c. segue quello di merito, e la non necessaria omogeneità tra l'uno e l'altro, induce ad escludere che ad individuare, nei termini anzidetti, la domanda del giudizio di merito sia sufficiente il mero richiamo al ricorso d'urgenza (Cass. IV, n. 8070/2009).

Infatti, anche nel caso di domanda cautelare proposta ante causam, nell'ambito di una controversia disciplinata al processo del lavoro, si ritiene che debbano indicarsi, da parte del ricorrente, le conclusioni che saranno oggetto della successiva domanda di merito in considerazione del rapporto di strumentalità esistente tra il giudizio cautelare ed il giudizio principale e la necessità di individuare la competenza cautelare, nonché la presenza del fumus boni iuris unitamente e del periculum (Trib. Mantova 26 giugno 2020).

Ai fini del procedimento cautelare dev'essere valutata la normativa vigente, ragione per cui la possibilità che ad esempio, un decreto-legge in forza del quale è stato adottato un provvedimento di sospensione del lavoratore possa non essere convertito in legge non è considerabile come un argomento ostativo alla sua immediata applicazione, atteso che la sua portata precettiva è contestuale alla sua entrata in vigore (Trib. Belluno 6 maggio 2021, relativo al rigetto del ricorso d'urgenza avverso il provvedimento datoriale di sospensione dal lavoro senza retribuzione dei lavoratori che sebbene soggetti all'obbligo vaccinale covid-19, avevano scelto di non vaccinarsi).

L'interesse ad agire anche in questo caso deve quindi essere concreto ed attuale, e richiede non solo l'accertamento di una situazione giuridica, ma anche che la parte prospetti l'esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l'intervento del giudice, ragione per cui l'esistenza del periculum deve essere verificata in concreto in relazione all'effettiva situazione personale, professionale o socioeconomica del lavoratore, sul quale incombe l'onere di allegazioni concrete e puntuali sulle circostanze di fatto dalle quali possa desumersi il concreto rischio che, nel tempo occorrente per l'espletamento del processo di merito, la sua professionalità venga effettivamente a depauperarsi o ne venga compromessa la situazione personale e familiare o il suo equilibrio psicofisico, e dalle quali, emerga che la situazione lavorativa attuale, nel tempo occorrente per il giudizio ordinario, possa configurarsi quale fonte di pregiudizio irreparabile (Trib. Potenza 6 novembre 2018).

È pure possibile una cautela che abbia contenuto patrimoniale, ma in tale caso, deve comunque aversi riguardo alla condizione economica del ricorrente, onde valutare giudizialmente le conseguenze che un depauperamento, in concreto, comporterebbe sulla vita del medesimo richiedente la tutela cautelare (Trib. Caltanissetta 20 settembre 2019).

La presentazione del ricorso

La forma prevista per il cautelare ante causam è quella del ricorso, il quale, per effetto della proroga delle nuove disposizioni introdotte in occasione della pandemia da coronavirus si deposita telematicamente presso il tribunale adito.

Quid juris allora nell'ipotesi di iscrizione del relativo procedimento cautelare ante causam in un registro diverso da quello di pertinenza all'interno dello stesso ufficio giudiziario?

L'attuale sistema informatico non consente ancora il trasferimento del fascicolo telematico dall'uno all'altro registro di cancelleria.

In tale contesto, secondo la più recente Circolare del Ministero della Giustizia datata 23 ottobre 2015, concernente gli adempimenti di cancelleria relativi al processo civile telematico, reperibile in www.giustizia.it, al fine di consentire l'effettiva iscrizione del medesimo atto introduttivo, completo dei suoi allegati, nel ruolo individuato dal Presidente dell'ufficio giudiziario adito come tabellarmente competente, la cancelleria non potrà richiedere al ricorrente il versamento di un nuovo contributo unificato per eseguire la seconda iscrizione al ruolo, in quanto, nell'ipotesi sopra descritta si tratta soltanto di un passaggio del medesimo atto introduttivo da un ruolo ad un altro dello stesso ufficio giudiziario, ma soltanto l'eventuale integrazione dello stesso in conseguenza della diversità del rito.

A ciò aggiungasi l'ulteriore circostanza secondo cui come affermato dalla più condivisibile giurisprudenza di merito (Trib. Torino 10 aprile 2016), è inammissibile il deposito telematico di un atto giudiziario che rechi un numero di registro generale affari contenziosi errato, in quanto trattasi di errore o svista ascrivibile al depositante e, quindi, rimediabile con l'impiego dell'ordinaria diligenza atteso che, comunque, trattasi di errore in relazione al quale la cancelleria non è tenuta a forzare l'accettazione del deposito, potendo limitarsi a rifiutarlo e a comunicarne l'esito negativo.

In particolare, con riferimento al deposito di un'atto processuale in un'registro non pertinente, la giurisprudenza di merito ha applicato la sanzione della nullità dell'atto, affermando che il deposito di un atto processuale in un fascicolo non pertinente è affetto da nullità perché mancante dei requisiti indispensabili al raggiungimento dello scopoex art. 156 c.p.c.

Il deposito del ricorso in cancelleria, infatti, ha la funzione di portarlo direttamente a conoscenza del giudice, attraverso il suddetto adempimento, la quale, verrebbe del tutto a mancare laddove l'atto in parola non possa essere reso immediatamente accessibile nel pertinente fascicolo telematico perché indirizzato altrove (Trib. Bologna 4 luglio 2016).

Nel caso, poi, insorgano eventuali anomalie nel deposito del ricorso cautelare ante causam eseguito mediante invio telematico, appare utile ricordare quanto enunciato nel punto 7 della stessa circolare ministeriale sopra citata, in cui si rimanda all'art. 14 del provvedimento 16 aprile 2014 del Responsabile DGSIA recante le specifiche tecniche di cui all'art. 34 del d.m. n. 44/2011, laddove prevede che, all'esito della trasmissione ad un ufficio giudiziario di un atto o documento processuale, il gestore dei servizi telematici esegua automaticamente taluni controlli formali sulla busta ricevuta dal sistema. Le possibili anomalie riscontrabili sono riconducibili a tre categorie: warn, error e fatal. Gli errori appartenenti alle prime due categorie consentono alla cancelleria di forzare l'accettazione del deposito, mentre gli errori appartenenti alla terza categoria, viceversa, inibiscono materialmente l'accettazione, e, dunque, l'entrata dell'atto o del documento nel fascicolo processuale. Le cancellerie, in presenza di anomalie del tipo warn o error, dovranno dunque, ove possibile, accettare il deposito, avendo tuttavia cura di segnalare al giudice ogni informazione utile in ordine all'anomalia riscontrata.

La procura ad litem conferita al difensore nel giudizio cautelare ante causam

La procura alle liti ex art. 83 c.p.c. – configurandosi come negozio di diritto privato, è assoggettabile ai criteri ermeneutici di cui all'art. 1362 c.c. (Cass. S.U., n. 10219/2006) – e per la proposizione di un giudizio cautelare ante causam va rilasciata su foglio separato, dovendosi conformare, al pari delle restanti disposizioni disciplinanti la redazione del ricorso exartt. 669-bis e 669-ter c.p.c., alle norme vigenti in tema di processo civile telematico.

La speciale procura alle liti apposta in calce all'originario ricorso cautelare ante causam conferisce al difensore della parte il potere di proporre tutte le domande che non eccedano l'ambito della lite originaria, sicché in essa rientra anche la facoltà di chiamare un terzo in causa, quale corresponsabile o responsabile esclusivo dell'evento dannoso ovvero di altra situazione collegata con la domanda originaria nel suo ambito oggettivo (Cass. VI, n. 22380/2021; Cass. II, n. 28197/2020; Cass. III, n. 22830/2010).

In tale ottica, la procura alle liti conferita in termini ampi ed onnicomprensivi è idonea, in base ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa processuale attuativa dei principi di economia processuale, di tutela del diritto di azione nonché di difesa della parte exartt. 24 e 111 Cost., ad attribuire al difensore il potere di esperire tutte le iniziative atte a tutelare l'interesse del proprio assistito, ivi inclusa la chiamata del terzo al quale ritenga comune la causa (Cass. S.U., n. 4909/2016).

Il suddetto principio vale sia per la procura ad litem rilasciata al proprio difensore dalla parte ricorrente sia per l'analoga fattispecie riguardante la parte resistente costituitasi nel procedimento cautelare ante causam, anche in presenza dell'estensione dell'ambito soggettivo della lite rispetto alla precedente fase cautelare, con la conseguenza che nel giudizio di merito continua a sussistere un idoneo ius postulandi in capo alla difesa della parte che era stata patrocinata nel procedimento cautelare ante causam.

L'unico limite invalicabile rimane quello secondo cui esulano dai poteri del difensore le domande con le quali si introduce una nuova e distinta controversia eccedente l'ambito della lite originaria rispetto a quella precedentemente instaurata ante causam in via cautelare.

La procura alle liti rilasciata per promuovere un giudizio cautelare con riferimento ad «ogni fase e grado del presente procedimento» ed anche al potere, di natura negoziale, di transigere e conciliare la controversia, comprende il potere di promuovere il procedimento di merito arbitrale, sussistendo tra di essi un nesso di strumentalità, analogo a quello esistente tra il procedimento cautelare ed il procedimento di merito dinanzi al giudice (Trib. Milano 29 giugno 2012; Cass. I, n. 20047/2011), dovendosi anche in tale fattispecie avere riguardo al tenore letterale della procura alle liti per accertare se la stessa sia stata conferita o meno anche per la fase di merito, atteso che, il potere di promuovere il procedimento arbitrale non ha natura di atto processuale ma di atto negoziale di integrazione del compromesso o della clausola compromissoria.

Nel caso, invece, di rigetto della domanda cautelare con il successivo inizio del giudizio di merito, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare da un lato che, la fase cautelare è strettamente connessa a quella di merito, nei cui confronti svolge una funzione strumentale, sussidiaria e propedeutica, con la conseguente unicità del giudizio che comprende le suddette fasi e, dall'altro, che la presunzione stabilita dall'art. 83, ultimo comma, c.p.c., secondo cui la procura speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo quando nell'atto non è espressa una volontà diversa, opera solo allorché vengano utilizzati termini assolutamente generici oppure quando la procura si limiti a conferire la rappresentanza senza alcuna altra indicazione, e non quando nel contesto dell'atto si precisi che la procura viene conferita per il «presente giudizio» o «causa» o «controversia» (Cass. IV, n. 37/2009).

La piena autonomia del procedimento cautelare, rispetto al successivo procedimento di merito, rende in via di principio necessarie, per l'instaurazione dell'uno e dell'altro, due distinte procure (Cass. III, n. 10822/2004, in cui si è affermato il principio che ottenuta la pronuncia sull'istanza cautelare, nell'iniziare autonomamente un nuovo procedimento per il merito, a tale fine occorre il rilascio di un'altra procura, avendo ormai esaurito i suoi effetti quella precedentemente rilasciata nella fase cautelare) e tuttavia, la procura rilasciata per il primo consente al difensore di instaurare anche il secondo, quando sia formulata in modo da rilevare inequivocabilmente la volontà della parte di estendere il mandato anche ad esso (Cass. II, n. 16094/2003; Cass. IV, n. 3646/1996; Cass. I, n. 2642/1993).

Pertanto, nel caso in cui la procura speciale rilasciata ai fini di un procedimento cautelare promosso ante causam abiliti il difensore ad introdurre anche il successivo giudizio a cognizione piena, essendo riferibile in modo certo e non equivoco anche al giudizio di merito che segue al procedimento cautelare, in questo caso, la notifica dell'atto introduttivo del giudizio ordinario deve ritenersi validamente effettuata presso il difensore costituito nel procedimento volto all'emissione del provvedimento cautelare (Cass. III, n. 1236/2003; Cass. III, n. 3662/1995; Cass. I, n. 3289/1994; Cass. II, n. 12769/1992, in cui si precisa altresì che, a norma dell'art. 74 disp. att. c.p.c., il compito di accertare la regolarità degli atti della parte che si costituisce, l'accettazione del fascicolo di parte senza alcun rilievo formale fa presumere la regolarità degli atti e quindi anche la tempestività del rilascio della procura alle liti, salvo che il contrario risulti da altri elementi acquisiti al processo).

Sotto altro profilo, va poi segnalato che, l'elezione di domicilio, pur se presso il procuratore, costituisce un atto ontologicamente distinto dalla procura alle liti e, perciò, conserva, ai sensi dell'art. 47 c.p.c., la sua validità per ogni stato e grado del giudizio, a meno che non risulti limitata espressamente o collegata strettamente ad un dato grado o fase dello stesso giudizio.

Conseguentemente, è valida la notificazione dell'atto di citazione introduttivo del giudizio di merito susseguente ad un procedimento cautelare effettuata non alla parte personalmente, ma nel domicilio eletto nel corso del procedimento cautelare presso il proprio difensore, qualora dal tenore letterale della procura alle liti possa desumersi che essa sia stata conferita anche per la fase di merito (Cass. III, n. 14641/2009).

Il deposito del ricorso cautelare ante causam in modalità telematica

L'art. 83, comma 11, del d.l. n. 18/2020 (conv., con modif., in l. n. 27/2020), ha previsto che dal 9 marzo 2020 al 30 giugno 2020, negli uffici in cui esiste la disponibilità del servizio di deposito telematico, anche gli atti ed i documenti di cui all'art. 16-bis, comma 1-bis, del d.l. n. 179/2012, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 221/2012, sono depositati esclusivamente con le modalità previste dal comma 1 del medesimo articolo. A tale iniziale estensione dell'obbligatorietà del deposito telematico ha fatto seguito l'art. 221, comma 2, del d.l. n. 34/2020 (conv., con modif., in l. n. 77/2020) il quale ha disposto che fino al 31 ottobre 2020 si applicano le disposizioni di cui ai commi da 3 a 10. Queste ultime disposizioni hanno apportato alcune modifiche all'art. 83, prevedendo fra l'altro negli uffici che, hanno la disponibilità del servizio di deposito telematico, anche gli atti ed i documenti di cui all'art. 16-bis, comma 1-bis, d.l. n. 179/2012, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 221/2012, sono depositati esclusivamente con le modalità previste dal comma 1 del medesimo articolo. Quando i sistemi informatici del dominio giustizia non sono funzionanti e sussiste un'indifferibile urgenza, il capo dell'ufficio autorizza invece il deposito con modalità non telematica.

L'applicabilità delle norme indicate è stata prorogata più volte, prima per effetto dell'art. 1 comma 1 d.l. n. 2/2021, conv., con modif., in l. n. 29/2021, il quale, ha esteso l'obbligo in parola fino al 30 aprile 2021, e successivamente con l'art. 2, comma 1, del d.l. n. 105/2021, conv., con modif., in l. n. 126/2021, che ha esteso l'obbligo fino al 31 dicembre 2021 e da ultimo, per effetto del d.l. n. 228/2021 che, all'art. 16, prevede la proroga al 31 dicembre 2022 delle disposizioni di cui all'art. 221, commi 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 10 del d.l. n. 34/2020, conv., con modif., in l. n. 77/2020, nonché le disposizioni di cui all'art. 23, commi 2, 4, 6, 7, 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, 9, 9-bis e 10, e agli artt. 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e 24 del d.l. n. 137/2020, conv., con modif., in l. n. 176/2020, in materia di processo civile e penale.

Pertanto, al momento, il deposito telematico continua ad essere obbligatorio per tutti gli atti ed uffici giudiziari ed il deposito con modalità non telematica può essere autorizzato dal capo dell'ufficio solo nel caso in cui i sistemi informatici del dominio giustizia non siano funzionanti e sempre che sussista un'indifferibile urgenza.

Ciò comporta quindi la necessità che, anche il ricorso cautelare ante causam ai sensi degli artt. 669-bis e 669-ter c.p.c. obbligatoriamente va depositato in modalità telematica e non cartacea, al fine di non incorrere nell'inammissibilità.

In particolare, ai sensi dell'art. 16-bis, comma 7, del d.l. n. 179/2012 (conv., con modif., in l. n. 221/2012) il deposito con modalità telematiche si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna – la seconda pec – da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della Giustizia, escludendo quindi che le comunicazioni successive, quali i controlli automatici e l'accettazione vera e propria, possano inficiare il buon esito della procedura (Trib. Civitavecchia 4 dicembre 2020; Trib. Bologna 12 dicembre 2016; Trib. Torino 11 giugno 2015).

Tale orientamento è stato fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato sia pur in via incidentale che, la generazione della ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia consente di ritenere integrato il raggiungimento della scopo della presa di contatto tra la parte e l'ufficio giudiziario e della messa a disposizione delle altre parti dell'atto processuale, ritenendo quindi, irrilevanti, ai fini del perfezionamento e della tempestività del deposito, l'esito dei controlli effettuati dal gestore dei servizi telematici e dalla cancelleria contenuti nella terza e quarta ricevuta (Cass. II, n. 9772/2016).

Il suddetto principio ha trovato poi conferma nelle successive pronunce del giudice di legittimità (Cass. I, n. 17328/2019; Cass. VI, n. 1366/2018, in cui preso atto che l'intento del legislatore è quello di prevenire il rischio di ritardi o decadenze incolpevoli a carico della parte per cause alla medesima non imputabili, che possano ricondursi agli eventuali ritardi nella lavorazione degli atti oggetto di invio telematico da parte della cancelleria, posto che se tale rischio non si pone nel caso del tradizionale deposito cartaceo, in quanto la ricezione dell'atto da parte della cancelleria implica l'immediata lavorazione della contestuale iscrizione a ruolo, ciò potrebbe non verificarsi nel caso del deposito telematico, non essendovi in tale ipotesi la necessaria coincidenza cronologica tra l'attività compiuta dalla parte e la successiva lavorazione dell'atto ad opera del personale di cancelleria. Per questa ragione occorre avere riguardo alla data di invio telematico del ricorso cautelare ante causam ed alla generazione della ricevuta di avvenuta consegna, anziché a quella successiva in cui il ricorso è stato effettivamente iscritto a ruolo ad opera del personale di cancelleria che ha lavorato l'atto inviato in via telematica).

Pertanto, il deposito telematico degli atti introduttivi del processo civile – compresa l'istanza cautelare ante causam – non solo è quindi generalmente ammesso ma è anche obbligatorio ex lege.

L'orientamento giurisprudenziale formatosi in materia è giunto alla conclusione che, quando, nelle ipotesi contemplate dall'art 16-bis del d.l. n. 179/2012 (conv., con modif., in l. n. 221/2012), il deposito non viene eseguito per via telematica, bensì in modo tradizionale e, dunque, con la consegna materiale in cancelleria od in udienza dei documenti in formato cartaceo, l'atto od il documento non potrà che essere dichiarato inammissibile, in quanto affetto da un deficit strutturale/ontologico che lo rende radicalmente inesistente dal punto di vista giuridico, vale a dire, tamquam non esset (Trib. Catania 2 novembre 2019; Trib. Vasto 15 aprile 2016; Trib. Milano 13 giugno 2016; Trib. Lodi 4 marzo 2016; Trib. Trani 24 novembre 2015; Trib. Foggia 15 maggio 2015; Trib. Torino 26 marzo 2015; Trib. Torino 6 marzo 2015; Trib. Palermo 4 marzo 2015; Trib. Reggio Emilia 30 giugno 2014).

Le disposizioni che si occupano delle modalità di compimento degli atti processuali, ovvero dei requisiti che detti atti devono possedere per la produzione dei loro effetti giuridici tipici, e delle correlate ipotesi di nullità conseguenti al mancato rispetto delle relative disposizioni, si interessano esclusivamente all'aspetto per così dire formalistico. In tale ottica, occorre allora individuare con esattezza cosa intende il legislatore quando si riferisce alla «forma» ed ai «requisiti formali» degli atti, così da potere individuarne l'ampiezza con cui il concetto in parola è stato adoperato (Poli, 1295).

Il vizio derivante dalla violazione dell'art. 16-bis del d.l. n. 179/2012 (conv., con modif., in l. n. 221/2012) non potrebbe mai essere qualificato in termini di nullità testuale dell'atto, per la semplice ragione che detta norma non sanziona in alcun modo – tantomeno con la nullità – la violazione dell'obbligo di deposito telematico degli atti di parte. Tuttavia, è anche vero che nella fattispecie in esame lo scopo dell'art. 16-bis del d.l. n. 179/2012 (conv., con modif., in l. n. 221/2012) è costituito oltre che dalla presa di contatto tra la parte depositante e l'ufficio giudiziario, anche dalla imprescindibile risultanza dell'atto depositato all'interno del fascicolo telematico dicausa. Ciò vale anche per gli atti endoprocessuali che, anziché essere depositati telematicamente, vengano depositati in cartaceo nella cancelleria del giudice adìto, stante la nullità ex art. 156, comma 2, c.p.c. per il mancato raggiungimento della finalità cui tende l'art. 16-bis del d.l. n. 179/2012 (conv., con modif., in l. n. 221/2012), conseguente al mancato inserimento dell'atto all'interno dello stesso fascicolo telematico (Lombardi, 33).

Alle considerazioni che precedono aggiungasi che il deposito telematico degli atti introduttivi del giudizio è un'eventualità considerata possibile dallo stesso codice di procedura civile, il quale, all'art. 83, comma 3, nel testo modificato dalla l. n. 69/2009, prevede che se la procura alle liti è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, trasmissione e ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica. In questo contesto, poiché lo scopo del deposito di un atto processuale consiste nella presa di contatto fra la parte e l'ufficio giudiziario dinanzi al quale la controversia è instaurata e nella messa a disposizione delle altre parti processuali, il deposito per via telematica, anziché con modalità cartacee, dell'atto introduttivo del processo si risolve in una mera irregolarità, intesa quale imperfezione che non inficia la costituzione in giudizio del ricorrente, non essendo idonea ad impedire al deposito stesso di produrre i suoi effetti tipici tutte le volte che l'atto sia stato inserito nei registri informatizzati dell'ufficio giudiziario previa generazione della ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della Giustizia (Cass. II, n. 9772/2016).

L'iscrizione a ruolo e la formazione del fascicolo d'ufficio

All'atto dell'iscrizione a ruolo eseguita dal difensore della parte ricorrente, ai sensi dell'art. 168, comma 2, c.p.c. e 36 disp. att. c.p.c. il cancelliere deve formare un fascicolo per ogni affare del proprio ufficio, il quale, riceve la numerazione del ruolo generale sotto la quale è iscritto l'affare, essendo lo strumento tecnico attraverso il quale la controversia viene portata a conoscenza dell'ufficio giudiziario che dovrà trattarla e deciderla (Cipriani, 924) in àmbito cautelare prima ed eventualmente, successivamente anche nel merito.

Il deposito dell'iscrizione a ruolo con modalità telematica si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata.

Il deposito è tempestivamente eseguito quando la ricevuta di avvenuta consegna è generata entro la fine del giorno di scadenza e si applicano le disposizioni di cui all'art. 155, commi 4 e 5, c.p.c. Quando il messaggio di posta elettronica certificata eccede la dimensione massima stabilita nelle specifiche tecniche del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del ministero della giustizia, il deposito degli atti o dei documenti può essere eseguito mediante gli invii di più messaggi di posta elettronica certificata. Il deposito è tempestivo quando è eseguito entro la fine del giorno di scadenza (Cass. VI, n. 1366/2018).

La funzione dell'iscrizione a ruolo è quella di investire il giudice della controversia ormai pendente per effetto di tale iscrizione sul ruolo degli affari contenziosi dell'ufficio giudiziario adito (Cerino Canova, 402).

Conseguentemente, iscritto il procedimento cautelare ante causam sul ruolo generale nel registro degli affari contenziosi civili, la cancelleria generale dell'ufficio giudiziario adito dal ricorrente predispone il fascicolo d'ufficio nel quale confluiranno nel corso del giudizio tutti gli atti ed i documenti allegati dalle parti costituite nei rispettivi fascicoli di parte.

Concorde la dottrina nell'affermare che a norma dell'art. 168 comma 1 c.p.c. l'iscrizione del procedimento avviene sul ruolo generale dell'ufficio giudiziario adito (Cipriani, 926; Poggeschi, 168), atteso che sotto tale aspetto, il cautelare ante causam non si differenzia da qualsiasi altro procedimento, non importa se per ragioni di rito sia destinato a svolgersi secondo le regole proprie della cognizione ordinaria o sommaria.

L'iscrizione a ruolo – anche quando quest'ultima deve essere presentata in modalità telematica – prevede obbligatoriamente la formazione della relativa nota, con specifico riferimento ai procedimenti dinanzi al tribunale od alla corte d'appello (Cerino Canova, 406), per quanto concerne quello cautelare, nelle ipotesi in cui decide in qualità di giudice unico di primo grado.

Al riguardo va opportunamente precisato che la presentazione della nota di iscrizione a ruolo, è necessaria nei soli procedimenti dinanzi al tribunale ed alla corte d'appello (Cass. S.U., n. 758/2022) e che la nota d'iscrizione a ruolo può ritenersi nulla, per irregolarità formali con la conseguente mancata costituzione della parte, soltanto qualora difetti dei requisiti indispensabili per il raggiungimento del suo scopo, che è quello di portare la causa a conoscenza del giudice, in modo che questi possa trattare e decidere la lite instauratasi fra le parti con il deposito del ricorso cautelare.

I requisiti minimi della nota di iscrizione a ruolo sussistono quando essa, ancorché incompleta od erronea in qualcuno dei suoi elementi, sia comunque tale da consentire d'individuare con sicurezza il rapporto processuale sul quale è invocata la pronuncia del giudice adito (Cass. II, n. 4163/2015), ragione per cui di regola, i vizi dell'iscrizione a ruolo – ed in particolare quelli che si risolvono in un errore materiale nell'indicazione del nome del ricorrente se agevolmente riconoscibile, ed in quanto tale, inidoneo a precludere al resistente di rintracciare il procedimento cautelare precedentemente iscritto a ruolo, attraverso un esame diligente dei registri di cancelleria – non determinano nullità processuali (Cass. I, n. 3728/2004).

Tali vizi risultano, invece, idonei a comportare l'invalidità dell'iscrizione stessa e del conseguente successivo corso del giudizio quando implichino una evidente violazione del diritto di difesa e del correlato principio di effettività del contraddittorio (Cass. III, n. 13528/2009), trattandosi di un principio che informa l'intero sistema del processo civile, nel cui ambito rientra quello cautelare.

Pertanto, il ricorrente deve ritenersi validamente costituito in giudizio anche se, all'atto del deposito in cancelleria della nota di iscrizione a ruolo e del proprio fascicolo contenente la procura, quest'ultima non stata prodotta sia in originale, atteso che da un lato, secondo l'art. 156 c.p.c. non può pronunciarsi la nullità di alcun atto del processo, per inosservanza delle forme, se la nullità non è comminata dalla legge, e dall'altro che, l'art. 125, comma 2, c.p.c., richiede soltanto, per la validità della procura, che questa sia stata rilasciata anteriormente all'iscrizione a ruolo, ma non anche che essa venga depositata in originale (Cass. I, n. 2744/2008).

A ciò aggiungasi che sulla validità dell'atto introduttivo del giudizio e della costituzione dell'attore non incide neppure il fatto che la nota d'iscrizione a ruolo sia stata sottoscritta da difensore diverso da quello munito di procura ad litem, e dunque, privo di jus postulandi, proprio perché tale nota non richiede, come requisito essenziale, alcuna sottoscrizione da parte del difensore (Cass. II, n. 1467/1994).

Allo stesso modo, si è ritenuto che l'art. 71 disp. att. c.p.c., nel testo modificato dall'art. 3 del d.l. n. 28/2002, conv. con modif., nella l. n. 91/2002, nell'individuare il contenuto della nota stessa non esige la sottoscrizione del difensore, bensì solo la sua indicazione, onde la sottoscrizione non può essere considerata un suo elemento essenziale, dovendosi, inoltre, tenere presente che l'art. 125 c.p.c.non indica la nota fra gli atti che devono recare la sottoscrizione del difensore, quando la parte non agisca in proprio (Cass. III, n. 9874/2005), come del resto sembra confermare il testo attuale dell'art. 71 disp. att. c.p.c. laddove enuncia che, la nota d'iscrizione della causa nel ruolo generale deve contenere l'indicazione delle generalità delle parti, nonché le generalità ed il codice fiscale ove attribuito della parte che iscrive la causa a ruolo, del procuratore che si costituisce, dell'oggetto della domanda, ma non anche la relativa sottoscrizione del difensore del ricorrente all'atto del deposito dell'iscrizione.

Secondo parte della dottrina (Cipriani, 930; Saletti 1989, 2), in linea generale, la mancanza della nota non condiziona la stessa iscrizione a ruolo del procedimento sul ruolo dell'ufficio giudiziario adito dal ricorrente, ragione per cui a tale conclusione può pervenirsi anche nell'ipotesi dell'iscrizione riguardante il ricorso cautelare ante causam.

Ciò in quanto un'eventuale nullità potrebbe riguardare non la nota in sé ma la stessa «iscrizione» del relativo procedimento sul ruolo dell'ufficio giudiziario, ritenendo che sia quest'ultima a poter essere viziata ex art. 156, comma 2, c.p.c. laddove erroneamente iscritta su un ruolo diverso da quello competente in ragione dello specifico affare civile (Cerino Canova, 108), ovvero qualora detto errore di fatto impedisca di comprendere a chi consulta il ruolo del competente ufficio, di avere notizia che un determinato affare civile – e nello specifico il procedimento cautelare – è stato portato a conoscenza del giudice (Cipriani, 928; Poggeschi, 169).

Secondo la giurisprudenza, il punto decisivo per concludere nel senso della nullità della nota di iscrizione a ruolo non è allora quello della tipologia dell'errore materiale, quanto l'effetto che esso produce, poiché quest'ultimo rileva come causa di nullità della nota di iscrizione a ruolo ogniqualvolta abbia compromesso il diritto di difesa ed il correlato principio di effettività del contraddittorio, come nel caso di un errore materiale nell'indicazione del nome del ricorrente riportato nel ruolo generale degli affari civili, che non determina alcuna nullità processuali, qualora tale errore, essendo agevolmente riconoscibile, non precluda alla controparte successivamente destinataria della notificazione dell'atto di individuare ugualmente, attraverso un esame diligente del suddetto registro, il relativo procedimento precedentemente iscritto a ruolo (Cass. VI, n. 25901/2016). In senso conforme, anche la giurisprudenza di merito (App. Bari 15 novembre 2019) secondo cui è ius receptum che i vizi dell'iscrizione a ruolo non determinano nullità processuali, a meno che non abbiano inciso sui diritti di difesa della parte o sull'effettività del contraddittorio.

Gli atti sono inseriti nel fascicolo in ordine cronologico e sono muniti di un numero progressivo corrispondente a quello risultante dall'indice apposto nella facciata interna della copertina con l'indicazione della natura e della data di ciascuno di essi.

La disciplina dettata dagli artt. 73 e 74 disp. att. c.p.c. demanda al cancelliere che riceve gli atti di parte l'obbligo di controllare che gli atti indicati nell'indice siano effettivamente inseriti nel fascicolo e di sottoscriverne poi l'indice.

L'accettazione, da parte del cancelliere, degli atti depositati dalla parte che si costituisce, senza l'annotazione di alcun rilievo formale riconducibile all'esercizio dei poteri di controllo affidatigli dall'art. 74 disp. att. c.p.c. fa presumere la regolarità degli atti medesimi (App. Roma 8 ottobre 2020).

L'art. 74 disp. att. c.p.c. riserva solo al cancelliere il potere di certificare, con la sua sottoscrizione, l'effettiva presenza nel fascicolo di parte dei documenti elencati nell'indice per cui deve escludersi la possibilità di attribuire un analogo effetto certificativo alla sottoscrizione dell'indice da parte del difensore.

La certificazione, sottoscritta dal cancelliere, a norma dell'art. 74, ultimo comma, disp. att. c.p.c. in calce all'indice dei documenti inseriti nel fascicolo di parte, fa fede fino a querela di falso, a nulla rilevando altri accertamenti in fatto attestanti circostanze contrastanti con detta certificazione, ragione per cui consegue che, ai fini della decisione, il giudice non può ignorare la documentazione di cui risulta avvenuta l'esibizione, ma, in carenza di prova contraria, ovvero in assenza della prova che la parte abbia ritirato il proprio fascicolo, deve ritenere che l'attività delle parti e dell'ufficio si sia svolta regolarmente e, quindi, che, dopo il deposito, il fascicolo non sia stato dalla parte più ritirato (Cass. IV, n. 9492/2020).

L'omessa indicazione nell'indice del fascicolo di parte di un documento che si assume inserito nel medesimo all'atto della costituzione in giudizio, comporta la presunzione che il medesimo documento non sia statoacquisito al processo. Pertanto, la mancanza della firma del cancelliere in calce all'indice dei documenti prodotti, anche se non rende irrituale la relativa produzione, determina, in caso di contestazione, la necessità, per la parte interessata, di fornire, sia pure solo indirettamente ed anche attraverso il comportamento della controparte, la prova della produzione dei documenti di cui intende avvalersi (Cass. VI, n. 27313/2018; Cass. II, n. 9644/2011; Cass. II, n. 3778/1996).

L'entrata in vigore delle disposizioni sul processo civile telematico ha comportato una sostanziale trasformazione dei registri di cancelleria atteso che nel fascicolo informatico è possibile visualizzare il profilo del medesimo fascicolo, lo storico degli eventi in esso registrati ed i relativi documenti costituiti dalle comunicazioni della cancelleria, dagli atti di parte e dai provvedimenti del giudice.

In particolare, il fascicolo d'ufficio all'atto della sua formazione comprenderà il ricorso cautelare depositato telematicamente dal ricorrente, con tutti i relativi documenti allegati nel formato previsto dalla disciplina sul processo civile telematico.

Il ricorso dovrà essere anch'esso sottoscritto digitalmente dal difensore il quale, dovrà altresì autenticare la firma apposta dalla parte ricorrente sulla procura ad litem.

Ai sensi dell'art. 9 del d.m. n. 44/2011, la formazione del fascicolo informatico equivale alla tenuta e conservazione del fascicolo d'ufficio cartaceo, tenendo presente che per quanto attiene alla disciplina dei flussi di comunicazione elettronica, all'adozione dei modelli informatici per gli atti processuali destinati a confluire nel suddetto fascicolo, compresi i formati dei relativi allegati, e le stesse pertinenti comunicazioni e notifiche telematiche, anche a opera della cancelleria, occorre riferirsi alle c.d. «specifiche tecniche» contenute prima nel citato decreto ministeriale e successivamente nei provvedimenti Giustizia 16 aprile 2014 e 28 dicembre 2015 (vedi da ultimo d.m. 28 dicembre 2015).

Al riguardo, premesso che la disciplina del processo civile telematico dettata dal legislatore con una normativa primaria e secondaria che continua a succedersi nel tempo pone questioni interpretative di vario genere, che vanno affrontate e risolte cercando di contemperare, per quanto non espressamente previsto la normativa stessa e le esigenze ad essa sottese, con le norme del codice di procedura civile e con i principi più generali dell'ordinamento processuale civilistico che da esse si ricavano, l'art. 11 del d.m. n. 44/2011 e l'art. 12 del provvedimento 16 aprile 2014 del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia hanno dettato le regole tecniche relative alle caratteristiche di forma che l'atto processuale informatico deve avere per essere depositato telematicamente, stabilendo, in particolare, che l'atto del processo predisposto in forma di documento informatico, da depositare telematicamente all'ufficio giudiziario adito, deve rispettare i requisiti concernenti il formato «pdf»; l'essere privo di elementi attivi; e ottenuto dalla trasformazione di un documento testuale, senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti, non essendo pertanto ammessa la scansione di immagini; deve essere sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata esterna; ed essere corredato da un file in formato «xml», che contiene le informazioni strutturate nonché tutte le informazioni della nota di iscrizione a ruolo, e che rispetta gli «xsd» riportati nell'Allegato 5; esso è denominato DatiAtto.xml ed è sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata. Ciò significa che l'atto non potrà mai essere costituito dalla scansione di un atto originariamente cartaceo, bensì dovrà consistere necessariamente in un atto nativo digitale, ossia un documento .pdf testuale e non un documento .pdf immagine. Tuttavia, poiché la normativa relativa ai requisiti dell'atto informatico da depositare telematicamente non prevede una sanzione per l'ipotesi di sua violazione, quest'ultima secondo un orientamento giurisprudenziale costituirebbe quindi, una mera irregolarità (Trib. Milano 3 febbraio 2016).

Ciò in applicazione del principio consolidato affermato in più occasioni dalla stessa giurisprudenza di legittimità in relazione a fattispecie diverse, ma accumunate dalla mancanza del rispetto delle forme processuali non espressamente sanzionate secondo cui, il deposito irrituale di un atto processuale dà luogo ad una mera irregolarità sanabile per effetto della successiva regolarizzazione od in ogni caso, per effetto del raggiungimento dello scopo (Cass. I, n. 15130/2015; Cass. II, n. 4163/2015; Cass. S.U., n. 5160/2009).

Lo scopo dell'atto processuale, ancorché telematico, è quello di consentire lo svolgimento del processo e l'esercizio del diritto di difesa e, quindi, deve ritenersi raggiunto tutte le volte in cui l'anzidetto atto perviene a conoscenza del giudice e della controparte, e ciò accade una volta che l'atto depositato telematicamente, anche se non rispondente alle norme tecniche, viene accettato dalla cancelleria e inserito dal sistema nel fascicolo processuale telematico, atteso che il singolo atto processuale confluito nel fascicolo d'ufficio telematico, se visibile e leggibile dal giudice e dalle parti ha certamente raggiunto il suo scopo primario riguardante la sua conoscibilità.

Per i procedimenti instaurati tanto prima che dopo il 30 giugno 2014, è ammissibile il deposito telematico degli atti introduttivi del giudizio, esclusi dal novero degli atti indicati dai primi quattro commi dell'art. 16-bis della l. n. 221/2012, posto che ciò che non è previsto non può ritenersi per ciò solo vietato, stante il principio di libertà di formeex art. 121 c.p.c., avendosi riguardo al divieto di pronunciare la nullità di un atto del processo se tale sanzione non è comminata dalla legge, e comunque mai ove risulti accertato che l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato ai sensi dell'art. 156 c.p.c. (Trib. Brescia 7 ottobre 2014, in cui l'atto introduttivo telematico era stato accettato dal cancelliere ed inserito nel fascicolo di parte e quindi aveva raggiunto il proprio scopo di permettere la presa di contatto tra la parte e l'ufficio giudiziario, di esprimere la difesa della parte e di realizzare il rapporto processuale con la controparte).

Semmai la necessità che la suddetta irregolarità venga superata attraverso un ordine del giudice che imponga di ridepositare l'atto che abbia le necessarie caratteristiche tecniche, comporta ulteriori considerazioni dirette a bilanciare le esigenze c.d. informatiche e la necessità che le stesse vengano rispettate con i principi processuali di rango anche costituzionale che non possono essere alle stesse subordinate, in mancanza di norme di legge primaria che dispongano in tale senso.

Infatti, poiché la funzione propria delle regole tecniche è quella di assicurare la gestione informatica dei sistemi del processo civile telematico, certamente sussiste la necessità di una regolarizzazione dell'atto depositato telematicamente laddove non risulti rispettata la normativa tecnica, attraverso un ordine impartito dal giudice.

Ciò in analogia a tutte le ulteriori ipotesi previste dal codice di procedura civile, in cui si consente la regolarizzazione dell'atto processuale proprio al fine di assicurare una corretta implementazione del fascicolo informatico e del funzionamento del sistema del processo civile telematico, tutte le volte in cui la regolarizzazione consente contemporaneamente la prosecuzione del giudizio.

In tale ipotesi, non è infatti ipotizzabile alcuna lesione del diritto di difesa, dato che l'atto è comunque già reso disponibile alla parte, tenendo conto che, le esigenze e le necessità dello strumento informatico non possono pregiudicare, in assenza di una norma di legge, il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, tutte le volte in cui non sussiste una lesione effettiva del diritto di difesa.

Contra, un altro orientamento formatosi nella giurisprudenza di merito, ha invece ritenuto l'inammissibilità dell'atto processuale che non ha i requisiti tecnici richiesti (Trib. Roma 13 luglio 2014) o la sua nullità, sanabile sulla base del principio del raggiungimento dello scopo (Trib. Livorno 25 luglio 2014) o addirittura non sanabile (Trib. Reggio Calabria 18 febbraio 2015).

La presentazione del fascicolo cautelare ante causam al giudice competente per disporre l'assegnazione

Iscritto il procedimento cautelare sul ruolo dell'ufficio giudiziario adito, il cancelliere, dopo avere formato il fascicolo d'ufficio, ai sensi dell'art. 168-bis c.p.c. lo trasmette al presidente del tribunale affinché quest'ultimo proceda all'assegnazione alla sezione tabellarmente competente, per la successiva designazione del giudice affidatario del procedimento, mentre nei giudizi di merito devoluti alla Corte d'appello quale giudice di unico grado il ricorso cautelare ante causam va proposto al presidente, che provvede alla designazione del singolo magistrato competente a conoscere dell'istanza (App. Roma 15 luglio 2003).

Secondo Trib. Latina 26 ottobre 2010, in generale le regole di competenza, anche interna, in quanto attinenti al riparto delle controversie tra i diversi giudici di uno stesso Tribunale in relazione ai criteri tabellari, sonopreordinate all'attuazione del principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge sancito dall'art. 25 Cost., di talché non potrebbe in alcun modo essere derogata la disciplina posta dagli artt. 669-ter e 669-quater c.p.c. che stabiliscono distinti criteri di collegamento della competenza per le ipotesi di ricorso cautelare proposto ante causam ovvero nel corso del giudizio di merito.

L'assegnazione alla sezione e la designazione del giudice dinanzi al quale dovrà essere trattato il procedimento cautelare presuppongono il compimento di attività necessariamente successive all'iscrizione a ruolo dello stesso procedimento cautelare, come le annotazioni effettuate dal cancelliere sul ruolo della sezione e del giudice dinanzi al quale dovrà essere trattato il procedimento (Cerino Canova, 401).

Inoltre, l'iscrizione a ruolo, determinando la pendenza della lite comporta l'attivazione del potere-dovere del capo dell'ufficio giudiziario – o della sezione – di pronunciarsi sull'assegnazione del fascicolo al magistrato designato (Volpino, 511).

La designazione del magistrato per la trattazione del procedimento cautelare ante causam

L'art. 168-bis c.p.c. delinea il procedimento per la nomina del giudice istruttore ed è anche quello che determina la nomina del giudice designato alla trattazione del procedimento cautelare ante causam.

In particolare, l'assegnazione del procedimento cautelare ante causam segue lo stesso iter delineato dall'art. 168-bis c.p.c. a mente del quale il presidente del tribunale con decreto scritto in calce della nota d'iscrizione al ruolo, designa egli stesso il giudice davanti al quale le parti debbono comparire, salvo che nei tribunali divisi in più sezioni, nei quali, il presidente assegna la causa ad una di esse, e successivamente, il presidente di sezione provvede nelle stesse forme alla designazione del giudice dinanzi al quale verrà trattato il procedimento cautelare.

L'attività del presidente del tribunale o della singola sezione competente, che porta alla designazione del giudice delegato alla trattazione del procedimento cautelare ante causam è interna allo stesso ufficio giudiziario, e come tale, non richiede alcun impulso della parte ricorrente, atteso che la stessa valutazione circa la regolarità dell'introduzione del relativo procedimento è devoluta alla cognizione dello stesso giudice della cautela.

La designazione della persona fisica del giudice a cui viene affidato il procedimento cautelare, non rientra nella discrezione del presidente, dovendo avvenire nel rispetto dei criteri oggettivi e predeterminarti tabellarmente indicati dal Consiglio Superiore della Magistratura.

La giurisprudenza di legittimità ha comunque affermato, da un canto, che il presidente dell'ufficio giudiziario nel discrezionale apprezzamento delle esigenze di servizio e del buon andamento del medesimo, è titolare del potere-dovere di sottrarre un procedimento civile alla sezione cui lo aveva precedentemente assegnato e di assegnarlo ad altra sezione dello stesso ufficio (Cass. III, n. 11688/1993) e, che l'esercizio di tale potere senza l'osservanza delle formalità stabilite dall'art. 168-bis c.p.c. costituisce, in difetto di un'espressa sanzione di nullità, una mera irregolarità di carattere interno, che non incide sulla validità dell'atto e non è causa di nullità (Cass. III, n. 1197/1996; Cass. III, n. 13011/1993, in cui si è precisato che quanto al combinato disposto degli artt. 174 c.p.c. e 79 disp. att. c.p.c., sull'immutabilità del giudice che deve istruire il procedimento, il vizio di costituzione di tale giudice è ravvisabile solo quando gli atti giudiziali siano posti in essere da persona estranea all'ufficio e non investita della funzione esercitata, non è invece riscontrabile quando si verifichi una sostituzione tra giudici di pari funzioni e di pari competenza, appartenenti al medesimo ufficio giudiziario).

Nell'ipotesi in cui la parte pur avendo proceduto all'iscrizione a ruolo della causa di merito, il presidente del tribunale non ha ancora proceduto alla designazione del giudice della cautela, si applica il combinato disposto degli artt. 669-quater, comma 2, e 669-ter, ultimo comma, c.p.c. che regolano il procedimento cautelare ante causam.

In base all'art. 168-bis, comma 3, c.p.c., sùbito dopo la designazione del giudice il cancelliere iscrive la causa sul ruolo della sezione, nonché su quello del giudice e gli trasmette il fascicolo.

Il deposito di un ricorso cautelare erroneamente presentato come ante causam

Ai fini dell'applicazione dell'art. 669-quater c.p.c., è necessario che la causa di merito abbia ad oggetto le pretese che la parte istante intende sottoporre al relativo giudizio cautelare, in relazione al quale, deve esservi identità di causa quanto a soggetti, petitum e causa petendi, fra la domanda cautelare e la domanda di merito.

Quando, infatti, gli artt. 669-ter e 669-quater c.p.c. parlano di competenza, si riferiscono alla competenza dell'organo, dunque, se vi è causa pendente, vi è una competenza del medesimo tribunale in quanto finché pende la causa di merito, la cautela ha lì una competenza specifica, mentre se non vi è ancora una causa di merito, l'art. 669-ter c.p.c. disloca la competenza presso il giudice che sarà individuato come competente.

Ciò comporta che la parte ricorrente deve proporre il ricorso cautelare ai sensi dell'art. 669-quater c.p.c. e non ai sensi dell'art. 669-ter c.p.c.quando è già pendente il giudizio di merito, dovendo in tale ipotesi considerarsi ammissibile la richiesta tutela cautelare soltanto se avanzata in corso di causa, perché la trattazione della stessa deve essere rimessa alla cognizione del medesimo giudice già affidatario della causa di merito.

È, infatti, evidente come nell'ipotesi sopra considerata – giudizio di merito già pendente – la proposizione di un ricorso cautelare ante causam si presenta come una palese violazione delle regole processuali adottate dal codice di rito per l'individuazione del giudice competente alla sua valutazione.

In un caso del genere, quid juris per la sorte del ricorso cautelare, posto che le disposizioni sul procedimento cautelare uniforme non prevedono quale sia la sanzione nel caso di proposizione del ricorso cautelare ex art. 669-ter c.p.c. ad un giudice diverso da quello individuato in via legislativa laddove si verta nell'ipotesi in cui debba invece applicarsi il disposto dell'art. 669-quater c.p.c.?

La giurisprudenza sembra essersi orientata nel senso di ritenere che il ricorso erroneamente proposto ex art. 669-ter anziché ai sensi dell'art. 669-quater c.p.c. debba considerarsi inammissibile, precisando che depone per questa soluzione l'assoluta mancanza di individuazione di rimedi ai sensi del codice di rito, atteso che la circostanza per la quale il legislatore non si sia interessato al fenomeno de quo, lungi dal rappresentare una lacuna, può invece essere intesa come una volontà implicita di impedire una qualsiasi sanatoria per il giudizio cautelare proposto in violazione delle norme processuali. Ciò implica l'impossibilità per il giudice cui è rivolta l'istanza cautelare di esaminarla sotto qualsiasi aspetto, fosse anche per individuare il soggetto davanti al quale poter utilmente proseguire l'azione (Trib. Bologna 10 agosto 2017).

Conseguentemente, la proposizione del ricorso cautelare in assenza delle condizioni previste dalla legge determina la sua inammissibilità perché trattasi, in altri termini, di un'azione che la stessa parte non poteva intraprendere ab initio, o quantomeno non poteva intraprendere in quella determinata forma ex art. 669-ter c.p.c., ragione per cui la parte interessata dovrà instaurare un nuovo subprocedimento cautelare ex art. 669-quater c.p.c. in corso di causa dinanzi al giudice della causa di merito.

Secondo la stessa giurisprudenza di merito (Trib. Bologna 10 agosto 2017), ricorrendo detta situazione non essendovi alcun fenomeno di prosecuzione del giudizio, men che mai assimilabile ad una translatio iudicii, non potendo il primo giudizio, nato in violazione delle norme di rito, sopravvivere, l'introduzione di un nuovo giudizio – sia pure come sub-procedimento – implica, necessariamente il pagamento di un nuovo contributo unificato, mentre il giudizio erroneamente introdotto si concluderà con una pronuncia negativa in rito ex art. 669-septies c.p.c., con una statuizione definitiva sulle spese di lite.

In definitiva, nel caso in cui la parte presenti un ricorso cautelare qualificandolo come anteriore alla causa, quando già pende in realtà un giudizio di merito, il ricorso proposto è inammissibile, senza che la relativa declaratoria comporti alcun giudicato cautelare, potendo dunque il ricorrente riproporre la stessa istanza cautelare ex art. 669-quater c.p.c.

Del resto, l'onere di iniziare il giudizio di merito nel termine all'uopo fissato in sede di accoglimento dell'istanza cautelare ha senso soltanto se la misura cautelare è concessa ante causam, mentre non ha senso se la causa di merito è già pendente (Trib. Verona 26 gennaio 2000).

Inoltre, va dichiarata inammissibile la proposizione della medesima domanda cautelare ante causam dinanzi ad autorità giudiziarie diverse, laddove il ricorrente insista sulla base dei medesimi fatti, per il suo accoglimento persino dopo l'emissione da parte del giudice preventivamente adito del provvedimento di rigetto, con il palese scopo di ottenere, dinanzi ad altro giudice, una sostanziale riforma del primo provvedimento, peraltro già gravato da reclamo (Trib. Milano 12 marzo 2016).

 I diritti a contenuto patrimoniale vanno esclusi dalla tutela cautelare se la mancata soddisfazione non porti con sè ricadute su altre situazioni soggettive a contenuto non meramente patrimoniale e sia facilmente risarcibile all'esito del giudizio di merito, come nel caso in cui la richiesta di cautela risulti collegata ad un pregiudizio di carattere puramente economico (Trib. Bari 26 febbraio 2025).

Infatti per la consolidata giurisprudenza di merito, qualsivoglia pregiudizio che si sostanzi in un danno di natura meramente patrimoniale, essendo, per definizione, suscettibile di riparazione pecuniaria, non è idoneo a soddisfare il requisito del periculum.

Ciò premesso, il provvedimento d'urgenza risulta però in astratto idoneo per il suo contenuto atipico quantomeno a paralizzare temporaneamente gli effetti dell'ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c., in vista dell'eventuale merito che cristallizzi, in ragione di vicende sopravvenute l'effettivo rapporto di dare-avere tra le parti, con la conseguente ammissibilità dell'ordine al terzo di sospensione dei pagamenti fino a nuova disposizione giudiziale.

Diversamente opinando, la parte ricorrente risulterebbe inammissibilmente sfornita di tutela avverso l'ordinanza di assegnazione, nel caso in cui la stessa sia divenuta non più rispondente alla realtà giuridica e ciò, in frizione con la ratio legis sottesa al meccanismo atipico d'urgenza.

Sulla scorta degli artt. 3 e 24 Cost., non può perciò negarsi tout court al debitore l'esperibilità di tale rimedio cautelare sulla scorta del rilievo della non modificabilità o revocabilità dell'ordinanza di assegnazione, laddove non è in gioco la revisione della stessa, ma la sua sopravvenuta non rispondenza al quadro giuridico-fattuale, per eventi successivi, e la necessità di scongiurare il rischio che il debitore rimanga esposto, addirittura sino a una pronuncia di cognizione, agli effetti di una trattenuta dallo stipendio divenuta illegittima.

L'intervento del terzo nel procedimento cautelare ante causam

In linea generale, in relazione all'ammissibilità dell'intervento di un terzo nel procedimento cautelare, in assenza di norme che lo prevedano o lo vietino nella disciplina del procedimento cautelare uniforme di cui agli artt. 669-bis ss. c.p.c. occorre previamente verificarne la compatibilità con la natura e la struttura prevista da tale disciplina.

In tale ottica, in quanto condizione dell'azione, deve sussistere comunque l'interesse ad agire dell'interveniente, che, laddove riguardi un procedimento cautelare anticipatorio, deve consistere nel possibile pregiudizio od effetto vantaggioso derivante in rapporto causale, dall'emanando provvedimento cautelare.

Con specifico riferimento al procedimento d'urgenza, parte della giurisprudenza di merito non ravvisando alcun profilo ostativo nella natura di cognizione sommaria in funzione anticipatoria e provvisoria degli effetti della decisione sul merito, propria del procedimento cautelare, diversa e limitata rispetto alla funzione di accertamento e/o di condanna attinente al giudizio ordinario di cognizione che sfocia nel giudicato, ha statuito che la configurazione del procedimento cautelare, caratterizzato da celerità e destrutturazione rispetto al modello del giudizio di cognizione non esclude la facoltà di intervento del terzo, qualora quest'ultimo abbia avuto notizia del giudizio pendente inter alios ed abbia esperito l'intervento in tempo utile, in correlazione allo stato del procedimento, si da tutelare il proprio diritto, sul quale può incidere direttamente il provvedimento cautelare, in sede anticipata rispetto al giudizio di merito (Trib. Brescia 15 marzo 2003; Trib. Torre Annunziata 5 maggio 2000; Trib. Verona 28 marzo 1995).

D'altronde, la disciplina dell'intervento nel processo ordinario – sia volontario ex art. 105 c.p.c. sia per litisconsorzio, soprattutto necessario ex art. 102 c.p.c. – è pur sempre funzionalmente correlata al tema dell'accertamento giudiziale dei diritti dedotti in giudizio, accertamento cui è funzionalmente estraneo il processo cautelare, cosicché l'ammissibilità dell'intervento va delimitata alle sole ipotesi di pregiudizio che il terzo possa subire dall'attuazione necessaria od eventuale della misura cautelare, mirando con la partecipazione al procedimento di formazione del titolo cautelare, a prevenire eventuali danni indotti dagli effetti materiali della stessa misura cautelare (Trib. Bologna 17 dicembre 2012).

In senso conforme, si è quindi ritenuto di regola pienamente ammissibile nel corso del giudizio cautelare l'intervento litisconsortile od adesivo autonomo del terzo, secondo le regole che sovraintendono tali istituiti nel giudizio ordinario di cognizione, tutte le volte in cui al medesimo terzo possa derivarne un'utilità o pregiudizio (Trib. Venezia 9 marzo 2004; Trib. Roma 12 marzo 2001; Trib. Napoli 20 febbraio 2001; Trib. Ravenna 9 giugno 1997).

Secondo Trib. Trani 6 maggio 2016, il procedimento possessorio non preclude l'intervento volontario del terzo, essendo la previsione di cui all'art. 105 c.p.c. di carattere generale e, quindi, estensibile al rito cautelare uniforme, in quanto compatibile.

A militare in senso favorevole alla suddetta tesi giurisprudenziale la considerazione che diversamente opinando, ove la possibilità di intervento fosse garantita solo nel posticipato giudizio di merito e quindi, di cognizione ordinaria, si porrebbe in uno stato di insanabile contrasto con il diritto, costituzionalmente garantito, di agire in giudizio per la tutela dei propri interessi o diritti sancito dall'art. 24 Cost., restrizione che non sarebbe giustificata dalla tutela di diritto opposto di rango costituzionale, non ravvisabile nella durata ragionevole del processo ex art. 111 Cost., comunque, garantita dai tempi in cui il procedimento, comprensivo dell'intervento, necessariamente deve esaurirsi.

Conseguentemente, ai fini dell'ammissibilità dell'intervento, è stata sottolineata la necessità che il terzo faccia valere un effettivo pregiudizio ovvero l'utilità che possa anche a lui derivare dall'attuazione materiale del provvedimento, non essendo sufficiente che sia titolare di un interesse di mero fatto (Trib. Roma 12 marzo 2001 cit.).

Inoltre, poiché il procedimento cautelare non è caratterizzato da scansioni processuali che prevedono termini di decadenza o preclusioni, l'intervento del terzo deve considerarsi ammissibile e tempestivo tutte le volte in cui non venga dilatata in alcun modo la durata del processo cautelare in contrasto con le esigenze di celerità che lo contraddistinguono, ragione per cui, la circostanza che l'intervento in parola sia stato proposto dopo i termini concessi per il deposito di memorie difensive non comporta di per sé la tardività dell'intervento ma esclusivamente la facoltà per la parte resistente di chiedere un termine per replicare (Trib. Venezia 9 marzo 2004 cit.). Contra, la tesi che considera l'intervento di terzo nel procedimento cautelare ammissibile nei limiti stabiliti per il giudizio di cognizione (Trib. Torino 7 settembre 2004; Trib. Lecco 13 dicembre 2001).

Ciò comporta in linea di principio che il terzo è legittimato anche alla proposizione del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. qualora dal provvedimento cautelare pronunciato inter alios possa scaturire un pregiudizio diretto e non meramente occasionale, destinato a concretarsi nella lesione non già di un generico interesse ma di una situazione soggettiva tutelata come tale dall'ordinamento, di guisa che il terzo appaia come il destinatario effettivo e sostanziale del provvedimento formalmente reso nei confronti di un'altra parte (Trib. Catanzaro 27 maggio 1997). In tale senso, v. Trib. L'Aquila 19 novembre 2003, in cui si è però ritenuto che nel reclamo cautelare al terzo è consentito l'intervento principale non anche quello adesivo o ad adiuvandum. Contra la diversa opinione espressa da Trib. Verona, 25 marzo 1996 secondo cui il terzo pregiudicato dal provvedimento urgente reso inter alios non è legittimato a proporre il reclamo cautelare di cui all'art. 669-terdecies c.p.c.

La residuale applicazione della disciplina cautelare ante causam nel procedimento possessorio

Il giudizio possessorio prima della introduzione del procedimento cautelare uniforme veniva ricostruito in termini di procedimento unitario di tipo cautelare diviso in due fasi: una sommaria all'esito della quale veniva pronunciato l'interdetto possessorio, ovvero il rigetto dello stesso ed una successiva a cognizione piena, che seguiva alla prima con la fissazione dell'udienza di prosecuzione contenuta nello stesso provvedimento sommario.

Con la l. n. 353/1990, è stato introdotto nel libro IV del codice di rito il capo III che, negli artt. 669-bis e 669-quaterdecies, c.p.c., detta una disciplina uniforme per tutti i procedimenti previsti nelle sezioni I, III e V dello stesso capo ed in quanto compatibili per gli altri procedimenti cautelari disciplinati dal codice civile e dalle leggi speciali.

Nell'àmbito di tale riforma, è stato modificato anche l'art. 703 c.p.c.

La collocazione sistematica dei procedimenti possessori nel capo IV, fuori dai procedimenti cautelari, ha comportato un dibattito sull'ambito di applicazione degli artt. 669-bis e ss. c.p.c., atteso che l'art. 669-quaterdecies c.p.c. non richiama i procedimenti possessori.

In dottrina, è discussa la natura giuridica del procedimento possessorio, con particolare riferimento al tentativo di inquadrarlo nell'àmbito di quelli sommari esemplificati esecutivi (Proto Pisani 1999, 718; Civinini, Proto Pisani, 635).

L'esercizio della tutela possessoria, a differenza di quella cautelare, prescinde da valutazioni del fumus boni iuris e del periculum in mora intesi nella loro accezione classica. I presupposti della tutela, dati dalla perdita violenta o clandestina del possesso o dalla turbativa dello stesso, sono infatti tipizzati dagli artt. 1168-1170 c.c. (Proto, 1846).

Ciò non toglie che lo ius possessionis è pur sempre un vero e proprio diritto soggettivo, a cui è dovuta una tutela in via di urgenza, atteso che la necessità della fase interinale e dunque, la sussistenza dell'urgenza quale elemento naturale delle azioni possessorie si evincono anche dal fatto che la tutela possessoria ha carattere provvisorio e non priva il proprietario della tutela giurisdizionale del suo diritto, ma soltanto la rinvia ad un momento successivo (Misiti, 213).

In particolare, con riferimento alla configurazione del possesso quale potere di fatto apparentemente corrispondente ad una situazione di diritto, la tutela apprestata dall'ordinamento giuridico è strutturata in modo da soddisfare l'esigenza di ordine pubblico di assicurare al soggetto, cui fa capo detto potere, che ne sia stato privato violentemente od occultamente oppure sia stato molestato durante l'esercizio di esso, di ottenere il ripristino senza essere costretto a provare l'esistenza della corrispondente situazione di diritto, ossia il diritto di possedere (Cass. II, n. 830/1993).

La Corte Costituzionale ha reiteratamente affermato la legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 Cost., della tutela possessoria quale tutela autonoma rispetto alla tutela petitoria, in quanto funzionalmente diretta a soddisfare l'esigenza di ordine pubblico di ripristinare prontamente le situazioni soggettive di fatto arbitrariamente modificate da un terzo senza previo accertamento, giudiziale o negoziale, dello stato di diritto (Corte cost., n. 25/1992; Corte cost., n. 41/1974).

Il procedimento possessorio si articola in un'unica fase a carattere sommario che si svolge nelle forme di cui agli art. 669-bis, 669-ter, comma 4, e 669-sexies c.p.c. (Pret. Piacenza 17 maggio 1994).

L'art. 703, comma 2, c.p.c. – nel testo vigente sostituito prima dall'art. 77 della l. n. 353/1990, e successivamente modificato dall'art. 2, comma 3, del d.l. n. 35/2005, conv., con modif., in l. n. 80/2005, per effetto del quale, al comma 2 viene espressamente enunciato che il giudice provvede ai sensi degli artt. 669-bis ss. c.p.c. in quanto compatibili, come del resto già indicato dall'art. 669-quaterdecies c.p.c. – dispone che nel caso in cui non penda il giudizio petitorio la domanda va proposta con ricorso, sebbene quanto alla forma nel codice di rito non si rinviene una sanzione prevista a pena di nullità nel caso in cui la relativa azione venga invece proposta con atto di citazione (Celeste 2021, 200 il quale precisa che in questo caso al giudice sarà impedito soltanto pronunciarsi con decreto inaudita altera parte sulla richiesta cautelare).

Tuttavia, è stato ritenuto inammissibile introdurre dinanzi al giudice un'azione possessoria con atto di citazione, fermo restando che nella fase sommaria – la quale si svolge nelle forme di cui agli artt. 669-bis e 669-ter, comma 4, c.p.c. – l'urgenza si configura come un connotato legislativamente imposto alla tutela possessoria (Pret. Piacenza 17 maggio 1994).

Con la richiamata novella del 2005, che è venuta ad incidere sull'art. 703 c.p.c., è stata quindi espressamente prevista, con la sostituzione del precedente comma 2, a conferma dell'esclusione della configurabilità di un vero e proprio procedimento cautelare, l'applicabilità dell'art. 669-bis e ss. c.p.c. attinenti direttamente a quest'ultimo procedimento, solo in quanto compatibili, mentre nel testo precedente della norma a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 353/1990 questa clausola di compatibilità mancava.

In considerazione delle peculiarità proprie del procedimento possessorio, per effetto della citata clausola di compatibilità, si applica dunque soltanto parzialmente l'art. 669-ter c.p.c., in particolare il comma 4 concernente la formazione del fascicolo d'ufficio, trattandosi di procedimento a struttura bifasica (ribadita da Cass. S.U., n. 1984/1998), atteso che terminata la fase cautelare ante causam a rito sommario, su istanza della parte interessata quest'ultima può – entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione ex art. 134, comma 2, c.p.c. del provvedimento sulla domanda di manutenzione o di reintegrazione nel possesso ovvero dall'eventuale reclamo proposto oppure dalla sua pronuncia se fatta nel corso dell'udienza dinanzi alle parti costituite – dare impulso alla prosecuzione del giudizio di merito possessorio.

In dottrina, si è distinta la posizione del contumace nel procedimento possessorio al quale non essendo prevista la comunicazione dell'ordinanza interdittale o del provvedimento che definisce l'eventuale reclamo, sulla scorta di quanto prevede l'art. 292, comma 1, c.p.c. il relativo termine per la prosecuzione del giudizio possessorio dovrebbe decorrere dalla notificazione del provvedimento che definisce la fase cautelare ad iniziativa della parte interessata (Celeste 2021, 196).

In ogni caso, poiché a differenza di quanto accade nel procedimento cautelare uniforme nel procedimento possessorio la richiesta della parte riguarda soltanto la «prosecuzione» del giudizio il cui thema decidendum è già stato individuato nell'atto introduttivo della fase cautelare, per quanto concerne la procura conferita ai difensori delle parti già costituite nella fase cautelare a cognizione sommaria, non si rende allora necessario il conferimento ai medesimi di una nuova procura per l'assistenza tecnica anche nel giudizio di merito, salva la sola ipotesi in cui, detta procura si riferisca alla singola fase di giudizio (Celeste 2021, 197).

Ciò significa che l'assenza di una qualsivoglia automaticità con riferimento alla fase concernente il merito possessorio, nonché il richiamo della normativa sul procedimento cautelare uniforme – “in quanto applicabile” – non potrebbe indurre a ritenere che l'impulso di parte – avente la stessa veste formale del ricorso introduttivo – non possa prescindere dal conferimento di una procura ad hoc, laddove quella originaria non abbia incluso, in modo certo ed in equivoco, quella inerente il giudizio di merito.

Infatti, poiché il procedimento possessorio è strutturato in modo unitario ed è retto dal ricorso introduttivo iniziale, le parti, già ritualmente costituite nella fase a cognizione sommaria, non devono necessariamente conferire, con riferimento all'istanza di prosecuzione del merito possessorio, una nuova procura ai rispettivi difensori già nominati, spiegando efficacia la procura già rilasciata con riguardo al ricorso introduttivo ed alla comparsa di risposta della precedente fase, che deve intendersi riferita, quando non ponga esclusivamente richiamo alla sola fase interdittale a cognizione sommaria, all'intero giudizio possessorio, come certamente deve interpretarsi il mandato rilasciato con riferimento al «presente processo» od alla «presente causa», congiuntamente al conferimento, in capo al difensore, del potere di intraprendere tutte le iniziative idonee a tutelare le ragioni della parte rappresentata, ivi compresa, quanto alla parte convenuta, quella di formulare domande riconvenzionali (Cass. II, n. 4845/2012).

Tale orientamento conferma allora la tesi dottrinale che l'istanza di parte prevista dall'art. 703, comma 2, c.p.c. non comportando la successiva introduzione del giudizio di merito possessorio ma soltanto la sua prosecuzione, che continua pertanto ad essere retto dall'iniziale ricorso ex art. 703, comma 2, c.p.c., assume dunque chiaramente la natura propria di un mero impulso endoprocessuale (Celeste 2021, 199).

La stessa ratio sottostante alla novità introdotta dal legislatore è in effetti riconducibile proprio al nucleo centrale dell'art. 703, comma 4, c.p.c., il quale richiede la formulazione di una nuova istanza della parte interessata, da depositarsi nel termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione del provvedimento, emesso, eventualmente, dal giudice del reclamo o, in difetto, dal giudice della fase interdittale, per la prosecuzione del giudizio di merito.

In virtù di questo nuovo assetto normativo, dunque, pur in linea con la concezione della struttura bifasica del procedimento possessorio, il legislatore ha inteso introdurre una chiara interruzione tra la fase interdittale e quella propriamente di merito a cognizione piena, inquadrando quest'ultima come eventuale e, quindi, come non più automatica e necessaria.

È, dunque, possibile, ma solo se le parti ne fanno richiesta, la celebrazione del giudizio sul cd. «merito possessorio» anche qualora il ricorso originario sia stato rigettato all'esito della fase sommaria, fermo restando che, in caso di mancata prosecuzione del giudizio sul merito, l'ordinanza costituisce il provvedimento definitivo sulla controversia possessoria.

Di conseguenza, anche in consonanza con la prevalente dottrina occupatasi dell'argomento, deve ritenersi che l'istanza prevista dall'art. 703, comma 4, c.p.c. non implica la prosecuzione della fase sommaria né comporta la successiva introduzione del giudizio di merito, bensì, più propriamente, determina la prosecuzione del giudizio di merito già retto dal ricorso inizialmente formulato nella fase interdittale.

In buona sostanza, come acutamente rilevato, sebbene il «merito possessorio» è pur sempre stato previsto come eventuale dal legislatore in chiara ottica deflattiva (Celeste 2021, 198), rendendosi a tale fine necessaria l'istanza di parte ad hoc per la sua «prosecuzione» nel rispetto del termine perentorio previsto dall'art. 703, comma 2, c.p.c., in realtà non è un giudizio «autonomo» rispetto alla precedente fase a cognizione sommaria, come invece accade di norma per i restanti procedimenti cautelari disciplinati dagli artt. 669-bis ss. c.p.c. nei quali invece, a prescindere dal carattere della loro strumentalità, forte od attenuata propria del singolo procedimento cautelare a seconda se conservativo od anticipatorio, quest'ultimo resta pur sempre «autonomo» rispetto al successivo ed eventuale giudizio di merito.

Come si è già precisato, l'evoluzione della struttura bifasica del procedimento in questione non ha fatto venire meno il principio che le due fasi del giudizio possessorio sono introdotte entrambe con il ricorso proposto ai sensi dell'art. 703, comma 1, c.p.c., con la conseguenza che nel procedimento possessorio il petitum e la causa petendi della fase cautelare restano gli stessi anche nel successivo ed eventuale giudizio di merito, salvo il quid novi legato ad eventuali mutamenti nello stato di fatto riguardante la res oggetto di controversia (Celeste 2021, 197).

Il ricorso ex art. 703 c.p.c. deve allora contenere i requisiti previsti dall'art. 125 c.p.c. al fine di soddisfare le esigenze di validità richieste dall'art. 156, comma 2, c.p.c.

In considerazione dell'anzidetta peculiarità propria del procedimento possessorio, trova quindi piena giustificazione l'attenta distinzione sposata da dottrina e giurisprudenza in merito all'applicabilità delle norme sul procedimento cautelare uniforme.

In particolare, il ricorso introduttivo deve contenere compiutamente tutte le domande, compresa quella di invocare la decisione per decreto inaudita altera parte, le allegazioni e la eventuale articolazione dei mezzi istruttori perché la domanda introduttiva è valida anche per la eventuale fase di merito (Proto, 1847).

Il giudice competente per territorio ai sensi dell'art. 21 c.p.c. è il tribunale del luogo in cui si è verificato il fatto denunciato, mentre qualora l'azione integrante i presupposti legittimanti la manutenzione o reintegrazione, pur essendosi verificata in un determinato luogo, si presti a riverberare i relativi effetti su un territorio più vasto, assume carattere assorbente il luogo in cui è stata posta in essere la condotta che ha determinato la privazione del possesso o l'effetto dannoso (Celeste 2021, 200).

Inoltre, nel procedimento di «merito possessorio» trova applicazione la sospensione feriale dei termini di cui all'art. 3 della l. n. 742/1969 perché la fase «ordinaria» di tale procedimento non è contemplata dall'art. 92 dell'ordinamento giudiziario tra gli affari civili che vanno trattati nel periodo feriale, contrariamente alla precedente fase cautelare anticipatoria che è invece connotata dall'urgenza (Celeste 2021, 203).

La domanda cautelare ante causam per i danni derivanti da reato

La l. n. 353/1990, innovando profondamente i procedimenti cautelari, ha introdotto varie eccezioni al principio generale della coincidenza fra giudice della misura cautelare e giudice del merito, sia per le misure richieste ante causam sia per quelle in corso di causa, prevedendo che per i procedimenti cautelari a tutela di obbligazioni civili, in caso di azione civile esercitata o trasferita nel processo penale, è competente il giudice civile del luogo di esecuzione del provvedimento, mentre se la misura richiesta è un sequestro conservativo è competente il giudice penale che procede, per cui occorre chiedersi se in tale ipotesi, la competenza del giudice penale è esclusiva o concorrente con quella del giudice civile.

In dottrina, si è ritenuto che la speciale competenza attribuita al giudice penale sia esclusiva, nel senso di essere alternativa a quella generale di cui all'art. 669-ter, comma 3, c.p.c. e che di conseguenza, la parte civile ha la facoltà di formulate la richiesta di concessione del sequestro conservativo al solo giudice indicato nell'art. 317 c.p.p. e tutti i restanti provvedimenti cautelari al giudice civile competente per materia o valore del luogo in cui la misura cautelare deve essere eseguita (Carpi, Colesanti, Taruffo, 214; Belfiore, 312).

La posizione assunta su tale thema decidendum dalla giurisprudenza di merito non è stata invece univoca.

L'esercizio dell'azione civile in sede penale durante la pendenza, dinanzi al giudice civile, di un procedimento cautelare finalizzato all'emissione di un provvedimento di sequestro conservativo, non comporta l'estinzione di detto procedimento, né trasferisce al giudice penale la competenza a provvedere in merito al sequestro (Trib. Roma 24 gennaio 1995).

In tale senso, Trib. Roma 21 luglio 1993 aveva invece già statuito che la competenza del giudice penale ad emettere il sequestro conservativo richiesto dalla parte lesa costituitasi parte civile non è esclusiva, ma concorrente con quella prevista, in via generale, per tutti i provvedimenti cautelari, dagli artt. 669-ter e 669-quater c.p.c.

Secondo altra impostazione (Trib. Firenze 25 novembre 1996; Trib. Roma 20 ottobre 1993), la competenza a concedere il sequestro conservativo quando l'azione civile è stata trasferita nel processo penale spetta in via esclusiva al giudice penale.

Secondo un orientamento dottrinale, l'art. 669-quater, comma 6, c.p.c. costituisce una precisa e consapevole deroga al principio generale e come tale, va incluso fra le ipotesi di competenza cautelare scindibile dalla competenza giurisdizionale di merito. Conseguentemente, al giudice penale è stata espressamente attribuita una competenza cautelare limitata al solo sequestro conservativo ed in concorrenza con la competenza del giudice civile. La stessa salvezza dell'art. 316 c.p.p., disposta dall'art. 669-quater, comma 6, c.p.c.., appare più che altro stabilita per evitare che la nuova disciplina del processo cautelare, contenuta nel codice di rito civile potesse essere interpretata come abrogativa, in forza dell'art. 669-quaterdecies c.p.c., della norma processualpenalistica (Lorenzotti, 535).

La problematica inerente la competenza del giudice influisce sulla valutazione dei presupposti a cui è subordinata la concessione del sequestro conservativo atteso che dinanzi al giudice penale non occorre motivare la sussistenza degli indizi di colpevolezza, non essendo questi richiamati tra i presupposti applicativi, sulla cui scorta, l'accertamento del fumus è di fatto limitato alla pendenza del processo penale ed alla sussistenza di un capo di imputazione a differenza dell'analoga misura cautelare richiesta dinanzi al giudice civile il quale può emetterla solo se il fumus si concretizza nella ragionevole previsione della soccombenza del sequestrato nel giudizio di merito.

I provvedimenti cautelari ante causam nel procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie

L'art. 473 bis.15 c.p.c. introdotto dalla Riforma Cartabia – rubricato provvedimenti indifferibili – prevede che in caso di pregiudizio imminente ed irreparabile o quando la convocazione delle parti potrebbe pregiudicare l'attuazione dei provvedimenti, il presidente od il giudice da lui delegato, assunte ove occorre sommarie informazioni, adotta con decreto provvisoriamente esecutivo i provvedimenti necessari nell'interesse dei figli e, nei limiti delle domande da queste proposte, delle parti.

Con il medesimo decreto fissa entro i successivi quindici giorni l'udienza per la conferma, modifica o revoca dei provvedimenti adottati con il decreto, assegnando all'istante un termine perentorio per la notifica.

L'art. 473 bis.15 c.p.c. ammette, su istanza della parte ricorrente, ed in caso di pregiudizio imminente ed irreparabile al diritto o di pregiudizio all'attuazione della misura richiesta, la possibilità che il presidente adotti i provvedimenti opportuni, assunte quando occorre sommarie informazioni, prima ancora che sia suscitato il contraddittorio, salvo poi fissare, come la legge delega espressamente imponeva, l'udienza entro quindici giorni nella quale riesaminare la situazione e confermare, modificare o revocare le misure adottate.

La misura adottata dal giudice inaudita altera parte risponde alla necessità di assicurare una adeguata protezione contro situazioni di grave ed urgente pregiudizio che possono verificarsi anche in corso di causa, sulla cui scorta, nella Relazione illustrativa al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 non si vedevano ragioni per non consentire l'adozione di tale misura anche nel prosieguo del giudizio, imponendosi comunque sempre anche in tale caso, la fissazione di un'udienza ravvicinata per la convalida o meno della stessa misura.

Il legislatore della Riforma Cartabia ha altresì previsto – come si dà atto nella citata Relazione illustrativa – che trattandosi di misure urgenti, aventi natura cautelare, la relativa disciplina è mutuata dall'art. 669, comma 2, c.p.c.

Lo schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive alla Riforma Cartabia apporta modifiche all'art. 473 bis.15 c.p.c., al fine di chiarire alcuni dubbi sorti tra i primi interpreti e rendere più snello il procedimento relativo all'adozione dei provvedimenti indifferibili senza per questo ridurre le garanzie per le parti.

In tale ottica, si introduce la precisazione secondo cui il giudice che provvede inaudita altera parte deve fissare l'udienza per il contradditorio delle parti davanti a sé.

Viene così chiarito che l'udienza di cui si discute viene trattata dal medesimo giudice-persona fisica che ha emesso il decreto e non davanti al collegio, ed è sempre lo stesso giudice a pronunciare, all'esito, l'ordinanza di conferma, modifica o revoca del primo provvedimento.

In secondo luogo, si prevede – ferma la non reclamabilità del decreto emesso inaudita altera parte – che l'ordinanza così emessa possa essere reclamata solo unitamente a quella con cui all'esito della prima udienza di comparizione delle parti vengono adottati i provvedimenti temporanei ed urgenti previsti dall'art. 473 bis.22 c.p.c.

L'udienza è infatti destinata a tenersi a non lunga distanza di tempo dall'adozione dell'ordinanza di conferma, modifica o revoca del provvedimento adottato inaudita altera parte.

In questo modo si consente di proporre il reclamo anche avverso l'ordinanza emessa ai sensi dell'art. 473 bis.15 c.p.c., ma solo dopo che la questione è stata sollevata davanti al giudice dell'udienza di cui all'art. 473 bis.21 c.p.c., con un evidente risparmio dei mezzi processuali senza che ciò comporti un reale pregiudizio al diritto di difesa.

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